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CESIRA FENU

  • G.MARCHETTI TRICAMO:
    UN LIBRO CHE CI PORTA
    NELL'ANIMA SICILIANA

    data: 24/12/2024 17:18

    Giuseppe Marchetti Tricamo, giornalista, già dirigente Rai e Direttore di Rai Eri, docente all’Università di Roma La Sapienza, fondatore e direttore della rivista Leggere:tutti, ha scritto vari libri spaziando dal saggio storico, in particolare sul Risorgimento e la nascita dell’Italia repubblicana, a quello sul mondo dell’editoria, al romanzo e a pièce teatrale.

    Questa ultima fatica Impossibile rincorrere il vento (Ibiskos Ulivieri), è un romanzo ambientato nella sua Messina ma che in fondo abbraccia idealmente tutta la sua terra, amara e bella direbbe Domenico Modugno, alla quale l’Autore è sempre rimasto legato in modo vivo e struggente.

    Questa volta il protagonista, nel quale si riconoscono tratti dell’Autore, Giovan Filippo di Belviso, è un giovane giornalista trasferitosi dalla sua Messina a Roma dove lavora per il Quotidiano della sera e che viene inviato dal caporedattore a Messina a far luce su un mistero che coinvolge il Civico Museo Peloritano nella notte di San Lorenzo e che riguarda la sparizione del Sigillo di Federico, straordinario smeraldo che Federico II regalò a Colapesce e che è considerato da tutti il portafortuna della Città. Si dipana così la vicenda che con coup de theatre avvince il lettore. Sarà il giovane Giò e il suo amico capitano dei Carabinieri Lelio Mangraviti a sciogliere la matassa regalando un finale a sorpresa. E Giò farà uno scoop col botto!

    Lasciamo al lettore il gusto di assaporare un giallo che ci fa entrare nell’anima siciliana.

    Per Giò il viaggio nella Città natale è l’occasione per ritrovarsi e ritrovare un mondo che si colora del profondo azzurro del mare che riflette un cielo blu. Tanti ricordi di bambino e adolescente nella Villa del nonno Pietro in Riviera Paradiso da dove si ammira lo spettacolo dello Stretto con i ferribotte che instancabilmente fanno la spola tra l’isola e la Calabria. E poi tanti barchini, natanti di ogni tipo, lì dove il Tirreno e lo Jonio si uniscono in un rimescolio di acque e correnti, il mare di Ulisse e di Scilla e Cariddi dell’Odissea. A tal proposito mi permetto un ricordo del mio caro papà ufficiale della Marina Mercantile col quale, sulla petroliera in cui era imbarcato e sulla quale eravamo mamma e anch’io piccina attenta e stupita, attraversavamo lo Stretto diretti in Egitto. Che nostalgia!

    E poi le spadare e l’Autore ricorda la dolente, struggente storia della coppia di pescespada trasposta in musica da Domenico Modugno.

    L’incanto del mare ma anche dell’Isola con le sue piane assolate, le vestigia di un passato ricco di popoli e di storia, crocevia di cultura e genti che si sono incontrate e mescolate in un meltin pot straordinario di cui ancora oggi si avvertono gli influssi come anche i sapori di una cucina speziata ma anche fresca di finocchietto selvatico e di verdure dell’orto. Profumi come la caponata o le costardelle appena pescate. Per non parlare dei famosi dolci siciliani che acquistano una nota di esotico e che sono una vera esplosione di sapori. Giò era incantato da quell’universo. Egli approfitta di questo ritorno per rivedere i luoghi di quando bambino e adolescente girava per la Villa e si rifugiava nella biblioteca a piluccare i volumi di storia del Risorgimento e ricordava che durante il giorno salivano alla Riviera venditori ambulanti, col pesce fresco e altre leccornie e il giornalaio con i primi Oscar Mondadori, prima collana tascabile della nostra editoria che Giò acquistava immergendosi nella lettura. Egli si ferma nella Villa del nonno, barone di fede repubblicana che il 2 giugno 1946, proclamazione della Repubblica, con furia iconoclasta aveva distrutto tutti i simboli della nobiltà nel frontone della Villa. Ad accoglierlo la fidata Amelia che il nonno molti anni prima aveva condotto dalla sua isola persa nel mare alla Villa e che era il vero genius loci del luogo.

    Sempre presente è il ricordo del terremoto e maremoto del 1908 che come sappiamo provocò la distruzione della Città in particolare della palazzata, lasciando nel cuore sgomento e dolore per la morte di oltre 80.000 persone e distrusse anche Reggio Calabria. Si ritiene che la metà degli abitanti di Messina perì nel sisma e un terzo degli abitanti di Reggio Calabria perse la vita.

    E poi il vento sempre presente dal Grecale al caldo Scirocco che rallenta i riflessi avvolgendo tutto con la sua umidità. Ma il vento del titolo è d’altro genere. Lascio ai lettori la sorpresa di scoprirlo.

    Mentre vanno avanti le indagini Giò si reca a Palermo dove nel Duomo è la tomba di Federico II. Usa il treno, treni locali per gustare con lentezza la sua terra e ricorda il percorso lungo la Sicilia che da ragazzo aveva compiuto in littorina.

    Non mancherà di fare un percorso lungo la litoranea fino a Capo Peloro e rivedrà l’amata Caterina con la quale si fermeranno nel locale del Poeta, ristoratore che scrive poesie e che dedica ogni tavolo a un poeta diverso. Leggiamo i versi di Quasimodo, Montale e tanti altri.

    Giuseppe Marchetti Tricamo ha trovato il giusto equilibrio tra la nostalgia e l’ironia, la gioia della gioventù e il rimpianto. Un libro che è anche uno spaccato del nostro vissuto, del passato, di un mondo più a misura d’uomo e in cui l’Autore introduce con maestria ricordi veicolati da libri, musica, poesia, trasmissioni televisive.

    L’Autore ci introduce sapientemente nella sua Sicilia facendo anche uso della lingua e di termini che rendono più espressivo il racconto.

    Da leggere in questo periodo di feste seduti su una comoda poltrona, al caldo per viaggiare con la mente in attesa di farlo davvero magari nella bellissima e unica Isola amata dall’Autore. 

  • DOS GARDENIAS:
    UN ROMANZO DI AMORE
    PROFONDO PER LA VITA

    data: 20/11/2024 00:49

    Maria Gioia Massidda, psichiatra e psicoterapeuta è nata a Cagliari dove vive e ha lavorato, fino a poco più di un anno fa, con vera passione ed empatia.

    Accanto alla professione si è da sempre dedicata alla scrittura e ha ottenuto vari riconoscimenti. Ha sempre sostenuto, ed ora con più convinzione date le sue condizioni critiche di salute, che la scrittura è una potentissima medicina da assumere anche in dosi massive senza effetti collaterali. Un farmaco efficace contro il male di vivere e non solo. Una sorta di maieutica che fa emergere nel suo dipanarsi il più profondo di noi stessi.

    Ella, mettendo in pratica le sue convinzioni, negli ultimi anni ha scritto tre romanzi e un saggio tutti pubblicati per la casa editrice cagliaritana Aipsa edizioni.

    L’ultima fatica che ella ci propone è il romanzo Dos gardenias che prende il titolo dalla meravigliosa canzone della pianista cubana Isolina Carrillo che la compose nel 1945 e che, riproposta nel tempo da vari interpreti, ottenne un successo strepitoso che continua tutt’ora.

    Il libro, molto avvincente e costruito magistralmente, riflette la Weltanschauung dell’Autrice, quella visione laica e illuminista, la fiducia nella ragione ma non algida, anzi nutrita da profonda umanità, sensibilità e attenzione ai sentimenti e alle emozioni, con capacità di immedesimarsi nell’altro senza dimenticare una grande dose di ironia.

    Molta forza, energia, ironia possiede Gioia Massidda nell’affrontare le prove più difficili.

    L’Autrice espone nella prefazione il metodo che ha utilizzato e che è dovuto alle condizioni di profonda stanchezza ricorrente provocata dalla malattia.

    Dos gardenias fa riflettere sui temi più importanti dell’esistere: la vita, la morte, il bene e il male, lo scorrere inesorabile del Tempo quel grande scultore definito da Marguerite Yourcenar. Una notevolissima prova letteraria che ci fa volare con l’immaginazione e ci guida con mano

    sapiente nel mondo dove realtà e fantasia si intrecciano e compenetrano e nella dimensione della scrittura vivono di vita propria, come una sorta di universo parallelo.

    Il romanzo si apre con il protagonista non ben definito già dal nome Andrea B, sorta di antieroe kafkiano, che vive una strana avventura svegliandosi una mattina buia come una strana notte, convinto sia ora di andare al lavoro e uscito è avvolto da un fitto buio calato sulla città e nella

    sua mente. Il tempo si è fermato. Ma se il tempo si ferma, riflette l’Autrice, anche la nostra condotta ne è determinata. Non esistono più doveri morali, sociali, culturali ma un’assoluta libertà. Ma cosa fare di un dispiegarsi del libero arbitrio? La libertà per la quale milioni hanno combattuto e si sono

    immolati. Un ideale su cui dalla più lontana età gli uomini si sono interrogati: filosofi, poeti, condottieri, artisti, santi. Libertà di essere liberi ma, senza ostacoli da superare, senza ideali la libertà non diventa come una sorta di gabbia? Rende impotenti. E l’Uomo ha paura della libertà, e

    cerca secondo Erich Fromm, una guida, un capo che lo liberi dal delirio della libertà. Ma a che prezzo! Andrea B. trova tutto irriconoscibile, cerca di capire ma finisce per riflettere sulla sua vita. Raggiunge l’ufficio dove in un vaso due gardenie bianche fanno bella mostra di sé ricordandogli i

    suoi soggiorni a Cuba e il ristorante Dos gardenias. Tanti viaggi e soggiorni ai Caraibi, tanta luce, sole, una natura opulenta nel suo rigoglio, la gente allegra e dignitosa nella sua povertà, la musica nel cuore, il brano Dos gardenias bolero trascinante, dolente, struggente che fa da

    accompagnamento alla narrazione.

    Andrea B. ricorda con nostalgia il soggiorno a Cuba, due mesi in cui si intuisce incontrò l’amore ma la narrazione procede alternando brevi capitoli attraverso i quali si dipana una storia che come ben dice l’Autrice, si tinge dei colori del noir. Pian piano scopriamo vari personaggi le cui esistenze si intersecano lungo lo scorrere della vita. E anche Andrea B. emerge dall’indistinzione regalando dei colpi di scena distribuiti sapientemente dalla Autrice. Fa da controcanto la figura di Angelo (nomen

    omen?) un ragazzo di quattordici anni che muore e che in una sorta di limbo dove attende il realizzarsi del morire assiste alle vicende dei suoi cari e scopre la verità sulla sua morte.

    La vicenda che si svolge tra Torino e l’Italia, Cuba e la Baviera e che dati i luoghi è intrisa di magia, si pensi alla santeria vero sincretismo magico religioso praticato a Cuba, nelle Antille e in vari Stati dell’America latina, viene descritta con attenzione ai particolari e pare di assaporare i polposi e

    succulenti frutti tropicali, le pietanze gustose e speziate, i cocktail, anche il Dos gardenias, e le bevande, il tutto amalgamato per la gioia del palato in un’esplosione di vita e di potente voglia di vivere che si palpa nell’incendiata atmosfera cubana. La musica e il canto, espressione di

    freschezza vitale, inondano l’Isola.

    Lasciando al lettore la curiosità di scoprire la trama del romanzo vorrei sottolineare la profondità intellettuale dell’Autrice che, come lei stessa scrive nella prefazione, fa tesoro della sua esperienza professionale che l’ha posta in una condizione di ascolto e le ha fatto cogliere storie e vissuti. Con questo bagaglio grazie a una non comune capacità affabulatoria ha creato un libro che pone interrogativi sulla vita, il Tempo, la malattia, la morte, il bene e il male.

    E non mancano i riferimenti all’arte, in particolare la vicenda ruota attorno a una copia del famoso dipinto simbolista di Arnold Böcklin L’Isola dei morti insufflato dall’innovativa carica simbolica che ha incantato tantissimi osservatori colpiti dalla Sindrome di Stendhal. Magico e inquietante, L’Isola dei morti, sottolinea Massidda, rappresenterebbe un oscillare dell’essere umano tra attaccamento e distacco. Nell’amore, riflette l’Autrice, si ondeggia tra desiderio e paura dell’attaccamento e al

    tempo stesso il desiderio di libertà che porta al distacco a sua volta temuto.

    Massidda si domanda, con accenti lirici, se non sia il caso di risolvere il nodo gordiano rappresentato dall’oscillare tra attaccamento e distacco chiedendo con l’uso delle parole la soluzione all’amore stesso.

    C’è tanto da riflettere in questo romanzo, tanti spunti che illuminano.

    Nella prefazione l’Autrice sottolinea come difronte alle scelte che la vita ci pone davanti si debba cambiare. Perché tutto cambia. Cambiano le storie individuali e la grande Storia nella quale siamo immersi e che come tanti aghi sotto il cielo, direbbe De Gregori, con le nostre vicende minime

    realizziamo la grande Storia. Accettare il cambiamento, affrontare senza evitare per non decidere. Scrive Massidda Opporsi ai cambiamenti è, infine, il nostro unico, vero peccato mortale (p. 13).

    Troviamo in Dos gardenias, oltre alla capacità di amalgamare organicamente il materiale narrativo e che già conoscevamo nei due romanzi precedenti, l’amore profondo, caparbio per la vita in tutte le sue molteplici sfaccettature e per la musica in tutti i suoi generi e la volontà di lottare nonostante le difficoltà, come Gioia Massidda sottolinea nella prefazione.

  • SOCIOLOGIA, IERI E OGGI
    INTERVISTA ESCLUSIVA
    A FRANCO FERRAROTTI

    data: 14/11/2024 23:18

     La vita del prof. Franco Ferrarotti, fin dall’infanzia, è ricca di interessi oltre che di esperienze e di successi professionali. Come scrive in L’Accademia e l’agorà (Armando), la passione per la Sociologia, sconosciuta in Italia dove dominava l’idealismo crociano, lo portava, scolaro, a leggere tutto ciò che al riguardo poteva trovare nelle biblioteche. Vincitore in Italia della prima cattedra di Sociologia a La Sapienza, Università di Roma, Ferrarotti ha potuto possedere un punto di vista privilegiato per osservare e comprendere la società nel suo evolvere o involvere a seconda del punto di vista.

    Cosa ne pensa della società attuale? Ritiene che la Sociologia possa essere un valido strumento d’indagine e conoscenza anche in un mondo post-moderno dominato dai media digitali e in cui si sono persi i punti di riferimento e tutto è come in un moto perpetuo?

    "Credo di avere buone ragioni per ritenere che la società attuale corra il rischio di scomparire. Si continua a parlare di sociale, società e socialità, ma più per abitudine e per tradizione che per intima convinzione, in base a quella comunanza naturale che Aristotele chiamava koinonia e vedeva come risultanza della convivenza di più individui e famiglie nello stesso spazio. Oggi l’economia di mercato è così forte e onni-inclusiva che la vedo tracimare e in grado di trasformare la società in società-di-mercato, vale a dire, in non-società. Non voglio dire che oggi i futuri promessi sposi, prima del si fatale, vadano all’ufficio del catasto a controllare le eventuali rispettive proprietà, ma è un fatto che rari sono ormai anche i rapporti inter-personali dotati e sperimentati come valori in sé e per sé. Il calcolo razionale ha invaso la stessa sfera dei rapporti intimi. L’amicizia disinteressata sta divenendo un fenomeno raro. La sociologia, in questa situazione, è ridotta a un ruolo ancillare: a) può analizzare e accertare se due scopi, entrambi desiderabili, siano di fatto compatibili; b) può ipotizzare e calcolare il costo delle riforme sociali propagandate e mettere a confronto misure auspicabili e risorse disponibili; c) analizzare, per gli enti pubblici, lo scarto fra statuti giuridici e pratiche effettive; d) soprattutto oggi, in una situazione tecnologica avanzata, una sociologia libera, autonoma rispetto ai grandi potentati economici, dovrebbe analizzare le ricadute collettive e psicologico-individuali delle innovazioni tecnologiche. Per esempio: le informazioni elettroniche sono rapide, in tempo reale, planetarie, ma lo loro velocità e abbondanza bloccano la capacità di riflessione dell’individuo, non hanno la critica delle fonti e non rispettano né il principio di non-contraddizione né la consecutio temporum. Quindi, non informano, deformano, deconcentrano, impediscono al singolo di farsi un progetto di vita; mentre sembrano arricchirlo e promettono tutto in realtà riducono al nulla".

    Lei ha avuto il privilegio di essere amico fraterno di Cesare Pavese. E’ stato lui a metterle in mano Veblen, sconosciuto in Italia, perché lo traducesse. Su di esso lei ha elaborato la Tesi di Laurea con relatore Nicola Abbagnano. A breve uscirà per Solfanelli “Cesare Pavese, fra il bosco e l’asfalto in silenziosa amicizia”. Potrebbe anticipare per Infodem qualche passo, qualche ricordo?

    "Il mio rapporto con Pavese è stato un regalo delle circostanze: due contadini sperduti nella grande metropoli e legati da radici comuni e non da interessi immediati o da tornaconti personali, anche se, in caso di bisogno, l’aiuto era pronto, generoso, senza contropartite, fraterno".

    La recente lettura di “Promemoria” di Luigi Meneghello mi ha fatto pensare all’esperienza di Comunità, vero crogiuolo di pensiero e azione. Un momento che l’ha vista collaborare con Adriano Olivetti ed essere eletto in Parlamento come rappresentante del Movimento. Ci potrebbe dare, gentile Professore, un’idea della vita parlamentare di allora? E come controcanto come vede l’attuale classe politica?

    "La genialità dell’intuizione olivettiana consiste essenzialmente nell’aver compreso che nella comunità concreta, territorialmente definita, a misura d’uomo, là dove le persone vivono, lavorano, amano e odiano, ma naturalmente, ossia non in base a calcoli razionali preventivi, va ricercato il nucleo vivo del sociale. Idea geniale, non capita, che ha condannato Olivetti all’isolamento culturale e al fallimento politico, causato dal suo anticipo. Comunità aveva compreso in tutta la portata la crisi dei partiti politici di oggi e dei sistemi metropolitani e produttivi con almeno cinquant’anni di anticip".

    Lei ha attraversato tutto il Novecento conoscendo il Fascismo, la Guerra, la Resistenza, la nascita della Repubblica, la Costituente. Ma anche i Totalitarismi, la Shoah e poi il crollo delle ideologie e la fine del Comunismo sovietico. Tutti eventi epocali del "Secolo breve”. Il XXI secolo ci trova disorientati e confusi, Internet impera, la società è diventata “liquida” secondo Bauman. Potrebbe regalarci la sua preziosa testimonianza da “viaggiatore nel Tempo”?

