Libro

IL CREPUSCOLO DEI MEDIA
Vittorio meloni

Stampa, la sfida social del futuro. di Massimo Gaggi (Corriere della Sera, 6 maggio 2017)
Chi formerà le opinioni pubbliche se l’informazione intesa come sistema professionale che dà conto dei fatti del mondo verrà sempre più rimpiazzata dalla caotica circolazione di «input» nella rete, col suo assordante rumore di fondo? Come evitare la spirale dell’era digitale che, per dirla con David Kaye, l’authority dell’Onu per la libertà d’espressione, «diminuisce l’importanza dei fatti» trasferendo sul piano delle emozioni i racconti fin qui destinati a rappresentare la realtà?
Quella de Il crepuscolo dei media, l’ultimo saggio di Vittorio Meloni, in uscita da Laterza giovedì 11 maggio, non è certo una lettura piacevole, soprattutto per un giornalista. Non che sorprendano le conclusioni sconfortanti dell’esame di una crisi gravissima del modo in cui fin qui abbiamo ottenuto informazioni e plasmato i nostri giudizi: in fondo già sette anni fa chi scrive ha pubblicato, con Marco Bardazzi, un libro sull’argomento che fin dal titolo, L’ultima notizia, non era proprio un inno all’ottimismo. Ma fa impressione vedere citati, a raffica, tutti i dati del recente aggravamento della crisi della diffusione e dei ricavi pubblicitari dell’editoria, con la precisione glaciale del medico impegnato in un’autopsia. Comunque, più che nell’analisi dell’avvitamento di giornali e reti televisive, l’interesse della riflessione di Vittorio Meloni — un esperto con un passato e un presente di capo della comunicazioni di grandi gruppi, da Ibm a Telecom Italia a Banca Intesa — sta nella ricostruzione della crescente influenza della Silicon Valley nel mondo dell’informazione. Dapprima gli editori hanno involontariamente cannibalizzato la vendita dei loro contenuti sui giornali creando siti web gratuiti. Poi sono rimasti spiazzati dalla capacità dei giganti di internet di prosciugare il promettente mercato della pubblicità digitale. Infine le grandi testate storiche sono finite tra le braccia dei social network, soprattutto Facebook, attratte dalla gigantesca platea che avrebbero potuto raggiungere per questa via.

Con la metà dei cittadini Usa che oggi dichiara di informarsi sui «social» e gli inserzionisti pubblicitari di un tempo che ormai ignorano la stampa preferendo promuovere direttamente i loro prodotti in rete, per Meloni la grande trasformazione è già nelle cose: non solo il business della carta va verso l’estinzione (salvo qualche nicchia), ma gli editori faticheranno sempre più a mantenere un rapporto diretto coi lettori anche online: i loro articoli, infatti, vengono letti sulla piattaforma sociale dove il traffico è regolato da algoritmi che gli editori non controllano e dei quali non conoscono nemmeno il funzionamento. Così, con le ombre del crepuscolo che si allungano, la missione della stampa «non sarà più quella di raccogliere lettori attorno a un prodotto, ma di cercarli ovunque possono essere raggiunti da notizie. Ricostruendo in forme inedite la frammentarietà del mondo... L’informazione, per dirla con Zygmunt Bauman, diventerà liquida», «circolerà nelle reti distributive digitali come un prodotto immateriale, proteiforme».

Probabilmente la forza delle cose spinge nella direzione indicata dall’autore, ma non è il caso di rassegnarci, rimettendoci alle buone intenzioni di Facebook. E non solo perché Mark Zuckerberg — il quale per anni ha negato che la sua sia una «media company», arrivando ad ammettere l’evidenza solo di recente — non sembra il miglior condottiero di una rivoluzione epocale, politica oltre che informativa.

Facebook sta investendo in informazione, soprattutto col sistema «Instant Articles» ma, facendo legittimamente i suoi interessi commerciali, ne gestisce a suo modo i rubinetti. E così anche editori che due anni fa si affidarono a Facebook — a partire dal «New York Times», testata di lancio di «Instant Articles» — si sono tirati indietro: hanno perso il controllo dei loro lettori (che non passano dalla piattaforma social al sito della testata) senza nemmeno incrementare i ricavi. Perché il giornalismo non «tira» o c’è qualcosa d’altro? Lo sanno solo i gestori delle reti. Che ora promettono collaborazione agli editori in rivolta. Ma solo pochi mesi fa, davanti a un evidente calo (meno 40 per cento) degli utenti raggiunti su Facebook con contenuti informativi, la società ha reso laconicamente noto che alcune settimane prima aveva alterato l’algoritmo di «News Feed» dando una maggiore priorità ai post di amici e familiari rispetto ai link editoriali.

Che fare? Staccatosi da «Instant Articles», il «New York Times» continua comunque a collaborare con Google, Apple e la stessa Facebook, ma punta su un «business model» basato soprattutto sugli abbonamenti alla sua piattaforma digitale. Meloni non sembra credere alla possibilità, per il giornalismo, di sottrarsi all’influenza sempre più estesa dei social media. L’autore registra i buoni propositi di Facebook e spera che si crei un nuovo equilibrio nell’era dell’informazione «liquida». Ma non si nasconde i rischi e cita quelli evocati da Mathias Dopfner, capo del grande gruppo editoriale tedesco Axel Springer, peraltro molto attivo anche nell’editoria digitale Usa: se non cambia l’atteggiamento della Silicon Valley e il «copyright» dei contenuti giornalistici non viene difeso meglio, gli editori sono a rischio di estinzione. Vivremo in un caos di fatti, voci e manipolazioni, diventerà «impossibile distinguere l’informazione dalla propaganda». Sarà traumatico per la democrazia.