In forma di rappresentazione teatrale, nel (lontano) febbraio del ’77, "Moresca" anticipò simbolicamente l’imminente spartiacque della storia nazionale: l’assassinio di Moro. Con il supporto di articoli e discorsi dello statista, di saggi ed editoriali sul moroteismo, Beppe Lopez ricavò una storia di Tiranni e Schiavi - di cui ha lungamente trattato nel suo ultimo romanzo "La scordanza" (Marsilio) - che, fuor di metafora, evocava i rapporti della Dc con i due grandi Partiti della sinistra. Le nodali questioni politiche messe in enfasi nel testo - trasformismo, egemonia, rapporto fra teoria e prassi, ecc. – a distanza di tanti anni, appaiono ancora centrali per la comprensione degli strutturali malanni della democrazia italiana.
INTRODUZIONE
al volume
In forma di canovaccio per una rappresentazione “da commedia dell’arte”, quindi semplificata quando non ingenua, questa è innanzitutto la fotografia di una personalità complessa e centrale nella storia politica d’Italia della seconda metà del secolo scorso: Aldo Moro, protagonista indiscusso e diretto sino al 1978, quando fu ucciso – un assassinio politico, commissionato e realizzato per interrompere brutalmente, dall’alto, dall’esterno, dall’estero, una politica e una fase della storia italiana apertasi alla fine degli anni Sessanta, su pressione dal basso, dall’interno – e protagonista discusso e indiretto, da allora, da morto.
È anche la ricostruzione di un momento cruciale della vita nazionale, quando la Dc egemonizzata da Moro cercava di coinvolgere nella maggioranza di governo il Pci di Berlinguer (e poi ci riuscì, anche se a costo della vita di quel leader e, lui assente, per brevissimo tempo), dopo aver dissolto l’iniziale spinta riformista del primo centro-sinistra e logorato il rapporto con il Psi.
È anche, naturalmente, un ragionamento sulla “politica”. Proprio su quella, oggi, quasi unanimemente condannata, criticata, rifiutata, negata, rimossa… Quella che si praticava nella “Prima Repubblica”, come dicono i protagonisti della sedicente “Seconda Repubblica”. E sulla politica così come storicamente gestita in particolare dai maggiorenti della Dc, del Psi e del Pci.
Un documento quindi datato? Inservibile? Non è ovviamente questa l’opinione di chi scrive. Di chi elaborò questo canovaccio, rimasto inedito, nel 1976. Di chi mise in scena questa storia nel febbraio 1977. Di chi faceva ammazzare Aldo Moro in scena, esattamente tredici mesi prima di quel 16 marzo 1978, in cui il leader dc venne rapito per essere poi realmente ucciso.
A prescindere dagli stessi livelli di manipolazione e strumentalizzazione ai quali era effettivamente giunta, a quei tempi la politica – comunque incomparabili col degrado che si registrò, dopo l’assassinio di Moro, la sconfitta della sua politica e l’interruzione brutale di quei processi sociopolitici, nell’Italia allegra, bella e moderna degli anni segnati dall’abolizione delle ideologie e da Tangentopoli – si deve dire che appare oggi perlomeno illusoria e comunque già oggettivamente fallita l’idea di una rappresentanza della società e di una amministrazione della cosa pubblica fondate sull’abolizione delle ideologie e, con esse, della politica concepita come azione pubblica e cultura istituzionale ispirate alla progressiva costruzione di una società sempre più democratica, libera e giusta.
In questo senso, la lezione morotea appare di estremo interesse, di grande attualità e utile, anche al di là del giudizio storico e morale che ciascuno di noi può esprimere sui comportamenti, le scelte e la influenza che Moro esercitò sulla Dc, sulla sinistra e su tutta la politica italiana.
Certo, a quei tempi (come succede sempre nei momenti di crisi e di svolta) di politica ce n’era forse troppa. E ce n’è troppa, conseguentemente, in questo testo. Ma si deve dire che oggi di politica ce n’è troppo poca. Poca nei partiti (si può ancora parlare di partiti?), poca nei cosiddetti “movimenti”, poca in Parlamento, poca sui giornali, essendo stata sostituita da pragmatismo, omologazione, logiche mediatiche, tatticismo e cinismo. E non può certamente fare male a nessuno, oggi, ricordarsene un po’ della politica.
Del resto mentre scriviamo, a quasi trent’anni da quelle vicende, non parliamo ancora di centro-sinistra? E non vediamo in atto una diaspora di ex-dc e post-dc, peraltro preannunciata da Moro nelle sue lettere “dalla prigione delle Br” e comunque allora iniziata e tutt’altro che ricomposta o definita nei suoi sviluppi ed esiti? Del resto, non passa giorno senza che qualcuno riproponga la storica “questione comunista” o “post-comunista” che dir si voglia, anche e soprattutto adesso che da quel fronte viene espresso (finalmente e pienamente legittimato?) il gruppo di governo egemone a sinistra o comunque 2a vocazione maggioritaria”.
