Novembre 1977. A Cerignola, nella Camera del lavoro, la sala che ospita la mostra Braccianti Storia e Cultura, è affollata da giovani studenti e anziani braccianti, per una delle assemblee sulla storia bracciantile e sindacale. Si discute di cultura e organizzazione della cultura, di memorie del passato e di progettualità per il futuro. Michele Sacco è tra i più attivi partecipanti agli incontri. All'inizio sorpreso dal nostro interesse di giovanissimi ricercatori, che tutto chiedono, registrano e fissano in immagini fotografiche; poi sempre più partecipe, attento e premuroso nel suggerirci altri possibili informatori, altre notizie utili ad ampliare la nostra ricerca, nel precisare le informazioni didascaliche sotto le foto esposte in mostra.
Finché una sera, Michele ci dice di voler scrivere un suo diario, la sua autobiografia. E, dicendolo, comincia a raccontare:
Non posso promettervi nulla, perché le cose se non mi vengono non le scrivo. Tanto la poesia come la macchietta o una barzelletta nascono spontaneamente, non si costruiscono così tra amici, nascono spontanee. Solo così si possono scrivere delle belle cose. Da qualche giorno sto facendo veramente uno sforzo. Dopo la giornata (di lavoro) non esco più di casa e mi dedico a ricordare le mie sofferenze.
Mi dovrete scusare se ci sarà qualche errore grammaticale. Io sono sempre un bracciante, questo lo dovete tenere presente e vorrei che anche altri sapessero quello che ho potuto imparare dalla lezione di Di Vittorio, dal sindacato e anche dal partito comunista. Perché sono stati loro gli artefici nel farmi imparare tutte queste cose.
Per il momento non ho altro da dire, perché noi dobbiamo andarci pure a riposare: il mattino andiamo in campagna a guadagnarci il pane. Per la mia autobiografia partirò dal 1931, dalla prima giornata in cui andai nella masseria San Carlo, di Pavoncelli.
Michele parla al futuro, ma il suo desiderio di raccontare è immediato e sentito. Continua:
Avevo 10 anni, lasciai la scuola per necessità economica e finanziaria, perché la mia famiglia si trovava indebitata con il Banco Agricolo Pavoncelli. Eravamo mezzadri e avevamo piantato noi la vigna. Fummo costretti a venderci quella versura di terra.
Così è nata, per me, la vita del bracciante. Non è stata una passione, ma la mia vita, perché sospinto dalla necessità.
In casa mia sorella più piccola aiutava la mamma, mentre io aiutavo il babbo in campagna per guadagnare un pochettino di finanza. Finita la prima settimana di lavoro andai a riscuotere al Circolo Ofanto, il circolo dei signori. Il proprietario del terreno mi pagò appena nove lire, cioè una lira e mezza al giorno. I lavoratori, allora, non erano tutti uguali, ma c’era la prima, la seconda e la terza categoria. Noi bambini eravamo la terza categoria e prendevamo meno di tutti. Ci rimasi male e ne parlai con gli amici, fermi davanti a un bar. Non sarei riuscito nemmeno a pagare la panettiera quella settimana. Una guardia, che era lì vicino, ascoltò le nostre parole e ci obbligò a seguirlo al commissariato. Ci identificarono e, a noi tre ragazzini, ci fecero una contravvenzione di dieci lire e dieci centesimi. Dovetti fare dei debiti per poterla pagare.
S’intende, eravamo nel periodo fascista e i fascisti facevano e disfacevano tutto a modo loro.
Alla mietitura, a Cerignola, arrivavano mietitori da Brindisi, da Lecce, dalla provincia di Bari, perché c’era bisogno di mano d’opera. Povera gente! Qualcuno dormiva alla Casa del mietitore, ma la maggioranza dormiva all’aperto. All’alba li portavano in campagna e gli davano solo un po’ di fave o fagioli. Li pagavano solo con pochi soldi, quelli che avanzavano, non quelli di cui avrebbero avuto diritto. I padroni gli lasciavano i loro spiccioli, quello che gli avanzava nelle tasche, i centesimi che da quelle tasche gli cadevano a terra. Glieli lasciavano raccogliere e così, poi, potevano urlargli: Così sei già pagato, allora! Puoi andartene!
Intorno a noi che registriamo e a Michele Sacco che racconta si forma un capannello. Michele si dimostra un incredibile raccontatore di storie, ha una impostazione della voce e dei tempi da attore e il fascino che esercita sull’ascoltatore è notevole. Ci si sente spettatori di una storia che viene “rappresentata”. (Molti anni dopo, Michele, infatti, parteciperà da ospite d’onore al progetto teatrale “Braccianti la memoria che resta” che lo vedrà spesso in scena anche in un festival svizzero).
E nel silenzio della sala e del suo giovane pubblico, Michele riprende:
I fascisti organizzarono anche il loro sindacato e bisognava tesserarsi, era un obbligo. Per tutte le campagne girava in motocicletta un certo don Beppe, che a noi ragazzi domandava con modi pesanti se avevamo la tessera del sindacato. Chi ne era sprovvisto doveva seguirlo in paese e, una volta tesserato, poteva riprendere a lavorare. Altrimenti dovevamo andarcene. Ci intimidivano, ti mettevano paura e dovevi avere, e pagare, la loro tessera.
