IERI/OGGI

IL "LESSICO FAMILIARE"
DEL QUARTIERE LIBERTA'

GINO DATO
(La Gazzetta del Mezzogiorno)

LA TRILOGIA DI BEPPE LOPEZ

(CAPATOSTA, LA SCORDANZA E CAPIBRANCO)

RACCONTA UN SECOLO DI VITA ITALIANA

Il quartiere Libertà il teatro d’origine di molti suoi personaggi. Uno spazio contraddittorio in cui l’istanza all’emancipazione e al progresso convive con la tentazione dell’involuzione, della regressione…
“Proprio per questo la Trilogia si propone come racconto di un secolo di vita nazionale, ambientato sì in un quartiere popolare di Bari, ma questo quartiere risulta alla fine un simbolico luogo dell’umanità, ieri come oggi. Quella contraddizione è propria dell’uomo, ricco o povero, ignorante o dotto, sempre e ovunque.
“Ieri come oggi” anche al quartiere Libertà?
“Ai tempi di Capatosta, quando il motore della vita sociale erano l’apertura di bocca, l’apertura di conno e l’apertura dei negozi, quella contraddizione era vissuta senza filtri, anche inconsapevolmente. Il Libertà era una specie di terra di nessuno sospesa fra campagna e città, i suoi abitanti agivano quasi senza alcuna coscienza di sé, di certo senza alcuna consapevolezza culturale o politica. In una qualche maniera quella situazione oggi si ripropone con il massiccio insediamento immigratorio, sospeso anch’esso fra degrado e integrazione”.
Cosa succede poi, ai tempi della Scordanza?
“Quando si passa dal plebeo al piccolo borghese e all’intellettuale, quella contraddizione è vissuta con maggiore c consapevolezza e complessità, intrecciandosi con la cultura e la politica. La vita quotidiana si lega, anche drammaticamente, alla vita pubblica, alla storia. Nella Scordanza una tragedia personale si intreccia così, con l’assassinio di Moro, al dramma nazionale della fine del processo di democratizzazione e modernizzazione avviato dal Sessantotto”.
Dai capatosta ai Capibranco, attraverso l’oblio della scordanza. E’ la dichiarazione della sconfitta di una generazione, della fine di un sogno?
“Nel terzo volume della Trilogia i protagonisti, tutti del quartiere Libertà, lucrano o al contrario soffrono a causa di una comunità precipitata in un apparente ed effimero benessere ma in realtà impoverita sul piano culturale, morale ed etico, come conseguenza di quella sconfitta e della fine di quel sogno. Ma insieme alla decadenza e al declino, la speranza e i comportamenti virtuosi sono duri a morire. Così la stessa coppia di spinte primarie contrapposte si ripropone, ma nel suo opposto: l’aspirazione ossessiva al progresso non riesce a sottrarsi ai disvalori del carrierismo e dell’arricchimento, mentre la tentazione della regressione appare assumere sovente le forme virtuose del legame col territorio, della condivisione sociale, della solidarietà, del ritorno alla natura, del recupero della memoria…”.
La memoria è da sempre la sua cifra narrativa. Da quale ispirazione, da quali sentimenti nasce venti e più anni fa Capatosta?
“Lo scrissi come documento di identità e riscatto. Mi identificavo pienamente – essendone figlio – in quel mondo per più aspetti miserabile e in quella protagonista maltrattata ma orgogliosa, bastonata ma mai doma. In una qualche maniera, mettevo la mia capacità di scrittura al servizio di quella umanità diseredata e disorientata, dal quale pure sarebbe nata l’Italia del miracolo economico e poi della battaglia per i diritti civili. E ne usai anche la lingua, mai assurta a lingua letteraria, spesso ridicolizzata da comici d’avanspettacolo, eppure splendida nella sua antichità e nella sua efficacia espressiva”.
Molti critici hanno parlato della invenzione linguistica che impasta i suoi romanzi. Come evolve questa lingua nei tre romanzi?
“Quel mio idioletto si è fatto da solo, dissi a suo tempo e convennero gli studiosi. Ora posso dire che anche questa Trilogia si è fatta da sola, nel senso che, dopo aver finito di scrivere Capibranco e averlo messo in successione a Capatosta e La scordanza, mi sono accorto che erano un tutt’uno. Tutti ambientati nel quartiere Libertà, negli stessi luoghi, negli stessi negozi, in definitiva con gli stessi personaggi. E come poteva essere altrimenti? Io non invento trame, io parlo di cose e persone viste e conosciute, reali. Quei tre libri sono un lessico familiare. E mi sono accorto che anche la lingua di Capatosta si è evoluta e adattata, istintivamente, da sola, ai tempi e alle vicende dei due romanzi successivi”.
Scrisse il prof. Vitilio Masiello a proposito di Capatosta che “l’emarginazione, l’estraneità, l’esclusione non possono esprimersi con il linguaggio dell’integrazione sociale (l’italiano, magari “colto”, letterario) se non negandosi”.
“Perciò già nella Scordanza e ancora di più in Capibranco, man mano che si realizza la falsa integrazione dell’arrivismo, del consumismo e della peggiore televisione, il linguaggio diventa sempre di più quello di una società che tende a negare sé stessa. Ma non per sempre!”.
Quindi, una Trilogia che non ritiene chiusa? Non le basta aver donato alla sua città il frutto così raro di un impegno letterario e sociale?
“Mi ritengo fortunato e sono orgoglioso, come barese, di aver potuto dedicare a Bari quest’opera. E spero che la città l’accolga come accolse Capatosta. Ma niente è mai chiuso per sempre nella storia dell’uomo”.

(*) La Gazzetta del Mezzogiorno, 6 aprile 2022