I tre moschettieri, edizione integrale, Mursia, 1966, prefazione di Ugo Dèttore (link), traduzione di Augusto Donaudy (?) (link)
Ho qui un altro di quei libri sciupati dalle molte letture. Anche questa volta copertina e nome del traduttore sono andati perduti. Dopo una ricerca su internet sono giunta alla conclusione, forse errata, che sia opera di Augusto Donaudy.
Ne approfitto per rivolgere una preghiera ai gestori dei siti per la ricerca e vendita di libri usati, vecchi e antichi: per favore, fate scrivere dal venditore il nome di chi ha eseguito la traduzione! E’ talmente importante …
Sugli scaffali, a fianco di questa amatissima edizione, quella tradotta da Maria Bellonci (link), un’edizione per ragazzi abbinata ad alcuni quotidiani, che non ricordo come sia capitata lì.
Maria Bellonci è abile, è brava, e molto; la sua Lucrezia Borgia, altro libro oggetto di numerose letture, ha una prosa ammirevole, ricca, sapida. Tuttavia, cercando di confrontare in maniera obiettiva le due traduzioni, e cioè mettendo da parte il lato affettivo, quella di Donaudy mi pare senz’altro migliore, più gustosa, più pensata.
Prendiamo ad esempio il primo capitolo: dove la Bellonci traduce il titolo con Tre regali paterni a D’Artagnan, Donaudy scrive I tre doni del signor D’Artagnan padre. Per me, ha tutt’altro sapore. Oppure, Bellonci scrive servitore, Donaudy lacché, termine che mi pare più calzante.
Non conoscendo il francese non ho idea se sia più aderente al testo originale, ma intuitivamente mi sembra ben corrispondere a un romanzo d’appendice ottocentesco, o meglio a quello che forse è il romanzo d’appendice per eccellenza.
Andando all’opera in sé, leggiamo dalla prefazione di Dèttore: «Mediocre la trama, piena di contraddizioni e di incoerenze, priva di unità com’è o sembra essere; mediocri i personaggi, la cui psicologia è approssimativa o convenzionale; mediocre il livello etico, tutto limitato entro un piccolo orizzonte godereccio di caserma, ove un inutile e fanciullesco disprezzo per l’esistenza fisica rappresenta il massimo dei valori morali; mediocre infine lo stile. Ed ecco invece questa costruzione artigianale da appendice far centro come nemmeno i più fortunati romanzi di un Balzac o di un Hugo, eccola varcar le frontiere, divenire libro fatidico della gioventù e non della gioventù soltanto, acquistare un valore universale».
Un libro fatidico: ho in mente una scenetta di quasi cinquant’anni fa, la mia famiglia riunita a pranzo e io, non so più a quale proposito, dico di avere qualcosa in «saccoccia». Non è una parola da usare, interviene mio padre; lo so, ma ne I tre moschettieri i personaggi la adoperano normalmente, perciò non vedo perché non usarla, ribatto. Probabilmente trattenendo una risata i miei genitori risposero che quelli erano soldatacci, e usavano un linguaggio da caserma. L’osservazione mi confuse, ma come, il signor de Treville, il capo dei moschettieri del re, e Aramis, Porthos, per non parlare di Athos, soldatacci? E cosa c’era di male a esserlo se erano i protagonisti di avventure che m’intrigavano così tanto?
Ah, Athos. Avevo un debole per lui. Aramis, troppo lezioso, Porthos, un gradasso. D’Artagnan, troppo giovane. Athos, invece, è il bel tenebroso che così spesso affascina ragazzine e ragazze. Silenzioso, attraente, gran signore, quando beve diventa misantropo; assai più misterioso dei suoi due amici, nonostante anche la loro identità sia ignota. Il suo segreto più intimo ci verrà svelato dopo un bel po’ di capitoli.
Si avvertono coloro che, non conoscendo questo splendido feuilleton, lo volessero leggere senza sapere nulla della trama, d’ora in poi faranno bene ad abbandonare queste pagine.
Il luogo è la Francia, soprattutto Parigi, a parte qualche capitolo che si svolge in Inghilterra.
