Gli uomini di mondo sanno che la prima cosa da fare, appena entrati in un ristorante, è chiedere della toilette. E’ qui, al di là di ogni apparenza o possibile imbellettamento, che si può avere un’idea, abbastanza vicina alla realtà, di cosa succede nella cucina del locale e in sostanza della qualità e della cura con cui vi si prepara quello che ci toccherà di mangiare.
Per fare un altro esempio, meno grossier, è vedendo ciò che succede concretamente in un ospedale pubblico che si può desumere lo stato di salute del rapporto reale, in un determinato Paese, fra lo Stato e il cittadino.
Analogamente, per capire più in generale il livello di democrazia esistente di fatto in una società, non c’è miglior indicatore dell’informazione. Più precisamente, dei giornali: della loro materiale, quantitativa diffusione fra le persone e sul territorio (copie vendute, indici di lettura, ecc.); del loro tasso di pluralismo proprietario, e della loro differenziazione tipologica (giornali nazionali e giornali locali, giornali “di qualità” e giornali popolari, giornali generalisti e giornali specializzati, giornali a pagamento e free-press) e di orientamenti politico-culturali; dell’aderenza della “offerta” giornalistica quotidiana al complesso delle domande, delle culture, delle sensibilità e degli interessi dei lettori/cittadini.
Certo, contano – eccome! – la qualità tecnico-professionale dei giornali, la loro capacità di rappresentazione della vita sociale e soprattutto il loro livello di indipendenza dal potere politico e finanziario. Sono esattamente queste le tre caratteristiche che connotano fondamentalmente una stampa che svolge il ruolo insostituibile che essa ha assunto storicamente nell’evoluzione civile e democratica dell’umanità.
Ma esse sono intimamente connesse e in buona misura dipendenti e svelatrici di altri elementi, di carattere strutturale.
Insomma, se in un dato paese ci sono molti giornali, molta diffusione, molte proprietà, molta concorrenza e molto mercato (mercato vero: senza privilegi monopolistici, abuso di posizioni dominanti, normative manipolatrici, protezioni e aiutini politici, magagne affaristiche e agevolate pratiche di autoconservazione corporativa), puoi star certo che in quel sistema informativo troverai molti buoni giornalisti, prodotti editoriali ben fatti, giornali in cui si riflette effettivamente la vita sociale e intellettuali con la schiena dritta. Così, al contrario, in un paese dove vi siano pochi giornali e tutti o quasi dipendenti dal potere politico e finanziario, si legga poco, le proprietà siano concentrate, non esista grande concorrenza e vero mercato - e quindi ogni speranza di informazione indipendente e di qualità sia affidata al fattore individuale, a defatiganti e nobili iniziative perlopiù marginali e a poche, eroiche “schiene dritte”, disposte al sacrificio di sé, delle proprie capacità e anche della propria serenità esistenziale - puoi star certo che gli esempi anche solo di onesto e buon giornalismo saranno assai rari.
Indubbiamente, un’idea del paese in cui ci si trova o che si vuole capire ce la si potrebbe fare – riferendosi all’informazione - anche guardando e rilevando il livello, la tipologia, i contenuti e la qualità della produzione e del consumo televisivi.
Anzi non passa giorno, specie in Italia, senza che qualcuno ribadisca lo storico concetto che “questa televisione rappresenta il Paese” e che, in particolare, “la Rai rappresenta il Paese”, con intenzioni quasi sempre negative e con spirito fra il disfattista e lo sconsolato. In effetti, se ci si fa caso, a formulare questo concetto è quasi sempre, con intenti sostanzialmente autoassolutorii, uno dei miracolati protagonisti dell’immodezzaio televisivo, un politico più o meno coinvolto nel teatrino mediatico, un giornalista più o meno consapevole di appartenere alla casta del potere, o anche solo un telespettatore abituale e rassegnato consumatore di trash. Alla riuscita divulgazione dello stesso concetto, la cui validità in effetti è data praticamente per scontata, partecipano naturalmente - per sincera fede liberista o per interesse personale o per mandato remunerato - anche gli antagonisti dell’istituzione “servizio pubblico televisivo”.
