IERI/OGGI

MATERIALITÀ E STORIA
NELLE OPERE DI BEPPE LOPEZ

Beppe Lopez intervistato da Iosè Esposito (*)

La scelta del dialetto nei suoi romanzi è stata determinata dalla convinzione che il dialetto sia per definizione il linguaggio degli umili e degli emarginati e che, di conseguenza, la lingua nazionale appartiene ai ricchi e ai colti. Crede che tutto questo valga ancora per la società italiana di oggi, omologata anche linguisticamente dalla televisione e dai media, e che quindi il dialetto sia ancora segno di indigenza culturale?

Il dialetto non è per definizione il linguaggio degli umili e degli emarginati. Infatti - fino agli anni Settanta diffusamente e, in misura ridotta, tuttora - l’uso del dialetto è pratica comune da parte dei ceti colti, specie nei grandi agglomerati urbani per promiscuità edilizia,  urbanistica e quindi sociale, ma anche nei piccoli centri per accentuata informalità nei rapporti interpersonali.

Certo il dialetto diventa segnale di emarginazione quando, nei ceti e negli individui socialmente meno dotati, non è accompagnato alla conoscenza della lingua ufficiale e della cultura. A questo si aggiunga che, effettivamente, alcune lingue di comunità emarginate o periferiche rispetto allo sviluppo economico, «non integrate», sono significative e per qualche aspetto costitutive appunto della loro emarginazione e della loro perifericità.

Il dialetto nella sua accezione di lingua materna - che quindi presuppone l’acquisizione successiva di un altro linguaggio (la lingua ufficiale, della comunicazione formale) – è per definizione il linguaggio dell’emotività e della materialità: abbiamo imparato, fin dalla nostra prima fase della capacità di intendere e di volere, ad usare quelle parole dialettali che rimangono intrecciate inestricabilmente con i concetti, i bisogni e le emozioni che con esse volevamo esprimere. È evidente che la nostra emotività profonda si esprime naturalmente con quelle parole, così come la materialità, perché abbiamo imparato da subito ad esprimere bisogni primari: di alimentazione, di affetto, ecc..

Per quel che riguarda la situazione nella società omologata di oggi, mi chiedo da tempo cosa possa determinare nella testa e nell’animo dell’individuo l’essere nati «senza dialetto». Il processo di omologazione infatti, se da un canto, specie tra gli adulti e nel ceto più informato e colto, determina un maggiore bisogno di identità e, paradossalmente, produce un recupero nel proprio rapporto con il materiale dialettale, dall’altro propone un fenomeno nuovo ed inedito: siamo ormai alla seconda generazione di ragazzi che, privati dei tradizionali canali di socializzazione primaria (la strada, i giochi infantili collettivi, l’oratorio…) e nutriti anche linguisticamente in contesti familiari che una volta si sarebbero definiti «borghesi» e comunque segnati dall’omologazione linguistica formale e ufficiale, sono nati e cresciuti con la lingua della Tv. Questi ragazzi, questi italiani, specie nei grandi agglomerati urbani, non hanno avuto un rapporto vero e diretto rapporto con la pratica dialettale e con espressioni e parole dialettali: lo hanno avuto - attraverso la mediazione della Tv e del cinema - indiretto, episodico e perlopiù in termini caricaturali e a fini ridanciani.

Si può immaginare quindi, che queste persone pensino, si percepiscano e manifestino anche la propria emotività in una sola lingua, quella formale. Io non so cosa tutto ciò possa determinare in termini di migliore evoluzione psicologica e identitaria, oppure, al contrario, in scompensi e contraddizioni nella formazione della personalità, nella percezione del mondo esterno e nello stesso rapporto con le nozioni e il sapere. Mi pare che da questo punto di vista ci sia un ritardo da parte delle ricerche sociologiche e antropologiche, anche perché il fenomeno è abbastanza recente.

Comunque, se a livelli più bassi, gli emarginati della società, ormai quantitativamente modesti, l’indigenza produce ed è il prodotto della padronanza esclusiva del dialetto, l’uso di questo, paradossalmente caratterizza ambienti socialmente più evoluti e livelli alti dell’espressività linguistica.

