Il governo rappresentativo è davvero democratico? O invece non lo è perché non consente ai cittadini di votare direttamente le leggi che dovranno rispettare? Le opinioni dei teorici della politica su questo tema si dividono. C'è chi lo considera una forma di governo misto, per metà aristocratico o oligarchico e per metà democratico. Chi, svuotandolo di ogni valore normativo, lo accetta soltanto come un espediente necessario. Per gli uni la democrazia è semplicemente elettorale e la rappresentanza ne è l'esito istituzionale. Per gli altri la democrazia è partecipazione diretta e la rappresentanza ne è una violazione. Riflettendo su un tema tanto spinoso, Nadia Urbinati accoglie la sfida di mettere in discussione una tale polarizzazione. La democrazia rappresentativa è una forma unica di governo democratico peculiare delle società moderne: non costituisce un'alternativa alla partecipazione, né tuttavia limita la democrazia al momento elettorale o alla conta dei voti. La rappresentanza è, dunque, una forma complessa di partecipazione, un processo politico che genera e si sostiene su un continuo flusso di influenza, controllo e comunicazione tra cittadini e rappresentanti.
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Soprattutto niente giornalisti
di Pasquale Chessa (da www.articolo21.info)
«L’informazione mette in atto due forme di libertà: quella civile, o dell’individuo, e quella politica, o del cittadino… »: Nadia Urbinati nelle pagina conclusiva del suo ultimo libro «Lo scettro senza re», appena uscito da Donzelli, spiega con sintesi lapalissiana quanto sia necessaria l’informazione (e con essa giornali e giornalisti, tivù e siti internet, blog…) per far funzionare le regole di una moderna democrazia anche di questi tempi così poco inclini ai princìpi e meglio disposti al particulare. Il turbinio di problemi che in questi giorni di mezza estate travaglia l’intero sistema dell’informazione italiana, costretta dentro le contraddizioni di un conflitto di interessi permanente, mentre il mercato dei direttori (manager) sembra più florido del calciomercato, quando le aziende si preparano a proclamare «lo stato di crisi» sebbene i conti siano ancora di segno positivo, di fronte a un contratto che rischia di trasformarsi in una pistola puntata in pugno gli editori, conferma la scomoda constatazione di Nadia Urbinati per cui le democrazie, anche le più evolute, non sono riuscite finora a dotarsi di strumenti adeguati a «proteggere il diritto di informazione e la pluralità delle fonti di informazione». La vulgata dominante inclina a dare la colpa ai giornalisti. Ma se è vero che i giornali li debbono fare i giornalisti, chi fa e disfa le regole sono gli editori. Per fare un po’ di storia del presente, alla fine del secolo, proprio quando l’ubriacatura delle vendite aggiuntive, dai libri ai cd e ai film, ha gonfiato con profitti enormi i bilanci, c’è stato un momento in cui i manager editoriali hanno pensato fosse finito il tempo del «lettore», con tutta la sua complessità, ormai sostituito dalla più semplice e redditizia figura del «cliente». Ma le «vacche grasse», come insegna la Bibbia non durano in eterno, Ora che avremmo tutti di nuovo bisogno di lettori, gli editori non sanno dove trovarli e purtroppo nemmeno come cercarli. Perché il lettore presuppone il giornalista. Ma gli editori sembrano convinti, come si capisce da molti dei dispositivi del contratto che siamo stati costretti ad accettare, e si sono convinti che il vero obbiettivo sarà fare i giornali senza i giornalisti. E non credo sia solo un paradosso, invece è un sintomo, come rivela la mitologia del manager ormai applicata anche alla direzione dei giornali. Troppo facile però, prendersela col contratto e per riflesso col sindacato. Al contrario credo che questo sia «il migliore dei contratti possibili», nel senso che si poteva sperare di meglio ma temere anche di peggio. La vera partita invece, si gioca e si sta già giocando con la sua applicazione. Per fare un esempio, diciamo a caso, il documento votato all’unanimità dai giornalisti della Mondadori il 20 luglio mi sembra esemplare (come si può vedere in allegato). Purtroppo non è noto a tutti perché una serie di fraintendimenti ha impedito che fosse reso pubblico, come d’obbligo! Esiste una misura certa che certifichi lo stato di crisi reale di un’azienda editoriale? O invece basta un certo non so che, si va a sensazioni, si respira l’aria del tempo, basta un sentimento comune per imporre uno «stato di crisi» da parte di aziende editoriali che a guardare i bilanci, a dispetto delle mille crisi che stiamo attraversando, non sembrano così disastrate. Calpesta il «principio di non contraddizione», norma fondante di tutta la filosofia occidentale, il paradosso che prevede di eliminare i giornalisti per far guadagnare i giornali! Con l’aggravante del conflitto di interessi permanente della Mondadori, che potrà accedere allo «stato di crisi» attraverso la firma di un ministro del governo presieduto dal suo azionista di maggioranza. Un’intera generazione di giornalisti sta per essere espulsa dalla professione, perdippiù a spese della collettività. È la generazione dei diritti, quella che si è trovata a rinnovare il giornalismo italiano, a metà degli anni Settanta. Un sacrificio che non porterà nessun vantaggio alle nuove generazioni di giornalisti. Ecco perché sarà sempre molto più difficile, per chi lo senta come un imperativo categorico, tenere la «schiena dritta» di fronte agli interessi dei padroni dei giornali sempre meno sensibili alle ragioni etiche, morali culturali e financo politiche di un mestiere costretto a fare a meno di idee e ideali. Infatti sono le buone leggi che fanno buoni cittadini, per insistere con Machiavelli. «L’informazione mette in atto due forme di libertà: quella civile, o dell’individuo, e quella politica, o del cittadino. Essa sta insieme al processo di formazione dell’opinione: come cittadini democratici abbiamo bisogno di sapere per poterci formare un’opinione e decidere; e abbiamo bisogno di sapere per controllare chi decide. L’informazione, dunque, è un bene pubblico come la libertà e il diritto (e come libertà e diritto non è a discrezione della maggioranza). È soprattutto un bene che ci consente di avere altri beni: di monitorare il potere costituito, di svelare ciò che esso tende a voler tener segreto. Essa fa parte perciò dell’onorata tradizione dei poteri negativi o di controllo, anche se il suo è un potere indiretto e informale. Senza questo potere di controllo le democrazie moderne sono a rischio, anche quando il diritto di voto non sia violato; anche qualora non ci sia più, nemmeno nell’immaginario, l’idea di un altrove rispetto alla democrazia; anche qualora la democrazia non abbia più nemici politici.» Riporto per intero il ragionamento conclusivo di Nadia Urbinati, come tema di riflessione collettiva. E anche perché mi conforta che abbia pensato, non credo solo per stima e affetto, di dedicare questo bel libro a Giorgio Napolitano.
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LO SCETTRO SENZA RE
Partecipazione e rappresentanza nelle democrazie moderne
di Nadia Urbinati
editore Donzelli