    "Ho vissuto, come deputato, la III Legislatura con grande piacere. Come indipendente di sinistra pulito, cioè non monarchico, nel gruppo misto il mio voto era decisivo, addirittura dirimente, per il primo centro-sinistra. Ho sperimentato sulla mia pelle il piacere intenso, direi quasi orgasmico, del potere politico. Parlavo con uomini che avevano alle spalle una biografia, da Togliatti a Nenni, Fanfani, Pertini, Saragat. Oggi la classe politica sembra l’ombra lunga del ’68, vale a dire la protesta che non sa diventare proposta, l’ignoranza tracotante, il pensiero ridotto a ripetitiva, noiosa propaganda. Di qui la fortuna di teorie estemporanee, che sono l’esatta negazione della realtà: non società liquida, ma, per quel che ne resta, società irretita, totalmente amministrata da funzionari demotivati".

    E per concludere mi permetto una domanda “interessata” da laureata in Lettere con tesi in Sociologia sulla “Religione civile”. Da sociologo e intellettuale che ha insegnato anche negli Usa, dove esiste una forte “religione civile”, ha un senso, secondo lei, parlare di “Religione civile” nel nostro Paese?

    "La religione civile nasce con i Founding Fathers, che fondano gli Stati Uniti come comunità approdando nel New England in fuga dall’Europa come eretici perseguitati. Ne ho scritto in Una teologia per atei (Laterza, 1981). Nulla di tutto questo per gli Italiani, che si possono definire cattolici atei, portati ad un edonismo immediato e amorale, sempre in nome del primum vivere, un vitalismo che non ha bisogno di giustificarsi.

  • MILAN KUNDERA
    E LA TRAGEDIA
    DELL'EUROPA CENTRALE

    data: 18/07/2023 09:54

    Milan Kundera (Brno, Cecoslovacchia, 1929), autore già notissimo nel suo Paese prima della Primavera di Praga cui fece seguito l’invasione sovietica nel maggio 1968, fu costretto a rifugiarsi in Francia nel 1975 divenendo una delle voci più ascoltate e limpide fra gli intellettuali del Novecento. Egli ha sempre preso posizione contro i totalitarismi sia fascista che comunista e nelle sue numerose opere letterarie, tra cui L’insostenibile leggerezza dell’essere (trasposto in film), ha narrato vicende in massima parte autobiografiche ma anche relative alla vita e al ruolo degli intellettuali nella società contemporanea.
    Esce il 12 maggio per Adelphi, che gli ha pubblicato tutte le opere, un inedito in Italia costituito da due testi: La letteratura e le piccole nazioni, Discorso al Congresso degli scrittori cecoslovacchi, risalente al 1967 e Un Occidente prigioniero o la tragedia dell’Europa centrale, articolo pubblicato su Le Debat, XXVII nel novembre del 1983.
    Un articolo fulminante, il primo, che suscitò polemiche nell’Europa dell’Est e all’Occidente europeo mostrava l’appartenenza delle nazioni dell’Europa centrale al milieu occidentale. Quindi le nazioni della Mitteleuropa che erano finite sotto il giogo sovietico erano da considerare occidentali a tutti gli effetti.
    Sono testimonianze di un profondo sentire e di un amore per la sua Patria prima della caduta del Muro e dell’implosione dell’URSS.
    Si tratta di lavori di scottante attualità che gettano luce sul presente in una sorta di preveggenza che solo i grandi intellettuali possiedono.
    Il primo testo è stato presentato ai convenuti al Congresso degli scrittori cecoslovacchi del 1967, in un clima arroventato dalle polemiche e da scontri verbali che già sono prodromi di quel che accadrà con l’invasione di Praga da parte dei carri armati sovietici (la Storia pare non insegnare niente) e vedrà Jan Palach immolarsi in nome della libertà della sua Patria. Ricordo ancora l’episodio, ero bambina e la radio trasmetteva le drammatiche notizie, poi in Tv i tank sovietici e le immagini di terrore mentre i giovani praghesi cercavano di parlare con i soldati. Un momento sempre presente nella mia mente rinfocolato dalle immagini che vediamo in questi giorni.
    Kundera ritiene gli Anni Sessanta un crogiolo per la letteratura e ogni aspetto della cultura. L’allentarsi dei freni del regime in quegli anni aveva favorito lo sviluppo delle arti, anche cinematografiche, del teatro, e poi la musica in un ribollire di attività culturali. Molte le pubblicazioni di riviste come Literarni noviny che vendevano duecentocinquantamila copie in un sol giorno.
    Sostiene Kundera che l’esistenza della nazione dipende dalla cultura ed è fondamentale per la vita delle “piccole nazioni”. Essa è il collante del vivere civile e in cui gli individui si riconoscono. Nazioni come la Cecoslovacchia, ora Repubblica ceca, l’Ungheria, la Polonia, e le nazioni dell’Europa centrale devono, per non essere schiacciate, fare affidamento sul prestigio culturale. E’ un elemento fondamentale per l’identità nazionale. Il periodo a cavallo tra le due Guerre vede una fioritura letteraria senza precedenti.
    Nel suo discorso Kundera si sofferma sulle difficili vicende storiche affrontate dalla nazione ceca. Essa è caduta durante il Nazismo e poi è finita nell’orbita dello stalinismo, non ha conosciuto la libertà ma nonostante tutto ha elaborato una letteratura di pregio, non elitaria a cui può attingere tutta la popolazione. Ciò è una peculiarità della Nazione ceca.
    Nel secondo saggio, Un Occidente prigioniero, Kundera affronta il legame che unisce la Cecoslovacchia e l’Ungheria all’Europa. Prende spunto dalla frase pronunciata dal direttore della agenzia di stampa ungherese poco prima di essere ucciso dall’artiglieria sovietica entrata a Budapest nel 1956: “Moriremo per l’Ungheria e per l’Europa”. E’ ciò come la prova che egli si sentiva a tutti gli effetti europeo e l’Europa invece sentiva l’Ungheria come sovietica. Tutti gli stati dell’Europa centrale erano per cultura europei e non russi.
    Ma vediamo che l’Europa geografica che giunge fino agli Urali ha gravitato attorno a due entità religiose e statuali: la prima parte a Occidente ha avuto come punto di riferimento la Chiesa cattolica e l’antica Roma; la parte a Est si è legata a Costantinopoli e alla Chiesa ortodossa. Queste due parti si sono evolute separatamente acquistando un profilo peculiare.
    La parte centrale dell’Europa, la Mitteleuropa ha visto ribellioni e lotte in particolare dopo la Seconda Guerra Mondiale. Si trattava di rivolte di tutto il popolo contro i sovietici. Le rivolte di Praga, Varsavia, sono da ritenersi il dramma dell’Europa centrale. Kundera dà molta importanza, anche in questo saggio, all’aspetto culturale che nei Paesi della cortina di ferro ha insufflato idealità e identità a popoli che lottavano per la libertà. Popolo, vita, cultura, creazione sono i fattori fondamentali che hanno reso unici questi moti nell’Europa centrale e che sono stati osservati con scetticismo dagli intellettuali occidentali.
    Il grande storico ceco Frantisek Palacky nel 1848 sosteneva la necessità della creazione di una nazione che riunisse i piccoli stati del centro Europa che avrebbero però mantenuto le proprie peculiarità. Una specie di federazione retta da uno Stato forte che si sarebbe difesa dalle mire espansionistiche della Russia zarista. Si affermava il principio del “massimo della diversità nel minimo spazio” opposto alla visione russa del “minimo di diversità nel massimo spazio”.
    Rispetto alla Mitteleuropa la Russia si presenta come una civiltà “altra”.
    Ma l’Europa centrale non è uno Stato ma una “cultura o un destino”.
    Kundera si sofferma sugli scrittori amati: Kafka, Hasek, Musil, Broch. Sulla temperie culturale in cui si staglia il Circolo linguistico di Praga e il pensiero strutturalista. Molti intellettuali sono ebrei e qui Kundera li definisce “una piccola nazione”, “la piccola nazione”. Una nazione spazzata dal nazismo ma che è riuscita a rinascere più forte. Il sionismo nacque proprio in Cecoslovacchia.
    Lasciamo al lettore il piacere di leggere soffermandosi su questi densi testi che mettono in evidenza coincidenze con la situazione geopolitica attuale.
    Due magistrali saggi che anticipano problematiche attuali aprendo la strada a una riflessione e una comprensione della Storia attraverso varie sfaccettature e varie prospettive.

  • data: 15/01/2023 12:01

  • VITA DI JOYCE LUSSU,
    GRANDE PROTAGONISTA
    DI UN SECOLO

    data: 14/01/2023 21:46

    Silvia Ballestra, scrittrice e intellettuale marchigiana - già  autrice de "La guerra degli Anto’" da cui è stato tratto un film, che aveva già avuto modo di far conoscere approfonditamente Joyce Lussu nel raccoglierne la testimonianza poi pubblicata da Baldini e Castoldi col titolo "Joyce L." - ci conduce con arte sapiente, incrociando i percorsi di Joyce e Lussu che da paralleli divengono coincidenti, alla scoperta di questa figura unica, anticipatrice dei tempi della liberazione femminile, bellissima nei lineamenti illuminati da intelligenti e profondi occhi azzurri e nella figura slanciata.
    "La Sibilla –Vita di Joyce Lussu" (Laterza), appassionata e appassionante biografia, è l’ultima fatica dell’Autrice, scritta col cuore e profonda sensibilità ma anche con notevoli capacità narrative e rigore.
    Dopo questa cavalcata lungo il Secolo breve si avverte una sorta di tristezza, di assenza, di vuoto, di perdita e nel medesimo tempo di coscienza di ciò che ha rappresentato per l’universo politico, culturale, umano Joyce, figura cristallina e ricca di vitalità, combattiva ed energica fin dalla più giovane età, lottatrice indefessa contro le ingiustizie. Capace di attraversare fronti e frontiere, sia per combattere il fascismo e il nazismo che per lottare contro il colonialismo nel Terzo Mondo. Denuncia le precarie condizioni di vita in cui versano le popolazioni di quella sfortunata parte del Mondo come, dopo la Liberazione e la fine della Guerra denunciò il tristissimo stato di vera e propria indigenza e di denutrizione infantile, le precarie condizioni igienico-sanitarie in cui versavano le popolazioni della Sardegna e del Sud Italia. Evidenzia l’arretratezza del tessuto economico-sociale, la condizione di sottomissione delle donne in una società patriarcale. Ella non è soltanto la giovanissima moglie di Emilio Lussu leggendario capitano della Brigata Sassari e dopo la Guerra fondatore del Partito Sardo d’Azione, ma la sua figura brilla di luce propria.
    Ballestra ci fornisce un ritratto di Emilio Lussu, antifascista condannato a cinque anni di confino a Lipari per aver ucciso per legittima difesa (il Tribunale lo riconoscerà scagionandolo), un fascista che al grido di “A morte Lussu!” cercava di introdursi nella sua abitazione. Da Lipari riuscì a fuggire in maniera rocambolesca con Carlo Rosselli e Fausto Nitti e a riparare in Francia. L’avvenimento, vero scacco al regime, troverà largo spazio nella stampa internazionale e verrà raccontato da Lussu in Marcia su Roma e dintorni. Fondatore con i Rosselli, Nitti e Salvemini di Giustizia e Libertà con il motto Insorgere Risorgere e che poi darà vita al Partito D’Azione che giocherà un ruolo di primo piano nella Resistenza, Lussu condurrà quella che egli definì Diplomazia clandestina con gli inglesi e gli americani con al suo fianco la giovanissima Joyce.
    Joyce Lussu Salvadori, sostiene l’Autrice, è stata tutto il Novecento, grandissima, è stata un tempo, un intero secolo, ed è stata un mondo. Ballestra la definisce la mia Sibilla “poiché nei lunghi colloqui le ha posto domande come facevano i viandanti sui Sibillini per interrogare la signora che tesseva i fili di passato, presente e futuro”. La Sibilla picena.
    Joyce (Gioconda) Salvadori, ultima dopo i fratelli Gladys e Max, figli di Willy e Cynthia, nasce a Firenze l’8 maggio 1912. La famiglia è di origine inglese per via di una comunità che si era insediata nelle Marche nell’Ottocento. Il padre Willy è laureato in Scienze sociali e ha una seconda laurea in Filosofia conseguita a Lipsia. E’ libero docente all’Università di Firenze e fervente antifascista in contatto con Benedetto Croce in quanto traduttore in Italia del filosofo e sociologo Spencer. Croce leggerà apprezzandole le composizioni poetiche di Joyce ancora bambina. Anche Cynthia è coltissima pur non avendo frequentato il College. Entrambi di origine benestante ma contrari alle posizioni fasciste dei genitori si rendono indipendenti dalla famiglia d’origine.
    Il periodo difficile per via delle minacce e violenze dei manipoli fascisti porta la famiglia, in seguito all’aggressione fascista subita da Willy e da Max che lo aveva seguito, a lasciare Firenze. Su Willy viene emessa una condanna a morte. Joyce sarà molto toccata da questo episodio che a soli dodici anni vedendo che gli uomini di casa avevano mostrato coraggio cercando di rassicurare lei e Cynthia, giurerà a sé stessa che non resterà inerte ma se “rissa deve esserci nella rissa ci sarò anch’io”. Ha idee chiare e coraggio la piccola grande Joyce e lo dimostrerà lungo tutta la sua esistenza. Ballestra ce ne fornisce un ritratto umano e ricco di sensibilità, di tatto e affetto.
    La famiglia si rifugia in Svizzera dal 1924. Joyce impara quattro lingue, lavora per pagarsi gli studi ad Heidelberg dove ha come docenti Jaspers e Richert. Nel 1932 un primo “incontro” con Hitler. E’ atteso per un dialogo con gli studenti e a Joyce viene assegnato il compito di porgli domande. Ma non c’è dibattito né contradditorio. Hitler parla da un balcone con voce come un ringhio di belva. I bivacchi dei nazisti, la volgarità, tutto preannuncia le tenebre. Joyce pone domande a Jaspers e Rickert che non si rendono conto della gravità della situazione. “Passerà!” le rispondono.
    La famiglia Salvadori aderisce, fin dalla fondazione, nel 1929 a Giustizia e Libertà. Il movimento accoglie liberali, socialisti, federalisti e repubblicani. Lo scopo è l’antifascismo attivo e il rovesciamento del regime. I fuoriusciti in Francia hanno collegamenti con gli antifascisti rimasti in Italia. L’incontro con Lussu a Ginevra avviene nel 1933. Joyce deve consegnargli un messaggio segreto. Egli è un mito per Joyce e il Cavaliere dei Rossomori, come lo definirà Giuseppe Fiori in un magistrale saggio, fa colpo sulla giovane che definirà l’incontro come il classico colpo di fulmine dei romanzi dell’Ottocento. I due si separano. Passano alcuni anni durante i quali Joyce va a vivere con il giovane marito, Max e consorte in Kenya. Matrimonio “sbagliato” e presto annullato. Joyce ha nel cuore ancora Lussu.
    Aprile 1938, rientro in Europa. In Fronti e frontiere Joyce delinea tutte le vicende che si susseguiranno durante la guerra: falsificazione di documenti in cui ella è maestra, passaggio di frontiere e di fronti quando Joyce ed Emilio Lussu passeranno in Spagna e Portogallo e da lì, sotto copertura, verranno condotti in Gran Bretagna. Per non parlare dell’epica azione di Joyce quando, tornati in Italia dopo la caduta del Fascismo e l’Armistizio l’8 settembre 1943, per consegnare un messaggio per i partigiani, partendo da Roma, sola percorre la linea del Fronte vedendo spettacoli di distruzione e morte e finalmente riesce a trovare gli Alleati ma anche il fratello che nel frattempo, ben sei anni, si è arruolato nell’esercito inglese dove è ufficiale inglese (aveva la doppia nazionalità poiché era nato a Londra). L’incontro è commovente.
    Ma tornando al rientro dall’Africa, Joyce arriva in Francia e da lì in Svizzera. Caparbiamente cerca Lussu e lo trova. Non si separeranno più. Scrive Joyce che l’essere una coppia dà minori possibilità di attirare l’attenzione delle guardie perché si ritiene erroneamente che un fuoriuscito sia un solitario, isolato. Ma Lussu è del parere che dove non arriva un uomo una donna può farcela. Di ciò è convinta anche Joyce che infatti riuscirà, grazie anche alla conoscenza di quattro lingue, a giungere dove altri avevano fallito.
    Joyce e Lussu vivono a Parigi dove c’è una nutrita comunità di fuoriusciti. Siamo quasi al 21 giugno 1940 giorno dell’arrivo dei nazisti a Parigi. Tutti i compagni hanno lasciato la Città, loro sono gli unici ancora presenti. Nel pomeriggio si mettono in viaggio a piedi. Parigi è vuota. I tedeschi non sparano un colpo. I francesi sono ammutoliti. La marcia dura un giorno finché non riescono a salire sull’ultimo treno per Orléans. Joyce descrive un’atmosfera surreale col fumo degli incendi, la folla di profughi incolonnati lungo i binari in un bailamme di carri a cavallo carichi di masserizie, persone a piedi con valigie. Ogni tanto un aereo mitraglia la folla. L’atmosfera mi fa pensare a quella stessa descritta magistralmente da Irene Nemirovsky nel capolavoro Suite francese. E’ soltanto l’inizio del baratro in cui sprofonderà l’Europa per cinque lunghi anni.
    Il 20 giugno 1940 l’armistizio di Compiegne. Il Maresciallo Petain diventa presidente del Governo di Vichy, stato fantoccio completamente asservito ai nazisti. Tutto sembra crollare. Joyce e Lussu si rifugiano sui Pirenei ma successivamente si trasferiscono a Marsiglia dove cercheranno di far espatriare antifascisti, profughi ed ebrei con i documenti falsificati alla perfezione da Joyce.
    Joyce e Lussu vengono contattati dagli inglesi per una missione di quella che Lussu definirà “diplomazia clandestina”. Egli aveva proposto agli inglesi, ad altissimo livello, di liberare la Sardegna. Il piano, sostenuto con calore, avrebbe trovato nell’Isola il favore dei compagni di Lussu che attendevano di poter intervenire. Esso avrebbe potuto ridurre di almeno 9 mesi la durata della guerra. Volato in Usa Emilio, Joyce rimane a Londra dove frequenta un corso paramilitare. Al ritorno di Lussu in Gran Bretagna la missione sfuma e la coppia torna in Francia. Joyce riuscirà a far espatriare in Svizzera i coniugi Modigliani spingendoli letteralmente oltre la frontiera controllata dai francesi. Verrà arrestata ma riuscirà a salvarsi grazie alla conoscenza delle lingue.
    La cavalcata continua. Nell’estate del 1943 Joyce e Lussu tornano in Italia, a Roma, sotto falso nome. Divisi partendo si rincontrano a Imperia dove Joyce era sicura si trovasse Emilio. Ciò viene definito da Joyce “telepatia familiare” ed accadeva spesso tra loro. Ella sosteneva che la comunanza di pensieri e affetti, conoscenza e sentimenti profondi creassero una perfetta sintonia per cui ognuno sapeva esattamente dove l’altro si trovasse e quali fossero i suoi pensieri.
    A Roma cade il Fascismo, e si arriva all’Armistizio di Cassibile, l’8 settembre. La Nazione è allo sbando, ci sono ancora le Divisioni tedesche sul nostro territorio e l’esercito, senza comandi e senza armi. Rovesciamento del Fronte. Il re e Badoglio sono al sicuro a Brindisi. Nel discorso radiofonico Badoglio sottolinea “la guerra continua”. Ma contro chi? A Roma, a Porta San Paolo, c’è un primo scontro tra la popolazione, gli antifascisti e i tedeschi. Ma purtroppo questi ultimi avranno ragione dei resistenti e comincerà l’occupazione nazista. Lo scontro a Porta San Paolo sarà considerato il primo episodio della Resistenza.
    Joyce deve compiere una missione oltre il fronte, raggiungere gli Alleati per chiedere un lancio di armi presso il lago di Bracciano. Parte il 20 settembre. Trova una situazione terribile, città devastate ridotte un cumulo di rovine. Ombre che si aggirano come fantasmi tra le macerie. E anche sciacalli che approfittano della situazione per arraffare dalle case sventrate. Vede un aviatore inglese carbonizzato. Profondamente colpita scriverà L’uomo che voleva nascere donna. Come detto prima, riuscirà a portare a buon fine la missione e riabbraccerà Max. E’ durante questa missione che si accorge di essere incinta. Il 5 giugno 1944 gli Alleati entrano a Roma e Joyce e Lussu si sposano civilmente. Il 15 dello stesso mese nascerà il loro unico figlio Giovanni.
    Settembre 1944. Joyce e famiglia per la prima volta in Sardegna. Ella partecipa con profonda empatia alle condizioni di vita della gente. Affascinata dai racconti che Emilio le ha fatto dell’Isola aspra e forte ora tocca con mano la durezza del vivere. Vuole comprendere, domanda, parla, ascolta, guarda. Gira a cavallo da sola, raggiunge altri paesi, parla con i pastori. Vuole conoscere le condizioni di donne e bambini. E mentre Lussu, a Liberazione avvenuta, si impegna nella battaglia per il Referendum e poi nell’Assemblea costituente, Joyce lotterà perché sia riconosciuto il miglioramento delle condizioni di vita in Sardegna e nelle regioni del Sud. Sottolinea il lavoro da fare per la condizione femminile. Sarà tra le organizzatrici di un importante incontro a Cagliari, al Teatro Massimo, con la partecipazione di 3000 donne provenienti da tutta la Sardegna. Grandissimo successo in un susseguirsi di interventi e testimonianze. Per vari motivi non troverà seguito.
    Col tempo Joyce si interesserà alla poesia dei poeti del Terzo Mondo e dei movimenti per la decolonizzazione. Ella tradurrà con un metodo nuovo suggeritole dal Nobel turco Nazim Hikmet le poesie di quest’ultimo e anche Neto, Ho Chi Mihn, le poesie del popolo curdo e degli esquimesi. Tradurrà Kadaré e altri poeti albanesi. Incontrerà anche il capo dei Curdi. A tal riguardo uscirà nel 1967 per Mondadori "Tradurre Poesia" importante antologia.
    Riuscirà a liberare la moglie di Hikmet trattenuta con i figli in Turchia. Nonostante il rigido controllo della polizia fuggiranno su un velocissimo motoscafo messo a disposizione da un industriale milanese con imprese in Sardegna. E’ il conte Enrico Giulini. La fuga rocambolesca con naufragio finale, ma ormai erano al sicuro, troverà spazio nella Stampa internazionale.
    Nel periodo delle lotte per l’indipendenza delle colonie portoghesi e non solo seguirà i rivoluzionari nella foresta, parlerà con loro, ascolterà i loro canti. Tra i partigiani angolani si sentiva a casa, una di loro. Joyce riteneva che la costituzione di società libere dal colonialismo il costruire un Paese fossero “l’attimo in cui si realizza l’utopia”. Questa non è un sogno irrealizzabile, una fuga dalla realtà ma dice Joyce “E’ una proposta di un possibile che c’è virtualmente, che ancora non è posto nella concretezza della vita, nell’organizzazione della società, ma potrebbe esserci”.
    Collaborerà con Bertrand Russell Nobel per la letteratura alla creazione della sezione italiana del Tribunale Russell per denunciare la violazione dei diritti umani in Vietnam
    e non solo.
    Alla morte di Lussu, nel 1975 si trasferirà nelle Marche nella casa di famiglia. Ballestra con grande sensibilità riporta alcuni pensieri scritti da Joyce nella casa romana dove aveva vissuto per tutta la vita con Lussu. “Nel silenzio totale della casa, sentivo la sveglia di cucina battere il tempo con ritmi monotoni e tristi, come gli attitus delle donne sarde. Non più, per te, il tempo…Il tempo, per te, mai più”.
    Ballestra sottolinea alcuni elementi che hanno fatto da collante per la coppia Joyce ed Emilio. Uno è costituita dall’ironia che entrambi possiedono, sardonica, asciutta in Emilio, marchigiana col gusto della risata, ma anche inglese dalle sue radici. Quest’ironia si riflette ed è parte integrante della loro scrittura. Ironia amara in “Un anno sull’Altipiano” di Lussu e ironia anche nei pamphlets di Joyce come “Padre, padrone, Padreterno” edito da Mazzotta nel 1975. Un altro aspetto è per Joyce l’altro. Ed ella si è messa in gioco spendendosi per quello che poteva rappresentare altro da noi in senso sia culturale che etnico, che come alternativa al potere.
    Joyce non si risparmiava anche negli incontri con gli studenti per portare la sua esperienza di vita, di combattente per la libertà e di donna. A tal proposito mi permetto un ricordo. Fu invitata ad un incontro in Sardegna con noi studenti del Liceo che frequentavo poco prima della Maturità. Bellissima figura di donna che mi colpì moltissimo e seguii attentamente il discorso e il confronto sulla Resistenza, la figura di Emilio Lussu, la passione per la questione femminile. Ma c’è anche un’altra combinazione. Lussu e Joyce poco dopo la Liberazione andarono a trovare mio nonno paterno e la famiglia nel Centro barbaricino in cui mio nonno insegnava. Egli era amico di Lussu, si conobbero durante la Grande Guerra e anche nonno era reduce e tra i fondatori del Partito Sardo d’Azione. Mi raccontarono che l’incontro fu emozionante dopo anni che non si vedevano e Joyce riscosse un grandissimo successo in famiglia e tutti elogiarono la sua bellezza, l’eloquio oltre che l’intelligenza e la gentilezza. Come Ballestra sottolinea ella si era ben innestata nell’olivastro in cui io vedo la Sardegna ma anche Emilio Lussu.
    Joyce, scrive Ballestra, riteneva che l’intelligenza non sia un fatto di maturazione bensì si manifesti come un fulmine, un’improvvisa luce che chiarisce, rischiara la mente.
    Un libro che cattura e meraviglia La Sibilla di Silvia Ballestra. E trovo molta sensibilità, tatto, amore per i protagonisti ma anche per la scrittura, la poesia. Un atto d’amore ritengo. Si legge come un romanzo di una vita straordinaria. Scrive Ballestra “una donna formidabile, saggia e generosa, ricchissima di pensieri, intuizioni, toni, bellezza, forza, argomenti, intelligenza”.
    Un libro che non smette di avvincere per come è scritto e per il ritratto che fa della protagonista di un Secolo.
     

