NELLE OPERE DI BEPPE LOPEZ
La scelta del dialetto nei suoi romanzi è stata determinata dalla convinzione che il dialetto sia per definizione il linguaggio degli umili e degli emarginati e che, di conseguenza, la lingua nazionale appartiene ai ricchi e ai colti. Crede che tutto questo valga ancora per la società italiana di oggi, omologata anche linguisticamente dalla televisione e dai media, e che quindi il dialetto sia ancora segno di indigenza culturale? Il dialetto non è per definizione il linguaggio degli umili e degli emarginati. Infatti - fino agli anni Settanta diffusamente e, in misura ridotta, tuttora - l’uso del dialetto è pratica comune da parte dei ceti colti, specie nei grandi agglomerati urbani per promiscuità edilizia, urbanistica e quindi sociale, ma anche nei piccoli centri per accentuata informalità nei rapporti interpersonali. Certo il dialetto diventa segnale di emarginazione quando, nei ceti e negli individui socialmente meno dotati, non è accompagnato alla conoscenza della lingua ufficiale e della cultura. A questo si aggiunga che, effettivamente, alcune lingue di comunità emarginate o periferiche rispetto allo sviluppo economico, «non integrate», sono significative e per qualche aspetto costitutive appunto della loro emarginazione e della loro perifericità . Il dialetto nella sua accezione di lingua materna - che quindi presuppone l’acquisizione successiva di un altro linguaggio (la lingua ufficiale, della comunicazione formale) – è per definizione il linguaggio dell’emotività e della materialità : abbiamo imparato, fin dalla nostra prima fase della capacità di intendere e di volere, ad usare quelle parole dialettali che rimangono intrecciate inestricabilmente con i concetti, i bisogni e le emozioni che con esse volevamo esprimere. ...