In realtà, la televisione italiana al più rappresenta se stessa (vale a dire il complesso di interessi, culture e sensibilità di chi la fa, ci guadagna, ci lucra) e la Casta, anzi le diverse caste di potenti e di privilegiati.
La stessa prevalenza del fattore pubblicitario nel sistema televisivo – analoga a quella che si registra, in ogni parte nel mondo, nei mercati editoriali e informativi maturi – in Italia si produce in maniera anomala e produce fenomeni anomali. Si è passati dal monopolio statale al duopolio industriale Rai-Mediaset e ad un sostanziale monopolio politico e culturale (spesso, sub-culturale) dettato prevalentemente, appunto, da ragioni di raccolta pubblicitaria. La stessa Rai, pesantemente e notoriamente condizionata dal controllo politico-istituzionale (oltre che naturalmente dalla qualità e dalla tipologia che connotano storicamente in Italia questo controllo e, più ampiamente, lo stesso assetto politico-istituzionale), è “ormai quasi come una Tv commerciale”. Così, infatti, sempre più spesso ci si lamenta, sino a consentire la coniazione del termine “Raiset” in riferimento alla omologazione dei contenuti e della (bassa) qualità dei programmi del servizio pubblico e del suo principale, sostanzialmente unico competitor per quello che riguarda la seguitissima Tv generalista (è ancora presto per capire quello che sarà, a regime consolidato, il nuovo sistema televisivo analogico, digitale e satellitare). In realtà, la Rai è quella che è soprattutto per la “legge dell’Auditel”. Più ancora dei deprecati interventi politici e sottogovernativi, sono infatti i dati degli ascolti, quotidianamente e minuziosamente rilevati da questa società a fini pubblicitari (e con metodi peraltro controversi e documentatamente esposti a manipolazioni), a dettare i palinsesti, la valorizzazione di un genere anziché di un altro, il successo o la cancellazione di una trasmissione, la promozione o l’oscuramento dei conduttori, delle “facce” e degli “ospiti”, e sempre di più persino dei registri comunicativi, degli “stili”, dei temi, addirittura delle notizie…
Si è determinata così un’attenuazione progressiva, ai limiti di una sostanziale cancellazione, delle differenziazioni politico-culturali, tecnico-professionali e anche solo di genere fra emittenti, reti, testate e tipi di trasmissione, con una pressoché integrale interscambiabilità di format e persino di personale e di personaggi. Una vera marmellata. Tutto pressoché annullato: conflitto sociale, confronto fra diverse visioni del mondo, rispetto dei distinti ruoli e livelli istituzionali, scontro di opinioni, concorrenza aziendale, distinzioni artistiche, differenze di prodotti e di ruoli sul mercato. Salvo pochi casi sempre più isolati, domina un tipo unico di approccio alla realtà, una sola comunicazione e un solo ceto comunicante: autoreferenziale, animato da insaziabili appetiti di autoconservazione e di privilegi, nettamente separato dalla realtà.
Altro che televisione che “rappresenta il Paese”!
C’è poi chi periodicamente, come per il libro stampato, dà addirittura per prossima alla scomparsa e comunque per obsoleta l’informazione stampata e in particolare i quotidiani. Il futuro della comunicazione appare infatti tutto proiettato sulle straordinarie applicazioni e opportunità tecnologiche offerte dalle differenti piattaforme televisive (analogico, digitale, terrestre, satellitare…), da Internet, dalla telefonia mobile e dai loro strepitosi intrecci sinergici.
