Il Novecento è stato il secolo dei media, il secolo delle tante rivoluzioni nelle forme della comunicazione. Basta pensare al ritmo frenetico delle innovazioni tecnologiche, all'invenzione del cinema, del telegrafo, della radio, della televisione per arrivare all'informatica, a internet, ai lettori portatili, all'i-pod. Ma non bisogna cadere nel determinismo, la comunicazione non è solo un effetto della tecnologia. I media hanno segnato cambiamenti epistemologici, modi diversi di percepire e rappresentare il mondo, persino variazioni antropologiche di come gli esseri umani si collegano tra loro. Un'ampia ricostruzione di questa storia complessa si trova ne Il secolo dei media. Riti, abitudini, mitologie (il Saggiatore, pp. 336, euro 19), il nuovo lavoro di Peppino Ortoleva, già autore di Mediastoria , docente di storia dei mezzi di comunicazione a Torino, nonché fondatore e presidente di mediasfera, una società di ricerca e progettazione sulla comunicazione. Quella dei media nel '900 è uno sviluppo a spirale da cui si irradiano excursus imprevedibili, fenomeni di portata gigantesca, eppure talmente radicati nella routine quotidiana da non attirare l'attenzione, da risultare banali, ovvi e scontati. Ad esempio, la caduta di tabù secolari come quello sulla pornografia oppure l'ingresso massiccio dello sport nell'informazione e il radicamento del tifo calcistico nella vita quotidiana di milioni di persone. Parliamo di fenomeni che, attraverso i media, hanno plasmato le identità personali e collettive.
Non c'è troppa enfasi nel definire i media la rivoluzione del '900? La comunicazione ha addirittura ispirato utopie sociali. C'è chi ha visto nei media la possibilità dell'emancipazione del genere umano dal lavoro materiale e dal bisogno. Un ottimismo ingenuo?
Ci sono state profezie banali come il telelavoro. L'informatizzazione avrebbe risolto il problema dell'inquinamento e dei trasporti... queste sono idee utopistiche della comunicazione. Non so se sia improprio parlare dei media come di una rivoluzione. Certo è che nel '900 ci sono state varie rivoluzioni in cui la comunicazione è cambiata in maniera profonda. Il cinema è stato un'invenzione rivoluzionaria nel senso che ha cambiato il nostro modo di percepire il mondo, ha cambiato le abitudini culturali di milioni di persone, ha creato un'arte dal nulla. Anche l'informatica è una rivoluzione. Comunque la si voglia vedere ha creato macchine che dialogano con noi in tutti i momenti della nostra vita. Ma ci sono state anche delle rivoluzioni invisibili legate ai media sulle quali si è ragionato troppo poco.
Sta dicendo che la rivoluzione dei media si misura più da quel che non si vede, cioè dalla routine e dalle abitudini?
Nel libro mi soffermo molto sulla caduta di alcuni tabù che sono durati millenni, per esempio quelli relativi alla pornografia. Di colpo negli anni Sessanta una visione del corpo umano che era obbligatoria e rigidissima è stata sostituita da un'altra, molto più banalizzata e mercificata. Ma non mi interessa dire se abbiamo perso qualcosa o guadagnato. Il fatto è che c'è stata una rivoluzione che è stata largamente taciuta oppure è stata oggetto di giudizi morali e frettolosi. Non è stata capita. A questo mi riferisco quando parlo di più rivoluzioni dei media. Ci sono stati fenomeni di grande portata relativamente invisibili che hanno cambiato la nostra percezione del mondo e che non nascono dalla tecnologia bensì dalla comunicazione come fenomeno complessivo, fatto anche di abitudini e regole. Il Novecento è stato attraversato da una domanda inesauribile di comunicazione. A ogni nuovo medium che sembrava rispondere a una serie di bisogni se ne sono aggiunti altri. Prima il telegrafo, poi il telefono, poi il fax, gli sms, la posta elettronica, ma nessuno ha ucciso quelli precedenti. Come se ci fosse una domanda quasi isterica di comunicazione che è caratteristica della società contemporanea.
Il giornalismo pensa che l'informazione coincida con la "notizia", che questa sia un modo "naturale" di organizzare gli eventi. Quanto di ideologico c'è nel ritenere la "notizia" come la forma scontata del mondo?
E' uno dei temi su cui mi sono più interrogato in questo libro. Quanto sono "naturali" le forme della comunicazione che ci sembrano più ovvie e scontate? Quello della notizia è un esempio eccellente. La nostra percezione del mondo negli ultimi due secoli si è retta sulla convinzione che ogni giorno il giornale - sintesi di una giornata del mondo, per dirla con Marinetti - ci diceva quello che d'importante dovevamo sapere. Il giornale era un mosaico di informazioni. Perché sentivamo questo bisogno? La risposta l'ha data il vecchio Hegel in una battuta del 1813. «Leggere i giornali all'inizio della giornata è una sorta di laica preghiera del mattino» dell'uomo moderno. Prima ci si collegava con Dio, ora ci si collega con il mondo. La funzione in entrambi i casi è la stessa: orientarsi per sapere cosa fare e dove si sta. Questa sostituzione del mondo a Dio come l'oggetto verso cui orientarsi è quello ha tenuto in piedi il giornalismo di notizie per questi due secoli.
