È davvero un paradosso che il governo più conservatore della recente storia australiana sia diventato un campione della lotta ai monopoli? Così come era davvero inspiegabile che la presidenza Trump costringesse le grandi piattaforme digitali ad un’intesa con gli editori? Dinanzi all’esplosione di entusiasmo di editori (comprensibile) e giornalisti, a tutte le latitudini culturali e politiche, forse sarebbe opportuno riflettere su queste domande.
L’antefatto è noto. Il governo australiano, guidato dall’ex poliziotto Scott Morrison, sulla scia di quanto annunciato anche dall’Unione Europea, annuncia una legge che obbliga le grandi piattaforme a retribuire link e citazioni on line delle notizie prelevate dai siti delle testate giornalistiche. Dopo una prima scaramuccia polemica - mentre facebook annuncia il boicottaggio dell’editoria australiana, ritirandosi dal mercato di quel paese - Google fa un passo di lato, annunciando a sua volta un’intesa con il gruppo prevalente sul mercato australiano dell’informazione, di proprietà del magnate Murdoch, proprietario negli USA anche di numerose testate e della rete conservatrice Fox News.
In realtà Google, come spesso al momento ancora gli capita, riesce a pigliare due piccioni con una sola fava. Da una parte ribadisce la sua insindacabile potenza sulla scena nel decidere chi pagare e chi no, scegliendo un altro monopolista, oltre che lobbista di influenza rilevante in Australia, come appunto il gruppo News Corporation come partner; dall’altra, spinge il governo a rallentare l’iter della legge e a ribadire che comunque - anche se si dovesse arrivare a rendere generalmente obbligato il pagamento per ogni produttore di news - l’intesa con Murdoch, che prevede la titolarità di tutti i dati prodotti dagli utenti delle informazioni on line. Essi rimarrebbero esclusiva del più potente motore di ricerca del mondo.
A questo punto i sorrisi e i brindisi che hanno salutato la svolta australiana diventano smorfie di delusione, forse. Infatti sembra confermarsi una strategia che vede da una parte le forze conservatrici assumere la rappresentanza degli interessi nazionali, contro lo strapotere delle piattaforme, e dall’altra - dopo aver intimorito i grandi brands della Silicon Valley - la ricerca di un’intesa al ribasso, che privilegia sia i gruppi editoriali più vicini alle posizioni di destra, sia le strategie delle piattaforme che tendono a salvaguardare innanzitutto il controllo sui big data. Facebook, che rispetto a Google ha un modello di business più legato alla pubblicità e dunque più esposto alla competizione con i gruppi editoriali, cerca la prova di forza, per stroncare una reazione a catena che potrebbe metterla in ginocchio se si dovesse estendere viralmente il contagio dall’Australia. Google invece - ormai proteso ad una riconversione sulle forme applicative dell’intelligenza artificiale, soprattutto in direzione di bio tecnologie e servizi neurali diretti - sembra più disinvolto.
In questa partita che deciderà dei rapporti di forza sullo scenario giornalistico dei prossimi anni, sembrano proprio assenti i giornalisti, tutti protesi a contabilizzare la percentuale di quel piatto di lenticchie che Google potrebbe investire per avere mano libera con gli editori.
L’evoluzione del mercato ci dice che le testate sono ormai tutte tese ad una sorta di mediamorfosi verso modelli di service provider, in cui diventano produttori e distributori di servizi individuali. Il New York Times o il Guardian sono ormai macchine digitali basate sullo sviluppo autonomo di algoritmi per rendere ogni singolo contenuto personalizzabile. Tendono a diventare più o meno come Netflix, con il suo sistema di profilazione che osserva e profila ognuno dei suoi 200 milioni di abbonati.
I dati diventano dunque food for mind. For artificial mind; per quelle intelligenze artificiali che sono centrali nelle nuove redazioni multimediali e che smistano e misurano ogni minima affinità di ogni notizia con ogni lettore. Se i dati rimangono confiscasti da Google allora il gioco diventa monco, e le redazioni si troveranno subalterne alle piattaforme ancora più di ieri.
Non a caso in Europa la commissaria alla competizione Margarita Vestager ha annunciato due provvedimenti strategici per riordinare le relazioni digitali – il Digital Service Act e il Digital market Act - che fra l’altro prevedono per chi processa dati sensibili di rendere trasparenti e condivisi non solo la tracciabilità dei dati ma anche la struttura degli algoritmi che li elaborano.
Questo è il punto sensibile, su cui Google annuncia guerra senza frontiere. La esclusiva proprieta della potenza di calcolo è lo scettro dell’impero della corporation di Mountain View, come per Amazon o Apple. Mentre giornalisti, ma anche medici, giuristi, pubblici amministratori si trovano a dover attendere che le piattaforme decidano come e se farli accomodare al loro interno per promuovere app o soluzioni digitali rivolte al mercato.
Rendere dati e algoritmi beni condivisi e trasparenti, come appunto i vaccini, è la vera battaglia del secolo digitale. E su questo attendiamo di sapere cosa pensino Trump e il prode Morrison, oltre che la Fnsi e l’Ordine dei Giornalisti.