Eppure, se si vuol fare un discorso riferito alla realtà e non ad un possibile futuro, i quotidiani rappresentano in ogni parte del mondo, anche in paesi dove esiste un mercato dell’informazione molto più evoluto e maturo di quello italiano, la base del sistema informativo: dai giornali locali americani all’Ouest-France (quotidiano leader per diffusione oltralpe con 800 mila copie), dagli autorevoli Times, New York Times e Le Monde alla Stampa di Torino, dal Messaggero di Roma al Mattino di Napoli, e naturalmente dal Corriere della Sera alla Repubblica, per non parlare di giornali di opinione come l’Unità, il Manifesto, Il Giornale e Libero, e fogli a diffusione ristretta ma influenti sul ceto politico come Il Foglio e il Riformista.
Sono essi, tuttora, a influenzare l’intero sistema della comunicazione, raccontando e ispirando (spesso oltre il dovuto, e in qualche caso oltre il lecito) la vita sociale, la politica e l’economia.
Lo stesso futuro, al di là di visioni palingenetiche in più casi peraltro smentite dai fatti, non sembra realisticamente annunciare, tanto meno in tempi ragionevolmente prefigurabili, l’irreversibilità della morte del giornale stampato. In Italia, poi, è storicamente tale la scarsa diffusione dei quotidiani che non si può escludere - come è già avvenuto negli anni Settanta, Ottanta e Novanta del secolo scorso con il boom della Tv commerciale - l’incentivazione da parte dei new media del bisogno di lettura e di approfondimento consentito dal giornale stampato (che poi gli editori e i giornalisti della carta stampata siano o saranno capaci di accoglierlo, dopo non essere riusciti a stimolarlo adeguatamente, questo è tutto un altro discorso).
Ci sono poi da considerare le caratteristiche anche materiali dei giornali e il particolare rapporto che esse consentono (persino in termini di tempi e di logistica: al bar, sulla spiaggia, in bagno, su una panchina al parco, ecc.) fra individuo e processi di conoscenza del mondo che lo circonda. Senza contare le peculiarità storiche, presumibilmente e profondamente introiettate dal cittadino medio di ogni paese civile, assunte da questo rapporto: la partecipazione, la politica, la socialità, i bisogni identitari...
Del resto Internet, che costituisce ovviamente una grande rivoluzione, un nuovo modo di essere informato e di partecipare eccezionalmente positivo e potenzialmente “di massa”, manifesta anche da noi una chiara tendenza a sostanziarsi su due piani: da un canto, come un potente e indifferenziato magma informativo in cui ognuno può/potrà immettere e/o prendere e selezionare dati e notizie (o esserne frastornato) sulla base delle proprie capacità e dei filtri culturali a disposizione; dall’altro, attraverso vere e proprie centrali informative, strutturate e affidabili o semplicemente potenti, analoghe a quelle che abbiamo conosciuto nel secolo scorso. Già oggi, i siti di informazione più cliccati sono quelli messi rete dalle testate più vendute e dai gruppi editoriali più potenti. Insomma, come è avvenuto per i giornali tradizionali, come sta avvenendo anche per la free press, come è già avvenuto nel settore radiofonico, come probabilmente avverrà anche nel settore televisivo (una volta liberato dal tappo del vigente duopolio o quando, più semplicemente, si riuscirà a “dissolvere” il servizio pubblico televisivo), anche su Internet, fuori dal “magma”, si ripropongono/riproporranno di fatto problemi di concentrazione, di omologazione e di rapporti col potere.
E’ il destino che ci tocca, complessivamente, con la globalizzazione, che per essere tale deve globalizzare tutto: pratiche di prevaricazione e diritti individuali, opportunità e problemi, il “bene” e il “male”...
Le forme del conflitto e della socializzazione cambiano continuamente, con l’evoluzione dell’uomo, della società e della tecnologia, ma nella sostanza esse si ripropongono, si riproducono. Niente e nessuno ci può negare qualcosa una volta per tutte.
Niente e nessuno ce la può regalare una volta per tutte.