  • GLI EVENTI CHE PORTARONO
    ALLA MARCIA SU ROMA
    E AL REGIME FASCISTA
    RACCONTATI DA LUSSU

    data: 31/10/2022 21:07

    Il 28 Ottobre 1922 si attuava la Marcia su Roma. E' il Centenario dell'avvenimento che segna un momento decisivo per la presa del potere da parte di Mussolini e del fascismo e dimostra la debolezza della democrazia e la volontà del Re Vittorio Emanuele III di appoggiare Mussolini, visto come un argine alle rivendicazioni dei lavoratori nei confronti degli industriali e degli agrari e alla minaccia del bolscevismo. Perciò molte sono le pubblicazioni di storici e giornalisti per ricordare e cercare di spiegare la nascita di una dittatura che per un ventennio avrebbe dominato l’Italia. Il Fascismo, al massimo del consenso, condusse il Paese a una Guerra disastrosa al fianco di Hitler e del Nazismo. Dopo il crollo del Regime venne una guerra civile, come definita da Pavone, che lacerò l’Italia fino alla Liberazione dal Nazifascismo e alla costituzione della Repubblica democratica.
    Ho pensato di proporre la lettura degli avvenimenti che ci dà Emilio Lussu nel suo Marcia su Roma e dintorni (Ilisso), scritto nel 1931 durante l’esilio in Francia.
    Emilio Lussu (Armungia 1890 – Roma 1975), Laurea in Giurisprudenza, Avvocato, interventista, Capitano della Brigata Sassari, fu sempre in prima linea combattendo nell’Altopiano di Asiago e nel Carso. Congedato, fu attivo nel movimento degli ex combattenti e fu tra i fondatori del Partito Sardo d’Azione, democratico e autonomista. Eletto deputato nel 1921 e 1924, poté essere testimone oculare dell’avanzata e dell’affermazione del fascismo.
    A causa di un’aggressione di fascisti nella sua casa nel pieno centro di Cagliari, uccise un assalitore che cercava di entrare da una finestra al grido di “A morte Lussu!”. Ciò comportò l’arresto e il carcere per 13 mesi. Prosciolto per legittima difesa fu condannato da Mussolini a cinque anni di confino a Lipari da dove riuscì a evadere con Carlo Rosselli e Fausto Nitti in una rocambolesca fuga su un veloce motoscafo comandato dal Capitano Oxilia. Rifugiatosi in Francia fondò con Carlo e Nello Rosselli e Fausto Nitti il movimento di “Giustizia e Libertà”. I fratelli Rosselli verranno trucidati, nel maggio del 1937, da sicari fascisti, mandante Ciano. Lussu continuerà la lotta conducendo una azione diplomatica clandestina per cercare di liberare l’Italia dal giogo della dittatura.
    Sarà sua compagna Joyce Salvadori, attivista e partigiana, che diverrà sua moglie. Ella fu scrittrice, poetessa e traduttrice di rilievo.
    Tornato in Italia, Lussu fu tra i fondatori del Partito d’Azione e, accolto in Sardegna da una folla festante, realizzerà la fusione tra Partito Sardo d’Azione e Partito d’Azione. Sarà ministro nel Governo Parri e nel primo De Gasperi. Deputato alla Costituente, porrà in rilievo la questione dell’Autonomia sarda. Sciolto il Partito d’Azione, confluirà nel Partito Socialista e fonderà il Partito Socialista Italiano di Unità Proletaria. Sarà Senatore dal 1948 al 1968.
    Il raggio di Lussu abbraccia gli avvenimenti politici che si svolgono in Italia dal 1921 quando il fascismo comincia la sua ascesa, al 1929 anno della fuga da Lipari.
    Egli racconta l’umore degli ex combattenti poco dopo la fine del conflitto e la sensazione dei reduci di essere inadeguati nella società postbellica. Vi è la delusione per le promesse non mantenute del Governo Salandra (“la terra agli ex combattenti”) e la sensazione della “Vittoria mutilata” perché alla Conferenza di Versailles Fiume con Istria e la Dalmazia non venivano assegnate all’Italia.
    L’atmosfera nel Paese era incendiaria mentre Mussolini “faceva il nazionalista” scrivendo articoli ambigui e non graditi agli ex combattenti che lo consideravano un “imboscato” che dopo tanto strepito per l’entrata in guerra si era defilato alla prima ferita.
    Il carovita, la mancanza di posti di lavoro, la rabbia per l’aver constatato che la guerra aveva fatto arricchire molti che non l’avevano fatta, erano fonte di malcontento in coloro che avevano vissuto in prima linea la durezza del conflitto. Lussu a tal riguardo scriverà Un anno sull’Altipiano, memorabile manifesto contro la guerra scritto da un interventista che, Capitano nella Brigata Sassari distintosi per atti eroici, coglie la leggerezza, il cinismo e l’inadeguatezza dei comandi che mandavano i fanti allo sbaraglio.
    Nelle città del Nord gli operai, che si riconoscevano negli ideali di cui si faceva interprete il partito Socialista, scioperavano perché si vedevano ridurre il salario. Essi non vedevano di buon occhio gli ex combattenti perché contrari alla guerra ed esprimevano il loro stato d’animo con manifestazioni imponenti. Scrive Lussu che se essi avessero manifestato contro la guerra e in questa forma prima del conflitto questa non ci sarebbe stata. I combattenti e l’esercito ben presto si schierarono contro gli operai. L’esercito, scrive Lussu, era in larga parte democratico e tale elemento sarebbe stato decisivo al momento della Marcia su Roma se solo si fosse dato l’ordine di fermare i fascisti.
    Adattarsi a una vita “normale” dopo aver comandato un battaglione o una compagnia era impossibile. Da qui un continuo malcontento. Molti “arditi” e ufficiali si lanceranno a breve con D’Annunzio nell’impresa di Fiume il 12 Settembre 1919. Il “Vate” proclamerà a nome del popolo italiano l’annessione di Fiume. Mentre il Governo soprassedeva, da più parti si inneggiava all’Impresa che si concluderà con il “Natale di sangue”. E’ stato detto che il vero ”creatore” del fascismo sia stato proprio D’Annunzio ed in effetti quest’ultimo e Mussolini si odiavano cordialmente. Sempre nel 1919 si preparava lo sciopero generale. Gli industriali fecero la serrata e gli operai occuparono le fabbriche. Si temette la rivoluzione bolscevica e questo sarà uno dei fattori che porteranno industriali borghesi e agrari a schierarsi col fascismo.
    Giolitti riuscì a comporre i contrasti e indisse le elezioni nel maggio del 1921 includendo nelle liste anche i fascisti. Molti furono gli incidenti e le provocazioni durante la campagna elettorale. A Lussu, candidato in Sardegna, a Villacidro fu impedito di parlare. In questo Centro si era costituita una sezione fascista. Ma in generale, e in Sardegna in particolare, il fascismo non aveva molto seguito. I risultati delle urne videro il successo della lista di Governo e l’elezione di Mussolini e altri 36 fascisti. Mussolini aveva proclamato “Noi non saremo un gruppo parlamentare ma un plotone di azione e di esecuzione”(p.37). All’apertura della Legislatura ci fu a Montecitorio l’aggressione a un onorevole comunista, Misiano, che veniva considerato disertore e che evitò il piombo fascista per l’intervento di Lussu e altri deputati. Il fatto suscitò grande clamore, ormai il parlamento era in stato di guerra. Il 25 giugno Mussolini tenne il primo discorso alla Camera e si ritenne “reazionario, antiparlamentare, antidemocratico e antisocialista” (p. 39). Egli caldeggiava uno Stato ridotto in semplici forme: “buon esercito, buona polizia, ordinamento giudiziario, politica estera intonata alle esigenze della nazione”. In economia non era ancora giunto a elaborare il programma di Stato corporativo. Intanto il Paese viveva un periodo di guerra civile. Caduto il Governo Giolitti gli succedette Bonomi socialista riformista. Al Congresso fascista di Roma del novembre ci fu la nascita del Partito fascista. In Val Padana erano all’ordine del giorno scontri e uccisioni di contadini socialisti e cattolici uniti in cooperative. Anche Giacomo Matteotti, capo dei socialisti, si era molto speso nella difesa dei contadini e aveva subito un’aggressione dai fascisti. Violenze e uccisioni in uno stato di anarchia proseguono con vittime da ambo le parti. Intanto nel febbraio 1922 cade il Governo Bonomi e gli succede Facta che giocherà un ruolo fondamentale nella conquista del potere da parte di Mussolini e nella Marcia su Roma. E’ questo un momento cruciale. Facta “nutriva fiducia” incapace di reagire alle dilaganti violenze. Il Paese non era fascista e anche l’Esercito era ostile al fascismo. E l’Esercito avrebbe nei giorni della Marcia, potuto aver ragione dei fascisti e salvare la democrazia se solo Facta e il Re ne avessero dato l’ordine.
    Lussu racconta la situazione in Sardegna e a Iglesias città mineraria dove vi erano contrasti tra operai e industriali. Qui si verificarono scontri e aggressioni anche al deputato socialista Angelo Corsi. Lussu rende un quadro esaustivo della situazione in tutto il Paese e non manca di descrivere, pur nella situazione tragica, con sottile ironia (che sarà presente anche in Un anno sull’Altipiano), le figure tragicomiche dei fascisti che mostravano coraggio nell’aggredire gli inermi e codardia di fronte a operai e minatori agguerriti dai quali le prendevano. A tal riguardo nella Prefazione Alberto Asor Rosa sostiene che nella memorialistica Lussu abbia tenuto un registro tra tragico, epico e comico, come in Un anno sull’Altipiano, mentre in Marcia su Roma e dintorni il registro è da “commedia all’italiana” che ben ritrae la mentalità e i vizi italici che hanno sempre caratterizzato la storia del nostro Paese. Straordinario combattente per la libertà, Lussu affronta con forza tutte le vicissitudini, fedele all’ideale di Giustizia e Libertà e non si tira indietro neanche nei momenti più difficili: l’aggressione da parte di un soldato che lo colpisce al capo provocandogli una commozione cerebrale e l’assalto all’abitazione di Cagliari la sera dell’attentato a Mussolini da parte del giovane Zamboni a Bologna.
    La Marcia su Roma si preparava in un clima di violenza. Il 31 luglio il Governo Facta fu messo in minoranza dai cattolici della Val Padana che avevano subito attacchi dai fascisti. Il giorno prima l’onorevole Turati si recò dal Re al Quirinale per proporre la collaborazione dei socialisti ma il Re darà a Facta l’incarico di formare il nuovo Governo. Intanto i fascisti trionfavano. Le organizzazioni operaie e contadine antifascista indissero lo sciopero generale dalla mezzanotte del 31 luglio. Esso rappresentava una difesa delle conquiste democratiche contro il dilagare delle violenze. Facta, contrario, intervenne contro lo sciopero, appoggiato dai fascisti. Turati scriverà: “Usciamo da questa prova clamorosamente battuti” (p. 60).
    Mussolini riunì il comitato centrale del partito a Milano il 13 agosto. Due possibilità si presentavano per prendere il potere: o la via legale delle elezioni che poteva fallire perché nel Paese il fascismo era inviso da molti. Altra via: l’insurrezione cercando di introdursi nello Stato per cogliere di sorpresa il Paese realizzando un colpo di stato. Ma il tentativo non riesce. Intanto il panico si impossessava dei deputati che chiedevano interventi immediati per salvare la democrazia. Facta serafico rispondeva che non vi era nulla da temere perché “a Roma ci sono io con reggimenti e cannoni” (p. 61). I fascisti cercavano confusi di definire la Marcia. Mussolini annunciò: “La Marcia su Roma si farà!” (p.63).
    Facta cercò di coinvolgere D’Annunzio, che per primo aveva parlato di “Marcia su Roma”, a contrastare i fascisti. D’Annunzio accettò ma Mussolini, venuto a conoscenza della trama che si ordiva contro di lui, accelerò i tempi e da Napoli, dove si svolgeva il Congresso, cominciò la mobilitazione. Mussolini inviò ambasciatori da Facta ma questi preso dal panico si dimise.
    Scrive Lussu: “La Marcia è uno degli avvenimenti più interessanti della storia politica dei tempi moderni”.
    Si decidono le date: 26 ottobre a Napoli, mobilitazione tra il 26 e il 27 mentre il 28 dovrebbe avere inizio la Marcia. Mussolini da Napoli in treno giunse a Milano e attese. Lussu sottolinea ironicamente che Milano è a pochi chilometri dalla Svizzera. La mobilitazione avviene confusamente. Al comando dei fascisti i quadrumviri: Bianchi, De Bono, De Vecchi e Balbo. Il Duca d’Aosta è in allerta. In varie località del Lazio vi sono colonne fasciste con grande confusione. Mancano viveri, armi e munizioni. Mussolini si barrica nella sede del giornale che fa circondare dal filo spinato. A Roma l’Esercito è mobilitato e presidia i siti nevralgici. Si dispiegano autoblindo e mitragliatrici. Si è alla proclamazione dello stato d’assedio in tutto il Paese. Mussolini convocato in Prefettura si sente comunicare l’arresto. Panico! Ma poco dopo si annuncia che lo stato d’assedio è revocato poiché il Re si rifiuta di firmare il decreto. I soldati rientrano in caserma. Il 29 il Re telefona a Mussolini conferendogli l’incarico di formare il nuovo Governo. Roma è un tripudio. Il quartiere di San Lorenzo insorge sulle barricate. Molti muoiono per la libertà. Le colonne cominciano ad arrivare il 31. Il Re e Mussolini attendono al balcone. Formato il Governo vi è all’Istruzione il filosofo Giovanni Gentile. Molti passano al fascismo e Lussu ne ha prove con tanti amici molto stretti che, democratici o socialisti da sempre, hanno “cambiato casacca” e sono “saliti sul carro del vincitore”.
    Mussolini si presentò alla Camera il 16 Novembre. Molte erano le aspettative ed egli appariva da vincitore. Scrive Lussu che si celebravano i funerali del Parlamento italiano.
    Mussolini disse tra l’altro: “Potevo fare di quest’aula sorda e grigia un bivacco di manipoli. Potevo sprangare il Parlamento. Potevo, ma non l’ho voluto. Almeno per questo momento” (p. 101). E poco dopo “Chiedo i pieni poteri” (p. 102). La Camera diede la fiducia.
    Lussu descrive la situazione in Sardegna dove si verificano scontri e violenze ma il fascismo non riesce ad attecchire. Mussolini invia con pieni poteri il Generale Asclepia Gandolfo che cercò di accattivarsi i favori della popolazione. Tenne discorsi in tutta l’Isola. A tal proposito mi permetto una nota personale. Mio nonno paterno, insegnante, ex combattente, amico di Lussu e tra i fondatori del Partito sardo d’Azione, ebbe uno scontro verbale col generale e ciò causò anni difficili al “maestro senza tessera” e alla sua famiglia. Riuscì a scampare al confino per puro miracolo e quando, dopo la Liberazione, fu nominato Commissario Prefettizio del Paese barbaricino in cui viveva e insegnava, non denunciò chi lo aveva perseguitato, non ci furono ritorsioni e egli fu eletto primo Sindaco democratico del paese.
    Gandolfo creò la Legione coloniale volontaria e fu un avvenimento foriero di successi per il Governo. I legionari partirono per la Libia in un’atmosfera elettrizzata, con una folla a salutarli. Molte le aspettative ma della Legione non si seppe più niente finché giunse come un fulmine a ciel sereno la notizia che i legionari avevano rifiutato di combattere, si erano ammutinati perché non veniva pagata la somma pattuita. Un’avventura che finì miseramente gettando il ridicolo sul fascismo.
    Intanto al posto della Guardia Regia fu creata la Milizia ai diretti ordini del Duce.
    Nella seconda metà del 1923 si votò per la riforma della legge elettorale che, come era congegnata, avrebbe assicurato il successo dei fascisti. La Camera votò con ampia maggioranza. Furono indette le elezioni per il 6 Aprile 1924. La campagna elettorale si svolse in un clima arroventato. L’opposizione denunciò brogli e vessazioni e anche omicidi. La lista del Governo raccolse quattro milioni di voti, l’opposizione tre milioni. A Maggio si aprì la Camera. Giacomo Matteotti capo dei socialisti, figura limpida che aveva scoperto movimenti loschi tra il Governo e la Società petrolifera americana Standard Oil e le consociate e che si preparava a rendere nota la situazione parlò denunciando brogli e sostenne che le elezioni dovevano essere invalidate. Parlò nonostante i fascisti lo interrompessero in continuazione. Infine concluse dicendo ai suoi compagni “ Io, il mio discorso l’ho fatto, ora a voi preparare il discorso funebre per me” (p. 162). Egli il 10 giugno 1922 fu rapito e ucciso da sicari prezzolati all’ordine del Duce. Grande clamore, il Paese si mobilitava contro il Governo. Dumini fu il capo della banda ma ben presto si seppero i nomi dei gerarchi coinvolti: De Bono, Rossi, Marinelli e Filippelli. L’opposizione democratica lasciò il Parlamento: fu l’Aventino. Quando venne trovato il corpo di Matteotti l’esecrazione fu grande. Molti fascisti temettero per la loro vita, tolsero la camicia nera e chiesero aiuto agli oppositori. Il Paese era in fermento. Furono momenti nei quali il Fascismo pareva agonizzare. Ma l’Aventino, ligio alla legalità, non poteva intervenire con un’insurrezione. Si cercò di fare appello al Re. L’ora era difficile. Gli incriminati avevano scritto dei memoriali in cui si faceva il nome di Mussolini. Il Re attende. Il Duce è nudo! La Nazione è tutta contro Mussolini. Egli il 3 Gennaio 1925 tenne un discorso alla Camera. Disse: “Davanti a questa assemblea e al popolo d’Italia io dichiaro che mi assumo da solo la responsabilità morale, politica e storica di quanto è avvenuto” (p. 172). Tutto è ormai perduto. L’Aventino ha fallito. I responsabili materiali del delitto sono liberi mentre l’onorevole Giovanni Amendola viene ucciso a sprangate dai fascisti. Mussolini trionfa.
    Lussu finirà al confino di Lipari e dopo quattro tentativi falliti di evasione riuscirà finalmente a fuggire. Sul motoscafo che porta i fuggiaschi in Tunisia essi riflettono: “Dappertutto dittature, Spagna, Portogallo, Polonia, Ungheria”. “Il mondo va a destra”. Conclude Lussu: “No, il mondo non va a destra o a sinistra. Il mondo continua a girare attorno a se stesso, con regolari eclissi di luna e di sole”. (p. 194).

