E LA TRILOGIA CHE ESSO COMPLETA
(CON "CAPATOSTA" E "LA SCORDANZA")
NELL'ANALISI DI CORRADO PETROCELLI,
FILOLOGO E MAGNIFICO RETTORE
PRIMA A BARI E ORA A SAN MARINO
A settembre del 2000 faceva la sua comparsa in libreria (edito da Mondadori nella collana Scrittori italiani e stranieri) la prima produzione letteraria di Beppe Lopez: Capatosta. Il romanzo, originale, innovativo, denso divenne presto un caso letterario. Una storia reale di vicende e persone come tante che vivono e si muovono in un quartiere barese, il “Libertà”. E di quel popolo, di quella umanità varia che non sapeva e poteva riflettere su sé stessa (“campavano e basta”), delle case, dei negozi, dei mestieri (anche quelli oggi scomparsi) Lopez si faceva narratore, mentre scorrevano faticosamente le vite dei protagonisti e sullo sfondo palpitava la storia d’Italia dagli anni venti ai primi sessanta del Novecento. In una densa recensione per il ventennale il romanzo è stato ancora riscoperto come “testo originale, profondamente innovativo, meritevole di lettura e rilettura” (così Rosa Rossi), in contrapposizione alle modalità di un mercato editoriale spesso appiattito su pubblicazioni vissute per una stagione, magari “deperibili in termini di scrittura e contenuti”, laddove imperano autori da classifica e generi consolidati (prodotti confezionati ad hoc commercialmente assai spendibili e supportati da adeguati battages pubblicitari). D’altronde lo stesso Lopez ribadisce di sentirsi “figlio della narrativa letteraria del Novecento, non quella degli ultimi decenni interessata solo alla trama, al genere”.
Un romanzo che allora si rivelò una sorpresa, testimonianza significativa della letteratura della narrativa. “Un frutto inatteso - scriveva Luca Canali - nell’attuale deserto popolato d’infiniti sottoprodotti letterari, anche rifiniti nel loro formalismo, ma terribilmente inutili”. Un romanzo che per Cotroneo denotava la “capacità di costruire una storia intensa senza stereotipi, senza format inventati da altri, senza i soliti luoghi comuni che pervadono senza scopro buona parte dei libri che escono di questi tempi… se ci fossero più libri così in giro le cose di questo mondo letterario andrebbero meglio”. Colpiva l’idea di rappresentare “un Sud mai descritto, lontano dalla magia napoletana o dai riti di De Martino. La Bari provinciale di Capatosta è terra non contadina e non operaia, non è più paese non è ancora città…Meridione senza riscatto, vita che non diventa mai storia” (Franco Brevini); “un Sud attuale, elementare e primitivo… Una Bari povera ma non arresa, ricca di fermenti e disperazioni, cupa di fallimenti e di scandali: tutta roba di ogni giorno, affaticante e disumana, ma vera” (così Walter Pedullà). Così di volta in volta si moltiplicavano i consensi e gli accostamenti: da Verga a Gadda, da Pasolini a D’Arrigo, da Basile a Rea o a Camilleri e Nigro o, per l’attenzione alle vite umiliate e offese, alle cui spalle scorre, lontana e incomprensibile, la storia, a Dickens, Dostoevskij, Hugo.
E un’attenzione particolare era dedicata allo strumento linguistico usato da Lopez: la lingua. La lingua che è spesso quella non solo dei nostri padri, ma quella in cui pensiamo, che ci portiamo addosso come seconda pelle, in cui ci riconosciamo in modo istintivo e intuitivo. Parole dell’istinto, dei sentimenti e delle sensazioni che recano in sé le cose della vita, parole del vissuto. Una lingua che poi sarà anche negli altri romanzi della trilogia anche alveo e custodia delle tradizioni, degli ideali etici e morali, della libertà individuale e collettiva, insomma dei paradigmi di valore che si tramandano e vivono in essa. La lingua (e qui è una posizione ideologica e di poetica, una strategia di stile) adibita a narrare le vicende della irriducibile Iangiuasand' non era un barese naturalistico-mimetico o farsescamente vernacolare, ma lingua di un passato ricordato e che resiste nel presente. Una “oralità scritta”, portata sulla pagina per descrivere proletariato e piccola borghesia metropolitani (Raffaele Nigro) per una comunità di senza voce che non ha mai avuto una testimonianza. E a dar voce a un mondo e a personaggi solitamente esclusi dalla letteratura e dalla storia “non può essere il linguaggio dell’integrazione sociale, l’italiano magari colto letterario. Il linguaggio dell’estraneità alla storia è il dialetto”. Così Vitilio Masiello cogliendo nell’affermazione di Lopez che il suo idioletto “si è scritto da solo”, un calco del verghiano “l’opera d’arte deve sembrare essersi fatta da sé", notava che Lopez dei Malavoglia “riecheggia, ma in piena autonomia, modelli di ibridazione linguistica e tecniche narrative”.
