Beppe Lopez intervistato da Antonio Stornaiolo - 08
IL DIALOGO DEL LUNEDI’ (ilikepuglia.it)
Oggi parliamo di retorica. Quella spicciola dei mezzi di informazione. Di come una guerra possa diventare strumento di ascolti e pomo della discordia. Ormai su ogni pagina, in ogni talk, ci sono due fazioni ben rappresentate: da una parte gli atlantisti indignati per l’invasione russa, dall’altra i pacifisti nettamente contro l’invio delle armi agli ucraini… Don Beppe, noi dove ci mettiamo? Di qua o di là?
"Due fazioni, pro o contro, sì o no, bianco o nero, destra o sinistra, da una parte o dall’altra… C’è voluta la guerra ucraina per far emergere con nettezza una caratteristica ormai consolidata e qualificante, anzi squalificante, il sistema informativo italiano o meglio: quella marmellata senza soluzione di continuità che è diventato il nostro sistema politico-mediatico o meglio ancora: l’approccio alle questioni e lo stesso modo di pensare che, dal sistema, viene riversato quotidianamente nelle case e nelle menti degli italiani, condizionandone, spesso devastandone i comportamenti pubblici, sociali, persino familiari, oltre che sondaggistici, elettorali, ecc.".
Stai parlando della tendenza alla rissa, alla contrapposizione…
"Certo, alla rissa e alla contrapposizione non motivata o motivata – spesso all’insaputa degli stessi protagonisti del fenomeno - da interessi e intenti personalistici e di casta. Ma la rissa ne è l’effetto, non la causa. Sto parlando della spinta che viene dall’alto, dall’autoreferenzialità del ceto politico e informativo a semplificare, a bypassare la complessità, a disintermediare, a schierarsi, a mettersi l’uno contro l’altro. Più precisamente, nel nostro paese, gravemente segnato dalla mancanza di un vero mercato dell’informazione e televisivo, di vera concorrenza e di incisivi meccanismi di tipo meritocratico, si è creata una classe di professionisti della radicalizzazione e della contrapposizione a prescindere, persino con tanto di agenzie di collocamento che si sono affiancate e ormai sovrapposte ai tradizionali uffici di sistemazione partitocratici. Gente che sulle contrapposizioni campa e di contrapposizioni ha bisogno, anche laddove non esistono, e se le inventa, le promuove, le stimola. I più intelligenti e furbi, sapendo ciò che fanno e cinicamente facendolo, anche occupando spazi che la politica, sempre più debole, ha abbandonato; i più, finendo col credere nelle contrapposizioni che loro stessi e i loro colleghi inventano, Così, recentemente, si è dato irresponsabilmente tutto lo spazio che sappiamo alle follie degli anti-Covid e adesso a chi si oppone cinicamente alla decisione dei paesi democratici, a cominciare dall’Italia, di fornire aiuti anche militari a un paese aggredito, invaso, bombardato, devastato, ridotto in macerie perché possa difendersi dalle truppe comandate un criminale”.
Anti-Covid e anti-Nato che spesso sono le stesse persone.
“Appunto, professionisti della contrapposizione. A prescindere. Quello che rilevi è la prova più evidente del fenomeno che ti indicavo. L’origine del fenomeno, però, è più antica del Covid e della infame aggressione putiniana all’Ucraina. Riguarda la natura di fondo del giornalismo italiano, che comporta la prevalenza della opinione sulle notizie. Indro Montanelli ha un posto nell’immaginario collettivo non per i suoi reportage ma per i suoi editoriali. La stessa Repubblica - che pure al suo esordio godette dell’apporto e del taglio (“i fatti separati dalle opinioni”) del settimanale Panorama, co-editore del nuovo quotidiano insieme al settimanale l’Espresso, di esplicita area politica liberal-socialista – fu poi ricondotta da Eugenio Scalfari a una versione – moderna nel format e nella grafica - del vecchio giornalismo italiano di opinione e di parte. Oggi, basta dare un’occhiata alle targhette dei giornali di appartenenza dei giornalisti che intervengono nei talkshow e alle rassegne-stampa (non in edicola, dove le presenze-truffa costano parecchio agli editori dopo l’eliminazione, pur non ancora completa, dei contributi all’editoria) per rilevare che la stragrande maggioranza dei giornali nazionali sono giornali di opinione o meglio di parte o meglio di partito preso o meglio di rappresentanza precostituita di interessi privati o di gruppo politico o di gruppo d’affari o di centri di malversazione”.
Ma Gruber, Santoro, Berlinguer e compagnia bella, te la contano giusta o no?
“Prima di parlare dei singoli protagonisti del teatrino mediatico, peraltro di livello e di tipologia differenziati, sono da rilevare le regole di funzionamento del teatrino, che impongono poi ai professionisti e agli esperti ruoli e comportamenti fissi (ruoli e comportamenti che ovviamente giornalisti e ospiti possono accettare o meno, e possono interpretare più o meno criticamente). Il giornalista, che per mestiere dovrebbe intervistare i protagonisti della cronaca o gli esperti dei diversi campi dello scibile, in questo teatrino perlopiù esprime opinioni o intervista un altro giornalista o appunto viene intervistato. Ma soprattutto non c’è mai dibattito che comporti ragionamenti, libere riflessioni e utili confronti. Tutto è prefissato dal partito preso: si sa che tale giornalista difende una tesi (sempre quella) e talaltro la tesi opposta (sempre quella)”.
