Massimo Pittau, eminente glottologo dell’Università di Sassari, in Credenze religiose degli antichi Sardi (Della Torre) in uno specchio etrusco che raffigura personaggi tra cui Atropo, Parca che recideva il filo della vita, con in mano un martello, vede riflessa la nostra accabadora e ritiene entrambi i popoli essere originari della Lidia.
HO VISTO AGIRE S'ACCABADORA
di Dolores Turchi
CESIRA FENU
La Sardegna, definita quasi un continente, a causa dell’isolamento che l’ha caratterizzata, ha dato vita alla Civiltà nuragica, unica e peculiare. Ma per la posizione al centro del Mediterraneo è stata anche punto d’incontro, lungo le coste, di popolazioni orientali con l’elemento autoctono. Queste condizioni hanno dato luogo, dal punto di vista culturale, a tendenze recessive che hanno permesso la conservazione di usi ancestrali e, con l’introduzione del Cristianesimo, a interessantissimi e importantissimi sincretismi magico – religiosi, vere sopravvivenze di cui ci è data testimonianza dai Sinodi, da sentenze inquisitoriali e, in epoca più vicina a noi, da viaggiatori e studiosi.Alberto La Marmora, in primis, diede dettagliatissima relazione nel suo Voyage en Sardaigne de 1819 à 1825 su cui si basano tutti gli studi successivi.
Il fenomeno sul quale voglio riferire, studiato con passione e competenza dalla professoressa Dolores Turchi, studiosa di Tradizioni popolari, riguarda l’eutanasia. Col termine Accabadora si indica una particolare persona che, con molta discrezione, veniva chiamata al capezzale di un morente la cui agonia sembrava non avesse fine. Accabadora deriva dal verbo accabare, a sua volta dal fenicio ed arabo hacab (por fine), ella praticava una forma di eutanasia. Perché donna? Certe donne conoscevano il potere delle erbe, di gesti apotropaici, realizzavano amuleti, e donne erano anche le persone che eseguivano i lamenti funebri, gli attitos in cerchio, sa roda, attorno al defunto. Antichissima origine il lamento, il canto rituale. Pratiche sincretistiche che segnavano il passaggio da uno stato o fase a un altro come Van Gennep ha illustrato ne I riti di passaggio (Bollati Boringhieri).
Dolores Turchi ha raccolto la prima testimonianza oculare di una persona novantenne sull’operato de s’Accabadora nel saggio Ho visto agire s’accabadora (Edizioni Iris) e al quale è allegato il dvd col filmato dell’intervista all’anziana testimone. Secondo la studiosa la lunga agonia aveva per causa peccati che il morente aveva compiuto in vita e che era necessario espiare per morire serenamente. Tra essi bruciare un giogo o aver spostato una pietra di confine. L’Autrice, raccolte molte testimonianze in varie località della Sardegna, si convinse che si trattava di tabu di cui si era dimenticato il significato originario. Bisognava allora mettere un giogo, su juale, in miniatura sotto il capo del morente o un ciottolo. S’Accabadora agiva come ultima ratio soffocando o colpendo il capo del moribondo o con su juale o con su mazzuccu, un martello di radice di olivastro. Un attimo e tutto era finito.
La convinzione generale era che si agisse per il bene del malato. L’usanza era diffusa in tutta l’Isola. Ma non solo. Turchi già nel saggio Lo sciamanesimo in Sardegna (Newton Compton), sostiene che tale uso era diffuso in Italia centro meridionale. Pitré riporta credenze analoghe in Sicilia nel saggio Usi e costumi, credenze e pregiudizi del popolo siciliano. Anche in Francia è attestata tale credenza. Mentre in Friuli, nelle regioni ladine, l’oggetto apotropaico è un pettine. Turchi fa riferimento al saggio della Gimbutas, Il linguaggio della dea (Longanesi) che segnala la presenza del pettine come amuleto in figurine stilizzate del Neolitico. Alla base di tutto vi sarebbe, secondo Turchi, un’antica religione dimenticata di cui restano sincretismi e sopravvivenze. Ella ipotizza che non si avesse paura della punizione nell’aldilà bensì la punizione concreta in questa vita da scontare con la lunga agonia per cui, come un’antica sacerdotessa, interveniva s’Accabadora.
Tra gli usi vi erano preghiere a Sant’Anna e Santa Marta affinché scongiurassero una lunga agonia tagliando il filo della vita e ricomponendolo. In questo caso le due Sante sarebbero una rielaborazione cristiana della Dea Madre e della Parca romana. Sant’Anna protegge le partorienti, la Parca reciderebbe il filo della vita. In una testimonianza raccolta a Busachi si fa riferimento al diavolo che s’Accabadora aveva pronunciato col nome antico, Micidissu. Deriverebbe da Ningirsu, divinità della città sumera di Lagash, massima divinità della città e figlio di Enlil supremo del Pantheon sumerico. Al culto di Ningirsu era dedicato uno ziqqurat, in tutto simile a quello, unicum nel bacino del Mediterraneo, di Monte d’Accoddi presso Porto Torres datato al 2500 a.C. Poiché s’Accabadora potesse agire con successo era necessario che tutto ciò che vi era di sacro nella stanza del morente fosse portato via perché si riteneva che legasse alla vita il malato. Ciò ci mostra che si agisce in un contesto pagano, altra prova dell’antichità del fenomeno e la possibilità che vi fossero rispecchiati elementi orfici.