     

  • L'ALLARME DI MORIN:
    SVEGLIAMOCI!
    CIVILIZZIAMO LA TERRA!

    data: 12/10/2022 18:26

    Edgar Morin (Parigi 1921), sociologo, filosofo, saggista è uno dei più grandi intellettuali contemporanei. Mente vigile e attenta nell’esaminare non solo la condizione umana ma la crisi ecologica, globale che investe il nostro pianeta. Con il pamphlet Svegliamoci! (Mimesis), lancia un energico monito affinché l’umanità tutta, a cominciare dai governanti e dagli Stati fino al singolo individuo, modifichi il modo di vivere e sfruttare la Terra che allo stato attuale sta facendo correre velocemente verso l’abisso, e porti a un’inversione di rotta.
    Morin riporta la frase di Ortega y Gasset “Non sappiamo che cosa ci sta accadendo ed è precisamente quello che ci sta accadendo”, per sottolineare lo stato di ignoranza e una sorta di sonnambulismo diffuso, per incitare le coscienze a risvegliarsi.
    Partendo dalla condizione della Francia egli sostiene come, dopo la Rivoluzione del 1789, siano esistite due France, una umanista e una reazionaria. Sottolinea come, dopo le elezioni presidenziali del 2022, la reazione abbia preso il sopravvento. Situazione che si è verificata in molti Stati europei con la crisi dei partiti di Sinistra e della democrazia e la crescita dei populismi e sovranismi della Destra.
    Morin traccia un quadro che attraverso la storia della Francia fa emergere l’alternarsi di umanismo e reazione. La Rivoluzione distrusse la Bastiglia simbolo dell’assolutismo e proclamò la Dichiarazione dei diritti dell’uomo e del cittadino. Altri provvedimenti furono adottati per abolire i privilegi, la proclamazione della Repubblica, il suffragio universale (maschile). La Francia rimase umanista per breve tempo perché con il Terrore fino all’Impero napoleonico e la Restaurazione si tornò alla reazione. Fondamentale è però il fatto che la Francia dopo la Rivoluzione divenne definitivamente una Patria intesa come comunità di destino. Il termine patria, dice Morin, porta in sé un maschile paterno che allude alla autorità e termina con un femminile materno che allude all’amore per la madre patria. Si evidenzia l’esaltazione del patriottismo nei momenti critici o in guerra. Essa si attenua nei periodi di pace.
    L’Autore sottolinea come le guerre della Rivoluzione abbiano esaltato il patriottismo che la Prima Guerra Mondiale ha tradotto in nazionalismo, vero decadimento dell’amor di Patria che troverà un’enfatizzazione in tutto l’Occidente durante il primo dopoguerra e nella Germania nazista e nell’Italia fascista. La Francia durante il primo conflitto mondiale fu caratterizzata da una sorta di isteria collettiva cui aderirono anche i socialisti. Con la crisi della Borsa nel 1929 e la grande Depressione si posero le basi per l’avvento in Europa dei totalitarismi di Destra come risposta anche alla paura del comunismo che si era affermato in forma totalitaria in Unione Sovietica. Il Nazismo, cui si affiancò il Fascismo, farà precipitare il mondo nel baratro della guerra. Ma anche la Francia mostrò simpatia per il fascismo e un atteggiamento anticomunista che portò dopo la resa, al governo di Vichy del maresciallo Petain sostenuto dalla Germania nazista. Mentre la Francia umanista andava delineandosi nel movimento antifascista e nella Resistenza. Dopo la vittoria sul Nazismo i partiti di Sinistra per lungo tempo non riconobbero il vero volto dell’URSS, della Cina maoista e di Cuba. Col venir meno dell’egemonia intellettuale della sinistra si assiste a un prevalere della destra con forti accenti populisti e xenofobi. Si cerca il capro espiatorio identificato con lo straniero, l’immigrato, l’ebreo. Il Nazismo giunse a un vero parossismo e a una delirante politica razziale volta a liberare il Reich dal parassita ebreo che attentava alla purezza della razza ariana e secondo il clamoroso falso “I Protocolli dei Savi anziani di Sion” avrebbe elaborato un piano per la conquista del Mondo. Ma la pulizia etnica e religiosa parte da lontano con l’espulsione degli ebrei dalla Spagna nel 1492 seguita da Francia, regioni germaniche, Portogallo, Ungheria. Nel XVII secolo la Spagna espulse anche i moriscos. Per non parlare della conquista dell’America e nel XX secolo il genocidio armeno e la cacciata dall’Anatolia dei greci operate dalla Turchia. Mentre India, Cina e Birmania perseguitano le minoranze musulmane. Come controcanto i cristiani sono perseguitati in vari Paesi islamici.
    Morin cita Levi-Strauss e il suo concetto di sguardo da lontano che si deve adottare nello studio delle società e aggiunge la soglia di tolleranza nei confronti degli stranieri. Per l’Autore si tratterebbe di un aspetto psicologico ed egli sostiene che si debba collaborare a livello europeo, qui il ruolo dell’Unione europea è basilare, accordarsi con i Paesi africani per porre fine al commercio di esseri umani e a loschi traffici come quello degli organi.
    La Francia e tutte le democrazie occidentali sono in crisi che Morin definisce crisi del pensiero. Dal 1945 con le atomiche su Hiroshima e Nagasaki si è entrati in un’era caratterizzata dal dominio della scienza e della tecnica e per la prima volta nella sua storia l’uomo ha creato un’arma capace di distruggere sé stesso e il pianeta in cui vive. In questa era planetaria in cui il mondo è come rimpicciolito e i traffici di merci e di persone interconnettono tutte le nazioni che diventano interdipendenti, domina il profitto e la globalizzazione si fonda sul modello neoliberista che ha avuto un nuovo impulso negli Anni Ottanta del secolo scorso.
    Il 1° Ottobre 1972 il Professor Meadows rende noto un rapporto che rivela che la Terra attraversa una crisi ecologica creata dall’azione dell’uomo che contamina il pianeta, l’aria, l’acqua, il suolo in uno sfruttamento giunto a superare la soglia oltre la quale si consuma più di quanto la Terra possa produrre. L’uomo va precipitando verso l’abisso. Il progresso tecnico–economico, la frenesia del profitto ci conducono verso la catastrofe. Se gli studiosi hanno definito la nostra era dominata dall’uomo Antropocene, Morin sostiene che essa è anche Thanatocene. La mondializzazione mette a repentaglio la vita dell’umanità e quella del Pianeta.
    L’Autore ritiene che la triade scientifico–tecnico–economica, insistendo sullo sviluppo sfrenato, sia causa dei problemi che ci troviamo ad affrontare. Tutto ciò produrrebbe anche la crisi delle democrazie e l’ascesa di movimenti e governi reazionari alla guida degli Stati europei. Morin ritiene che si sia al cuore della crisi e la crisi sia nel cuore dell’umanità. Egli sostiene che in una società la crisi si produca in seguito a fenomeni che intaccano la stabilità del sistema. Essa impedisce che i meccanismi che contrastano le devianze agiscano e perciò si possono generare moti regressivi e anche rivoluzionari. Una soluzione proposta consisterebbe nell’agire sui fattori che producono la distruzione e promuovendo la crescita di ciò che rigenera. La grande crisi mondiale dovuta alla pandemia Covid–19 ha creato impoverimento, problemi in tutti i campi e nelle relazioni sociali e ci ha posto davanti alla carenza di solidarietà nonostante la globalizzazione, anzi forse acuita da essa. Per Morin si è come sonnambuli avvolti da un velo di torpore e obnubilamento. E ciò riguarda gli individui e gli Stati. Egli propone una metamorfosi umanista che tenga presente il fattore ecologico, il miglioramento delle condizioni di esistenza dell’umanità e il riconoscimento della piena umanità. E aggiunge: la crisi globale dell’umanità è una crisi antropologica che riguarda la natura e il destino dell’uomo. L’uomo deve volgere il suo sguardo alla Terra e prendere coscienza della comunità di destino del genere umano. E’ necessario quindi civilizzare la Terra, trasformare la specie umana in umanità per il progresso e la sopravvivenza di essa.
    Morin propone una politica che produca una presa di coscienza generale che ci permetta di migliorare le condizioni di esistenza e salvaguardi il Pianeta, la nostra Patria, l’unico in cui ci è dato di vivere.
    Mente lucida, Morin ci regala una speranza, una visione positiva e propositiva pur con la coscienza della criticità del momento in cui viviamo. Un pamphlet denso, ricco di energia, che ci grida Svegliamoci!
     

  • "FIGLIO DI NESSUNO"
    LA SOFFERTA AUTOBIOGRAFIA
    DI BORIS PAHOR

    data: 04/09/2022 18:34

    Boris Pahor (Trieste 1913 – ivi 2022) eccezionale figura di scrittore e intellettuale della minoranza slovena recentemente scomparso, all’età di quasi 109 anni, ci ha lasciato una profonda eredità lottando fino all’ultimo per il riconoscimento dei diritti delle minoranze e quella slovena in particolare.
    Con Figlio di nessuno (La nave di Teseo) scritto con Cristina Battocletti, ci lascia la forte testimonianza di una vita intensa, un’infanzia poverissima ma piena di amore per i genitori e le sorelle, una famiglia molto unita. Pahor descrive con toni struggenti l’amore per la sorella Marika precocemente scomparsa a causa della tisi che morì tra le sue braccia.
    L’Autore studiava nella scuola slovena quando a 7 anni assistette al rogo della Narodni dom (la Casa della cultura slovena), ad opera dei fascisti non ancora al potere. Essi colpivano al cuore la comunità e ben presto agli sloveni fu proibito studiare nelle loro scuole e li si obbligò a studiare nelle scuole italiane. Il fascismo definiva gli sloveni “cimici”, parassiti da estirpare, senza identità.
    La vita si fece difficile, Pahor a 9 anni fu costretto dalle leggi italiane a parlare in italiano ma si sentiva “sradicato” anche se fin da piccolo lottava con tutte le sue forze contro le discriminazioni. Egli sottolineò spesso che era sloveno e doveva restare sloveno.
    Trieste fu la città nella quale Mussolini, in un tripudio di folla, diede l’annuncio nel 1938 dell’adozione delle Leggi razziali che colpivano non solo gli ebrei ma anche le minoranze slovena al Nord e greca al Sud Italia. E Trieste fu ancora l’unica città in Italia in cui uno stabilimento per la pilatura del riso, la Risiera di San Sabba, fu trasformato dai nazifascisti in un lager con i forni crematori. E sarà da lì che dopo la cattura e il soggiorno al Coroneo, il carcere di Trieste, e le torture subite Pahor partì con un convoglio di carri bestiame diretto al campo di concentramento di Dachau. Egli era entrato nelle fila della Resistenza slovena, il Fronte di liberazione sloveno. Ma non parlò salvando così altri compagni. La deportazione cominciò il 26 febbraio 1944 e si concluse con la liberazione il 16 aprile 1945. Cominciò così un peregrinare da un lager all’altro in un crescendo di orrore e abbrutimento. Consegnata la divisa, i “politici” come l’Autore avevano un triangolo rosso sulla schiena. In “Necropoli”, capolavoro che descrive una vera discesa agli inferi, resa anche per il fatto che il lager di Dora era una miniera a cielo aperto a gradoni, sorta di inferno dantesco, dove si aggiravano larve d’uomini. Il capolavoro è scritto con prosa asciutta e icasticità e gli valse la candidatura al Nobel.
    Dopo il soggiorno a Dachau furono trasferiti nella località di Mackirch. In una profonda galleria si assemblavano i componenti dei missili V2 che con le V1 venivano lanciati contro la Gran Bretagna. Molti erano i sabotatori che rischiarono la vita (tantissimi furono barbaramente uccisi dalle SS), per dare una speranza al Mondo e boicottare i piani nazisti. Wernher von Braun, ideatore del progetto missilistico nazista, finita la guerra fu segretamente cooptato dagli americani e condotto in America diventerà responsabile della Nasa e del piano spaziale che avrebbe portato l’Uomo sulla Luna. Riflette Pahor sul come gli Alleati non si fossero fatti scrupoli nonostante von Braun fosse stato nazista fin dai primi tempi del regime. E molti altri ex nazisti troveranno, in tempi ormai di Guerra Fredda, rifugio in Sud America attraverso canali che passavano per il Vaticano.
    Dopo inenarrabili sofferenze, fame, freddo, minato dalla tisi, dal campo di Dora fu trasferito con una terribile marcia della morte, tragico leit motive nel racconto di chi riuscì a salvarsi, cui i nazisti sottoponevano gli internati per condurli verso la Germania e nascondere agli Alleati l’infamia. Momenti durissimi fino a Bergen-Belsen dove si verificarono casi di cannibalismo. In mezzo a tanto orrore si viveva in una terribile realtà ben peggiore di qualsiasi incubo.
    Finalmente liberati dagli inglesi si allontanarono con 2 amici cercando di tornare a casa. Giunsero in Belgio a Lille e lì seppero che l’armata Jugoslava era entrata a Trieste. Pahor non esultò, presago di tempi difficili. Ricoverato in un sanatorio francese egli cominciò a rinascere e trovò inaspettatamente l’amore, un grande amore per una crocerossina francese, Arlette. La vita riprendeva a scorrere pur con difficoltà si riapriva al Mondo. Sarà un periodo di intense letture e di scoperte e studio. Divorava avidamente Sartre, Gide, Camus, Koestler, Vercors. Avviene una crescita politica e ideale. Egli aveva combattuto il fascismo e il nazismo senza essere comunista. Si avvicinava alle idee dei cristiano sociali, vicino alle idee di Edvard Kocbek poeta, scrittore e politico sloveno. Dice l’Autore che più che le cure poté l’amore.
    Molti gli avvenimenti, il ritorno a casa a Trieste, la promessa di sposarsi con Arlette, l’impegno nel politico e nella letteratura. E poi gli studi e la laurea in Lettere a Padova con Tesi sull’opera poetica di Kocbek. Infine la dolorosa scomparsa dell’amatissima sorella Marika che minata dalla tisi spirò tra le sue braccia.
    La storia con Arlette non ebbe un finale lieto perché troppo debole fu obbligata dal padre a sposare un giovane benestante. Addolorato non si piegò e dopo varie vicende conobbe la bellissima Rada che diverrà la moglie, fedele compagna di tutta la vita.
    Pahor affrontò con passione politica le vicende postbelliche di Trieste. Durante l’occupazione dell’esercito jugoslavo vi fu una “pulizia” contro gli oppositori ma anche della popolazione civile e dei comunisti non titoisti. Essi venivano uccisi e gettati negli inghiottitoi, le foibe, profondissime voragini carsiche. Una strage che è passata a lungo sotto silenzio e che è stata a volte strumentalizzata da certi settori politici per sottolineare i crimini del comunismo. Trieste si trovava come cerniera tra il blocco comunista e il blocco occidentale all’inizio della Guerra Fredda. Il Trattato di Parigi attribuì Trieste all’Italia e l’Istria alla Jugoslavia da qui l’esodo degli istriani, una pagina ancora dolorosa.
    Una vicenda lunghissima quella di Pahor, un libro che avvince, una storia di formazione in cui il privato procede di pari passo col pubblico in un continuo impegno civile, ideale, umano. E’ una profonda eredità quella che Pahor ci affida nel tentativo inesausto di comprendere l’Uomo e il Mondo. Vitalissimo, scrittore prolifico, tradotto in tante Lingue, si impegnò anche con la collaborazione di Rada, fondando e collaborando a varie riviste culturali sempre come “voce fuori dal coro”. Sottolinea infine: "Ho guardato la storia incedere, l’ho subita, ma con la schiena sempre dritta, fedele all’uomo, più che all’ideale".
    Il Presidente della Repubblica Mattarella nel 2020 ha insignito Pahor della onorificenza di Cavaliere di Gran Croce dell’Ordine al Merito della Repubblica italiana nel centenario dell’incendio fascista della Casa della Cultura slovena.