Non basta. La verità è che non si è ancora chiuso il periodo della politica e della storia nazionale ferocemente avviato con l’assassinio di Moro e con la riduzione del Psi a forza anti-comunista (erano queste le due condizioni essenziali che doveva realizzare e realizzò fra il 1978 e il 1980 – due anni che costituiscono uno spartiacque nella storia nazionale del dopoguerra – chi, a livello nazionale e internazionale, guardava come ad un pericolo mortale sia la piena legittimazione governativa di tutta la sinistra, compreso il Pci, sia l’allontanamento della Dc di Moro dall’egemonia degli Usa, sia il distacco del Pci di Berlinguer e degli “euro-comunisti” dalla sfera della supremazia sovietica). Fu allora che la classe politica, con l’aiuto dei gruppi di interesse strategico nazionali e internazionali, pose fra se stessa e i cittadini, fra gli sviluppi delle politiche e le istanze sociali un diaframma tuttora in piedi, determinando uno stato di precarietà istituzionale che la caduta del Muro di Berlino e il terremoto delle inchieste su Tangentopoli hanno solo accentuato e messo definitivamente a nudo.
Nel bene e nel male, è dai tempi di ‘”Moresca” che non abbiamo una vera classe politica, gruppi politici stabili e individuabili nelle loro capacità, caratteristiche e responsabilità.
In questo senso, si ha l’impressione che con i temi drammaticamente posti allora – per la verità, in termini così caotici da meritare e consentire un canovaccio di tipo teatrale - la storia politica italiana deve ancora fare i conti. Prima le ambiguità morotee, poi il suo assassinio, quindi gli anni della corruzione politica sistematica, infine la caduta del comunismo internazionale e la fine della “Prima Repubblica” (che più correttamente andrebbe forse collocata proprio nel triennio dello spartiacque 1978-1980) e oggi la tormentata ricerca di nuovi protagonisti e nuovi modi di essere e di riorganizzazione del sistema politico: tutto questo sembra aver solo congelato e consentito che si rinviassero quei temi. Temi oggi prepotentemente riproposti dalle contorsioni, dalle inadeguatezze e dalla persistente precarietà del quadro istituzionale, politico e “partitico”.
È inutile chiedersi a questo punto come mai, all’elaboratore di quel canovaccio, venne in mente di far ammazzare Il Tiranno-Moro, peraltro esattamente nella fase e per la ragione per cui fu effettivamente poi ucciso (quando stava per imbarcare il Secondo Schiavo-Pci al governo) e materialmente dal Primo Schiavo-Psi.
Basti dire che tutto ciò che i personaggi di “Moresca” dicono non è frutto della fantasia dell’autore, che si è solo limitato a sforbiciare i discorsi di Moro e gli articoli e i saggi scritti su Moro, incastrandoli in una vicenda, anzi vedendoli quasi automaticamente incastrarsi in una vicenda peraltro simbolica.
La vicenda raccontata in questo canovaccio si conclude quando non si sa ancora se Moro sarebbe riuscito a portare il Pci nell’area di governo, se Moro fosse in realtà il traditore dei moderati o il loro cavallo di Troia nella sinistra, se avesse in mente un disegno o se il suo disegno fosse solo quello di assecondare, volente o nolente, l’evoluzione dei tempi e della società…
Quello che in effetti successe, prima che lo ammazzassero, era la stessa cosa che era successa ai tempi del coinvolgimento del Psi: Moro, con il linguaggio politico dell’ambiguità e ad un ritmo segnato da apparenti lentezze e passi all’indietro, stava sul serio portando il Pci al governo – sulla spinta delle richieste e aspettative sociali, dei movimenti e dello stesso Psi pre-craxiano – nonostante una Dc intimamente anti-comunista, nonostante lo scandalo suscitato in Italia da quell’evento e nonostante le opposizioni internazionali.
Allora, Moro assecondava sul serio l’evoluzione delle cose? Riteneva essere questo il suo dovere di cattolico impegnato in politica?
Forse era convinto che questo fosse, più semplicemente, il ruolo della politica: rappresentare e comunque accogliere (trasformisticamente? Anche trasformisticamente) ciò che si agita nel sociale e che chiede la società.
In questo forse consiste l’attualità della sua lezione, della sua testimonianza, della sua stessa carriera politica e persino del suo assassinio: Moro si proponeva e proponeva l’antica, eterna questione della egemonia. Una questione che non a caso rifà capolino pur a fatica nel caos del dibattito politico, mentre il Paese e l’intera umanità – disorientati e delusi dalle soluzioni fatte passare negli ultimi tempi come praticabili (e ottimali) attraverso logiche di potenza, di tecno efficienza e di semplificazione – sono alla ricerca di nuovi valori e nuovi assetti rappresentativi e istituzionali.
B.L.
(novembre 2007)
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MORESCA
Lezione di politica in forma di canovaccio teatrale
di Beppe Lopez
Oèdipus, pp. 73, euro 8