E comunque qui ed ora, non si intravede miglior indicatore dei giornali, per rilevare il livello di democrazia e di qualità della vita sociale esistente di fatto in una società.
Se si parte di qui, dallo stato dell’informazione e in particolare dallo stato di salute dei giornali, si deve dedurre che in Italia – così come abbiamo ristoranti, trattorie e pizzerie spesso assai scarse in quanto a igiene e cura nella preparazione dei cibi, e istituzioni, enti e servizi pubblici qualificati mediamente da uno scarsissimo rispetto per i diritti, i bisogni e le giuste aspettative degli amministrati e degli utenti – abbiamo una democrazia sofferente di molti e gravi malanni, stratificatisi nel tempo, che ne hanno minato alla radice la vitalità, mettendone spesso seriamente in discussione persino una decorosa sopravvivenza.
Recentemente il “conflitto di interessi” - vale a dire l’entrata in politica dell’uomo più ricco d’Italia, potente editore e proprietario di metà del mercato televisivo e pubblicitario, attraverso l’assunzione del governo del Paese (e del diretto controllo, in una situazione di duopolio, del servizio pubblico radiotelevisivo) o la guida dell’opposizione - ha solo portato alle estreme conseguenze e, insieme, persino oscurato la storica fragilità e inadeguatezza del nostro sistema informativo.
L’Italia è in coda da sempre nella classifica mondiale della vendita dei quotidiani. Negli ultimi tempi, la situazione è peggiorata: sia sul piano quantitativo - nel senso di una ulteriore flessione del monte-vendite complessivo - sia soprattutto in termini di dominio sempre più massiccio del mercato da parte di poche grandi testate (e attraverso di esse di poche centrali di potere finanziario), di concentrazione proprietaria, di progressivo smantellamento della rete di informazione locale già tradizionalmente fragile e sfilacciata, e di omologazione dei contenuti (oltre che delle forme, anzi, come si dice oggi, dei format).
Si dirà: come ogni ristorante ha il cesso che si merita e ogni società ha gli ospedali che si merita, così ogni democrazia ha l’informazione e gli informatori che si merita.
Questo è vero solo in parte. Un po’ come solo in parte è vero che “l’Italia ha i politici che si merita”. Né vale, a questo proposito, la considerazione che, se un parlamentare o un gruppo politico gestisce il mandato ricevuto in termini impropri o in contrasto con le aspettative dei suoi elettori e con gli stessi impegni assunti in campagna elettorale, gli elettori possono nella tornata successiva negargli il proprio voto. Infatti, gli strumenti, le risorse, la normativa, l’organizzazione e gli stessi meccanismi elettorali che si è dato il ceto politico italiano per la propria autoconservazione (si pensi che si è arrivati a privare l’elettore persino della possibilità di mettere la croce su un nome in una lista di nomi comunque decisi da ristrettissime oligarchie di partiti) sono tali da garantire ampiamente, anche se non totalmente, la possibilità dei rappresentati di emanciparsi e di prescindere dal mandato ricevuto. E complessivamente dal fare e dal comportarsi come gli italiani “si meritano”.
Del resto e non solo in Italia, la strutturazione della rappresentanza politica è tale che il ceto politico può “rappresentare” e insieme influenzare o addirittura manipolare i meccanismi di elaborazione della rappresentanza, avendo peraltro il potere di determinare direttamente la modificazione della percezione e della cultura della rappresentanza democratica dei cittadini.
Analogamente alla politica – e diversamente dal ristoratore e dall’ospedale, ai quali in definitiva è richiesta una sola, precisa funzione, rispettivamente quella di preparare cibi e di assicurare assistenza medica - l’informazione possiede peculiarmente una doppia facoltà: da un canto quella di raccontare ciò che avviene e dall’altro quella di influenzare non solo la percezione di ciò che avviene, ma anche la conoscenza, la “coscienza”, il pensiero, l’autorappresentazione, le scelte e le future azioni di chi ha letto/saputo di quei fatti raccontati nella maniera in cui sono stati raccontati. Il racconto e il punto di vista del raccontatore (essendo solo una sincera aspirazione o un escamotage cosmetico la sua possibile “obiettività”, avendo egli a disposizione solo la propria capacità/incapacità tecnica e la propria onestà/disonestà intellettuale) sono in uno strutturale, ineludibile rapporto reciproco di causa ed effetto.