     

  • SUL "GRANDE OCEANO"
    CON PIERRE LOTI

    data: 21/07/2022 20:20

    Pierre Loti, pseudonimo di Julien Viaud (1850 – 1923), ufficiale della Marina francese per 42 anni, ha scritto una serie di reportage, tra cui il “Diario di un giovane ufficiale” oltre che romanzi, con una vena felice che gli diede fama e riconoscimenti tra cui la Gran Croce della Legion d’Onore e la nomina a membro dell’Académie française. Fin da piccolo fu molto legato al fratello maggiore Gustave, di 14 anni più grande e medico di bordo nella Marina Militare francese. Quest’ultimo influenzò molto la formazione di Julien descrivendogli luoghi incantati e trasmettendogli l’amore per il mare e l’avventura.
    Gustave nel 1859 sbarcò a Tahiti dove esercitò la professione medica per tre anni e fu il primo fotografo della Polinesia precoloniale. Lasciata Tahiti, si imbarcò alla volta dell’Indocina e morì in navigazione nel marzo del 1865. Fu sepolto nelle acque del Golfo del Bengala. Questo fatto spinse il giovane Julien a intraprendere la carriera nella Marina militare che lo porterà, dopo il primo imbarco a 19 anni con una nave scuola, a imbarcarsi alla volta di Capo Horn e dell’Oceano Pacifico. Ciò viene riportato nel suo “Diario”, anche l’incontro con gli indios della Terra del Fuoco. Giunti a Valparaiso dopo due mesi imbarcherà sulla fregata “La Flore” diretta verso l’Isola di Pasqua. Una sosta di 4 giorni ma che colpirà il giovane Julien al punto da scrivere un racconto. Mille sono le meraviglie che gli si presentano in questo andar per mare in un’epoca eroica per la navigazione. E’quindi da questo “substrato” che attingerà per i tanti racconti che ci ha regalato.
    Il 25 gennaio 1872 approderà a Tahiti e questa visita verrà trasposta in romanzo ispirato alla vicenda dell’amatissimo fratello Gustave. “Il matrimonio di Loti”, titolo del libro, riscuoterà grande successo. Il protagonista prenderà il nome che l’amata Rarahu gli darà, il nome di un fiore, Loti, ed egli con questo nome firmerà tutte le opere successive.
    Recentemente la Casa editrice Robin ha raccolto, per la collana “La biblioteca del vascello”, nel volume “Il Grande Oceano”, il “Diario della navigazione e della esplorazione della Terra del Fuoco”, “Capo Horn” ed il racconto “Rapa-Nuhi”. E poi “Il matrimonio di Loti”. E’ questa una importante iniziativa che permette di leggere il romanzo ormai introvabile in Italiano.
    Molto ben curato e ricco di disegni e fotografie, opera dello stesso Loti, il volume è avvincente e la scrittura ci conduce in un “mondo alla fine del mondo” ormai scomparso. L’Autore si rende conto che i luoghi da lui visitati, soprattutto la Polinesia, sono destinati a mutare e scomparire travolti da una mondializzazione che già presagiva.
    Nel “Diario” Loti descrive la navigazione e l’esplorazione dell’estrema costa della Patagonia e il passaggio dall’Atlantico al Pacifico dallo Stretto di Magellano per evitare Capo Horn. Suggestive descrizioni mostrano una terra desolata con fitte foreste di conifere abitate dai Fueghini. La descrizione delle foreste scure, ricche di muschi e licheni che formano strati sotto la volta intricata, delle montagne incombenti nello stretto passaggio, il cielo grigio, il freddo e l’umido, il silenzio provocano un senso di tristezza.
    L’incontro in mezzo alla foresta, con un gruppo di Fueghini che si nutrivano di molluschi e pinguini crudi suscita spavento sia negli indigeni che nei compagni di Loti oltre che in Loti stesso. Ben presto però i francesi offrendo pane e biscotti riuscirono ad avvicinarli. Coperti di pelli sul fondo di una piroga dormivano due neonati e le madri accorsero minacciose. Loti scrive che quel gesto fece cambiare il concetto che si erano fatti sui selvaggi.
    L’Autore parla anche della Terra della Desolazione. Deserta e coperta di licheni stenti, buia e umida, dal silenzio inquietante.
    Le descrizioni e le emozioni che Loti sa suscitare avvincono il lettore e sembra di vedere quei luoghi e assistere a quegli spettacoli.
    Con la fregata “La Flore” Loti giunse all’Isola di Pasqua, misteriosa con le grandi statue che vegliano sugli ultimi abitanti rimasti. Sperduta nel Pacifico lontana per un raggio di ottocento leghe da qualsiasi altra terra.
    Giovane allievo ufficiale colpito da ciò che l’Isola evocava fu entusiasta della visita e dei luoghi fantastici, della gente ospitale e delle spaventose statue che gli antenati avevano realizzato. Rapa-Nui viene descritta con entusiasmo e così le festose accoglienze degli abitanti che vivevano di nulla perché nell’isola non vi è neanche una sorgente d’acqua e non vi sono piante.
    Loti accompagna la scrittura con mappe e schizzi che illustrano i luoghi visitati. Una scrittura fluente che, soprattutto ne “Il Matrimonio di Loti”, acquista accenti lirici.
    Luoghi di sogno che lo ammalieranno. I colori, i profumi e i sapori che la Polinesia gli offre oltre la bellezza della popolazione, la bellissima Rarahu la “sposa – non sposa” di Loti.
    Nel romanzo la vicenda è modellata sulla vita dell’amato fratello. Loti cercherà il figlio che Gustave avrebbe avuto dalla sua donna che egli conoscerà.
    Spiagge di corallo, le sottili palme da cocco che formano come un colonnato che ripara dal sole, il clima e il mare di smeraldo, i boschi ricchi di aranci e limoni, essenze e profumi di fiori estenuati, e laghi formati dall’acqua vivace che scende da cascatelle in mezzo al bosco. Questo è il paesaggio che fa da sfondo all’amore tra Loti e Rarahu.
    Lascio al lettore la scoperta del romanzo che ci apre a un orizzonte che non c’è più.
    Un libro che ha suscitato in me ricordi del mio amato papà ufficiale di Marina che mi raccontava le meraviglie dei Tropici e del Giappone, del Nord Europa, del mondo che allora, lungi dal Villaggio globale, era grande davvero.
     

  • MA IN QUESTO SIMENON
    PIU' CHE AZIONE
    VI E' INTROSPEZIONE

    data: 12/07/2022 22:54

    Georges Simenon è stato uno tra i più prolifici scrittori del Novecento scrivendo circa 500 tra romanzi e racconti. Tra questi una notevole quantità di noir o romanzi “duri” che hanno indagato nelle pieghe più recondite della psiche umana cogliendo pensieri, motivazioni, pulsioni spesso inconfessabili. Sono romanzi psicologici come pretesto per la scoperta del cuore umano.
    Simenon usa un linguaggio asciutto ed essenziale, fortemente icastico, dipingendo personaggi “comuni”, “banali” che vivono in una provincia solo apparentemente tranquilla perché improvvisamente irrompe quel quid che dà l’avvio alla vicenda che si dipana sul filo del rasoio e che trasforma una persona “normale” in un criminale.
    Le atmosfere sono cupe, claustrofobiche, anche il clima contribuisce a creare la scenografia dando colore alla trama.
    A metà degli Anni Trenta Simenon comincia in parallelo la serie di Maigret costituita da 76 romanzi e quella dei romanzi psicologici costituita da 117 titoli. In essi lo scrittore indaga l’animo umano rendendolo attraverso il monologo interiore. Più che azione vi è introspezione.
    I personaggi vivono vite apparentemente “normali”, appartengono alla piccola borghesia e incarnano le problematiche di coppia, le crisi esistenziali, il desiderio di evasione, la difficoltà di comunicare. La trama si dipana seguendo le vite spesso incolori dei personaggi finché una “crisi”, un fatto inatteso, non mettono in moto gli eventi che sfociano nella tragedia.
    I romanzi sono spesso ambientati in una casa, come ne Le sorelle Lacroix (Adelphi), ultimo titolo uscito in cui le vicende si svolgono al chiuso, all’interno della grande casa a più piani delle sorelle. Due sorelle che nascondono un segreto “uno scheletro nell’armadio”, e che sono unite simbioticamente in un rapporto in cui l’odio palpabile che sottende tutta la loro vicenda e la tensione sono resi con una scrittura secca, essenziale. Esse, figlie di un notaio defunto, vivono con le loro famiglie nella casa paterna. Ognuna si ritira nelle proprie stanze. Tutti origliano, bisbigliano, osservano. Anche la giovanissima Geneviève, figlia di Mathilde la sorella minore, affetta da un male che non si riesce a diagnosticare e che le paralizza le gambe, costretta a letto nella sua camera, sa tutto ciò che avviene nella casa pur restando tutto il giorno sola e spesso al buio. Chiusi nello studio, come Poldine, sorella maggiore, Emmanuel Vernes, marito di Mathilde, nell’atelier all’ultimo piano dove restaura dipinti e dipinge. Sta chiuso a chiave fino all’ora di pranzo quando tutti si riuniscono nella sala al primo piano. A tavola i protagonisti si spiano, mangiano in silenzio, in un silenzio carico di tensione. Incomunicabilità che pesa come un macigno su tutti.
    Jacques, figlio di Mathilde e Vernes, giovane irrequieto, avverte la cappa di rancore che grava sulla famiglia di cui fa parte anche Blanche figlia di Poldine.
    La vicenda prosegue in un crescendo di tensione, si avverte nella lettura come i protagonisti procedano sul filo del rasoio fino alla tragica conclusione che vedrà un suicidio e un tentativo di avvelenamento.
    L’Autore conduce la narrazione con mano ferma dosando sapientemente i colpi di scena, avvincendo il lettore fino all’ultima riga del romanzo.
    Anche in Tre camere a Manhattan o in I fantasmi del cappellaio, i personaggi spiano, osservano, è una cifra della narrazione che troviamo anche ne Le finestre di fronte, una sorta di voyerismo che caratterizza tutta la produzione di Simenon. Così come la pioggia battente, sempre presente, vera “quinta” della narrazione. E il cappellaio dirà che la pioggia si addice al delitto.
    Romanzi “duri”, “romanzi – romanzi” li definì l’Autore.
    I protagonisti inoltre sono spesso dei deraciné, dei solitari che non riescono a integrarsi come il protagonista di L’uomo che guardava passare i treni e che osservava i treni illuminati nella notte cercando la vita che vi si annidava.
    Personalità borderline, basterà un “minimo” a far compiere il passo fatale che li porterà al delitto intrappolandoli in un’altra dimensione senza possibilità di tornare indietro.
    L’Autore ci pone a confronto con la profondità della psiche umana costruendo opere che costituiscono una sorta di corpus, indagine dell’animo umano nelle sue molteplici sfaccettature.
    Simenon considera la scrittura un’arte e una passione che si impossessa dello scrittore permettendogli di esplorare una dimensione “altra” con una libera scelta che porta ad una sorta di “catarsi” interiore e alla liberazione dai propri fantasmi.
    Uno scrittore prolifico e magistrale definito da Gide tra i più grandi della letteratura francese contemporanea.

  • ISAAC BASHEVIS SINGER
    E UN AMICO DI KAFKA

    data: 05/07/2022 22:37

    E’ stata recentemente proposta da Adelphi una raccolta di racconti di Isaac Bashevis Singer scrittore ebreo polacco, Premio Nobel 1978, autore prolifico e versatile che ha scritto i suoi lavori in jiddish, la lingua della diaspora degli ebrei askenaziti dell’Europa orientale. Nato nel 1904, dopo l’ascesa al potere di Hitler si trasferì a New York seguendo il fratello maggiore Israel Joshua anch’egli intellettuale di spicco. Morì in Florida nel 1991.
    Giornalista, drammaturgo, figlio di rabbino, apparteneva a una famiglia di ebrei ortodossi e ciò influenzò la sua formazione letteraria. Visse in un’atmosfera impregnata di religiosità e credenze popolari legate alla tradizione jiddish che accendevano la sua fervida fantasia. Visse anche col nonno, rabbino anch’egli, in un piccolo centro della Polonia, uno shtetl, rifugio degli ebrei soggetti ai pogrom. Approfondì la lettura dei testi sacri e della Qabbalah, e questo retroterra culturale è ben presente in tutta la sua opera e anche in “Un amico di Kafka”. Si tratta di vari racconti che furono tradotti in inglese nel 1970 che ci conducono con mano sapiente nell’universo in cui l’Autore si è formato, popolando i racconti di figure ai margini a cominciare proprio dal primo racconto che dà il nome a tutta la raccolta. Traendo spunto dall’incontro con Jacques Kohn, amico del grande scrittore praghese, ci immerge in un’atmosfera che spazia dal teatro jiddish, ai circoli intellettuali con nomi del calibro di Chagall, Stephan Zweig, Romain Rolland, Martin Buber e Il’ja Erenburg. Con Kohn Singer compie un viaggio nell’Europa occidentale aperta a tutte le novità culturali, le Avanguardie, l’astrattismo, il pensiero libero. Kohn, ormai impoverito, vive in un abbaino in cui d’inverno si gela e lui quando va a letto si copre con due coperte e giornali arrotolati. Il racconto della sua vita è talmente avvincente che il giovane Singer gli offre volentieri le monete che egli gli chiede. Kohn sostiene che Kafka, come lui, vedesse i lati negativi delle opere o delle cose e ciò li unì. Ma non accetta che lo scrittore volesse essere tedesco, scrivesse in tedesco ma volesse essere anche ebreo anche se, dice Kohn, “non sapeva come fare”. Un racconto ricco di riflessioni sulla vita, la letteratura, l’arte, posto come incipit a tutta la raccolta.
    Si rispecchia in questi racconti la credenza negli spiritelli, nel maligno, che Singer bambino aveva sentito nei discorsi degli adulti e che espone in molti racconti. Ad esempio in “Racconti dietro la stufa” nel quale tutti i piccoli si radunano per sentire le avventure narrate dagli adulti. Si parla di capanni scomparsi senza lasciare tracce, di spiritelli giocherelloni, burloni, il tipico caso di trickster oserei. E l’Autore ragazzino ha paura del buio dove si nascondono demoni e fantasmi. Si dispiega così la tradizione ebraica visionaria così ben espressa da Chagall con le capre volanti, gli sposi, il violinista sul tetto e non solo.
    I ventuno racconti narrano ognuno un piccolo aspetto dell’esistenza ma sono anche indipendenti l’uno dall’altro. Molto toccante “Il figlio” che narra l’incontro del padre, l’Autore, ormai scrittore di successo trasferitosi a New York, e il figlio. Quest’ultimo era rimasto con la madre in Europa e poi erano riusciti a rifugiarsi in Palestina dove Gigi e la madre vivevano in un kibbutz. Il giovane aveva combattuto per la patria per tre anni e aveva conosciuto una giovanissima soldatessa che avrebbe sposato al ritorno dall’incontro col padre. Singer attende sulla banchina che egli sbarchi dalla nave proveniente dalla Palestina. Mille sono i pensieri e i sentimenti che si affollano nella sua mente e nel suo cuore. Si domanda come sarà quel giovane uomo che non vede da bambino. E si pone domande sulla Germania di Hitler, la Shoah, gli ebrei che sono andati incontro alla morte senza reagire, i nazisti rimasti impuniti che vivono la vita che hanno sottratto a milioni di uomini, donne e bambini. Un luogo, il porto, dove si incrociano destini e vite che si sfiorano per un attimo e poi volano via. Un luogo dove l’attesa fa riflettere. Ma ecco! Ultimo il figlio sbarca scendendo dalla scala. E’ come se lo aspettava. I gesti affettuosi, il bacio, la telepatia. Tutto si fa spontaneo. Si avviano. Veramente struggente!
    Un libro magistrale da un grande Maestro della letteratura contemporanea che ci descrive con realismo uno spaccato di un mondo ormai lontano ma che continua a vivere nei suoi libri.
     

