Ho visto in successione i due film del momento: “Oppenheimer” e “Io capitano”, i quali, sorprendentemente, hanno molto in comune. Infatti la storia del fisico americano con radici europee Robert Oppenheimer, il “padre della bomba atomica” e il “distruttore di mondi” e le migrazioni di massa dall’Africa, trattano entrambi un unico tema: la perdita dell’umanità.
Al contrario di chi ha affermato qui che “Oppenheimer” sia un film mediocre, io invece l’ho trovato perfetto: i dialoghi serrati, la contrapposizione fra i colori della ricerca (e il “cielo stellato sopra di noi”, mistero ancor oggi non svelato, fantastico al cinema su grande schermo come dal vivo) e il bianco/nero della commissione d’inchiesta, guidata da Strauss (Robert Downey Jr, irriconoscibile), un burocrate dalle ambizioni di scienziato ma dileggiato sin dall’inizio dallo scienziato tutto casa e ricerca (ma anche con relazioni lasciate per strada; si è obiettato che le donne non fanno una gran figura nel film, ma il ruolo della donna negli anni 40-50 del secolo scorso era subalterno, persino in America). Inoltre ci sono state scienziate, in Svezia per esempio, perfettamente al corrente delle ricerche che si svolgevano a Los Alamos ma che se ne sono dissociate, come Einstein del resto, come Bohr che nella capitale danese, dove abitava, incontrò Heisenberg, fisico tedesco (c’è un’opera teatrale dell’inglese Michael Frayn, “Copenaghen”, che Rai5 ha riproposto in questi giorni, si trova su Raiplay, imperniata sullo stesso argomento del film, ricavato a sua volta da un best seller).
Intanto il film ha il grande merito di aver riportato alla ribalta un problema come quello dell’armamento atomico. Pensiamo al fatto che il 10 luglio 1985 ad Auckland, in Nuova Zelanda, ci fu l’affondamento della Rainbow Warrior, la nave di Greenpeace che protestava contro gli esperimenti atomici francesi nell’atollo di Mururoa. Una coppia di spie spacciatasi per giornalisti, mise una bomba nella stiva della nave e morì il giovane fotografo portoghese Fernando Pereira, eroe ecologico. Questo a dimostrazione che ci sono state epoche in cui della bomba H si è discusso di più, mentre ora il dibattito sembra sopito. Anzi non si parla proprio di disarmo. Il film di Nolan riaccende i riflettori sulla questione, e lo fa molto bene.
Oppenheimer, preso dalla sua tracotanza di ricercatore, sa benissimo di aver creato un’arma pericolosa ma non per questo smette di comporla, anzi organizza in fretta e furia un gruppo di ricerca a Los Alamos, creando dal nulla una città. Ebbene una volta che il “gran fisico” lascia la bomba all’esercito, sa anche che non potrà averne più il controllo e che giapponesi, colpevoli e innocenti, come gli dice un suo collega, moriranno a guerra ormai finita perché, ne cominciava allora, nel 1946, un’altra: la guerra fredda fra Usa e Urss. Il presidente Truman (un democratico bombarolo, c’è stato anche questo…) nel suo breve incontro con il fisico lo spiega molto bene: “Non ci interessa chi ha inventato la bomba, siamo noi politici a decidere cosa farne”. Tant’è che lo scienziato che credeva di essere assurto agli allori della fama, fu escluso da qualsiasi nuovo intervento sull’atomica, con la scusa di essere stato comunista o comunque di aver avuto contatti con comunisti, come la sua stessa moglie nel passato.