Mi riferisco in particolare alla riscoperta e valorizzazione di testi letterari che - come mai prima d’ora, da quarant’anni a questa parte – ricorrono all’uso del materiale dialettale. E tale fenomeno non è riferito solo alle regioni il cui «dialetto» da tempo ha valenza letteraria o comunque centralità mediatica: il veneziano, il siciliano, il napoletano, il romano, il milanese...

Ricordo che, quando è uscito Capatosta, con il suo pugliese promosso a lingua letteraria nella più importante collana di narrativa nazionale (Mondadori), c'era un solo, illustre precedente contemporaneo, Andrea Camilleri. Si può forse dire che la Mondadori fosse interessata significativamente alla scoperta di un «nuovo Camilleri» (c'era un mercato!) e comunque è significativo che abbia pubblicato, per primo fra i grandi editori, un romanzo «in pugliese». Come è ancora più significativo che, dopo Capatosta, siano stati scritti e pubblicati (da editori importanti) altri romanzi «in pugliese», anche da uno scrittore lucano-pugliese già di successo come Raffaele Nigro, che prima però mai aveva fatto ricorso al «dialetto».

Concludendo, da questo punto di vista, rilevo che il processo di omologazione e, a maggior ragione, quello di globalizzazione paradossalmente comporta, direi che si nutre e nutre identità e linguaggi differenziati e quindi localmente caratterizzati. Questo del resto ritengo che valga anche per altro (l'economia, le lotte sociali, ecc.), a smentita delle previsioni più catastrofiche che da parte di alcuni si facevano su una «globalizzazione» quale terreno esclusivo dei potenti, dei padroni e dei più ricchi: la globalizzazione è tale, ovviamente, se globalizza tutto, altrimenti smentirebbe e contraddirebbe se stessa.

 

Nell’attuale società globalizzata e omologata è importante, secondo lei, insegnare ai ragazzi la «lingua» dei loro territori?  Non sarebbe un arretramento, rispetto all'esigenza che i giovani si impadroniscano invece, oltre che dell'italiano, della lingua «universale» rappresentata dall'inglese?

È un tema che mi è capitato di affrontare spesso nelle presentazioni di Capatosta, alle quali hanno partecipato docenti e intere scolaresche. Ho l’impressione che non bisogna insegnare ai ragazzi il dialetto come se fosse “una lingua”. Credo piuttosto che la scuola sia in ritardo e debba fare molto per arricchire la formazione con un forte insediamento nei contesti locali, per evitare le astrazioni e le «rimozioni» che tuttora la caratterizzano.

Il dialetto è per definizione una lingua parlata, «sentita» e fortemente legata ad esigenze naturali. La scuola la vedo come momento di concentrazione e comprensione della realtà nella sua totalità e che quindi non dovrebbe escludere, tra le altre cose, il dialetto.

Il dialetto, come la lingua colta e l’inglese, è un mezzo di comunicazione con proprie caratteristiche, specificità e limiti. Più strumenti di comunicazione si hanno e meglio è. Se c’è una cosa che non auspicherei per nessuno è la sola conoscenza del dialetto. Ma, scontando l’essenziale padronanza dell’italiano e la sempre più indispensabile conoscenza dell’inglese, se si aiuta un ragazzo a riappropriarsi dei propri materiali dialettali credo che si farebbe una cosa estremamente utile al suo equilibrio e alle sue risorse non solo culturali ma complessivamente psicologiche e umane.

 

«Cercare di viversi nella propria complessità e di vivere il mondo e gli altri nella loro ineludibile, insuperabile, irriducibile complessità». Come nasce la sua convinta adesione alla teoria della complessità?

All’inizio di tutto c’è la mia estraneità ad un regolare e normale corso di studi - con le sue peculiarità di metodo e disciplina, ma anche con i suoi limiti per la libera evoluzione del pensiero al di fuori di rigide categorie - pur accompagnato da una formidabile e inestinguibile voglia e capacità di leggere, di sapere e di capire.

Questo ha prodotto inevitabilmente in me una caratteristica di eclettismo che ha incoraggiato, se non determinato, la mia scelta professionale di fondo, quella giornalistica (e in particolare il giornalismo non specializzato, non generalista, che ha la sua massima espressione nelle mansioni direzionali). A sua volta tale pratica giornalistica, ormai quasi cinquantennale, ha evidentemente accentuato quella tendenza, quel bisogno e quell’approccio eclettico alla realtà.