Il personaggio femminile principale è Milady - Lady Clarick, ma non verrà mai chiamata per nome - che il protagonista, il guascone D’Artagnan, incontra nel primo capitolo: «Era una creatura pallida e bionda, dai lunghi capelli inanellati ricadenti sulle spalle, dai grandi occhi turchini pieni di languore, dalle labbra rosee e le mani d’alabastro»
Appena introdotta ci si rende conto che è fredda - ma forse sarebbe meglio dire controllata - priva di scrupoli, e coinvolta in vicende poco chiare in cui sono di mezzo lettere compromettenti e personaggi molto importanti. Sapremo più tardi che è creatura di Richelieu, il cardinale che con la sua intelligenza tiene le redini del governo di Luigi XIII.
Apprenderemo, inoltre, quanto la riguardi il terribile segreto di Athos, che il moschettiere svela ai suoi amici una notte di pantagrueliche bevute. Un conte suo vicino di casa e di nobilissimi natali (ma, alla fine del racconto il moschettiere ammetterà di essere lui il protagonista della vicenda) conosce una fanciulla di sedici anni bella come un angelo e, da uomo onesto, anziché costringerla con la violenza, la sposa. Vivono felici e contenti e la ragazza oltre a essere bella si rivela anche intelligente, con un temperamento poetico, ben all’altezza del conte per educazione e maniere. Un giorno, però, durante una caccia, la giovane signora cade da cavallo e sviene. Il marito si affretta a soccorrerla e col pugnale le lacera la veste. E cosa scopre sulla spalla? Un giglio, il marchio delle prostitute. Ci sarebbe da chiedersi come mai il marito non l’abbia mai visto durante tutto quel tempo passato insieme, ma queste sono le deliziose incongruenze tipiche di questo romanzo. Comunque il gran signore, l’onest’uomo, che fa? Chiede contezza alla moglie del marchio infamante? Nemmeno per sogno: senza aspettare che si risvegli, la impicca. Sissignore, con una fune la impicca all’albero più vicino. E non pago, poiché prima di sposarlo l’ingannatrice viveva col fratello curato, ritenendo, probabilmente a ragione, che questi fosse in realtà un suo precedente amante, lo cerca per far impiccare anche lui, ma non riesce a trovarlo perché il presunto impostore aveva già abbandonato la curia.
Che la disgraziata fosse Milady, riuscita in qualche modo a sopravvivere all’impiccagione, lo apprenderemo soltanto alcune pagine dopo.
Certo è che, dopo essere stata marchiata ancora quasi bambina (lo so, lo so, erano altri tempi), il modo in cui termina il suo matrimonio non è esperienza che ingentilisca l’animo.
Ma andiamo avanti. Una serie di peripezie, quali il rapimento della signora Bonaciuex, sua amante nonché moglie del padrone di casa - un tanghero che per intrighi politici non esita a far rapire la moglie - portano D’Artagnan nuovamente sul cammino di Milady, e il giovanotto se ne innamora. Ma la bella cameriera della signora, Ketty, lo avverte che la padrona ha un debole per un altro uomo. D’Artagnan, allora, approfittando dell’amore che la ragazza prova per lui si nasconde e ascolta non visto una conversazione tra lei e Milady, nel corso della quale la signora rivela di detestarlo perché le ha fatto perdere trecentomila lire di rendita (sarebbe troppo lungo spiegare il perché, il tessuto narrativo è contorto, tuttavia ipotizzando quale potrebbe essere la cifra in euro il risentimento della signora appare quasi quasi giustificato).
D’Artagnan, per vendicarsi, una notte si fa ospitare dalla cameriera - con cui nel frattempo si sollazza - in modo da poter passare nella camera della padrona fingendo di essere l’amante bramato. E’ macchinosa e arzigogolata, lo so, e benché fossi ancora ragazzina oscuramente sentivo che la storia non stava in piedi: insomma, tutti si trastullano nel buio più pesto, e va bene, ma addirittura non riconoscere una persona in questi frangenti, ce ne vuole; ma tant’è.
Fatto ciò il nostro, questa volta apertamente, riesce comunque ad arrivare all’alcova della signora (sapendo benissimo che la povera Ketty piange nella stanza adiacente); e verso l’alba le confida di averla ingannata e di aver approfittato di lei fingendo di essere un altro.
Milady, naturalmente, esplode. Si avventa su D’Artagnan il quale, per trattenerla, le lacera - anche lui! - la veste; sulla spalla della donna, allora, compare il marchio infamante del giglio.
Fuggito dagli appartamenti della signora, D’Artagnan si precipita da Athos e insieme ricostruiscono i fatti, esaminano le prove: Milady è la moglie di Athos, riuscita in qualche modo a liberarsi dal nodo scorsoio fatto dal marito.