Cosa è cambiato oggi?
Le persone computer oriented che sono una minoranza, ma in via di crescita, si collegano alla posta elettronica prima ancora di sentire le notizie o guardare il telegiornale. Non sentono tanto il bisogno di sapere cosa è successo di importante in politica o nel mondo, ma di collegarsi a una rete fatta di migliaia di persone, magari mai conosciute in viso. Questa è la preghiera mattutina dell'umanità contemporanea. Non ci orientiamo più verso il mondo o Dio.
La rete è un modo di isolarsi dal mondo?
Per un verso sì, ma per l'altro dobbiamo dire che anche il giornalismo di notizie ha dato il peggio di sé negli ultimi vent'anni. Sempre di meno quel che leggiamo nelle notizie, indipendentemente dalla buona volontà dei giornalisti, riflette realmente quel che accade nel mondo e sempre di più è condizionato da alcuni soggetti, i cosiddetti spin doctor il cui mestiere è letteralmente far comparire nei notiziari al momento giusto i loro protetti o i loro clienti in modo da colpire l'opinione pubblica. Anche il terrorismo internazionale si è impossessato alla grande del meccanismo della notizia che è ciò che detta l'agenda al mondo. Io non sono per abolire il giornalismo di notizie. Sono per una maggiore apertura dell'idea di informazione che comprenda la notizia, i sistemi di relazione tra le persone e la comprensione dei processi di lungo periodo che ci stanno accompagnando e stanno cambiando la nostra vita.
Il problema delle redazioni è come organizzare e segmentare gli eventi in notizie. E questo porta a una contrazione dei tempi di scrittura e di fruizione dei giornali a detrimento della conoscenza. Sarà per questo, come lei scrive, che il modello-notizia è in crisi?
E' un tema fondamentale. Uno dei processi legati alla moltiplicazione della comunicazione, è il fatto che il tempo è sempre più spezzettato. Siamo raggiunti da fonti d'informazione differenti ognuno dei quali tenta di attirare la nostra attenzione. Abbiamo una disponibilità sempre minore a un'informazione di respiro. Non mi riferisco all'approfondimento che di per sé è un genere giornalistico, ma all'argomentazione articolata. Come ha dimostrato la vicenda Eluana è difficile fare sui giornali un ragionamento un po' complesso che non sia "viva" o "abbasso". Chiunque provi ad argomentare le proprie posizioni si ritrova non solo aggredito dagli altri che gli urlano in testa, ma rischia di far svanire l'attenzione del pubblico. I tempi dell'informazione si sono ridotti. Il giornalismo dello spin doctoring si fa con la battuta di trenta secondi che non dice niente dal punto di vista dell'argomentazione e riesce però ad attirare l'attenzione. E' poco più di uno slogan pubblicitario che abbassa il livello della discussione. Alcuni politici sono specialisti in queste semplificazioni.
Questo tipo di informazione non produce effetti epistemologici nel nostro modo di percepire la realtà?
Assolutamente sì. I processi di trasferimento di informazioni da un soggetto all'altro vanno studiati e, per quanto possibile, tenuti sotto controllo per mezzo di regole. La tesi che nel libro critico è che gli effetti dell'informazione sul pubblico siano riducibili a un mero effetto di propaganda, come sostiene Chomsky con un certo estremismo.
Questo vale anche per il berlusconismo. Non è solo la sua propaganda a fare egemonia. E' l'organizzazione del discorso televisivo a cambiare la logica del pensare corrente. Possiamo dirla così?
E' evidente. L'influenza del berlusconismo sull'opinione pubblica italiana sta solo in parte nel bombardamento di ideologia liberista. Secondo me sta soprattutto nel sistema di valori associato alla pubblicità commerciale, all'idea di un paese dipinto come un paradiso a partire dagli anni '80 - a differenza dell'Italia cupa del passato. Il berlusconismo ha sì propagandato queste rappresentazioni, ma al tempo stesso le ha trovate e sfruttate. Buona parte del potere dei media sta nel fatto stesso di definire chi conta e chi non conta. Silvio Berlusconi, essendo padrone d'una parte del sistema televisivo, era un candidato naturale al potere prima ancora di scendere in politica. I media danno un diritto automatico al potere per il fatto stesso di dare visibilità ad alcune persone al di là di ciò che queste dicono e al di là della loro ideologia. Le poltrone di Vespa sono piccoli troni. Chi ci sta seduto ha diritto a una quota di potere. I media hanno un effetto politico al di là della propaganda, cioè definiscono agli occhi del pubblico che cos'è il potere e chi lo detiene.
TONINO BUCCI
da Liberazione, 13 febbraio 2009
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IL SECOLO DEI MEDIA
Riti, abitudini, mitologie
di Peppino Ortoleva
Il Saggiatore, pp. 336, euro 19