La nostra Terra era una distesa immensa che si allungava dal Mar Nero fino alle steppe dell’Asia Centrale. Scizia si chiamava. E Sciti era il nome del suo popolo misterioso, che qualcuno descrisse come gente dagli occhi cerulei e dai capelli colore del fuoco. Abitavamo in tribù nomadi. Eravamo abili domatori di cavalli, arcieri formidabili. I civilissimi Greci raccontavano su di noi storie terribili. Dicevano che facevamo collezione delle teste dei nemici morti. Che ci dissetavamo col sangue degli avversari caduti in battaglia. Che usavamo le loro pelli per farne degli spaventosi vessilli di guerra. I nostri antenati furono i primi a montare i cavalli. Furono i primi a usare l’arco ricurvo. Tutti i bambini, maschi e femmine, si allenavano a cavalcare e a tirare con l’arco. Le donne cacciavano e combattevano a fianco dei loro uomini, con le stesse armi, lasciando pieni di stupore gli antichi Greci le cui donne, invece, conducevano vite ritirate. Le nostre donne venivano seppellite con le armi, come i loro uomini. Avevano ferite da battaglia sul corpo. Tagli da spada sulle costole. Teschi sfondati da colpi di scure. Frecce calcificate nelle ossa. Esattamente come i loro uomini.
Queste donne, queste guerriere, erano conosciute col nome di Amazzoni. La loro fama e le loro imprese si diffusero sempre di più nell’antica Grecia, fin dai tempi di Omero. I poeti narravano di quando combatterono nella leggendaria guerra di Troia e il loro potente esercito invase Atene. Giasone e gli Argonauti giunsero davanti alle loro spiagge, sfiorando le loro frecce mortali. Queste formidabili combattenti fronteggiarono i più grandi eroi: Eracle, Teseo, Achille. Furono proprio i Greci, che pure ne avevano ripugnanza, a tramandare il loro mito.
Per questo si è sempre creduto che l’origine del nome Amazzone derivasse dalla lingua dei Greci, da “a mazos”, che significa “senza seno”. Secondo la loro leggenda, una delle nostre mammelle veniva amputata perché non impedisse il maneggio dell’arco. Secondo il loro immaginario, solo una donna privata della propria femminilità poteva diventare Amazzone. Secondo l’ethos di un eroe greco, sarebbe stato improponibile e poco onorevole il consapevole scontro armato con una donna. In realtà la parola Amazzone deriva dalla nostra lingua, da “ha-mazan”, che vuol dire “guerriero”.
Sul fregio del Partenone di Atene si vede Achille che sconfigge Pentesilea, la Regina delle Amazzoni, davanti alla città di Troia. Si racconta che Achille ne scoprisse la bellezza solo quando, colpitala a morte, le cadde l’elmo e furono così svelati i bei tratti del volto. Ignorava, Achille, che dietro quella femminilità prorompente, quell’incanto che il suo popolo non accettava in una guerriera e che quindi cercava di negare, di nascondere, si celavano invece anni e anni consacrati alla guerra, all’addestramento, allo stesso rigore che regola la vita di un soldato. Ignorava, Achille, che femminilità e disciplina, femminilità e responsabilità, femminilità e rabbia non si annullano l’uno con l’altro.
Le Amazzoni non sono mai morte. Il loro spirito ha attraversato nel tempo le anime delle Erinni e delle Gorgoni. Il loro grido di battaglia, capace di paralizzare i nemici, è risuonato nella bocca dell’argiva Telesilla che guidò le concittadine contro gli invasori spartani, e della celtica Budicca che vinse i Romani, e di Zenobia regina di Palmira, e di Camilla di cui si parla nell’Eneide, e di Giovanna d’Arco, e di Clorinda della Gerusalemme Liberata. Il loro coraggio, che non ha di certo scalfito la loro capacità seduttiva, ha viaggiato nel tempo fino a raggiungere il cuore delle streghe del Medioevo, delle partigiane, delle soldatesse curde…
Lo spirito delle Amazzoni soffia ancora. C’è. C’è sempre stato. Lo so, perché io sono la loro Regina.
Io sono Pentesilea.
Nella foto: particolare di una scena di combattimento tra i Greci e le Amazzoni (Amazzonomachia) su un sarcofago” del 280 d.C. circa, proveniente da Tessalonica, odierna Salinicco.