Insomma l’informazione non è solo termometro della democrazia, ma anche fattore – o al contrario demolitore - di democrazia.
Editori, direttori, giornalisti e comunicatori hanno la possibilità - a determinate condizioni - di interpretare e guidare il processo individuale e collettivo di conoscenza, di percezione e di reazione al “come vanno le cose”, sottoponendolo alla propria visione delle cose e ai propri interessi, spesso microcorporativi ed elitari, quando non all’esecuzione di “mandati” gerarchicamente imposti e, qualche volta, anche rozzamente dichiarati.
All’informazione la società delega il delicato compito di descriverla. Ma all’informazione la nomenklatura affida la diffusione e l’applicazione della propria ideologia al resoconto e al commento dei fatti di cronaca e degli avvenimenti sociali. Gli editori e la politica (più o meno vicina ai primi, com’è noto da noi mai “puri” e mai animati da interessi aziendali e di mercato esclusivamente giornalistici ed editoriali) chiedono ai giornalisti di difendere i propri interessi.
Il meccanismo è poi complicato dal fatto che i giornalisti tendono a ritagliarsi una propria autonomia, che consenta loro di “interpretare” e persino di tradire le deleghe originarie, anche in forza di una ideologia professionale (giustamente accolta e tutelata da leggi, norme, contratti e consolidate tradizioni) che pretende l’“autonomia” dei meccanismi informativi e quindi degli informatori, eticamente e deontologicamente distinti dai meccanismi editoriali e dalla figura degli editori, ponendola in una qualche maniera alla base dell’esercizio della libertà d’espressione e della libertà tout court.
Solo che: una cosa è teorizzare e praticare questa “autonomia” in un sistema informativo evoluto e maturo, forte in particolare delle leggi (e delle risorse) del libero mercato, un’altra è sfruttarla e degradarla a strumento di autoconservazione, di autotutela di privilegi e di rendite, e di manovre politiche e finanziarie.
E' esattamente questo, purtroppo, ciò che avviene in Italia, priva di un sistema di quotidiani diffuso sul territorio, articolato su forti giornali locali e grandi giornali nazionali indipendenti dalle centrali di potere, legittimato da un’abitudine di massa all’acquisto e alla lettura degli stessi, e quindi connotato da autentica interrelazione con le dinamiche e i conflitti sociali
Una situazione che ha radici storiche: mai, sin dall'Ottocento, si è imposta da noi nel settore informativo una "logica di mercato" e comunque mai un "mercato" vero proprio (con editori veri, giornali-prodotto e giornali-servizio, selezione e valorizzazione del personale giornalistico sulla base delle capacità tecnico-professionali, ecc.). Nel Novecento, poi, mentre altrove metteva definitivamente le radici il mercato dell'informazione, abbiamo avuto prima il fascismo, che naturalmente impedì la libertà di stampa e poi il clima di politicizzazione e ideologizzazione estrema del dopoguerra che ha marcato per sempre la cultura e la pratica giornalistico-editoriale. I quotidiani sono stati sempre concepiti e percepiti pressoché esclusivamente come operazioni politiche o al meglio culturali, e quasi mai come prodotti per un mercato o come servizio per i cittadini-utenti.
Negli anni Settanta, era sembrato che le cose potessero cambiare stabilmente e che iniziasse a prendere corpo il "mercato", con l'emergere di una classe di autentici professionisti dell'informazione. Nel contesto sociale di superamento della società autoritaria pre-sessantottotesca, delle conquiste civili, della legittimazione e praticabilità dei diritti individuali e della democratizzazione di massa, anche l'informazione registrò un forte slancio innovatore. Insieme ai magistrati democratici, ai medici democratici, ai poliziotti democratici, impose la sua presenza il "giornalista democratico". Il boom televisivo aveva peraltro svelato il bisogno di giornali negli italiani e quindi uno straordinario mercato potenziale.