Tutto questo poi svela e si lega, evidentemente - in un meccanismo continuo di causa ed effetto – ad un bisogno primario emotivo. Io credo che tutto nella formazione della personalità venga determinato da tale tipo di bisogni che afferiscono alla prima fase della nostra esistenza e che appartengono fortemente alla sfera affettiva. Senza addentrarci in questa analisi psicoanalitica, immagino che, nella prima fase della mia esistenza, abbia maturato un qualche bisogno profondo di autotutela: «controllare tutto», quindi «capire» tutto. Da qui all’eclettismo il passo è breve.

Col tempo ho imparato, come tutti quanti noi, a «dare un nome» ai miei bisogni primari. E, in particolare, incontrando da adulto,  la teoria della complessità di Edgar Morin, ho imparato a capire e ad accettare in pieno la mia tendenza ad aderire totalmente alla realtà e a sottrarmi alle «divisioni» (ideologiche, culturali, ecc.), ai «ruoli» e alle «specializzazioni» (professionali, operative, ecc.) su cui si reggono tradizionalmente la società e la cultura dominante.

 

Ecletticamente, dunque, lei è un giornalista militante, uno scrittore (di romanzi e di saggi storici), un intellettuale, si è occupato di televisione, ha diretto in passato anche una compagnia teatrale... Certamente in queste sue scelte professionali si può leggere il tentativo di mettere in atto la «pratica della complessità» e il tentativo di non lasciarsi ingabbiare in determinati ruoli. Ma in quale di queste professioni si riconosce di più?

Potrei rispondere che non mi riconosco in alcuna professione e in alcun ruolo: giornalista, romanziere, saggista, polemista, teatrante o altro. Del resto si può dire che tutto ciò che faccio possa iscriversi nella categoria complessiva della «comunicazione». Il linguaggio-base è senz’altro quello della parola e dell’immagine usate nelle loro declinazioni più varie, con il massimo di capacità tecniche possibile, di onestà intellettuale e di passione civile.

 

Per oltre quarant’anni lei si è occupato di giornalismo e di informazione. Ha già spiegato nei suoi libri il motivo per cui i giornali oggi non si leggono. Ma, secondo lei, cosa si può fare per avvicinare i nostri ragazzi alla lettura dei quotidiani, che peraltro appaiono già obsoleti e sorpassati rispetto a Internet?

I giornali cartacei mi sembrano oggi rapportarsi ad Internet un po’ come il dialetto (anch’esso «obsoleto e sorpassato») alla lingua formale.

Dobbiamo ricordare che democrazia, opinione pubblica e giornali nascono insieme, anzi i giornali forse nascono un po’ prima. Non è un mistero che oggi, nonostante l'enorme sviluppo dell’informazione su Internet, la «chiave di lettura» e l'«opinione» vengono ancora fornite dai giornali. C’è molta enfasi e qualche mistificazione di tipo populistico nell’esercizio e nell’esaltazione della «libera informazione» su Internet, che certamente e diventerà sempre più un formidabile strumento di partecipazione e di democrazia diffusa.

Ma proprio la caratteristica e la stessa definizione «mediatica» della civiltà che viviamo deve metterci in guardia sul piano generale dai pericoli tragici che può determinare la «democrazia diretta»: indubbiamente democratica e inequivocabile nell'agorà ristretta delle piccole comunità, ma certamente e massicciamente manipolabile e ribaltabile nel suo opposto in una società globale e omologata/omologabile come la nostra.

In effetti Internet si sta sviluppando e si svilupperà sempre di più, per quanto riguarda l’informazione, su due livelli: un magma indifferenziato ed enorme di notizie, di pseudo notizie e di non-notizie, e l’informazione vera e propria, un’informazione professionale, di qualità, capace di fissare la “gerarchia” delle notizie. Insomma, anche su Internet si riproporranno i problemi di sempre: la concentrazione o il pluralismo delle testate informative vere e proprie, la loro dipendenza o indipendenza dai centri di potere economico e politico, ecc.. Insomma, come sempre, dal Settecento ad oggi, sono fondamentali una professione (il giornalista) e un prodotto professionale (il giornale) capaci di informare, ricorrendo quindi alla «gerarchia» delle notizie, e come sempre è importante il livello di indipendenza e di onestà intellettuale di chi quella «gerarchia» quotidianamente indica.

