“Nicola Rubino è entrato in fabbrica” fu un caso letterario nell’ormai lontano 2004, ed è stato riedito recentemente da Feltrinelli. Non si trattò di un bagliore improvviso e passeggero: Francesco Dezio, infatti, ha continuato a fare lo scrittore e ora, a 50 anni, può a buon diritto iscriversi nel novero, putrroppo ristretto, degli autori che fanno del mondo del lavoro il fulcro della loro opera. Con un lessico decisamente più aggiornato di quello di Volponi o di Faulkner. E un uso consapevole del dialetto, che prende le mosse da “Capatosta”, il capolavoro di Beppe Lopez, uscito nel 2000, “che mi ha decisamente ispirato”.
Il suo ultimo romanzo, “La meccanica del divano” (pagg.288, 15 euro), Francesco Dezio l’ha pubblicato con una piccola casa editrice romana, Ensemble, e lo ha presentato al trentatreesimo Salone del libro di Torino lunedì 18 ottobre, alle 16.30 alla sala 1, con Giuseppe Culicchia.
E’ lì che lo raggiungo, al telefonino, poco prima della presentazione. Il brusio di sottofondo viene confermato dall’entusiasmo che traspare dalla voce di Dezio: “C’è una bellissima atmosfera, c’è vivacità, la gente è interessata. Il Salone in presenza si conferma un’occasione unica per gli scrittori, per tutto il mondo che gravita intorno al libro”. L’incontro andrà bene, Culicchia si è detto entusiasta del romanzo: “Ho cominciato a sottolineare e poi ho smesso perché avrei sottolineato ogni rigo: non ho trovato nulla in questo libro che non meritasse sottolineatura, è perfetto”.
Dezio è scrittore a tutti gli effetti ma di formazione è un perito tecnico, ha lavorato come operaio alla catena di montaggio in diverse fabbriche con alterne mansioni, poi si è riciclato come disegnatore (non tecnico), illustratore per meglio dire, e adesso disegna copertine di libri: “Un’attività che mi gratifica molto”.
Quei tempi stretti di fabbrica, quegli infiniti corsi di formazione, gli stage non pagati, che descrive nel suo primo libro, Dezio li ha provati tutti sulla sua pelle (“Madonna, non mi posso capacitare, non può essere che sia questo il lavoro. Non è possibile, non può essere che esistano mestieri così maledettamente monotoni”), ma mai smettendo di scrivere, scrivere comunque, a fine turno, di notte, sempre con in testa il prossimo libro, con le ricerche del linguaggio, da vero appassionato della letteratura perché questa è la sua autentica vocazione.
Il lavoro è guadagnarsi il pane, ma è via via più difficile trovarlo: restando alla realtà attuale, il lavoro semplicemente non c’è. Spesso lo si perde e poi è molto difficile riacciuffarlo...
“Ho assistito nelle agenzie interinali alla scena di sessantenni che andavano via piangendo perché gli dicevano: ‘Cosa state a fare qui? Vogliamo gente giovane, già formata, non ci servite, non vi fate più vedere’. E uno a quell’età cosa deve fare? La lotta è impari, non c’è nessuno che sia disposto a formare un dipendente che abbia oltre i 30 anni. Sei come una macchina, diventi presto obsoleto e vieni buttato via, espulso dal mondo produttivo. E’questo che non capiscono coloro che insistono sulla crisi da superare con il lavoro. Il lavoro ormai è un fantasma”.
Già Nicola Rubino lo definiva “socialmente inutile”.
”Sì, certo, basta vedere ciò che è successo nella Murgia. C’è stato il famoso boom, all’inizio del secondo millennio. Tutti a far divani nel triangolo Altamura-Matera-Santeramo e non c’era una tradizione in questo senso, al massimo erano sellai. Poi, quando si sono delocalizzate le produzioni ed è arrivata la concorrenza cinese, il boom si è sgonfiato, all’incirca nel 2008, lasciando dietro di sé macerie di capannoni dove non si produce più niente, inquinando pure col poliuretano avanzato che è difficile da smaltire. In poco tempo si è passati da 500 a 40 salottifici e lo stesso pioniere si è barcamenato, è ricorso alla cassa integrazione, ha delocalizzato, ha subìto anche lui un contraccolpo”.
Ed ecco “La meccanica del divano” che scaturisce dalla sua precedente opera, “La gente per bene”.
“Di quel libro mi erano rimasti dei personaggi che sentivo avessero ancora un loro validità e quindi ho voluto rimetterli in gioco. La narrazione sorge dall’osservare i padroncini che hanno scimmiottato il grande iniziatore, da cui tutto ha preso le mosse, nascosto sotto lo pseudonimo di Natalino Manucci di Seduti&Seduti. Ho puntato l’obiettivo su coloro che, in barba a qualsiasi piano regolatore, hanno costellato la Murgia di capannoni poi diventati cattedrali nel deserto ma con nulla delle cattedrali. L’ho strutturato, il romanzo, come una tragedia greca, con tipi come la Vammana, la levatrice, dal forte impatto, che parla il linguaggio locale. E il mio Io l’ho frantumato in una serie di coreuti. Ci sono i Capallegra, gli Influencer, la Stampavversa, gli Spin doctor. C’è il Mercato, con cui i padroncini instaurano un fitto dialogo. Dal Mercato fatto personaggio, coreuta, essi sono stati imbrogliati, per loro si è fermato mentre il Capitalismo non si ferma mai, divora tutto, insaziabile. M’interessava tracciare un quadro composito di varie esperienze ma non un’analisi sociologica, che lascio ad altri. Il Virgilio in questo mondo si chiama, non a caso, Dezio, che spiega termini tipici della nostra lingua, come ‘ama’ fa’ u’ gibillero’ per dire ‘spacchiamo tutto’, una parola, gibillero, tipicamente barese, che risale addirittura a un antico editto papale emanato durante un giubileo”.
Insomma Dezio come un novello Dante, grande innovatore della lingua italiana a partire dal suo fiorentino. E non è detto che presto uno dei suoi libri non diventi una “graphic novel”, una forma narrativa che sta prendendo sempre più piede.
Dezio, che risiede sempre nella sua città, Altamura, non lo esclude. Intanto compone sulla pagina un mosaico perfettamente riuscito tra lingua italiana, che padroneggia e che parla senza intonazioni dialettali, e vernacolo.
Nel romanzo ci sono anche molti brani comici...
“... Di quella comicità che in realtà è crudele addirittura, come dice Pirandello. Ma non per deridere quel ceto medio, di cui anch’io faccio parte, ma proprio per smitizzare certe occasioni da realismo magico alla De Martino, come le processioni o i matrimoni che contengono sempre qualcosa di arcaico nonostante siano adattati ai tempi e quindi siano ultramoderni. Si va dall’apparolamento al giuramento, con un’evoluzione che non posso rivelare ma che stupirà, nel segno di un certo cinismo che mi caratterizza”.
Ci sono pagine esilaranti anche su trasmissioni molto popolari come le sit com dell’Anonima Gr e di Toti e Tata.
“Ho ritenuto fosse giunto il momento di citarle, le loro battute sono idiomatiche, classiche ormai. Così come mi piacciono le traslazioni che dei detti popolari fa Matteo Salvatore”.