In questi giorni ho rincontrato Koffi, che mi chiama papi da quando gli offrii un pezzo di pizza. Migrante partito, insieme ad altri migranti, dalla terra d’Africa in una notte senza luna. Tra le sponde dei due continenti il motore del vecchio barcone, che odorava di legno marcio e di un lontano, scarno pescato, si fermò più volte e più volte ripartì a fatica, singhiozzando. Ma si navigava verso la speranza. A bordo, credettero che l’incubo sarebbe finito a Lampedusa. Ma sappiamo che non fu e non è così.
In quanti (in Italia e in Europa) vivono la loro quotidianità senza accorgersi “degli ultimi degli ultimi” accampati tra la vita e il nulla, dove l’egoismo ha preso il sopravvento sulla solidarietà? Quanti evitano di chiedersi quale sarà l’estate dei seicento e più migranti (tra loro quasi centocinquanta minorenni e bambini) dell’Aquarius e delle altre centinaia di uomini, donne e bambini che il mare calmo (che si traveste da lago, direbbe Alessandro Baricco) con i colori seducenti dell’estate inviterà già da domani a partire?
In molti – agli ultimi senza Terra, ai profughi in fuga dalla povertà, dalla guerra, dalla violenza, reduci di rivoluzioni di gelsomini mai sbocciati – non voltano le spalle. Costoro possono richiamare la sensibilità dei governi, delle genti, degli individui sulle implicazioni sociali-economiche-umanitarie dei flussi migratori. Ricordo che recentemente Michele Spera, conEmigranti di poppa, emigranti di prua – un libro bellissimo, soave, inquietante, di rara sensibilità civile e umanitaria –, ha cercato di accendere l’attenzione sull’intera questione travasando un intero mondo in un segno grafico.
Nelle affiches di Spera quegli uomini, quelle donne, quei bambini volano oltre il filo spinato, oltre i porti sbarrati.
La loro è un’estate di sogni e di nostalgia, che forse è già rimpianto di profili, colori e profumi dei paesaggi che hanno abbandonato. Essi avanzano verso l’Europa, sedotti dalla bandiera blu stellata di una nuova cittadinanza che gli verrà negata. Per loro quelle stelle di una notte d’estate temo che non daranno luce.
Bill Gates, impegnato con la sua fondazione in campagne sociali e umanitarie, è dell’idea che bisognerebbe aiutare i migranti nelle loro terre e, in una vecchia intervista al quotidiano Die Welt, ha sollecitato l’Europa a investire maggiormente in aiuti diretti ai Paesi dai quali i migranti provengono. Perché l’Africa non è un continente perduto.
Mentre scrivo (è il pomeriggio di lunedì 11 giugno), Pedro Sánchez annuncia che la Spagna permetterà alla nave Aquarius di attraccare nel porto di Valencia. Lui, il señor Sánchez, non ama abbaiare alla luna (come succede da molte parti in Europa, con l’esito di far lievitare la rabbia e il populismo): «è nostro obbligo – dice – aiutare ad evitare una catastrofe umanitaria e offrire un porto sicuro a queste persone».
Perché, aggiungerebbe Alexander Pope, «il mare unisce i Paesi che separa» o, più semplicemente, «il mare non separa, unisce».
E a me piacerebbe credere che tutti insieme riusciremo a smentire quei versi di Alda Merini in Coloro che arrivano qui quando scrive: «non sanno che in noi/ le finestre di grande speranza/ sono ormai chiuse». Lo ha fatto Tawfik Elsayed, che, nato a nord-est del Cairo dove il colore dei campi si fonde col rosso delle case incompiute e dei vicoli sterrati, ha lavorato in una Milano che non regala niente e a nessuno per mantenersi agli studi e si è laureato in Economia alla Cattolica. La storia di Tawfik è stata raccontata da Paolo Di Stefano nel libro I pesci devono nuotare, edito da Rizzoli.