Sviluppare un genocidio seguendo il filo logico di Oppenheimer che era un fisico consapevole di quello che faceva, anche se non lo voleva ammettere prima di tutto a se stesso, mi pare paragonabile a quello che i governi capitalisti stanno facendo all’Africa. Nel film di Garrone si vede benissimo che Dakar è una grande città dalle mille contraddizioni dove una famiglia numerosa sopravvive vendendo uova al mercato e i ragazzi si vestono all’ultima moda con capi firmati che evidentemente non hanno lo stesso costo che da noi, e forse sono copie (per quanto molto ben fatte). Però la casa è fatiscente, la gente non sa come sbarcare il lunario ed è tuttavia consapevole che tentare la fortuna altrove, in Europa, come avvisa la madre del diciassettenne (bravissimo attore, preso in realtà da una scuola di recitazione non è la soluzione), si può trovare la morte in quel viaggio maledetto. Attenzione anche a generalizzare, perché l’Africa è lo specchio dell’Europa dove i ricchi diventano sempre più ricchi e i poveri sempre più poveri e c’è un grande squilibrio fra le due categorie. I due cugini sono appena diciassettenni, vanno ancora a scuola ma vogliono tentare la fortuna esattamente come facevano gli italiani un secolo fa e andarsene, nonostante ne siano dissuasi, cercano la benedizione dello sciamano e partono lo stesso, senza dir nulla alla madre di uno di loro. Sarà un’odissea atroce, dove pagheranno a ogni tappa, soldi su soldi, pure per respirare, dove dal camion scalcinato che attraversa il deserto cade un migrante come loro e avevano voglia d’implorare l’autista di fermarsi a riprenderlo, quello non si ferma e prosegue il viaggio, a ogni confine perquisizioni e arresti, torture e ferite, e sempre la volontà di proseguire, di attraversare anche quel mare che li porterà in Italia. Seydou, il bravissimo Seydou Sarr, 17 anni, che ha detto che nel film ha rivissuto l’emozione che ha provato alla morte del padre e Moussa (Moustapha Fall), stanno insieme finché un soldato di confine non imprigiona Moussa perché gli trova addosso i soldi che aveva negato di avere. Seydou, nonostante abbia trovato un altro migrante che ha un figlio della sua stessa età e che è diretto a Caserta, aspetta Moussa e lo ritrova gravemente ferito a una gamba, dov’è stato colpito da un militare. Finché un libico propone a Seydou di guidare una barca stracolma, proprio lui che non ha mai visto un timone e non sa nemmeno nuotare e poi non se la sente di avere la responsabilità di così tanta gente su quel catorcio di motore. Ma l’armatore, per dir così, insiste, anche perché un minorenne non è imputabile, invece poi nella storia vera a cui il film si ispira, il capitano, una volta sbarcato, si farà tre mesi di prigione in Italia da “scafista, trafficante”. E che si ritrova con una barcaccia stipata di migranti, con una donna che sta per partorire, e altri che si sentono male e lui grida disperato; “Personne va mourir, personne va mourir!” e come Carola Rackete, arriva finalmente a Lampedusa con tutto l’equipaggio sano e salvo. Seydou e Mustafa non avrebbero mai pensato di fare questa odissea, ha detto il regista Matteo Garrone presentando il film a Bari, studiavano recitazione come detto e sono felici di aver fatto questa esperienza, che per loro è già un lavoro ma tutti gli altri hanno recitato in totale aderenza al film, anche la piccola sorella (sempre nel film, sette anni) di Seydou, così a proprio agio sul set da essersi addormentata nella scena in cui si accorge che il fratello sta partendo: risvegliata dal regista, ha detto le frasi del copione come nulla fosse. Questa è la storia vera di Mamadou, ora residente in Belgio dove si è sposato, e fa il magazziniere. Questi poveri migranti devono pagare soldatacci nigeriani, carovanieri del Sahara, mafiosi libici e a ogni tappa del loro tormentato viaggio, sborsano fior di soldi senza che ciò gli garantisca alcunché. Adesso in Italia il ricatto: non volete finire nei Cpr (Centri di permanenza e rimpatrio per i migranti, in pratica una prigione prima del rimpatrio forzato)? Pagate allo stato italiano 5mila euro a testa, 4938 euro per la precisione, esattamente come fanno i tanti malviventi del film che speculano sulla disperazione altrui. Questo è un ricatto bello e buono, è scritto nel “decreto Cutro” a firma dei ministri Piantedosi, Nordio e Giorgetti. Un decreto inaudito che sancisce una vessazione non diversa dalle mille che questa povera gente subisce per mesi e mesi prima di arrivare alla sospirata Italia. La quale che fa? Strepita, urla, dice che non vuole migranti, li vuole distribuire in tutta Europa e non prende l’unico provvedimento auspicabile: una politica degna di questo nome che si faccia carico delle necessità e delle richieste di chi vuol migliorare la sua condizione di vita, organizzando un’accoglienza degna di questo nome. Spetta alla Politica agire e risolvere i problemi nel migliore dei modi, sempre nel rispetto della vita e speriamo che non si comporti come Truman con l’atomica: abolendo ogni principio di Umanità.