So di correre un rischio esiziale legando una recensione per «Polis» a uno spunto di attualità. Lo faccio comunque perché sono convinto che il lavoro di Mancini e Hallin riesca a fare luce su alcuni aspetti decisivi e straordinariamente trascurati delle ultime vicende politiche italiane. Così come sono certo che un’osservazione attenta della continua trasformazione della politica nazionale riesca a mettere in chiaro alcuni nodi europei e forse occidentali del rapporto tra il sistema dei media e quello politico. Tutti concentrati sulla «sostanza» dei dibattiti e delle manovre attorno alla costituzione del partito o del raggruppamento unico dentro i due poli, pochi osservatori si sono accorti nella primavera del 2005 di un fatto tutt’altro che marginale e per molti aspetti sorprendente.
Il 22 maggio Eugenio Scalfari concludeva il suo fondo domenicale con una frase che vale tante altre pagine, più o meno simili, lette in quelle settimane su molti quotidiani italiani, anche di orientamento differente. Scalfari aveva come sfondo il voto catanese e l’affermarsi dei «cacicchi», ma teneva soprattutto come riferimento il «no» della Margherita di Francesco Rutelli alla presentazione di liste unitarie nell’arena proporzionale delle elezioni per la Camera dei deputati. Alla conclusione di un lungo argomentare, Scalfari così chiosava: «Queste sono le mie modeste domande di cittadino elettore (non so più per chi). Del cittadino elettore c’è qualcuno che si occupi? La sua rabbia e la sua frustrazione dopo questi deplorevoli accadimenti interessa a qualcuno? Dove l’eccezionalità, com’è chiaro, sta tutta in quel non so più per chi.» «Non so più per chi» esce dalla penna dell’unico giornalista che in Italia sia riuscito a costruire un’impresa editoriale di ampi profitti, fondandola non solo su un deciso orientamento a sinistra, ma soprattutto sull’abilità sua e del successore Ezio Mauro nel giocare i partiti (quelli giocabili, naturalmente) in chiave di una trasformazione complessiva della politica e del suo sistema.
«Non so più per chi» è una dichiarazione di resa. Non c’è più indicazione politica che possa venire da un giornale, se non nell’analisi impietosa dei fatti e nella rappresentanza degli umori (quando sono tali), delle idee (quando ci sono), delle ragioni (quando si individuano) dell’opinione pubblica. È il segno, evidente e tangibile, di un rapporto che è irrimediabilmente cambiato. Difficile, dopo un’uscita del genere, parlare ancora del «parallelismo politico» che contraddistinguerebbe, come una sorta di codice genetico, i media italiani nelle loro relazioni con i partiti e la politica.
Lo studio di Hallin e Mancini è fondamentale per comprendere i nodi di questo rapporto tanto in Italia, quanto nel mondo occidentale. È decisivo per almeno tre buone ragioni. Perché permette di leggere i contesti nazionali dentro una cornice internazionale, che spesso stempera le «peculiarità» dentro quadri che sono invece generali e generalizzabili. Perché consente di fare risalire proprio quelle specificità a radici storiche solitamente ignorate negli studi sui media. Perché offre chiavi di interpretazione che, tra l’altro, rendono anche giustizia al tema del rapporto tra stampa e televisione, solitamente negletto in un paese, come il nostro, dove risulta che ciò che sta fuori dallo schermo non conti sostanzialmente nulla, salvo per le scalate alla proprietà dei giornali.
Questo volume è il risultato dello sforzo di analisi dei sistemi dell’informazione in diciotto paesi, europei e nordamericani, nel tentativo di ricavarne una sintesi in tre modelli idealtipici, giustamente definiti «espedienti intellettuali» (ma si sa che gli espedienti, quando funzionano, possono diventare legittime chiavi interpretative, proprio come insegna Max Weber). I tre modelli rispondono alle caratteristiche di sviluppo nazionali delle istituzioni statali e politiche, alle abitudini e ai consumi culturali, all’evoluzione dell’economia di mercato, alla professionalizzazione del giornalismo, all’intervento dello stato nel sistema dei media. Grecia, Spagna e Portogallo stanno, con Italia e Francia, nel modello «pluralista polarizzato», o «mediterraneo», caratterizzato da una stampa d’élite, debole e molto parallela al sistema politico, da una grande diffusione dei media elettronici, da una scarsa professionalizzazione giornalistica e da un alto intervento dello stato nel settore. Un secondo gruppo, «democratico corporativo», è più nutrito; i suoi membri – i paesi scandinavi e la Svizzera, insieme a quelli dell’Europa centrale – condividono una buona diffusione della stampa, un sostanziale equilibrio tra questa e la televisione, un buon livello professionale giornalistico, un alto parallelismo tra media e politica e ancora un alto intervento dello stato nel sistema dei media.