Anche Tawfik, come tanti ragazzi della sua età, è arrivato dal mare su un barcone. Lui e i suoi compagni sono stati vissuti come minaccia di un’invasione incombente, hanno contribuito ad alimentare le inquietudini, le frustrazioni, il disagio e la paura. Infatti, «telegiornali, quotidiani, discorsi politici, tweet – avvezzi a offrire temi e sbocchi alle ansie e alle paure pubbliche – non parlano d’altro oggi che della “crisi migratoria” che travolgerebbe l’Europa, preannunciando il collasso e la fine dello stile di vita che conosciamo, conduciamo e amiamo». Lo afferma Zygmunt Bauman in Stranieri alle porte: in edicola in una collezione del Corriere della Sera. È un libro che tutti dovrebbero leggere per meditare sugli aspetti decisivi sul fenomeno delle migrazioni, che nella narrazione dominante finiscono per restare sullo sfondo: lo afferma, nella prefazione al saggio, Donatella Di Cesare.
L’umanità è in crisi, scrive Bauman: e da questa crisi non c’è altra via d’uscita che la solidarietà tra gli uomini.
Ho scritto questa nota in risposta a un amico che mi augurava una buona estate, per dirgli che la stagione sarebbe stata straordinaria forse per lui, pronto a partire per la montagna, e forse per me, che mi sarei diviso tra la città e qualche giorno al mare, ma che il desiderio di vacanza non doveva distogliere l’attenzione su cosa accadeva intorno a noi. Riprendo oggi questo testo a seguito dell’emozione suscitata dall’odissea dei migranti della Diciotti, la nave della Guardia costiera italiana bloccata per cinque giorni, in quarantena politica, nel porto di Catania e prima, per altrettanti giorni, in mare aperto.
Mi sono chiesto, insieme a molti, il perché. La risposta ha quasi anticipato la domanda. Per forzare la mano all’Unione Europea, che ci dicono sia insensibile alla questione dei migranti e della loro redistribuzione tra i Paesi del continente. Dunque, noi italiani ci siamo fatti furbi? Mah, chi lo dice? Però questo sbraitare di novelli Don Chisciotte e Sancio Panza non produce effetti a Bruxelles, ma presunti risultati per loro più appaganti (elettoralmente) in Italia, dove il fenomeno dei migranti è assolutamente soprastimato e si vuol far credere all’opinione pubblica che sia l’unico problema che il Paese debba affrontare (anche se non è più drammatico dell’incertezza economica, dello spread che dal valore 100 di marzo 2018 galoppa verso il 300 di oggi, del debito pubblico che è il terzo più alto del mondo, della sfiducia verso i titoli di Stato, dei mutui e dei prestiti bancari sempre più cari, della delocalizzazione all’estero delle imprese italiane, della sicurezza delle città e dei cittadini, della decadenza del tessuto sociale e della latente debolezza del ruolo dell’Italia nel Mediterraneo).
Nei confronti dell’immigrazione si è sviluppata una vera psicosi. Chi l’alimenta? I politici soffiano sul fuoco del disagio e della paura e alzano fumo. Tutto si dissolverebbe rapidamente se i media di carta, televisivi e digitali non facessero da megafono. Una novità? No. non lo è. «L’unica novità mi sembra un’altra: […] nel corso della storia non sono mai esistiti mezzi di comunicazione così poderosi, perciò la menzogna non ha goduto di una capacità di diffusione così ampia» (Javier Cercas, La foresta dell’inganno, El Pais/la Repubblica, 30 agosto 2018). È quindi cresciuta la responsabilità del giornalismo, del buon giornalismo (esiste!), «più che mai necessario, purché non si accontenti di raccontare la verità, ma si impegni a smantellare le menzogne» (ancora Cercas). Ed eccola, l’occasione: la documentazione video delle torture sui migranti – in terra d’Africa – che Pietro Bartolo (il medico di Lampedusa, tra i protagonisti del film Fuocoammare di Gianfranco Rosi sui salvataggi e gli sbarchi nell’isola siciliana, prodotto anche da Rai Cinema) ha inviato, tramite il cardinale Montenegro, arcivescovo di Agrigento, a papa Francesco. Sono immagini di torture, violenze e crudeltà così scioccanti che, informa Avvenire, sono state richieste, il 28 agosto, da una Procura della Repubblica e acquisite dalla Corte internazionale di giustizia dell’Aja. Il buon giornalismo, verificate le fonti e la veridicità, non può nascondersi, in questo caso, dietro le regole deontologiche della professione e dietro quelle morali per escludere la pubblicazione e la messa in onda (in Tg, speciali) di queste immagini (magari in seconda serata). Perché le parole degli articoli non riusciranno mai a descrivere tanta ferocia e a far sentire le urla dei torturati, ma i video sì.
