Franco Ferrarotti ci dona con l’ultima fatica, L’uomo di carta (Marietti 1820), il suo più toccante e dolente lavoro dedicato alla figura del padre, dal quale si sentiva incompreso per la visione del mondo divergente ma di cui, operando una sorta di scavo archeologico, recupera la presenza e l’importanza nella sua vita da concludere significativamente il libro con l’affermazione: talis pater, talis filius.
Professore emerito di Sociologia all’Università di Roma “La Sapienza”, Accademico dei Lincei, direttore della rivista La Critica sociologica, deputato tra gli indipendenti al Parlamento dal 1958 al 1963, Ferrarotti ha insegnato nelle più prestigiose Università negli USA e in tutto il mondo.
Nasce a Palazzolo, nella Bassa Vercellese che guarda i colli del Monferrato, da una famiglia di proprietari terrieri benestanti che proprio nel 1926, anno della sua nascita, subisce un duro colpo a causa delle misure economiche prese dal Fascismo per combattere l’inflazione. Esse producono una deflazione, con mancanza di liquidità, che conduce alla rovina medi e piccoli proprietari molti dei quali, disperati per non poter far fronte ai debiti, finirono per togliersi la vita. Egli nasce proprio nel mezzo del tracollo economico della famiglia. La madre soffre di disturbi che compromettono l’umore e l’alimentazione e la gravidanza è sofferta. Alla nascita il piccolo viene dato dal padre per spacciato: tanto gracile da apparire, scrive Ferrarotti, un ranocchio. Condotto, per cambiare aria, dai bisnonni materni che vivevano in una grande casa in mezzo a un bosco, vi resterà anni, circondato premurosamente dall’affetto silenzioso di essi ma comincerà a camminare solo a tre anni e a parlare a quattro. Tutti lo consideravano ritardato. La sua vita dimostrerà tutt’altro.
Questa gracilità permetterà all’Autore di essere esentato dai lavori agricoli e di dedicarsi alla lettura e allo studio. Amore di una vita, la lettura, coltivata con attenzione, fonte di rivelazioni, di conoscenza, di riflessione, sostituisce, oserei, il cibo che in fondo non è che Natura sottoposta a un processo culturale. Ferrarotti introietta ciò che legge elaborandolo, soppesandolo e rileggendolo, trovando nuove rivelazioni.
Ma in fondo ciò che si legge in una rilettura, dopo tempo, non rivela nuovi aspetti, significati che non si erano colti anche perché noi siamo cambiati nel frattempo? Dice Ferrarotti che il lettore ricrea, rielabora il testo mettendoci un quid che ne modifica il significato. Basti pensare alle interpretazioni di classici della Letteratura nelle varie epoche. Muta la temperie socio-culturale e anche la lettura che si fa di testi. Oggi leggiamo la Commedia e la intendiamo in modo diverso che nella Firenze di Dante o poco dopo. Per non parlare dei secoli l’un contro l’altro armati, contrapposizione di Illuminismo e Romanticismo, ma ricordiamo che nel primo sono in nuce elementi che si svilupperanno nel secondo (Rousseau), che intendevano lo stesso testo in modo diametralmente differente.
Il vero lettore è lo scopritore di significati. Non potrebbe essere, oserei, come una sorta di archeologia del sapere tanto cara a Foucault? Questo amore sensuale per il libro porta Ferrarotti a considerarlo come un essere vivente, accarezzandone lievemente le pagine, il dorso, annusandolo, adorando la ruvidezza della carta e la polvere sottile che vi si è depositata.
Uomo di carta gli diceva il padre con durezza, sarai e resterai sempre un uomo di carta! Ma il padre non detestava lo studio, egli riteneva che la conoscenza derivasse dall’esperire. Egli lavorava e sentiva con le mani, parlava agli animali, gli adorati cavalli che carezzava dolcemente, conosceva il linguaggio della Natura, viveva in simbiosi con essa. Ruvido, taciturno, amava toccare la terra, la zolla che l’aratro tirato dal cavallo rivoltava, il fango delle risaie fumanti, e poi al momento della semina con gesto ampio apriva la mano per donare il seme in una sorta di unione con la Madre Terra. Egli si rifiutò di usare il trattore per non ferire la terra. Ferrarotti ammette che il padre avesse ragione nella sua personale Weltanschauung ma si riconosce in pieno nel suo essere uomo di carta. Ci offre ricordi di una vita intensa e ricca e prova la nostalgia di quel padre, comprende la bontà del conoscere a pelle, rifiuta nella indagine sociologica di considerare le persone meri oggetti di statistiche, vede la persona, la vicenda personale, l’irriducibilità della pienezza e complessità dell’essere umano a numero. Conoscere è penetrare, possedere, ma con dolcezza, una sorta di ruminare interiore, come la mucca nel prato.