Infine, il modello «liberale» o «nordatlantico», forse il più noto, capeggiato su sponde diverse da Stati Uniti e Gran Bretagna, si distingue per l’alta diffusione della stampa e un’amplissima diffusione della tv, ma anche per un basso livello di parallelismo politico, un alto livello di professionalità e un basso intervento dello stato. Caratteristica storica del modello mediterraneo è l’uso dei media per fare politica, proprio come nella situazione europea, dove però quello stesso uso risulta allargato alle rappresentanze degli interessi sociali, da sempre forti interlocutori del sistema politico; mentre nella realtà anglo-americana si sono sviluppate nei secoli caratteristiche commerciali che hanno spesso tenuto la politica a debita distanza dai media.
Dico molto francamente che, più del risultato (i tre modelli), è il metodo (la comparazione e i suoi strumenti) che mi pare interessante. Hallin e Mancini sono i primi a sottolineare con dovizia di particolari, e con notevoli riferimenti e ampio apparato scientifico, come i singoli casi nazionali si discostino dalla loro modellizzazione idealtipica. Apprezzabile sincerità, che non inficia per nulla il metodo, posto che questo tiene assieme gli approcci della sociologia del giornalismo con quelli della storia, quelli della politologia con quelli dell’analisi istituzionale ed economica: cioè la sola strada per restituire la vita pulsante (e le radici) della quotidianità del confronto tra media e politica nell’Occidente. Ancor più pare convincente la prova alla quale gli autori sottopongono il modello, mettendolo a confronto con le teorie del mutamento, prima di tutte quelle che fanno riferimento al concetto di differenziazione.
L’evoluzione, la moltiplicazione e la differenziazione funzionale dei sottosistemi sociali sono da tempo chiave decisiva per interpretare l’evoluzione dei sistemi sociali, economici e culturali. Applicata al terreno dei media, in una prospettiva internazionale, questa chiave non solo rende giustizia delle già citate incomprensioni circa il rapporto tra stampa e televisione, ma (con alcune buone pagine sulla «competenza critica» del giornalismo) riesce a dare corpo e sostanza al nuovo ruolo del giornalismo, troppo spesso visto soltanto come protagonismo o sensazionalismo, di qua e di là dell’oceano. Forse (ma è questo davvero il pelo nell’uovo) un’attenzione più marcata ai nuovi strumenti del web e alla loro «glocalità» avrebbe dato ancora maggior efficacia alla prospettiva. Torniamo al nostro caso italiano e chiudiamo. Perché è chiaro che con gli strumenti di Hallin e Mancini lo scoramento, o la rabbia primaverile, di Scalfari trova una risposta scientifica. Oggi in Italia il sistema politico è messo di fronte ad esigenze nuove della pubblica opinione. La richiesta di unità e di semplificazione, certamente non contraddetta da alcune rilevanti eccezioni elettorali locali, incontra una difficoltà sostanziale di culture e di identità politiche negli apparati di partito. I partiti chiamano iscritti e delegati al voto nelle loro sedi direttive o congressuali, ed è l’unico esercizio di democrazia politica concesso al di fuori del voto popolare. Ma le opinioni pubbliche non si rassegnano e, girotondi e movimenti a parte, trovano la sola loro possibilità di espressione nei media, e nei giornali prima di tutto. Questi giustamente interpretano il loro ruolo e la loro funzione.
Altrettanto giustamente Hallin e Mancini offrono i mezzi per porre le domande da rivolgere oggi ai media: con quali strumenti, quale legittimità, quale attendibilità vengono interpretati quei ruoli e quella funzione? E poi ancora: con quale ascolto, quale impatto, quale incidenza sul sistema politico? Queste sono oggi le domande, non più (ed era ora) da quale parte si schieri il «Corriere» o in quale quota debba essere ascritto il direttore del Tg1.
di Angelo Agostini
Libera università di lingue e comunicazione (Iulm), Milano
www.cattaneo.org
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MODELLI DI GIORNALISMO
Mass media e politica nelle democrazie occidentali,
di Daniel C. Hallin e Paolo Mancini,
Comparing Media Systems: Three Models of Media and Politics, Cambridge,
Cambridge University Press,
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