Poche centinaia di ingegneri e programmatori, su un totale di 260 mila dipendenti, eppure sembra davvero un terremoto quello che scuote la Silicon Valley. Per la prima volta nel cuore del sistema tecnologico, nel segmento più pregiato e riservato, lo sviluppo dei sistemi di intelligenza artificiale di Google, si insedia un sindacato. Si chiama Alphabet Workers Union, riferendosi ai dipendenti di tutto il gruppo di cui Google fa parte.
Più che il numero a fare rumore sono le ambizioni e soprattutto le circostanze che hanno reso possibile il colpo di scena. Dopo anni di brusio, con impennate e indignazioni, questa volta si è passati alle vie di fatto. Non un manipolo di diseredati, super sfruttati, ma direttamente la figura professionale cardine, quali appunti gli architetti del software, promuovono un sindacato che si propone, più che contrattare salari e ferie, di “controllare ciò su cui lavoriamo e come viene utilizzato. Garantiremo che le nostre condizioni di lavoro siano inclusive ed eque. Non c'è posto per molestie, fanatismo, discriminazione o ritorsione. Diamo la priorità ai bisogni e alle preoccupazioni degli emarginati e dei vulnerabili. I lavoratori sono essenziali per il business. La diversità delle nostre voci ci rende più forti”, come scrivono nel loro manifesto di fondazione.
Un’ambizione forte che tocca il buco nero della società digitale: il potere di condizionare comportamenti e decisioni con i sistemi intelligenti. I professionisti di Google colgono questa domanda sociale che viene dalla rete e si propongono come tutori dell’etica pubblica. Infatti scrivono ancora nel loro documento: “Garantiremo che Alphabet agisca in modo etico e nel migliore interesse della società e dell'ambiente. Siamo responsabili della tecnologia che portiamo nel mondo e riconosciamo che le sue implicazioni vanno ben oltre Alphabet. Lavoreremo con le persone interessate dalla nostra tecnologia per assicurarci che serva il bene pubblico". Ma anche l’intervento dello Stato si presta a dubbi e diffidenze: spostare da pochi privati a pochi Etica e interesse pubblico sono i due concetti che aprono un nuovo scenario. Non sono più i proprietari delle piattaforme i capitalisti della sorveglianza, come li ha definita Shoshanna Zuboff nel suo saggio omonimo, a garantire efficienza e correttezza dei sistemi che commercializzano. Hanno troppo potere per essere liberi, aggiungeva ancora la Zuboff. E per questo si erano mossi gli Stati. Sia in una versione autoritaria, come in Cina e Russia, dove si sono formati veri e propri Algoritmo-nazione, in cui il potere statale coincide perfettamente con il controllo della potenza di calcolo, oppure, in Europa e Stati Uniti, si agiva mediante le normative antitrust che cercano di contenere il gigantismo di questi poderosi monopoli, che stanno, come denunciano proprio gli USA, “inquinando l’eco sistema dell’informazione".
Ma l’intervento degli Stati non risolve certo il problema, e per certi versi lo aggrava: nel dualismo fra monopoli privati e sistemi politici sono ancora i gruppi della Silicon Valley ad avere in mano la bandiera della libertà. Ora con la discesa in campo di una terza gamba del tavolo - ossia i dipendenti delle piattaforme stesse e gli esperti del software che possono rappresentare legittimamente forme di controllo pubblico sulla natura dei sistemi automatici - il gioco si allarga.
Insieme a questo nuovo sindacato infatti il ruolo di soggetti come le città, impegnate nella digitalizzazione della propria vita, o le Università, che testano e usano i sistemi digitali in massa, e le professioni, come sanità e informazione, può finalmente diventare realmente negoziale. Non a caso il nuovo sindacato è stato sostenuto e affiancato dalla prestigiosa CWA, che organizza i lavoratori e i dipendenti delle aziende editoriali e dei giornali. Proprio il mondo del giornalismo infatti si vede accerchiato e pressato dai processi di automatizzazione che tendono ormai a sostituire direttamente le attività artigiane. Il nodo dell’etica riapre i giochi, costringendo Google, ma anche Amazon o Facebook a dover fare i conti con una domanda di trasparenza e di condivisibilità del sistema tecnologico. L’esperienza che sta maturando a Google parla anche al nostro paese, dove si sta rattrappendo l’intera organizzazione editoriale, con una crisi verticale delle strutture professionali dei giornalisti, pensiamo al fallimento in pectore dell’INPGI, l’Istituto previdenziale. Non si tratta di congiuntura negativa o di un inesorabile destino che vede appunto la fabbricazione delle informazioni assorbita dalle piattaforme profilanti. Ora con una nuova stagione in cui proprio le piattaforme diventano materia di contesa e controllo, una nuova leva di professionisti dell’informazione in grado di garantire trasparenza e corretteza dei sistemi intelligenti potrebbe ridare smalto e funzione al mestiere, guidando anche altre professioni, pensiamo alla sanità, in piena pandemia, verso una nuova dinamica autonoma e consapevole dei titolari del servizio rispetto ai fornitori delle potenze di calcvolo. La ruota riprende così a girare.