Avevamo sempre fame. Rubavamo dagli alberi le “pràscine”, le pere selvagge, le mettevamo in un sacco, maturavano e così ogni due tre giorni ce le mangiavamo. Quello era il nostro pane sotto il fascismo. La fatica e senza paga. Non solo senza paga, ma pure senza pane dovevi andare fuori (a lavorare).
Michele, in quelle sere, nella sala della mostra, si sofferma spesso a osservare, una per una, le fotografie – braccianti al lavoro, braccianti in lotta -, esposte sui tabelloni, legge attentamente i testi delle testimonianze dei vecchi compagni di Di Vittorio: Peppino Angione, Michele Balducci, Alfredo Casucci, ma soprattutto è impressionato dall'interesse dimostrato dai tanti giovani che frequentano la mostra. Studenti, con cui si discute in animati dibattiti e che hanno cominciato a chiedere – a lui e agli altri protagonisti delle storie rappresentate nelle fotografie -, frammenti di vita, episodi e riflessioni personali sul lavoro, sulla cultura, sulla società.
E gli stessi braccianti - nella loro Camera del Lavoro - hanno la sensazione, nuova, di poter insegnare qualcosa ai propri stessi figli, di poter riprendere a raccontare, narrare storie che, per vergogna, hanno nascosto nei luoghi più reconditi della loro memoria, ma che non avevano rimosso.
L'identità sociale di una comunità dipende, per strutturarsi, non solo dalla memoria ma dalla verifica costante, nel tempo, dei valori fondanti della memoria stessa, dal suo confronto continuo col presente e le sue sollecitazioni. La memoria non è un deposito chiuso: è la capacità personale e sociale di utilizzo e traduzione continua di esigenze e motivazioni del presente, urgenze di progettazione e individuazione di futuri possibili, con i materiali e le esperienze del passato. Esperienze e materiali che, solo così, tornano ad avere ruolo, utilità, riconoscibilità. Senza queste occasioni, che si potrebbero definire di organizzazione democratica della cultura e della sua memoria, una comunità assillata ed aggredita dalle innumerevoli informazioni, notizie, fatti e opinioni, spesso distanti e non percepiti e sedimentati individualmente, si sfalda come nucleo sociale, perdendo di vista la propria storia culturale. Una storia tra le storie, con pari dignità.
Michele Sacco, quella sera parlò per ore, noi (con me c’era Paola Sobrero e Alberto Vasciaveo) lo ascoltavamo e registravamo su nastro magnetico la sua roca e calda voce. Tornò ogni sera per tutto il mese, cominciò a mostrarci i primi fogli e poi i primi quaderni dove
narrava di sé e degli altri.
Negli anni successivi, con le sue sole forze (anche economiche) diventa auto-editore della sua storia, condensata in volumetti a stampa che distribuisce casa per casa.
Dai primi testi in cui narra la vergogna dello sfruttamento sui campi del Tavoliere, l’esperienza della guerra in Grecia e della deportazione in campo di concentramento a Berlino, arrivando poi a narrare le sue fantasie, la sua visione del mondo ed i suoi sogni, in poesia, in italiano e in dialetto. Liberato dalla costrizione del racconto fattuale delle sue esperienze usa così tutta la sua capacità di scrittura per comunicare al mondo le sue storie, piccole, semplici ma, nella loro epica, estremamente ricche di profonda umanità. In lunghi anni gli sono stato, per quanto ho potuto, vicino. Mi considerava come un figlio e aveva sempre piacere quando, andandolo a trovare a Cerignola, nel suo modesto pianoterra alle spalle del Duomo, lo ascoltavo leggere i suoi racconti o le poesie appena scritte. Appoggiata a un muro aveva la sua bicicletta, la bisaccia, la zappa, il piccone, la falce.
Nel 1991, insieme a Luigi Reitani (oggi illustre germanista e traduttore/curatore delle opere di Friedrich Hölderlin), curammo l’edizione di un volumetto di testi e poesie di Michele, che intitolammo Il diavolo e la cicala (dal titolo di uno dei suoi racconti). Luigi Reitani, curatore dei testi, nella sua postfazione scrisse: “…Chi ha vissuto l’esperienza del fascismo nelle campagne, della guerra, della deportazione, porta impresso dentro di sé un marchio indelebile, che lo spinge a testimoniare. È questa la matrice esistenziale della scrittura di Michele Sacco. Autobiografici non sono solo i tempi e le situazioni della sua opera, ma le stesse ragioni dello scrivere”.
Ripenso a Michele Sacco: alle volte singoli individui comprendono più degli altri le necessità e le urgenze della storia di un popolo, di una collettività. Alle volte, meglio e prima delle organizzazioni, delle istituzioni, dei partiti da cui dovrebbero essere rappresentati.
In quella sera di novembre del 1977, nella Camera del Lavoro a Cerignola, Michele Sacco fece una promessa ai giovani ventenni che gli chiedevano di raccontare. Una promessa che ha sempre mantenuto - fino al suo ultimo giorno - lottando contro tante fatiche, culturali, fisiche e morali: di questo lo ringrazio profondamente e lo ricordo con grande nostalgia.
Così mi deprezzarono al
mercato della carne, ormai
ero un oggetto senza alcun valore,
la mia schiena curva non convinse
colui che stava per comprarmi, e mi lasciò
come uno straccio sotto il marciapiedi.
Stralci di questo testo sono ripresi dalla mia prefazione a: Michele Sacco, Racconti e poesie, a cura di Angelo Disanto e Giovanni Rinaldi, Cerignola 2002.