E molto si fece in questo senso (a cominciare dalla nascita di Repubblica, il primo giornale italiano fatto per essere venduto). Ma, com'è noto, quel processo di evoluzione sociale, culturale e politico-istituzionale fu troncato: si trattava, allora, di allargare l'area di piena partecipazione istituzionale alle masse rappresentate politicamente dal Pci, così come era stato fatto negli anni Sessanta con il Psi. Ma questo era impedito da una legge esterna: la legge di Yalta. Perciò fu ucciso nel 1978 l'uomo che alla realizzazione della "democrazia compiuta" aveva dedicato la propria vita, Aldo Moro, e fu pienamente ripristinata nel 1980 l'alleanza politica che ribadiva definitivamente l'esclusione del Pci dall'area governativa.
Sul piano sociale e culturale, oltre che politico e istituzionale - e ovviamente anche per quello che riguarda l'informazione - si tornò all'antico. E ai giornali, da allora, è stato riservato un destino assai marginale, in termini di autonomia e di innovazione. Al più sono stati e sono consentiti episodi di "modernizzazione senza sviluppo": di innovazione meramente tecnologica e grafica, e di razionalizzazione organizzativa (specie per quello che riguarda il doppio fronte dell'abbattimento dei costi e del depotenziamento delle norme contrattuali inerenti l'autonomia e l'indipendenza professionale).
Di "mercato" e di "editori puri" nessuno parla più nel settore dei quotidiani (tutt'altro discorso andrebbe fatto per il settore dei periodici, storicamente legato al mercato e a editori puri: si pensi ai Rizzoli, Mondadori, Rusconi, Caracciolo…). Anzi, la situazione è peggiorata. I proprietari dei giornali - perlopiù finanzieri, palazzinari e affaristi - sono diventati fortissimi, pochi grandi gruppi editoriali si stanno impadronendo delle edicole (e della circolazione delle notizie e delle idee), si è ristretto il ventaglio delle tipologie informative, i giornali tendono ad assomigliarsi sempre più, si vendono meno giornali...
Perciò sembra utile poter ragionare anche sul passato, per capire cosa è avvenuto e perché "siamo fatti così".
La vicenda di Quotidiano - il primo giornale locale "moderno, democratico e popolare", il primo fatto per essere venduto (sulla scia del primo quotidiano nazionale fatto per essere venduto, la Repubblica) - appare effettivamente tra le più ricche di intrecci e di stimoli per aiutarci a ricostruire, dal punto di vista dei giornali, quegli anni Settanta in cui tutto sembrò poter rinascere e tutto cominciò invece ad arretrare.
In positivo, anche la storia di Quotidiano consente di memorizzare e di illustrare alle nuove generazioni lo spirito innovatore, la passione civile e lo spirito di solidarietà sociale che animava in quegli anni i giovani, gli intellettuali e lo stesso ceto politico, e che potrebbero oggi - grazie a Internet, alla globalizzazione e alla integrazione europea - consentire una nuova fase di democratizzazione nella società italiana e, in particolare, la sottrazione dei mezzi di comunicazione di massa al controllo pieno e assoluto da parte di una Casta sempre più autoreferenziale. Disperatamente autoreferenziale.
- - -
Capitolo introduttivo del libro
GIORNALI E DEMOCRAZIA
Analisi del degrado dell’informazione in Italia, partendo dallo spartiacque della fine degli anni Settanta e dalla vicenda-metafora del primo quotidiano locale moderno e popolare: il Quotidiano di Lecce.
di Beppe Lopez
Glocal Editrice (211 pagg, euro 16)