Dopo molte vicissitudini durante le quali Milady, imprigionata in Inghilterra, riesce a fuggire inscenando un’abile commedia e seducendo l’ennesimo giovanotto - un noiosissimo puritano messo a farle la guardia perché ritenuto incorruttibile, Milady, dicevamo, su commissione del cardinale Richelieu, uccide il Duca di Buckingham, consigliere del re d’Inghilterra e amante segreto della regina di Francia.
Intanto i moschettieri e D’Artagnan riconoscono la pericolosità di quella femmina ammaliatrice, e decidono di liberarsene definitivamente.
Tornata nei pressi di Parigi Milady si reca infine nel convento dove è nascosta la signora Bonacieux; sa che d’Artagnan e i suoi amici sono sulle sue tracce e stanno per arrivare, ma lei vuole vendicarsi di D’Artagnan. Circonda la signora Bonacieux di carezze e premure, le offre del vino ma, veloce, versa nel bicchiere del veleno mortale nascosto sotto la pietra incastonata in un anello che porta al dito. La signora Bonacieux lo beve e muore.
Certo, questo non è bello, per niente. Milady è perfida, è vero. Ma è davvero peggiore di tutti gli altri personaggi? Che per uno sguardo storto si sfidavano a duello ammazzandosi a vicenda? Il suo guaio sembrerebbe quello di essere nata donna, e con un aspetto al quale gli uomini trovano difficile resistere (e sembrerebbe un problema loro, non suo); con quello si deve districare in un mondo crudele e spietato.
Mi viene in mente una storia vera, raccontata da Donata Chiomenti Vassalli (link) nella bella biografia di Donna Olimpia Pamphili - la famigerata Pimpaccia, cognata di papa Innocenzo X e vissuta nello stesso secolo in cui si svolge I tre moschettieri: «Olimpia Pamphili mi è divenuta comprensibile; non più un mito di nefandezza, ma una donna ambiziosa, d’intelligenza virile, vissuta in un periodo di miseria morale e di viltà politica, che avendo lo stesso temperamento del suo contemporaneo cardinale Mazzarino, con molte delle sue qualità e capacità, suscitò tanto scalpore perché, anziché essere uomo e alla corte di Francia, era donna e agiva nella corte papale […] Le sue colpe divennero leggendarie, come non avvenne per i nepoti Barberini, corruttori ben più rapaci di lei».
Non ci è dato conoscere le origini di Milady. Presumiamo che siano umili, eppure riesce a costruirsi una posizione. Con il suo aspetto, certo, e non le sarebbe stato possibile altrimenti, ma anche con la sua intelligenza, con quella duttilità che le permette di cavarsela anche nelle situazioni più disparate.
Allora penso a una ipotetica fine: Milady, per vendicarsi, invece di avvelenare la Bonacieux le rivela chi è veramente D’Artagnan:
“Quel vigliacco, quel tuo guascone, mentre ti sospirava appresso seduceva la mia cameriera e per passare una notte con me mi ingannava fingendo di essere un altro!”
“Cosa? Non è possibile, voi mentite! Non può essere, D’Artagnan è buono, è onesto, mi vuole bene!“
La signora Bonacieux si fa di cera, si abbandona su una poltrona e comincia a piangere.
«Ma che onesto, cretina, chiedilo alla mia cameriera, se non mi credi! Su, invece di stare qui a lagnarti vieni con me, così chiedi a Ketty cosa ha combinato quel tuo cascamorto, e vedrai cosa ti racconta! Ma sbrigati, che lui e gli altri stanno per arrivare»
Tutte e due, quindi, partono sulla carrozza di Milady, la Bonacieux che da tremante e piangente diviene via via una furia, e Milady calma e determinata.
E mi piace immaginare che le due donne, inseguite dai tre moschettieri, da D’Artagnan, dal cognato inglese che accusava Milady non solo dell’assassinio di Buckingham ma anche di avergli ammazzato il fratello, e dal boia che si erano portati dietro per mettere fine una volta per tutte alle sue malefatte (e, guarda caso, anche il di lui fratello era stato vittima del fascino irresistibile di Milady), con uno sberleffo all’indirizzo degli inseguitori, lancino fuori dal finestrino i loro bustini, indumenti intimi molto simili - ma infinitamente più oppressivi - a quelli che, trecento anni dopo, sarebbero stati bruciati dalle loro discendenti nelle pubbliche piazze.