Perciò, su carta o su video o su IPad, il «giornale» potrà e dovrà continuare a svolgere la sua funzione centrale nella formazione dell'opinione pubblica e di una corretta e reale democrazia.

Al di là dei tentativi in corso per avvicinare gli studenti alle letture dei giornali, con risultati inevitabilmente modesti, se non insignificanti, serve solo che i giornali (su qualunque supporto insistano) siano fatti effettivamente per informare, da editori veri e indipendenti e da giornalisti capaci e intellettualmente onesti.

 

Il suo impegno letterario è intimamente legato alla Puglia, sia per il contenuto dei libri sia per la lingua usata nei romanzi. Eppure lei vive da oltre trent'anni fuori dalla Puglia. Qual è oggi il suo rapporto con la nostra terra e con i fermenti che la stanno animando, anche nel settore letterario?

Io sono orgoglioso di essere barese, pugliese, romano, italiano, europeo e cittadino del mondo. Le mie radici affondano profondamente nella cultura e nell’umanità meridionale, mentre la mia testa pensa senza alcuno schema ideologico o anche solo territoriale. Quanto sia vivo in me il radicamento alla Puglia è chiaro dalle mie scelte letterarie, dai personaggi e temi descritti, e dalla lingua utilizzata. Ma del resto sono convinto che in ogni pezzo del mondo complesso c’è la complessità del mondo. Il mondo di Capatosta e i personaggi della Scordanza sono certamente baresi, pugliesi e italiani, ma le ragioni intime che li animano e le stesse vicende storiche cui si fa riferimento in quei libri non mi pare siano profondamente diverse da quelle che riguardano tutto il resto dell’umanità.

Sul piano squisitamente letterario ho amato profondamente i primi due libri di Raffaele Nigro e mi inorgoglisce molto la nascita nella nostra regione di un ceto di giovani intellettuali che, nell’ultimo decennio in particolare, hanno prodotto libri interessanti e spesso molto originali, fiction e cinema di successo, e musica che ha saputo intrecciare tradizione e modernità.

 

Capatosta e La scordanza, considerati insieme, sembrano descrivere compiutamente il passaggio percorso dal Sud e forse anche dall'Italia - fra il secondo dopoguerra e l'inizio del nuovo millennio - dall'«arcaicità» alla «modernità». Potrebbe esserci un terzo atto di questa storia? Può anticipare quale sarà il tema del suo prossimo romanzo e se vi saranno collegamenti con i primi due?

Rispetto all’arcaicità e alla modernità, l’ideale sarebbe una terza fase in cui si riesca a intrecciare e vivere un felice connubio: il radicamento territoriale e la condivisione del mondo globale. Purtroppo credo che il Sud non sia su questa strada, mentre dà qualche speranza (non solo a noi pugliesi) quanto sta avvenendo in Puglia sia sul piano culturale, sia su quello politico, sia su quello sociale ed economico. Io, per esempio, non condivido l’atteggiamento da «puzza sotto il naso» ostentato da certi intellettuali nei confronti delle ibridazioni e delle mescolanze tra vecchio e nuovo che hanno portato la pizzica salentina ad una visibilità e ad un successo globale. Certo, ci sono state esagerazioni e cadute, ma complessivamente l’idea che un fenomeno talmente antico e complesso possa riproporsi, pur inevitabilmente spogliato di spessore mitico e di incarnamento sociale, e proporre la bellezza antica del Salento all’attenzione generale, mi pare confortante e produttiva.

 

Per quel che riguarda il mio lavoro, posso dire che nel mio prossimo romanzo, privo di una definita ambientazione storica, avranno un ruolo centrale la lingua di Capatosta e la testimonianza di impegno civile documentata nella Scordanza.

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(*) Iosè Esposito, Tesi di Laurea in Letteratura Italiana,

"Materialità e storia nelle opere di Beppe Lopez", 29 giugno 2011