La cultura del padre, sostiene l’Autore, era la coltura dei campi, conosciuti a pelle con infinite camminate nella bella stagione come d’inverno. Il padre aveva un atteggiamento di ascolto, conosceva il ritmo lento delle stagioni, il frusciare delle foglie secche sospinte dal vento, coglieva il calare della sera preceduta dagli ultimi voli, fruscii, pigolii, pispigli prima della notte. Ascoltava il suono del silenzio.
Era un padre come il pater, non un amico o un pari grado. Nelle famiglie allargate di quei tempi il padre dominava. Ferrarotti sostiene di essere stato colpito dallo studio di Bachofen sulle società matriarcali e sul culto della Dea Madre. Ma, si domanda, è esistita veramente un’età dell’oro? Lo studio di Bachofen è discusso.
Mi permetto un’osservazione alla luce dell’archeologia. Il Neolitico è caratterizzato dal culto della Grande Madre che è rappresentata dalle cosiddette Veneri steatopigie portatrici di fecondità che si ritrovano nelle sepolture in grotticelle artificiali. In Sardegna si chiamano domus de janas che significa casa delle fate. Le grotte sono una sorta di utero che accoglie il defunto, spesso cosparso di ocra rossa a ricordare il parto, nel grembo della Madre. E’ un periodo prospero e pacifico. Quando si svilupperà l’agricoltura si passerà alle divinità maschili tutt’altro che pacifiche.
Il padre nella nostra società è latitante. Spesso i figli sono lasciati a sé stessi senza una guida. Viene a mancare così un deciso ma non severo punto di riferimento attraverso il quale viene introiettato il senso morale, il Super-Ego. Ferrarotti fa un’accurata disamina della società contemporanea sottolineando come la vita sia fatta di frammenti, briciole. E fa riferimento al Padre padrone di cui ci ha lasciato testimonianza Kafka. Il peso del padre che lo schiaccia, il sentirsi nullità, insetto che finisce schiacciato senza che nessuno se ne curi. L’incapacità di dialogo col padre e l’incapacità di dialogare nelle famiglie contemporanee. Presi da mille impegni si trascurano i figli. Li si riempie di regali per mettere a tacere la coscienza, magari mille aggeggi elettronici, iPhone cui staranno attaccati tutto il giorno. Altra fonte di silenzio.
Ma tantissimi gli argomenti toccati in questo intimo, profondissimo, denso libro scritto per ritrovare un padre e, in cui in fondo trova sé stesso. C’è tutto Ferrarotti che si mette in gioco e rivive tutta la sua esistenza sempre intrecciata con lo studio, ma ricca di esperienze come il traduttore alla Einaudi, l’amicizia con Pavese e l’esperienza con Adriano Olivetti e il Movimento di Comunità di cui dirigerà la Casa editrice. E poi la politica, la cattedra alla Sapienza, la prima di Sociologia in Italia. Il padre della Sociologia nel nostro Paese. I viaggi, la vita errabonda in giro per il mondo chiamato nelle più prestigiose Università. Si potrebbe definire, con una battuta, spero l’Autore non me ne voglia, il primo cittadino che abbia precorso la Globalizzazione!
Ma sostiene Ferrarotti che in fondo ciò che più apprezzava era la solitudine, fin da bambino. E racconta di una definizione di un suo fedele assistente universitario: l’eremita sociale. E aggiunge che forse si è occupato di sociologia per ovviare a certe tendenze antisociali.
L’impressione che offre il libro è vi sia da parte dell’autore grande energia vitale, un vero e proprio fiume in piena, una capacità di padroneggiare tanta materia passando a volte da un argomento all’altro come seguendo lo stream of consciousness, il flusso di coscienza. E veramente pare seguire un discorso e pensare ad altro ancora come egli stesso riferisce.
L’Autore riconosce di aver avuto in dono dal padre la natura, il gusto dell’esperire, toccare con mano, mentre dalla madre ha acquisito la cultura, il dono della memoria e della razionalità. Ciò che egli apprezzava più del padre erano il silenzio, la tenacia, la decisione nell’azione. Si scambiavano poche parole e in casa nessuno seppe della sua Laurea o del matrimonio negli States. Sostiene Ferrarotti che in ciò ci possa essere una feroce difesa del privato personale anche verso la famiglia di origine. Alla morte del padre giunse in ritardo perché era all’estero, al funerale si ricordò delle passeggiate fatte da bambino con lui al cimitero. Il padre guardava l’erba del viale e riconosceva la stagione. Nella sua ruvidezza, nel profondo doveva averlo amato tanto. L’Autore conclude che l’affinità col padre sia anche nell’opposizione al fascismo. Quando Mussolini costruiva gli acquedotti il padre, anarchico con devozione all’autosufficienza, scavava pozzi, voleva la sua acqua. Non avrebbe mai bevuto l’acqua del regime. Piuttosto, sarebbe morto di sete, lui e le sue bestie. Talis pater, talis filius.
Un libro che apre tante prospettive come vie di fuga che permettono molteplici approfondimenti anche dal punto di vista linguistico e filologico.
Cercando un padre è emerso fra le carte un uomo, soltanto un uomo, per sempre un uomo.