Sono le stesse caratteristiche, lo stesso quartiere, la stessa lingua che Lopez riprenderà nel 2008 con La scordanza “dramma personale e tendenza collettiva a rimuovere la propria storia e identità”, un viaggio culturale, sentimentale e politico, un racconto generazionale su speranze e promesse degli anni ‘60-‘70, poi tradite, su illusioni perdute e radici forse ritrovate. Narrazione dentro e di un periodo forse irripetibile, certo inedito, ricco di passaggi epocali e conquiste sociali, ma poi di interruzioni e arretramenti, con l’assassinio di Moro a costituire uno spartiacque incolmabile. Anche qui si snodano storie e vicende di generazioni che hanno visto la travagliata fase di passaggio, come è stato detto, “da un Paese per certi versi arcaico innocente e autoritario a un Paese moderno, in fase di liberazione individuale e collettiva”, che perde poi l’innocenza e si scopre via via negli anni ‘80 in profonda crisi morale, sociale e politica.
Ma prima di dar vita all’ultima parte della trilogia affrescata sul quartiere Libertà Lopez dava alle stampe nel 2015 La Bestia. Ancora una volta denso, robusto, avvolgente, con una grana culturale raffinata e consapevole, affronta il tema dello straniero, del diverso per guardare (anche qui attraverso la lingua, ed è una posizione ideologica e di poetica, di strategia di stile) non solo al rapporto tra noi e l’ospite, alla nostra identità individuale e a quella sociale, ma evidenzia la stessa costituzione “plurale” della nostra identità, lo straniero, l’altro che è in noi, anzi che è noi. Nel 2018 vedeva poi la luce Matteo Salvatore. L’ultimo cantastorie. Un connubio quasi unico, esplosivo tra l’Autore, romanziere di solida cultura letteraria, epperò giornalista di inchiesta, atto a scavare e compulsare archivi, verificare e comparare fonti e il protagonista, cantante puro e geniale quanto uomo contraddittorio, personaggio duale che ha trascorso la vita a difendersi da un mondo che non ha mai compreso. Lopez descrive attraverso lui l’Italia della miseria e della fame del profondo Sud e cava dal cantastorie dei braccianti storie umane di disperazione passione fantasia e ne fa prezioso materiale di riflessione, memoria, identità.
Con Capibranco Lopez dispone la sua strategia autoriale – da sempre, in verità, sorprendente e spiazzante - al confine di differenti codici narrativi, riattraversandoli e contaminandoli problematicamente. Terza stazione di un percorso inventivo che analizza in profondità, lungo un ampio arco temporale, le vicende di un quartiere popolare della nostra città assumendolo come sineddoche peculiare e idiosincratica delle contraddizioni e delle mutazioni dinamiche della modernità tout-court, Capibranco potrebbe in larga misura rientrare nella attuale rimodulazione del romanzo storico-sociale. Ma, altrettanto legittimamente, ed anzi con più marcata evidenza, se la si consideri nella sua autonomia, quest’opera si attesta come un romanzo familiare, nel cui perimetro si sommuovono e si intrecciano le esperienze di più generazioni, ciascuna portatrice di una sua visione del mondo, di una sua domanda di conoscenza e di senso (penso, innanzitutto, a Mariuccia, la figlia del protagonista, o meglio di uno dei due protagonisti, còlta alle soglie della sua adolescenza). E però non si può negare che l’asse lungo il quale si svolgono i complicati, contrastivi, antagonistici itinerari dei due fratelli Lagravinese sia quello tipico del romanzo di formazione.