  • DALL'HOMO OECONOMICUS
    ALL'HOMO
    ETHICUS OECONOMICUS

    data: 19/06/2022 14:55

    Tullio Chiminazzo, nel suo ultimo lavoro Homo ethicus oeconomicus, edito da Armando, traccia il percorso di una nuova disciplina economica che superi il modello dell’Economia classica e delle speculazioni finanziarie. Guarda verso una Scienza economica che tenga presente l’aspetto etico e la definisce “Etica ed Economia”. Chiminazzo, laurea in giurisprudenza, ragioniere commercialista ed economista d’impresa è osservatore dei fenomeni sociali e dei processi economici. Egli postula un modello economico che tenga conto dell’importanza della persona umana per affrontare le sfide del XXI secolo con attenzione all’elemento etico in una visione attenta allo sviluppo sostenibile, la salvaguardia della Natura, l’acqua, la distribuzione delle risorse nella Casa comune, la Terra, come definita da Papa Francesco. Il tutto con l’attenzione per i poveri e gli “ultimi”, gli “affaticati e oppressi” e per i giovani. Etica ed Economia attinge elementi da nuove proposte degli ultimi trent’anni. L’Autore sostiene che per comprendere l’epoca in cui viviamo, si debba guardare al nostro Io più profondo facendo riferimento al bambino che è in noi e ai bambini che siamo stati. E guardare tutto ciò che ci circonda.
    Nella prefazione Loredana Repucci Ales sostiene che il progetto di Chiminazzo sia profondo e intenso e sia l’analisi della nostra realtà con l’auspicio di un mondo migliore e l’invito a volgersi verso una “vita giusta, intelligente ed equilibrata”.
    Con un linguaggio chiaro e una profonda ma comprensibile analisi del mondo del XXI secolo si prospetta un orizzonte che apra verso processi di sviluppo sostenibile, che cioè migliorino la vita di tutti noi senza inquinare, depredare ma si produca energia da fonti rinnovabili, si spingano i giovani a creare imprese ecosostenibili che producano occupazione con particolare attenzione al Sud del mondo. Chiminazzo sostiene che usando trasparenza e semplificazione si possano evidenziare i problemi fondamentali dei nostri giorni. Essi sarebbero “il sistema finanziario e la tendenza alla rendita di posizione unite all’avidità umana che tende a procurare i mezzi per vivere con la speculazione piuttosto che con il lavoro”. L’Autore sottolinea l’importanza della trasparenza e della semplificazione in tutte le manifestazioni umane, vero filo rosso che sottende tutto il saggio.
    Si evidenzia come la finanza speculativa attragga molti investitori che considerano la ricchezza una meta prestigiosa.
    Con riferimento alla Dottrina sociale della Chiesa egli si definisce “non confessionale ma professionale” e guarda la decadenza dell’Umanità e la sostituzione dei tempi naturali con quelli cibernetici. Evidenzia come si sia definitivamente rotto il ritmo tra uomo e Natura e come i tempi siano sempre più frenetici, accentuati dalla rivoluzione informatica e dalla globalizzazione. Si domanda sia possibile azzerare il debito dei Paesi poveri in modo che non se ne avvantaggino solo i politici e gli speculatori. E’ questo un problema annoso che non trova soluzione perché gli interessi in gioco sono notevoli e i Paesi poveri spesso sono ricchissimi di materie prime che fanno gola agli stati ricchi. Così nulla cambia e anche i rifiuti tossici vengono smaltiti nei paesi sottosviluppati. Inoltre i paesi ricchi continuano ad inquinare riversando le quote ai paesi del Terzo mondo.
    L’Europa punta sulla transizione verde che riguarda l’ambito climatico, ambientale e demografico e inoltre, importantissima, la rivoluzione digitale.
    L’Autore privilegia i bambini dai quali si deve partire per creare un mondo nuovo e giusto. Insegnare e avviare un processo formativo che li accompagni per tutta la vita.
    Fondamentale è la distinzione tra economia reale e finanziaria. L’economia, dal greco oikos e nomos, cioè “casa” e “regola” è la scienza che studia il comportamento umano nell’ambito dell’uso delle risorse. L’economia finanziaria riguarda invece i prodotti finanziari. La Banca Centrale distribuisce liquidità alle banche che a loro volta la riversano alle famiglie, alle imprese, aziende, ecc. In tal modo il denaro entra nel circuito economico sotto forma di investimento. Infine torna come investimento finanziario al sistema finanziario spesso sotto forma speculativa. In tal modo si creano le “bolle” finanziarie causa di tanti danni.
    Si cercano i metodi comportamentali che ci conducano verso un futuro a misura d’uomo tenendo sempre presente l’importanza del merito nell’attuare una nuova economia verde e digitale. Chiminazzo si domanda se sia meglio donare o insegnare a fare a chi ha bisogno. Un problema eterno che vede larghe fasce di umanità soffrire la fame e pochi possedere immense ricchezze. Si tratta di una questione di natura culturale. E’ necessario intraprendere un mutamento che porti alla condivisione, all’accettazione dell’Altro nella sua diversità e mettere in comune le capacità e i mezzi per realizzare una crescita collettiva e un miglioramento delle condizioni di vita. Si tratta di un fenomeno che, sostiene l’Autore, “mette in moto il rapporto spirituale delle persone che costituiscono le comunità”.
    Di fronte allo stato di necessità in tante parti del Globo dove bimbi muoiono per la carenza di cibo, cure, acqua, elementi vitali, si cerca una soluzione ridistribuendo la ricchezza. Ma ciò porta invariabilmente al consumismo che conduce ad altra carenza. Critica all’assistenzialismo e consumismo.
    Molti studiosi, tra i quali J.M. Keynes, si sono posti il problema se lo Stato debba “aiutare” l’economia sovvenzionando attività, industrie e imprese. Covid e crisi economica mondiale del 2007-2008 hanno modificato gli interventi statali in senso partecipativo. Si dovrebbero ridistribuire i redditi, i mezzi di produzione e la stessa produzione. Si sottolinea come si debba tenere presente l’aspetto di “responsabilità sociale” dell’impresa secondo il dettato della Costituzione (art. 41 e 42). Fondamentali sono i concetti di solidarietà e concorrenza.
    Il cuore del saggio presenta “Etica ed Economia”. Si tratta di superare il modello dell’economia classica e del XX secolo che definivano l’homo oeconomicus. Si dovrebbe parlare di homo ethicus oeconomicus. Economia che bada alla solidarietà, all’aspetto umano, contrapposti alla visione a-morale dell’Economia classica. Adam Smith, il padre del liberismo economico, del lassaiz faire, propugnava un modello simile all’hobbesiano homo homini lupus.
    Dopo una panoramica sui fondamentali elementi dell’Economia classica e aver trattato le posizioni di A. Smith, Karl Marx e J.M. Keynes, l’Autore si sofferma sul modello proposto dal Premio Nobel della Pace Mohammad Yunus, “il banchiere dei poveri”, che ha prospettato e creato imprese nei paesi poveri e che ha largo seguito.
    La libertà economica non deve essere avulsa da criteri di giustizia. L’imprenditore deve sempre avere presente la sostenibilità ambientale e le imprese la solidarietà, l’onestà e l’agire con coraggio. Fondamentali la sostenibilità ecologica, la sostenibilità ambientale, la sostenibilità sociale.
    Il Bene Comune è il risultato di un equilibrio interiore e della condivisione derivata dall’accettazione dell’Altro. Si deve trovare quale sia il modello di convivenza cui ispirarsi in questo nostro XXI secolo. Fondamentale è il fattore Impresa per la realizzazione del miglior risultato possibile con l’attenzione all’Altro affinché possa migliorare la propria vita. Un modello attento all’Altro è dato dall’esperimento da parte di Adriano Olivetti del Movimento di Comunità. Imprenditore sensibile al benessere dei lavoratori propugnava la creazione di una comunità solidale in cui la cultura fosse incoraggiata. Altro fattore è l’efficienza e la solidarietà che non deve essere considerata beneficenza. Punto fondamentale è l’amore per il prossimo, l’accettazione delle diversità col fine di migliorare le condizioni globali del Pianeta.
    L’Autore analizza le varie figure di homo, dall’homo Sapiens all’homo oeconomicus per giungere all’homo ethicus oeconomicus come punto di approdo del XXI secolo. Egli pone al centro la persona, la Natura, tutto ciò che può donare felicità a noi e agli altri. Un uomo nuovo frutto di un umanesimo economico. Umanesimo della concretezza capace di relazionarsi, aprirsi ed essere teso alla affettività come proposto da Papa Francesco. Ed è questo l’elemento fondamentale alla base della diffusione dell’Etica ed Economia.
    Chiminazzo ha avuto un’esperienza trentennale che ha visto la fondazione della Scuola di Pensiero con attenzione a ciò che emergeva in ambito economico e sociale. Per Etica ed Economia è fondamentale la solidarietà e l’uomo deve custodire i beni naturali. Importante è a tal proposito l’incontro del 2001 con Papa Giovanni Paolo II, promosso dalla Fondazione “Etica ed Economia” di Bassano del Grappa.
    Si propone la Felicità, il Valore, l’uomo va posto al centro e la cultura lo eleva alla dimensione spirituale che sola permette di rapportarsi con la Comunità e la Natura. L’Università dovrebbe agire in sinergia con Imprese, Enti, Istituzioni.
    Etica ed Economia oltre ai tre fattori produttivi tradizionali (Terra, lavoro, capitale) ne considera altri quattro: Patrimonio Umano, Rete, Energie Rinnovabili, Conoscenza. Ciò perché l’economia moderna è costituita non solo dai produttori ma anche dai distributori e consumatori.
    In tempi di rapidissimi mutamenti, di rivoluzioni epocali, di rischi per l’esistenza stessa del genere umano, un progetto così sentito e profondo merita l’attenzione dei politici, degli operatori economici, della scuola e dell’Università. Un lavoro puntuale, quello dell’Autore, attento al destino dell’Umanità e ai “piccoli e poveri” che egli vuole siano posti in primo piano. Guardare con occhi bambini ritrovando quell’innocenza che fa vedere ciò che ci circonda nella sua profondità, liberi dai veli che hanno annebbiato la nostra coscienza. Un saggio che spazia affrontando con perizia i più importanti aspetti del nostro tempo, con fiducia verso un mondo migliore.
    Da non perdere!
     

  • PERCHE' "LIBRO E' LIBERTA'"
    IERI COME OGGI
    PAROLA DI FERRAROTTI

    data: 21/04/2022 20:35

    In questa ultima fatica Franco Ferrarotti, docente emerito di Sociologia all’Università di Roma “La Sapienza”, appunta la sua attenzione sul libro e la lettura in tempi in cui il libro pare perdere terreno rispetto all’audiovisivo e alle proposte dei media, in particolare i media digitali.
    Il titolo del libello Libro e libertà (Armando) mi suscita una riflessione sul potere eversivo del libro veicolo di idee e pensiero libero. Tommaso Campanella riuscì a salvarsi dal rogo dell’Inquisizione fingendosi pazzo e contemporaneamente scrivendo nelle carceri dove era rinchiuso il suo capolavoro La Città del Sole. Egli è stato espressione del potere della lettura e della scrittura che gli hanno permesso di essere libero perché il pensiero non si imbavaglia, trova sempre modo di emergere. E quindi Libro è libertà esprime il potere della lettura, soprattutto di quella lenta, ponderata e riflessiva che ci apre un universo senza fine perché un libro richiama un altro in un continuum e un susseguirsi di rimandi secondo una logica che si disvela nel prosieguo della lettura. Il libro libera la mente, fa volare in una dimensione altra, si pensi al Don Chisciotte e ai libri che il tristo cavaliere leggeva e che lo portarono a stravolgere la realtà, inventare una realtà parallela nella quale immergersi. Vero libro nel libro, il Don Chisciotte è il primo romanzo moderno che mette alla berlina il mondo cavalleresco della Spagna volta alla decadenza e al tramonto.
    Libro, dal Latino liber-libri sostantivo per libro è omonimo di liber-libri aggettivo per libero. E’ questo uno dei tasti su cui si sofferma Ferrarotti, cioè la capacità, la funzione di liberare dalle catene dell’ignoranza che da secoli il libro ha svolto.
    Il titolo stesso Libro è libertà ci pone di fronte a una riflessione che spazia su vari ambiti. L’Autore fin dalla prefazione si sofferma sulla funzione del libro e della lettura fin dall’antichità. Si sofferma su Sant’Agostino che sottolineava la lettura come mezzo di meditazione, di raccoglimento, discesa nel profondo del proprio essere. Lutero è, per Ferrarotti, attuale nel sostenere la parola oltre la parola, la sua ricerca della Parola per riscoprire sé stesso attingendo alla Parola creatrice, significativa. Sottolinea Ferrarotti come ciò sia espressione di vita vera che si collega al progetto che ogni uomo rappresenta fin dalla sua nascita e che permette di vivere in pienezza.
    Secondo Bateson si distinguono due livelli nel linguaggio. Il primo, comunicativo, comunica informazioni, dati, conoscenze. Il secondo, meta–comunicativo, oralmente comunica tradizioni, valori e dogmi. Ed è proprio quest’ultimo livello che permette la riflessione, il pensiero involontario, il pensiero aperto all’altro, il dialogo con chi ci sta di fronte.
    Viviamo in un’era dove il tempo vola e siamo bombardati da migliaia di stimoli e informazioni. Non riusciamo a tirare un sospiro, a rallentare, siamo sommersi da informazioni che non informano e impediscono la riflessione, il pensiero critico. Allora è necessario con forza riscoprire la lentezza, il dialogo interiore e, dice Ferrarotti, “riaffermare la logica della lettura su quella dell’audiovisivo”.
    L’Autore traccia un ritratto della nostra società post–moderna con i problemi che ci attanagliano. Si sofferma sulla condizione dei giovani disorientati e abulici, sommersi dagli stimoli dei media digitali, dai social che danno l’impressione di conoscere tanta gente ma si tratta di rapporti vuoti, non veri e pur interconnessi si trovano in una condizione di solitudine. I media non comunicano. Dice Ferrarotti: “Siamo di fronte a un popolo di informatissimi, frenetici idioti che sanno tutto e non capiscono nulla “.
    Si è persa l’abitudine di meditare, concentrarsi, riflettere.
    Mi permetto una riflessione. Secondo me gli “informatissimi idioti” di cui parla l’Autore, non sono nemmeno informati perché di fronte alla bulimia mediatica non riflettono, le notizie volano, i fruitori dei media hanno perso la capacità di discernere, riflettere sulle notizie in un continuo bla-bla che ottunde e istupidisce.
    Ferrarotti parla di due logiche che attraggono gli esseri umani: logica della lettura e logica dell’audiovisivo. La prima è analitica, razionale, cerca i collegamenti tra parole e periodi, una coerenza interna al libro. Richiama il cogito cartesiano. La seconda è sintetica, colpisce i sensi e l’emotività obnubilando la mente in un venir meno delle capacità critiche, sorta di ipnosi. Se la logica della lettura fa appello alla ragione, quella dell’audiovisivo interessa la sfera emozionale.
    Da homo sapiens si passa a quello che Ferrarotti ha definito homo videns. Tale definizione fu usata anche dal politologo Giovanni Sartori in un saggio sull’influenza della Tv.
    In una società sempre più vuota di contenuti, di valori pregnanti e di capacità di dialogo proficuo e arricchente, si vola a vista in uno sconcerto di solitudine e incapacità di stabilire rapporti interpersonali.
    L’Autore si lancia in una difesa del libro cartaceo che ha il suo fascino, dal profumo della carta e della colla, alle sensazioni tattili della carta e il piacere di sfogliarlo “piluccando” prima di cominciare la lettura. Ferrarotti incita a riscoprire la lettura come strumento che permette di guardare sé stessi ab intus.
    Leggere e leggersi. Leggere per salvarsi dal vacuo della società post-moderna.
    Altro punto importante che l’Autore tocca riguarda la funzione del lettore come co-autore. Si stabilisce tra scrittore e lettore una interazione che ricrea il libro secondo il suo vissuto, la sensibilità, fa suo il libro interpretandolo, introiettandolo, meditando.
    Lo scrittore e il lettore stabiliscono una simbiosi.
    Sostiene Ferrarotti che sia necessario imparare a imparare a leggere e considera la lettura come confabulazione interiore, concentrazione. Inoltre si deve essere permeabili, lasciarsi attraversare, imbevere dal testo. Leggere è far emergere, riemergere le idee dare loro nuova vita. La lettura è indice del nostro grado di civiltà.
    L’Autore cita D’Alembert nel discorso preliminare all’Enciclopedia: “Le idee che si acquistano con la lettura (…) sono il germe di quasi tutte le scoperte, è come aria viva che si respira senza accorgersene e che è necessaria per la vita”.
    Ferrarotti tocca il nodo dell’editoria e dei numerosissimi titoli pubblicati cui non fa da controcanto un nutrito numero di lettori. Egli insiste sulla necessità di leggere. La lettura non è passiva, è creazione e ri-creazione. L’Autore scrive che essa è un momento erotico nel senso dell’eros classico, forza e energia creativa, che fa crescere, atteggiamento e gesto dinamico che fa rivivere.
    Il testo nasce in un ambito, in un ambiente sociale, culturale, in un contesto. Esso riflette il mondo in cui lo scrittore è immerso.
    Ferrarotti tratta da sociologo il tema spaziando nelle molteplici problematiche che emergono approfondendo l’argomento. Sostiene che l’utilizzo di Internet e dei social finisce per privare l’uomo della memoria surrogandola. Memoria che invece la lettura sviluppa ed esercita. Ciò che viene presentato dai media digitali è prefabbricato, non lascia posto all’immaginazione che il libro invece stimola.
    Ritengo che quando leggiamo creiamo nella nostra mente un ambiente, uno scenario che il libro suscita e che diventa parte di noi, del nostro essere. Mi viene da pensare che ognuno di noi in base al proprio vissuto, sensibilità, cultura crei un libro tutto suo. Inoltre la lettura di un libro da bambini o ragazzi suscita emozioni e riflessioni diverse da ciò che ci provoca quella stessa lettura da adulti perché crescendo mutiamo, muta il nostro vissuto, le esperienze si stratificano, cogliamo particolari che ci erano sfuggiti. Finiamo così per interagire col libro e con l’autore.
    Libro denso e appassionato, il saggio di Ferrarotti spazia anche sul sacro. Si chiede che posto occupino le Sacre scritture nella società post–moderna. Il testo sacro è calato nella Storia perché è stato manipolato, tradotto, interpretato innumerevoli volte. Anche il testo sacro è in crisi e l’Autore propone di “rivalutare la funzione salvifica del sacro come l’anti-profano, l’anti-mercato che potrà aiutare l’uscita dalla società dell’usa e getta e ricostruire l’unità del vivente umano, passare dalla hominitas all’humanitas”.
    Un saggio che testimonia l’inesausta sete di conoscenza dell’Autore testimone degli avvenimenti salienti del secolo breve e attento lettore e interprete della contemporaneità.
     