Uno dei pochi giornalisti (Stefano Liberti) che da anni seguono gli aspetti meno riconosciuti dei movimenti migratori Africa-Europa ha deciso di non fidarsi dei luoghi comuni e di esplorare sul posto la geografia dell’emigrazione per raccontarla nel libro A sud di Lampedusa. Cinque anni di viaggi sulle rotte dei migranti (Minimum fax).
Al popolo del mare dedica un libro Khaled Hosseini in occasione del terzo anniversario della morte del piccolo Alan Kurdi (Preghiera del mare, Sem – Società editrice milanese), ma sono toccanti i versi della preghiera laica di Erri De Luca scritta a ricordo delle vittime di un naufragio a sud della Sicilia: «…Mare nostro che non sei nei cieli/ all’alba sei colore del frumento/ al tramonto dell’uva e di vendemmia/ ti abbiamo seminato di annegati più di/ qualunque età delle tempeste…».
Tutto questo perché anche chi non vuole deve comunque sapere, deve prendere coscienza che i migranti non sono diportisti. E poi, si sa, da che mondo è mondo i popoli poveri si muovono dalla loro terra verso i Paesi più ricchi.
«Ogni mattina in Africa, – dice un antico proverbio dell’altra riva del Mediterraneo – come sorge il sole, una gazzella si sveglia e sa che dovrà correre più del leone o verrà uccisa. Ogni mattina in Africa, come sorge il sole, un leone si sveglia e sa che dovrà correre più della gazzella o morirà di fame. Ogni mattina in Africa, come sorge il sole, non importa che tu sia leone o gazzella, l’importante è che cominci a correre». Gli immigrati lo sanno, devono “correre” per sopravvivere. E Alberto Moravia, che dell’Africa era innamorato e l’ha raccontata anche nel libro Alcune Afriche (Rai Eri), scriveva, in Lettere dal Sahara (Bompiani): «sulle sabbie del deserto come sulle acque degli oceani non è possibile soggiornare, mettere radici, abitare, vivere stabilmente. Nel deserto come nell’oceano bisogna continuamente muoversi, e così lasciare che il vento, il vero padrone di queste immensità, cancelli ogni traccia del nostro passaggio, renda di nuovo le distese d’acqua o di sabbia vergini e inviolate». Molti africani continuano a ispirarsi, a loro stessa insaputa, a questo pensiero di Moravia e partono e vanno oltre il deserto e il mare. Ma non sanno che l’Italia ha ancora difficoltà a integrare. «Accogliere i migranti è una cosa antica come la Bibbia. Nel Deuteronomio, nei comandamenti Dio comanda questo: accogliere il migrante, “lo straniero”. È una cosa antica, che è nello spirito della rivelazione divina e anche nello spirito del cristianesimo. È un principio morale».
Lo ha detto papa Francesco (conferenza stampa del 26 agosto durante il volo di ritorno dall’Irlanda) e ha aggiunto: «se non si può integrare è meglio non ricevere». «Ma è vero che l’Italia non è in grado di integrare e quindi di accogliere?», si chiede Roberto Saviano (L’Espresso, 2 settembre 2018).
Può farlo l’Italia e può farlo l’Europa.
Cosa è cambiato da quando Angela Merkel riconosceva all’Italia un grande lavoro sui migranti, ad esempio nella registrazione e nell’accoglienza dei profughi? E, ancora, ribadiva che la lotta contro la migrazione illegale doveva essere affrontata congiuntamente dai Paesi dell’Ue?
È cambiato il nostro lavoro sui migranti oppure il giudizio della Merkel? È certo che nei governanti e nei politici si è rarefatta la ragione (cara a Giovanni Spadolini) e si sono disperse le idee. La loro assenza, la loro crisi rischia di condurre l’Italia e l’intera Europa alla ghettizzazione geopolitica.
Considero il flusso dei migranti simile alla portata di un fiume: quando è contenuta vanno controllati gli argini per evitare che in piena l’acqua tracimi dall’alveo. Interventi giusti al momento giusto. E così anche per l’immigrazione e l’integrazione: se gestite, programmate, favorendo la multietnicità e aprendo al multiculturalismo, allontaneranno l’Italia dai fermenti razzistici e xenofobici e renderanno ancora più solida la nostra democrazia.