Se nei romanzi canonici della modernità lo statuto del personaggio si fondava sulla rappresentazione della sua costitutiva scissione interiore – dai pirandelliani Mattia Pascal e Vitangelo Moscarda allo sveviano Zeno Cosini e al moraviano Michele degli Indifferenti, per restare a notissimi esempi nostrani -, qui, in Capibranco, la rappresentazione della scissione e del contrasto si disloca, per così dire, all’esterno, si sposta dal piano dell’”epica dell’esistenza” - per riprendere la pregnante definizione di un grande interprete del romanzo moderno come Giacomo Debenedetti - a quello dell’”epica della realtà”. I personaggi in perenne conflitto sono due fratelli, ma potremmo, credo legittimamente, vederli come le due proiezioni, le due facies opposte e complementari, legate e insieme differenziate dalla scansione temporale (dieci anni) che li divide, ovvero come la maschera bifronte, di un unico, composito personaggio, quello dell’individuo investito dai processi sociali dell’ultimo tratto del secolo “breve” che ci siamo lasciato alle spalle ma che ancora, e anzi più che mai, dirama pervasivamente la sua ratio, la sua ragione strumentale e mercantile, sul nostro presente.
Indivisibili e mai uniti, Michele e Vittorio sono uno: il loro dualismo esaspera in forma di racconto la condizione etico-esistenziale, e direi la grammatica psichica e sociale, dell’individuo attraversato dal vento logorante e distruttivo della tarda modernità e della sua crisi permanente di valori, testimone di un tempo senza uscita, e di un mondo che ne fagocita i sogni, ne consuma l’ambizione di congiungere maturità e ideali, e ne dissipa i gesti e le esperienze, svuotandole di senso o confinandole dentro la marginalità o la regressione. Per tessere la tela di questa rappresentazione della parabola discenditiva e lacerata dell’identità sociale e individuale (sociale in quanto individuale, e viceversa: in un nesso qui manifestamente inscindibile) Lopez si avvale - riappropriandosene e riconvertendolo (dissimulandolo) con piena e sicura autonomia - della chiave tematica del doppio (qui di dichiarata ascendenza stevensoniana, ma certamente non esente da una suggestione dostoevskijana). E, in questa sotterranea complicazione, e direi in questo arricchimento problematico del romanzo di formazione, attraverso le intersezioni psicologiche e i contrasti caratteriali dei due fratelli strenuamente agonisti mette in scena, come in un teatro metropolitano dell’ambizione e della memoria, della passione e della solitudine, un dramma cardinale del nostro tempo: la disgiunzione tra il retaggio non passivo dei modelli (la tradizione, con i suoi paradigmi etici e di senso) e una vita assediata, schiacciata dal mercato e dai suoi spettri – se per mercato vogliamo intendere quello ipermoderno, informe e inarrestabilmente pervasivo, che, nella società globalizzata, determina – come accade a Vittorio, nel suo bisogno rabbioso di emanciparsi dal fratello, di affrancarsi dall’ombra sua di padre surrogato che lo plasma e lo opprime –, e distorce, e sterilizza, le scelte e le coscienze.
Insomma non è un caso, io credo, che in questo romanzo si intreccino, sapientemente contaminandosi e integrandosi, diverse istanze e forme di romanzo, e che esse trovino poi nel quartiere Libertà, nell’antica modestia del paesaggio urbano di via Mirenghi, il loro cronotopo elettivo, il loro terreno di gestazione e di sedimentazione, presto però violato dal dislocarsi dell’intreccio in altri scenari metropolitani (Milano o Roma, tempio profano, entrambe, di una modernità corrotta e ostile).