  • POESIE, ROMANZI, CINEMA
    MA PIER PAOLO PASOLINI
    FU SEMPRE E SOLO POETA

    data: 30/03/2022 14:52

    Il 3 marzo 1922 nasceva a Bologna Pier Paolo Pasolini. Di origini friulane, la madre Susanna Colussi, insegnante elementare, era di Casarsa della Delizia (Pordenone); il padre Carlo Alberto, ufficiale di carriera, per motivi di lavoro dovette trasferirsi in varie città del Nord Italia e la famiglia lo seguì. Durante la Guerra fu fatto prigioniero in Africa e tornò a casa alla fine del conflitto. Nel 1925 nacque Guidalberto, Guido in famiglia. Pier Paolo ricorderà con tenerezza di aver visto per primo al mattino presto il fratello nella culla in cucina e di essere corso, con una gioia ingenua e incontenibile, a dare la notizia alla mamma.
    Precocissimo, scrisse la prima poesia a sette anni guidato dall’amatissima madre con la quale si era stabilito un rapporto simbiotico e alla quale resterà legatissimo per tutta la vita. Dacia Maraini, amica fidata e collaboratrice nella sceneggiatura di alcuni film, ricorda nel suo Caro Pier Paolo (Neri Pozza), a tal proposito, un episodio avvenuto durante uno dei tanti viaggi in Africa e nel Terzo Mondo alla ricerca di genti e luoghi che, non toccati dal consumismo, per il Poeta erano espressione di purezza. Giunti a notte in un’oasi in mezzo al deserto, Pasolini era in ansia perché non avrebbe potuto telefonare alla madre che sentiva tutti i giorni. Che fare? Preso dall’agitazione riuscì a convincere l’autista del fuoristrada ad accompagnarlo in una località a 50 chilometri nel deserto da dove avrebbe potuto mettersi in contatto con la madre. Al ritorno l’ansia era svanita ed egli era rasserenato.
    Nella vita di Pasolini Casarsa ha rappresentato sempre un porto sicuro dove trascorrere le vacanze e dove si rifugiò, dopo l’8 settembre 1943 quando il suo reparto fu fatto prigioniero dai tedeschi. Il fratello Guido prese la via della montagna e della vita partigiana. Aderente al Partito d’Azione, entrò nella Brigata Osoppo cui aderivano cattolici, azionisti, monarchici e cadde in un tranello tesogli dalla formazione partigiana comunista titoista delle Brigate Garibaldi. Venne assassinato nell’eccidio di Porzûs il 12 febbraio 1945. Fu un colpo terribile per il Poeta e la famiglia.
    Intanto Pier Paolo aveva proseguito ad applicarsi alla poesia in friulano alla ricerca del mito della genuinità e purezza della lingua. Nel 1942 aveva pubblicato Poesie a Casarsa nelle quali è sempre presente la tradizione romanza ma anche i poeti dell’Ottocento, Leopardi in primis e poi Rimbaud, Ungaretti, Garcia Lorca, Machado. Pur mantenendo un registro basso la poesia ha alla base un sottofondo culto. Scrive Roberto Carnero, docente di Letteratura italiana all’Università di Bologna, in Pasolini – morire per le idee (Bompiani) che Pasolini è in primo luogo un poeta e tutta la sua attività intellettuale, compreso il cinema, è insufflato di poesia che persegue l’assoluto, non a caso farà esplicito riferimento al Paradiso di Dante nel suo Trasumanar e organizzar.
    Durante gli studi in Lettere a Bologna la poesia sarà una costante. L’uso del dialetto vergine da contaminazioni si innesta nel tronco delle poetiche europee. Si è su un altro piano rispetto al vernacolo. Sarà la poesia di Pascoli oggetto della tesi di laurea nel 1945.
    Importantissima in quegli anni l’esperienza condivisa con altri giovani intellettuali della fondazione di un’Accademiuta de la lenga friulana vero cenacolo letterario, palestra di formazione. I componimenti esprimono freschezza, gioia di vivere, attenzione alla natura ma anche sentimento del tempo e della morte. Anni fecondi per il giovane Pasolini che si impegnerà in politica aderendo al Pci. Si sentiva comunista ma di un comunismo eretico, libero da dogmatismi e volto, scriverà Le ceneri di Gramsci, alla figura del pensatore sardo.
    Per uno scandalo fu processato e il Pci lo espulse dal partito. Sarà solo il primo di una serie di episodi che lo vedranno accusato, per la sua arte e il cinema, di offesa al pudore e alla morale e lo renderanno bersaglio di una campagna diffamatoria, di vero odio e discriminazione che lo accompagnerà per tutta la sua esistenza.
    Lasciata Casarsa si trasferì con la madre a Roma dove poi li raggiunse il padre e dove cominciò collaborazioni a sceneggiature con i Maestri del tempo tra i quali Visconti, Bolognini, Fellini.
    La raccolta La meglio gioventù (1954) (dal canto alpino Sul ponte di Perati) è venata di lirismo, e poco prima della sua morte, Pasolini scriverà La nuova gioventù alla inesausta ricerca di un mondo incorrotto quale quello della gioventù. Egli si rende però conto che ciò non è possibile perché la società è cambiata, la massificazione della cultura, l’odiata Tv che tutto appiattisce in una lingua scontata e ufficiale e che si fa portatrice di valori consumistici lontani da quella purezza del mondo pre-industrializzazione. Civiltà egoista ed egotista come sostenevano i sociologi della Scuola di Francoforte, in particolare Marcuse col suo Uomo a una dimensione e Fromm in Avere o essere. Quelli de La nuova gioventù sono toni cupi che si riverberano nell’opera cinematografica di Pasolini. Sia Dacia Maraini che Roberto Carnero mettono in evidenza una sorta di incupimento e pessimismo che troverà eclatante espressione in Salò.
    Roberto Carnero sottolinea come tutta l’opera poetica, cinematografica, teatrale, giornalistica vada letta come un continuum e un corpus in cui tutto è fittamente intrecciato. Ogni sua opera è oggetto di polemica ma anche di grandi successi e riconoscimenti come l’Orso d’oro a Berlino.
    Con lo scandalo del 1949 l’omosessualità del poeta diviene un fatto pubblico oggetto di discriminazioni durante tutta la vita.
    A Roma è attratto dalla vita delle borgate dove, secondo Pasolini, si conserva un ché di purezza che la società di massa sta intaccando.
    Scrive i romanzi romani: Ragazzi di vita (1955) e Una vita violenta (1959) dove affronta il tema dell’omosessualità come prostituzione dei ragazzi eterosessuali. Ragazzi di vita sono i suoi amori tra cui Ninetto Davoli, in una continua ricerca di sincero affetto e schiettezza.
    Ciò che interessa il poeta è il sottoproletariato che non ha coscienza di classe e che Marx definiva Lumpenproletariat (proletariato degli stracci). I personaggi hanno i volti dei borgatari come nel capolavoro insuperato, secondo molti critici, Il Vangelo secondo Matteo. Girato in varie località d’Italia l’opera vince nel 1964 il Leone d’oro alla Mostra del Cinema di Venezia ma subisce gli attacchi degli intellettuali comunisti e del Pci.
    Contrapposta al sottoproletariato espressione di genuinità, autenticità, spontaneità, purezza, è la borghesia che domina e vorrebbe sottomettere proponendo falsi valori.
    Ricordiamo che siamo negli Anni Sessanta quando l’Italia, con imponenti mutamenti strutturali, si avvia a diventare potenza industriale. Per Pasolini la borghesia, lungi dall’essere una classe, è una forma di mentalità, un modo di essere. La borghesia erode la civiltà contadina proponendo nuovi modelli di vita quali il consumismo. Va così scomparendo il patrimonio millenario della civiltà contadina.
    Pasolini sostiene in Scritti corsari (1973-1975) che ci si trova di fronte a un nuovo fascismo che distrugge la forza e vitalità del popolo da lui amato visceralmente. Il mondo degli esclusi dal progresso ma anche che si è mantenuto incontaminato dal consumismo e dall’ideologia, è l’universo attorno a cui ruota l’ispirazione e la vita del Poeta. La civiltà contadina possiede il senso del sacro, la borghesia ha dalla sua parte la religione che con la teologia cerca di “irreggimentare il senso del sacro entro schemi rigidi, precostituiti, autoritari facendoli confluire in un impoverimento dell’esistenza” (Carnero). Sempre Carnero mette in evidenza come il comunismo pasoliniano oscilli tra virtù e Storia, tra vitalismo irrazionalistico e adesione ideologica.
    Ancora nel 1959 si presenta a Pasolini la possibilità di vivere un’esperienza diversa che gli provocherà sincera gioia se non felicità. La rivista “Successo” gli propone un reportage sulle spiagge d’Italia percorrendo tutto lo stivale, dalla Sicilia, a partire da Ventimiglia fino a Trieste. Egli accetta con entusiasmo e parte con la sua 1100. In questo reportage dal titolo La lunga strada di sabbia (Guanda) Pasolini aspira la vita meravigliandosi per tutto ciò che vede dal Ponente ligure alla Toscana, al Lazio e poi a Napoli, Capri, Ischia e Procida luogo deputato del capolavoro dell’amica Elsa Morante, L’Isola di Arturo.
    Napoli colpisce il poeta per la vitalità, gli scugnizzi alla ricerca di un soldino per mangiare. Non dorme, tanto è l’entusiasmo. Scriverà: “Ho fatto l’aurora, ho visto il Vesuvio, vicino che si poteva toccarlo con la mano, contro un cielo, ormai rosso, avvampante come nascondesse dietro un paradiso incendiato”. Dopo una puntata in Sicilia, lo scrittore risale la Penisola nella costa orientale giungendo a Ferragosto a Trieste al Lido brulicante di bagnanti. Caorle, la spiaggia che frequentava da ragazzo gli appare irriconoscibile, Pasolini lo sottolinea con profonda nostalgia.
    Lungo tutti gli Anni Sessanta l’occupazione principale sarà il cinema come mezzo che riesca a rivolgersi a un pubblico più ampio, le masse che saranno oggetto e soggetto del suo cinema.
    Intanto scoppia il Sessantotto. Pasolini scriverà la poesia “Il Pci ai giovani” nella quale critica il Movimento che ai suoi occhi è borghese perché gli studenti sono figli di papà. Il suo intervento troverà accoglienza anche su l’Espresso e sosterrà che tra poliziotti e studenti egli sia dalla parte dei poliziotti figli del popolo, costretti per la povertà a indossare la divisa.
    Per girare i suoi film Pasolini cerca luoghi e volti nel Terzo Mondo. Farà questi viaggi con Alberto Moravia e Elsa Morante e poi anche con Dacia Maraini. Per dei provini per l’Orestiade parteciperà anche Maria Callas, follemente innamorata del poeta.
    Tra i luoghi visitati l’Africa, Yemen, India, Pakistan. Egli scriverà L’odore dell’India, Moravia Un’idea dell’India. Il primo coglie le sensazioni, le emozioni, il secondo analizza razionalmente.
    Negli Anni Settanta Pasolini scrive e gira con una vena sempre sottesa al recupero di una genuinità, spontaneità, purezza i film della Trilogia della vita. Il Decameron (1971), I racconti di Canterbury (1972) e Il fiore delle Mille e una notte (1974). E’ un momento felice ma ombre scure si addensano sul destino del poeta. Egli è fatto oggetto di minacce e insulti.
    Scriverà sul Corriere della Sera degli interventi che saranno raccolti nel volume degli Scritti corsari e poi su Lettere luterane.
    Prende posizione contro la Tv che già da allora considerava un media che spegneva il pensiero critico spingendo con la pubblicità e gli stili di vita proposti a omologare, massificare. La Tv di allora non era invasiva e invadente come ora ma Pasolini era un veggente, un intellettuale calato nella realtà storica e antropologica e vedeva lontano.
    Scrisse di sapere chi aveva compiuto le stragi, di sapere i mandanti, un perentorio Io so!
    Dacia Maraini in Caro Pier Paolo, vero atto d’amore per un grande amico, racconta e ci presenta un Pasolini privato e al medesimo tempo pubblico ed evidenzia la dolcezza del poeta, la frenesia dello scrivere e coinvolgerla nel suo lavoro. Grintoso e al tempo stesso indifeso Pasolini nel commovente libro di Dacia Maraini, emerge nella sua fragilità ma anche nella gioia di viaggiare e scrivere.
    Pasolini preconizzava forse anche la propria morte.
    Il giorno della cerimonia funebre in Campo dei Fiori dove nel 1600 per le sue idee fu arso Giordano Bruno, Moravia urlò che era morto un Poeta e ciò era un grande lutto perché di poeti così ne nascono pochissimi in un secolo.
    Si conclude così, con un delitto avvolto nel mistero la parabola di una vita breve (53 anni), difficile ma anche accesa da entusiasmi e scoperte.

     

  • NIFFOI NEL MILLENARIO
    NURAGHE
    CON GARCIA MARQUEZ
    E BOSCH

    data: 23/02/2022 11:21

    Salvatore Niffoi ci ha recentemente regalato Il sogno dello Scorpione (Il Maestrale), originale e profonda riflessione sul mondo e la fine del mondo che si ispira alla pandemia, la Cajentura (la febbre) che brucia i polmoni e distrugge le vite, la vita. Ambientato in un paesello nel centro della Sardegna, in un tempo fuori dal tempo, in un’atmosfera da mondo alla fine del mondo, e da cui gli abitanti fuggono per salvarsi, narra la storia dei due unici rimasti e sopravvissuti, marito e moglie che cercano riparo nel nuraghe Malune, millenaria costruzione megalitica che li accoglie nel suo ventre salvandoli.

    Niffoi (Orani, 1950), laurea alla Sapienza Università di Roma, con tesi sulla poesia sarda, relatori Carlo Salinari e Tullio De Mauro, ha insegnato nella scuola media del suo paese e ha contemporaneamente portato avanti l’attività letteraria col sodalizio con la casa editrice nuorese Il Maestrale. Tra le sue opere Il viaggio degli inganni, Il postino di Piracherfa, Cristolu, La sesta ora. Adelphi ha pubblicato La vedova scalza Premio Campiello 2006. E anche La leggenda di Redenta Tiria e Ritorno a Baraule. Ha ottenuto riconoscimenti in Italia e all’estero e ha visto molte sue opere tradotte in varie Lingue. Personalità di spicco della nuova letteratura sarda è stato tra i fondatori del festival letterario L’isola delle storie che si svolge a luglio a Gavoi, importante centro barbaricino.

    I due novelli Adamo ed Eva de Il sogno dello Scorpione, Felle Temale e Taniella Pistiddu, lui poeta e inventore di storie, lei pacata e amorevole che smorza le asprezze di Felle, vivono in attesa di quella fine del mondo che si erano promessi, al momento delle nozze, non li avrebbe separati mai. Essi passano il tempo, nell’oscurità del nuraghe, a raccontare storie di un mondo arcaico e fantastico, ricco di orrori e meraviglie come la donna che partorisce un serpente o il figlio illegittimo di un nobile che, allevato di nascosto, diviene prete e dopo la morte accidentale si trasforma in una formica.
    Storie nella storia che si inanellano creando fantasmagorie in un mondo che si rifà alle atmosfere di Garcia Marquez e al realismo magico con i suoi mondi incantati e nuovi come appena nati. Crudo e fortemente materico, intriso di umori, fango, sangue, deformato è questo universo che emerge dalla narrazione reso con una commistione di sardo e italiano anche nella sintassi. Storie forti, vero pugno allo stomaco cui lo scrittore ci ha abituato. Il nitore delle descrizioni ci portano in un mondo ricco di colori, suoni, profumi e odori.

    Il silenzio del nuraghe e del mondo all’improvviso è rotto dal volo di uccelli, da colori e luce tersi e nitidi e i due protagonisti cercheranno di tornare al paese alla ricerca di tracce di altri uomini. Troveranno la discarica dei rifiuti e lì da un televisore semidistrutto immagini e lo speaker che racconta la storia e la fine della Cajentura.

    Il mondo ritorna a vivere, la vita riprendeva a pulsare e dal televisore emergevano folletti come in un quadro di Bosch. I due protagonisti ballano il ballo tondo, lo spettacolo deve continuare, la vita in fondo non è un grande, tragico ma anche straordinario, meraviglioso spettacolo?
     

  • SOCIOLOGIA, IERI E OGGI
    INTERVISTA ESCLUSIVA
    A FRANCO FERRAROTTI

    data: 16/02/2022 14:25

    La vita del prof. Franco Ferrarotti, fin dall’infanzia, è ricca di interessi oltre che di esperienze e di successi professionali. Come scrive in L’Accademia e l’agorà (Armando), la passione per la Sociologia, sconosciuta in Italia dove dominava l’idealismo crociano, lo portava, scolaro, a leggere tutto ciò che al riguardo poteva trovare nelle biblioteche. Vincitore in Italia della prima cattedra di Sociologia a La Sapienza, Università di Roma, Ferrarotti ha potuto possedere un punto di vista privilegiato per osservare e comprendere la società nel suo evolvere o involvere a seconda del punto di vista.

    Cosa ne pensa della società attuale? Ritiene che la Sociologia possa essere un valido strumento d’indagine e conoscenza anche in un mondo post-moderno dominato dai media digitali e in cui si sono persi i punti di riferimento e tutto è come in un moto perpetuo?

    "Credo di avere buone ragioni per ritenere che la società attuale corra il rischio di scomparire. Si continua a parlare di sociale, società e socialità, ma più per abitudine e per tradizione che per intima convinzione, in base a quella comunanza naturale che Aristotele chiamava koinonia e vedeva come risultanza della convivenza di più individui e famiglie nello stesso spazio. Oggi l’economia di mercato è così forte e onni-inclusiva che la vedo tracimare e in grado di trasformare la società in società-di-mercato, vale a dire, in non-società. Non voglio dire che oggi i futuri promessi sposi, prima del si fatale, vadano all’ufficio del catasto a controllare le eventuali rispettive proprietà, ma è un fatto che rari sono ormai anche i rapporti inter-personali dotati e sperimentati come valori in sé e per sé. Il calcolo razionale ha invaso la stessa sfera dei rapporti intimi. L’amicizia disinteressata sta divenendo un fenomeno raro. La sociologia, in questa situazione, è ridotta a un ruolo ancillare: a) può analizzare e accertare se due scopi, entrambi desiderabili, siano di fatto compatibili; b) può ipotizzare e calcolare il costo delle riforme sociali propagandate e mettere a confronto misure auspicabili e risorse disponibili; c) analizzare, per gli enti pubblici, lo scarto fra statuti giuridici e pratiche effettive; d) soprattutto oggi, in una situazione tecnologica avanzata, una sociologia libera, autonoma rispetto ai grandi potentati economici, dovrebbe analizzare le ricadute collettive e psicologico-individuali delle innovazioni tecnologiche. Per esempio: le informazioni elettroniche sono rapide, in tempo reale, planetarie, ma lo loro velocità e abbondanza bloccano la capacità di riflessione dell’individuo, non hanno la critica delle fonti e non rispettano né il principio di non-contraddizione né la consecutio temporum. Quindi, non informano, deformano, deconcentrano, impediscono al singolo di farsi un progetto di vita; mentre sembrano arricchirlo e promettono tutto in realtà riducono al nulla".

    Lei ha avuto il privilegio di essere amico fraterno di Cesare Pavese. E’ stato lui a metterle in mano Veblen, sconosciuto in Italia, perché lo traducesse. Su di esso lei ha elaborato la Tesi di Laurea con relatore Nicola Abbagnano. A breve uscirà per Solfanelli “Cesare Pavese, fra il bosco e l’asfalto in silenziosa amicizia”. Potrebbe anticipare per Infodem qualche passo, qualche ricordo?

    "Il mio rapporto con Pavese è stato un regalo delle circostanze: due contadini sperduti nella grande metropoli e legati da radici comuni e non da interessi immediati o da tornaconti personali, anche se, in caso di bisogno, l’aiuto era pronto, generoso, senza contropartite, fraterno".