Parliamo di Gruber, Santoro. Berlinguer, Travaglio…
“Lilli Gruber, sopravvalutata, regge la parte della professionista sino ad un certo punto. Improvvisamente sbarella e litiga con l’interlocutore, specie su questioni che mettano in discussione settori dell’establishment, ai quali in una qualche maniera è legata. A partela fissazione che ha per personaggi improbabili come Beppe Severgnini, suo opinionista quasi fisso dai tempi in cui dirigeva da miracolato il settimanale del Corriere, nel quale la Gruber è stata innalzata al ruolo di editorialista”.
Michele Santoro?
“Me lo ricordo, agli inizi, come inventore del genere giornalistico eretico-aggressivo, del quale in una qualche maniera sono figli Le Iene e gli inviati di Striscia la notizia. Poi ha fatto battaglie, spesso virtuose, ma molto personalizzate. Oggi lo vedo un po’ bollito. Non a caso lo si ritrova, come un Carlo Freccero qualsiasi, fra coloro che, per ragioni insondabili o ideologistiche o post-comunistiche e comunque cinicamente prive di empatia verso il popolo ucraino, sono contrari ad aiutarlo perché possa difendersi dal nazismo putiniano e tentare di salvaguardare il proprio paese e la propria dignità. Il tempo passato lontano dai teleschermi non lo ha aiutato evidentemente a riflettere su come proseguire il suo lavoro giornalistico, ma ne ha accentuato risentimenti e livore”.
Bianca Berlinguer?
“Suo padre è un politico, un personaggio e una figura che io ho amato e amo pur non essendo mai stato comunista (grazie probabilmente al fatto che lui, da segretario del Pci, si era spostato, oltre che sotto l’ombrello della Nato, su posizioni di socialismo democratico, radicale e umanitario, alle quali io ero fortunatamente e fortunosamente pervenuto sin da ragazzo e sulle quali sono rimasto tranquillamente fermo sino a questa mia veneranda età). Detto questo, mi dispiace rilevare che, dopo più di trent’anni di conduzione televisiva, Bianca Berlinguer abbia visibilmente conservato le incertezze e, debbo dire, l’inadeguatezza che evidentemente nessuno l’ha mai costretta ad affrontare e a superare. Solo questo spiega, per esempio, perché confonda l’ostinazione a portare in video uno psicopatico autocentrato per esercizio della libertà di espressione, e per legittima ricerca di audience il botta-e-risposta tuttologico, infiorettato di allusioni sessuali, con un compiaciuto macho di paese”.
Che mi dici, infine, del tuo amico Marco Travaglio?
“Purtroppo non è mio amico. Ho solo pubblicato per anni un mio blog su ilfattoquotidiano.it, sin dall’esordio in edicola della testata cartacea, quando non era ancora diretta da Travaglio. Ho chiuso polemicamente il blog per le infantili scorrettezze del direttore de ilfattoquotidiano.it, arrivato persino a rifiutarsi di pubblicare un pezzo (sul mio blog!) relativo ai trascorsi controversi di Indro Montanelli. Ho poi pubblicato, tra il 2010 e il 2017, una decina di pezzi sul giornale cartaceo. Poi più nulla. Per mia disaffezione”.
Che mi dici, allora, del tuo non-amico Marco Travaglio?
“Ne ho apprezzato il grande lavoro da lui svolto, in solitudine e con rigore, durante il ventennio berlusconiano. Scrissi subito, quando nacque Il Fatto Quotidiano, che non mi sembrava una gran bella idea di mettere in campo un ennesimo giornale nazionale di opinione che non avrebbe risolto alcuno dei molti problemi che aveva la stampa italiana. Pensavo poi che Travaglio sarebbe stato costretto a un impegno di scrittura quotidiano che ne avrebbe annullato la forza e la unicità di inchiestista, come infatti è avvenuto. Ma infine – quel che è peggio – è stato adottato e assimilato al teatrino mediatico. Agli inizi è riuscito a dire la sua ma poi, sempre di più, inevitabilmente, è stato schiacciato, come esige la legge di questi talkshow, su un ruolo prefissato, di parte o meglio di partito preso: quello che, a prescindere, attacca Draghi e, altrettanto a prescindere, difende Conte, anche contro Di Maio. L’ho visto lentamente scivolare, inarrestabilmente, verso questa deriva. Se fossi stato suo amico, lo avrei messo sull’avviso tempestivamente. Peccato”.
Non ci rimane nessuno?
“Devo dire che, fra tanti giornalisti-conduttori opinionisti e di parte, ce n’è uno che almeno continua a fare domande. E’ Giovanni Floris. Non dico che sia un grande conduttore e che riesca a non fare certi errori tipici dei nostri talkshow, come quello di costringere onesti e acclarati esperti a vedersela con cialtroni anti-Covid o mascalzoni pro-Putin. Ma, ripeto, è l’unico che almeno si ostina a interloquire con i suoi ospiti semplicemente facendo domande. Come dovrebbe fare appunto un giornalista-conduttore. Domande più o meno intelligenti o appuntite o imbarazzanti, ma domande e non comizietti”.