Fuori del quartiere, della sua aspra ma fondativa educazione alla vita – quella che Michele si impegna a trasmettere, e anzi a imporre, a Vittorio – si accampano segmenti obliqui e inquietanti di universi lontani e contrapposti a quel luogo originario dal quale ogni vicenda si diparte e a cui, infine, dolorosamente tutto sempre ritorna. Quei luoghi vengono restituiti come gli spazi di una modernità deserta di valori, grossolana e mendace, chiassosa e cinica, dominata dal malgusto e dalla volgarità, dove il benessere non è che insistita ostentazione e consumo esasperato di ogni cosa, dal cibo all’eros, e ogni esperienza, ogni scelta, è gravata dal dominio del potere, che sia quello del Palazzo, perseguìto con grintosa abilità e smaccato successo dal suocero di Vittorio, il trimalcionico Tiburzio Maccioni, o del mercato, del quale l’antico e ritrovato sodale della sua giovinezza barese, Colino Sciannimanico sperimenterà ogni più disetica e degradata declinazione. E il confronto-conflitto tra i due fratelli, il nodo gordiano di identificazione e competizione che stringe il più giovane Vittorio al maggiore, il quale per le impietose circostanze della vita ha dovuto fargli da padre (e farlo, in sostanza, anche a sé stesso), questo loro perenne inseguirsi e rifiutarsi, legati per antitesi come termini opposti di un binomio, si dispone come una mobile, implacabile stratigrafia delle modalità di rapportarsi ai processi di modernizzazione che hanno investito, a partire dalla svolta etico-ideologica del Sessantotto fino ai giorni post-ideologici del nostro presente globalizzato, gli abitanti del quartiere, della città, di tutto il nostro mondo. E anche la coppia princeps dei fratelli trova riscontro, nel segno di un’analogia inversa, in un’altra coppia di fratelli che ne condivide l’appartenenza al “Libertà”: quella, appunto, di Sabino, mite e remissivo, debole e sottomesso, e Colino, spregiudicato e affamato di vita, di una vita da possedere e consumare senza discernimento né criterio, che entrerà nel sottobosco dello spettacolo con lo pseudonimo di Nick Scianni, e finirà per assorbirne fino in fondo i vizi e le consuetudini più torbide, nel cortocircuito tra emancipazione e trasgressione, tra riscatto economico e corruzione.
E il tempo della vita di ciascuno dei personaggi, nelle azioni o anche solo nei pensieri che ne abitano l’interiorità, si misurerà sull’opposizione binaria delle due tendenze tra le quali, secondo Michele – che fonda, in questo, il ritmo del romanzo – è sospesa la vita del quartiere, come di ogni persona, ogni creatura: “l’istanza del progresso e della evoluzione” e la “tentazione al regresso, a lasciarsi andare” (p. 28). Ma il progresso – ed è qui il nodo cruciale, il discrimine tra la verità e l’inganno, tra il successo e il valore – non può esistere senza un paradigma etico. Quel paradigma etico, quel corpus storico o, nella donna, anche biologico, naturale, di valori, in nome del quale, ad esempio, Lele, giovanissima sposa di Michele, sceglierà l’apoptosi, la rinuncia a curarsi dal male che la invade, per far nascere la figlia che consenta a lei e al marito di “lasciare un segno”, di battere la morte con la vita. E d’altronde in nome di una rivendicazione di valore Michele finirà con l’investire il suo prestigio di giuslavorista, in direzione ostinata e contraria ai suoi colleghi, nella tutela degli indifesi, laddove il cinismo di Vittorio lo indurrà a farsi remuneratissimo difensore degli indifendibili, in disincantato equilibrio sui labili confini della moralità, se non pure del diritto.
Anche per questo, credo, a mano a mano che il romanzo procede, e progressivamente il vecchio mondo si svuota e frantuma, la patina dialettale, già sottesa a punteggiarlo come una nota sommessa ma profonda, si decolora, si dirada, si smorza. Ne residua solo qualche rado frammento, o ne emerge, affiorato come un marchio sprezzante di condanna, la parola che designa una femminilità infeconda: sch’vat’, sterile. Nel primo, fortunato romanzo della trilogia, Capatosta, si è visto, la lingua adibita a narrare la vicenda della cocciuta, irriducibile Iangiuasand’ era un barese felicemente contaminato da una italianizzazione che ne fissava una cifra espressiva peculiare. Era una lingua vera e anche inventata, innervata da una voce popolare e al tempo stesso a suo modo colta. Una lingua di un passato ricordato e resistente nel presente. Qui invece, in Capibranco, il passato si estingue nel presente. Nessuna lingua resta a custodirlo, nessun valore sembra più resistere. E la saga del quartiere Libertà finisce con un paradossale, tragico ribaltamento della parola che lo intitolava nobilitandolo con la forza ottativa della metafora. Non c’è libertà da quel conflitto cieco tra fratelli. Non c’è libertà dalla morsa del condizionamento sociale, e il finale (che non sveliamo) sancisce che non c’è libertà senza destino, e non c’è libertà contro il destino.