La gloria di una donna consiste nel non far parlare di sé
Ortensia Mancini, Duchessa di Mazzarino
E’ estremamente intensa, piena, questa storia romanzata - ma costruita con cura impeccabile e quasi maniacale sulle fonti - di Plautilla Briccia, architettrice e pittrice nella Roma seicentesca, ammessa all’Accademia di San Luca. Progettò villa Benedetta, detta “il Vascello” per la sua particolare forma, andata distrutta durante la battaglia del Gianicolo nel 1849 e ricostruita come Villa Medici “per volontà del suo difensore diventato, dopo altre guerre e dopo l’unità d’Italia, marchese del Vascello e suo proprietario”, oggi sede del Grande Oriente d’Italia; progettò anche la cappella dedicata a San Luigi nella chiesa di San Luigi dei Francesi, quella di Caravaggio, per intenderci.
Libro tanto forte e denso che posso solo consigliare di leggerlo, e scriverne intorno poche righe. E’ un atto d’amore non solo per la donna e per l’artista, ma anche per la città.
Tutto il secolo barocco, con la sua storia, la sua sconcia politica papale, e soprattutto la vita quotidiana, è splendidamente narrato, e scorre in quelle vie e piazze che conosco tanto bene ma in cui, così come erano allora, non sempre riesco a orizzontarmi; i personaggi sono tutti esistiti, e Mazzucco sa come renderli vibranti, vitali, come se ci si rivolgessero direttamente. Parallelamente, negli Intermezzi, avanzano la tragedia della battaglia del Gianicolo e la fine della Repubblica Romana, viste attraverso gli occhi del giovane Leone Paladini - che diverrà “un vagabondo inquieto, un sognatore, un inventore” - milite nella Compagnia Medici. Una carneficina di ragazzi, partiti volontari soprattutto dal Lombardo-Veneto per cambiare l’Italia.
A quei tempi il Gianicolo era aperta campagna: tra orti e vigne qualche villa, il Vascello, Villa Corsini, Villa Spada. Dovevano essere luoghi di sogno, prima della battaglia. Alle elementari andavo a scuola proprio lì vicino, e i miei genitori mi venivano a prendere con la macchina. Per arrivare a casa dovevamo percorrere via Aurelia Antica; mia madre mi aveva raccontato cosa era accaduto e come ancora si potessero vedere le palle di cannone conficcate in fondo alle mura. Quando, dopo Porta San Pancrazio, la macchina era ferma nel traffico, io e mia sorella facevamo a gara per vederle, e giuro che qualcuna era proprio là, in fondo a quei buchi polverosi.
Nel 1656, da Napoli giunse a Roma, a Trastevere, un marinaio che morì di un male sospetto. “Ma i medici che hanno ispezionato il cadavere hanno escluso segni brutti. […] Invece era peste. E i cardinali della Congregazione di Sanità lo hanno compreso prima dei dottori. Sloggiarono i frati di San Bartolomeo e fecero allestire il Lazzaretto all’isola Tiberina, ordinarono di trasportare i morti in barca, via fiume, per non contaminare la città, e di seppellire i corpi infetti fuori dalle mura, nei prati davanti alla basilica di San Paolo. Quella stessa notte, in poche ore, l’architetto Domenico Castelli fece montare lunghe cancellate di legno tutto intorno a Trastevere […] la Congregazione […] piazzò ai varchi guardie armate che avevano l’ordine di sparare a chiunque avesse tentato di entrare e uscire, e ci chiuse dentro i seimila abitanti”.
Finito il libro, mi sono concessa per qualche minuto il lusso di chiedermi come sarebbe potuta andare se la Repubblica Romana non fosse stata sconfitta; se si fosse estesa all’Italia tutta, senza papi e re. Chissà.