    La recente lettura di “Promemoria” di Luigi Meneghello mi ha fatto pensare all’esperienza di Comunità, vero crogiuolo di pensiero e azione. Un momento che l’ha vista collaborare con Adriano Olivetti ed essere eletto in Parlamento come rappresentante del Movimento. Ci potrebbe dare, gentile Professore, un’idea della vita parlamentare di allora? E come controcanto come vede l’attuale classe politica?

    "La genialità dell’intuizione olivettiana consiste essenzialmente nell’aver compreso che nella comunità concreta, territorialmente definita, a misura d’uomo, là dove le persone vivono, lavorano, amano e odiano, ma naturalmente, ossia non in base a calcoli razionali preventivi, va ricercato il nucleo vivo del sociale. Idea geniale, non capita, che ha condannato Olivetti all’isolamento culturale e al fallimento politico, causato dal suo anticipo. Comunità aveva compreso in tutta la portata la crisi dei partiti politici di oggi e dei sistemi metropolitani e produttivi con almeno cinquant’anni di anticip".

    Lei ha attraversato tutto il Novecento conoscendo il Fascismo, la Guerra, la Resistenza, la nascita della Repubblica, la Costituente. Ma anche i Totalitarismi, la Shoah e poi il crollo delle ideologie e la fine del Comunismo sovietico. Tutti eventi epocali del "Secolo breve”. Il XXI secolo ci trova disorientati e confusi, Internet impera, la società è diventata “liquida” secondo Bauman. Potrebbe regalarci la sua preziosa testimonianza da “viaggiatore nel Tempo”?

    "Ho vissuto, come deputato, la III Legislatura con grande piacere. Come indipendente di sinistra pulito, cioè non monarchico, nel gruppo misto il mio voto era decisivo, addirittura dirimente, per il primo centro-sinistra. Ho sperimentato sulla mia pelle il piacere intenso, direi quasi orgasmico, del potere politico. Parlavo con uomini che avevano alle spalle una biografia, da Togliatti a Nenni, Fanfani, Pertini, Saragat. Oggi la classe politica sembra l’ombra lunga del ’68, vale a dire la protesta che non sa diventare proposta, l’ignoranza tracotante, il pensiero ridotto a ripetitiva, noiosa propaganda. Di qui la fortuna di teorie estemporanee, che sono l’esatta negazione della realtà: non società liquida, ma, per quel che ne resta, società irretita, totalmente amministrata da funzionari demotivati".

    E per concludere mi permetto una domanda “interessata” da laureata in Lettere con tesi in Sociologia sulla “Religione civile”. Da sociologo e intellettuale che ha insegnato anche negli Usa, dove esiste una forte “religione civile”, ha un senso, secondo lei, parlare di “Religione civile” nel nostro Paese?

    "La religione civile nasce con i Founding Fathers, che fondano gli Stati Uniti come comunità approdando nel New England in fuga dall’Europa come eretici perseguitati. Ne ho scritto in Una teologia per atei (Laterza, 1981). Nulla di tutto questo per gli Italiani, che si possono definire cattolici atei, portati ad un edonismo immediato e amorale, sempre in nome del primum vivere, un vitalismo che non ha bisogno di giustificarsi.

  • GIORNO DELLA MEMORIA 2022

    data: 27/01/2022 14:27

    Il 27 gennaio 1945 l’Armata Rossa, ormai vittoriosa sul Terzo Reich, entrava nel Lager di Auschwitz liberando gli ultimi sopravvissuti ridotti larve d’uomo. Si apriva così al mondo in tutto il suo orrore la realtà dell’"universo concentrazionario” costituito dai campi di sterminio e lavoro coatto che, con una vera industria di morte, uccise più di dieci milioni di persone tra cui sei milioni di ebrei e 500.000 “zingari”, tra sinti e rom “passati per il camino”. Il meccanismo della “soluzione finale del problema ebraico” fu messo a punto dalla Conferenza di Wannsee il 20 gennaio 1942, quando si incontrarono nella villa del quartiere esclusivo di Berlino - su invito di Reinhart Heydrich, capo dell’Ufficio centrale per la sicurezza nazionale, della Polizia e dei Servizi segreti dello Stato nazionalsocialista - funzionari tra cui Adolf Heichmann, tenente colonnello delle SS, responsabile dell’attuazione della “soluzione finale”. Ma la deportazione degli ebrei era da tempo già avviata. Sono del 1938, dopo la “Notte dei cristalli”, i primi internamenti nei campi.
    A quasi ottant’anni da quell’evento, quando ormai vanno scomparendo i testimoni oculari del “male assoluto” e un velo di oblio potrebbe celare il ricordo, è necessario mantenere viva la memoria di quegli eventi che videro un popolo tra i più civili generare personaggi che compirono tali efferatezze.
    Ma ci si domanda ancora perché tutto ciò sia potuto accadere e perché le democrazie occidentali non siano intervenute, dato che è già appurato che gli Alleati sapessero. Non solo: come mette in evidenza lo storico Theodore S. Hemerow dell’Università del Wisconsin-Madison, nonostante le manifestazioni popolari negli Stati Uniti per chiedere un intervento a favore degli ebrei d’Europa. Molti reduci dai campi hanno raccontato che aspettavano che gli Alleati bombardassero i forni crematori e le camere a gas ma nulla di sperato avvenne.
    I tedeschi fecero evacuare i sopravvissuti con marce della morte di cui ci dà una drammatica testimonianza il Premio Nobel Elie Wiesel. Sotto la neve a piedi o in vagoni aperti, Wiesel, figlio di rabbino, descrive nel capolavoro “La notte”, quella notte della ragione che gli fece perdere la fede.
    I tedeschi cercavano di nascondere le loro nefandezze, bruciando in fosse enormi i corpi delle povere vittime mentre i forni crematori incessantemente “lavoravano” emettendo un acre fumo che ammorbava l’aria.
    Perché tutto ciò è potuto accadere? Wolfgang Benz, docente presso la Technische Universitat di Berlino, in “Olocausto” cerca di dare una risposta tenendo conto dei fattori che hanno concorso all’attuazione del genocidio.
    Durante l’incontro di Wannsee si parlò con toni pacati ed entusiasti (sic!) dei risultati della soppressione degli ebrei con i gas di scarico di camion attrezzati all’uso. Tra le decisioni ci fu l’applicazione delle Leggi di Norimberga del 1935 sulla razza per effettuare la soppressione anche degli ebrei di sangue misto. Era da questa leggi che derivava la sostanza giuridica della realizzazione dell’eliminazione degli ebrei. Benz sottolinea come la “soluzione finale” fosse progettata razionalmente e attuata burocraticamente, come tutto fosse pianificato nei minimi dettagli. Così i convogli con gli ebrei si diressero, dall’ottobre del 1941, ai ghetti di Łódź, Riga e Theresienstadt (Terezin). Durante il conflitto più di sei milioni di ebrei furono uccisi anche pubblicamente durante lo spostamento del fronte verso Est. Si pensi all’eccidio di Kiev, a Babi Yar, una forra dove, con la collaborazione di gruppi ucraini, furono trucidate trentamila persone. Ma la tecnica di soppressione andò affinandosi con l’utilizzo del gas nervino Ziklon.B e la creazione dei campi di sterminio di Chelmo, Auschwitz-Birkenau, Belzen, Sobibor, Treblinka, Lublino-Majdanek.
    Scopo della persecuzione e dell’esecuzione degli ebrei era “ripulire” il territorio del Reich da “parassiti” e nemici del popolo tedesco che attuavano il “complotto plutocratico”. Insomma, secondo i nazisti, una vera spina nel fianco dei tedeschi. Accusati di nefandezze, gli ebrei che vivevano in Germania si sentivano tedeschi, avevano partecipato nell’esercito alla Prima Guerra mondiale anche eroicamente, rivestivano incarichi importanti in tutti i settori, erano industriali, medici, docenti universitari, banchieri, artisti e si sentivano parte integrante della Nazione.
    Ma con l’avvento di Hitler al potere, conclusa la timida esperienza democratica della Repubblica di Weimar sepolta dalla catastrofica inflazione, il clima andò mutando a discapito della comunità ebraica. Un nuovo vento soffiava sulla Germania spazzando ogni libertà e idea democratica. Ossessionato dall’idea dello “spazio vitale” per la sopravvivenza e l’espansione del Reich millenario, facendo leva sulle dure misure prese a Versailles nei confronti della Germania dalle potenze vincitrici in particolare la Francia, Hitler cominciò l’espansione con l’Anschluss (annessione) dell’Austria, la spartizione della Polonia con l’accordo Ribbentrop-Molotov, giungendo ad invadere la Cecoslovacchia per poi dichiarare guerra alle democrazie europee.
    In un primo tempo, per quanto riguarda gli ebrei, si pensò di favorire l’emigrazione e Eichmann, criminale di guerra processato a Gerusalemme nel 1961, si occupò della deportazione degli ebrei in Madagascar, il cosiddetto “Programma Madagascar”. Ma dopo aver pianificato l’azione ci si rese conto che era inattuabile e vi rinunciarono.
    I nazisti costrinsero, fin dal 1935, i rappresentanti dell’ebraismo tedesco a collaborare alla macchina infernale della Shoah. Questi ultimi cercarono di salvare il salvabile pur avendo margini di manovra infinitesimali. Grave colpo fu il pogrom del 9 novembre 1938, dopo l’uccisione da parte di Herschel Grunspan del segretario dell’ambasciatore tedesco a Parigi Ernst vom Rath. Grunspan protestava per l’espulsione degli ebrei polacchi dalla Germania. La reazione nazista non si fece attendere e la situazione divenne pericolosissima, cominciando a scivolare verso la fine. Gli ebrei cercarono di espatriare, fino a un certo punto invogliati dal regime nazionalsocialista. Heichmann disse che si sentiva sionista. Gli Stati occidentali accettarono l’idea con poco entusiasmo, secondo Hamerow. “Perché l’Olocausto non fu fermato”: perché, alla luce di un ponderoso lavoro di ricerca d’archivio, “le democrazie occidentali erano percorse da una fortissima ondata di antisemitismo”. Proporre l’entrata in guerra per salvare gli ebrei sarebbe stata considerata una mancanza nei confronti dei connazionali che combattevano per la Patria. Ci si chiedeva anche quale sarebbe potuta essere la reazione delle altre minoranze. Così gli ebrei furono lasciati al loro destino. Amara la conclusione di Hemerow: “Hitler, pur sconfitto, avrebbe vinto perché riuscì a spazzare gli ebrei dall’Europa”.
    Heichmann, condannato a morte a Gerusalemme, prima del crollo del Terzo Reich aveva sovrinteso alla deportazione degli ebrei ungheresi. Essi saranno gli ultimi a giungere nei campi prima della fine della Guerra.
    Proprio di Heichmann scrisse Hannah Arendt nel libro reportage del processo che si svolse a Gerusalemme nel 1961 dopo che i servizi segreti israeliani (su ordine di Ben Gurion), rintracciatolo in Argentina, lo rapirono e lo condussero in Palestina. Il libro “La banalità del male” mette in evidenza la personalità di un uomo mediocre, afasico, contradditorio che ritiene di essersi attenuto agli ordini dei superiori. Scrive la Arendt: “Davanti al patibolo era come se in quegli ultimi minuti egli ricapitolasse la lezione che quel suo lungo viaggio nella malvagità umana ci aveva insegnato – la lezione della spaventosa, indicibile, inimmaginabile banalità del male".
     

  • LA LEZIONE DI FERRAROTTI
    DAL DUALISMO PLATONICO
    AL MONDO DIGITALE

    data: 04/01/2022 20:01

    Il dualismo platonico, come un fil rouge, ha improntato di sé la filosofia occidentale creando una dicotomia che molto ha inciso sullo sviluppo delle scienze umane tra cui, in primis, la Sociologia, figlia della Filosofia. Ne tratta Franco Ferrarotti, professore emerito di Sociologia all’Università di Roma La Sapienza, Accademico dei Lincei, vincitore del primo concorso bandito in Italia per l’insegnamento della Sociologia, in “L’Accademia e l’Agorà” (Armando). Il saggio affronta il dualismo e il primato dell’epistéme (conoscenza) dei filosofi sulla doxa (conoscenza ordinaria) degli uomini comuni considerati andropodi al pari di piedi umani, rovesciandolo per attribuire a quest’ultima un valore che ricostituisca l’unità del vivente.
    Per l’Autore Platone esprimeva una visione elitistica. Si pensi che ai suoi tempi (IV secolo a. C.) gli Ateniesi, circa 30.000 persone, erano mantenuti da 140.000 schiavi, quindi solo chi studiava l’universo delle idee poteva ritenersi eletto. Ciò è ben espresso negli scritti del Padre della filosofia occidentale che passava dalla contrapposizione tra scienza geometrica – dal motto che campeggiava all’ingresso dell’Accademia – e conoscenza ordinaria, dualismo tra carne e spirito, anima e corpo, mente e materia. Da Platone tale visione ha trovato terreno fertile in Sant’Agostino, la Patristica, Cartesio, Kant, Hegel, l’Idealismo fino, in Italia Gentile e Croce.
    I Dialoghi di Platone sono per Mario Vegetti autonomi ed esprimono ricchezza di pensiero che vede la realtà derivante da due principi: l’Uno e il Molteplice cioè il bene e il male.
    Ferrarotti cita l’interpretazione di Giovanni Cerri che vedeva in Platone “il filosofo della comunicazione”. La Sociologia avrebbe come base Socrate non nella visione platonica ma nella visione di Senofonte che lo mostra nel suo vagare e dialogare con gli ateniesi dando importanza alla doxa, la conoscenza comune. Da Socrate e dalla sua autocoscienza espressa dalla dotta ignoranza, il sapere di non sapere, e dalla sua sete di conoscenza anche comune deriverebbe la Sociologia, l’interesse per i propri simili, per l’Uomo.
    Platone, chiuso nella “torre d’avorio” dell’Accademia, privilegiava le disquisizioni sulle idee e la epistéme, conoscenza basata sulla logica e la certezza matematica.
    Platone coglierebbe la funzione formativa della comunicazione dei grandi miti trasmessi dalla poesia e che fa rivivere nel processo di formazione dell’individuo, ovvero nella paideia che trova nel termine Bildung, Bildungroman (romanzo di formazione) l’interfaccia letterario.
    Secondo Cerri, citato da Ferrarotti, emerge così il tema della crucialità dell’informazione e dell’importanza dei processi comunicativi per l’infanzia e l’adolescenza. Platone narra il mito per formare i cittadini e infondere i valori etici e filosofici. Ma prima di trasmetterli i miti devono essere depurati da qualsiasi contenuto che possa turbare. Psiche come cera molle nella quale si imprimono le impressioni che per tutta la vita l’individuo terrà nella propria mente. Platone, critica il testo scritto perché generatore di fissità al contrario della ripetitività della narrazione orale che si tramanda di generazione in generazione.
    Sostiene Ferrarotti che la crisi generata dall’avvento del libro fra il IV e V secolo a. C. preconizzerebbe la conflittualità innescata dai media digitali. L’audiovisivo trasmette un messaggio veloce, avvolgente, che incanta e ottunde a scapito del ragionamento e della riflessione. I media digitali trasmettono un’enorme quantità di stimoli, informazioni che si susseguono senza soluzione di continuità generando uno stato ipnotico tanto che Spitzer lo definisce “demenza digitale”.
    Il mito è per Platone una favola, un insieme di favole che si differenziano dal racconto storico. Vi è quindi una accentuata dicotomia tra mythos e storia difficile da ricondurre a unità. Il mito è un racconto metastorico.
    Secondo Ferrarotti sarebbe necessario, in una società che privilegia la sincronia alla diacronia, rivalutare il senso comune. Si tratta di senso del limite che dovrebbe essere presente nella nostra società tecnologica per recuperare l’unità del vivente. Il senso del limite era presente nell’antichità (le “Colonne d’Ercole”) e per noi coincide con la morte. Morte che è nascosta, che viene esorcizzata e negata nella nostra società. Si pensi ai mutamenti nella concezione e nel vissuto collettivo messa in evidenza da Philippe Aries in “Storia della morte in Occidente”. Se nell’antichità la morte era presente, comune, si conviveva con essa, con la creazione dei cimiteri – si pensi a Foscolo e i Sepolcri e alle leggi emanate da Napoleone per razionalizzare la morte – è stata “allontanata”, si è cercato di dimenticarla, renderla invisibile, cancellarla.
    Secondo l’Autore la filosofia in Platone sarebbe una fuga dal comune, dai propri simili che non possiedono l’elezione come un filosofo. Da una concezione elitistica trae origine il dualismo platonico, quella lacerazione che, sottolinea Ferrarotti, ha improntato di sé la filosofia occidentale. Platone non coglie il nesso tra epistéme e doxa, la conoscenza comune non ha alcun valore, è banale. Egli definisce gli uomini comuni come non-uomini, schiavi, andropodi “piedi d’uomo”. Da qui l’antropocentrismo che caratterizza la Weltanschauung occidentale rispetto alle culture orientali.
    Cartesio col suo iper-intellettualismo esprime questa visione nella contrapposizione tra res cogitans e res extensa, e poi l’idealismo hegeliano anche di sinistra con Marx che parla di Lumpenproletariat cioè proletariato degli stracci, sottoproletariato. E poi Fichte, Schelling, Croce e Gentile, Heidegger, Thomas Mann, Max Weber.
    Sostiene Ferrarotti che sia basilare rovesciare la visione elitistica platonica per giungere alla “conoscenza partecipata” e alle verità collettive e patrimonio di tutti.
    La tesi dell’Autore è “dal dualismo platonico al recupero dell’unità del vivente”. Egli si chiede se ciò sia possibile in un mondo in crisi totale, sociale, ambientale, sanitaria, morale, economica e psicologica. Con la fine delle ideologie in un mondo che corre velocissimo e in cui siamo sommersi dalle informazioni e da stimoli di ogni tipo, è possibile recuperare l’unità dell’Uomo, raggiungere un atteggiamento di conoscenza partecipata come espressa da Socrate?
    Sostiene Ferrarotti che si deve rivalutare il dubbio e in un mondo dove non si avvertono i suoni ma un rumore continuo di sottofondo, nella società di massa, dominata dall’invasività dei media e dei media digitali in particolare, è necessario saper ascoltare il silenzio, “il suono del silenzio”.
    Si chiede Ferrarotti se i media comunichino realmente giungendo alla conclusione che essi non mediano, contrapponendosi alla lettura incantano impedendo la riflessione, il pensiero fecondo.
    L’Autore si domanda “perché la scelta della Sociologia? Perché è una scienza che coglie le connessioni tra i vari ambiti del sociale e il condizionamento reciproco. Socrate è un osservatore partecipante, capace di dialogo, di interazione faccia a faccia, di chiacchiere nell’ Agorà e al mercato. Il primo sociologo, mi permetto.
    Ma quale Socrate? Socrate di Platone o di Senofonte? Ferrarotti ritiene più umano e reale Socrate di Senofonte. Facendo un confronto con le nostre società e i media, Ferrarotti critica i mezzi che rifuggono il rapporto faccia a faccia, sostiene l’importanza del linguaggio del corpo, della mimica, della esperienza comune. I media contrappongono le letture all’audiovisivo, l’immagine di plastica. Dobbiamo tenere presente la nostra umanità fatta di psiche e soma, ragione e sentimento, passione e intelligenza, riflessione e decisione.
    La Sociologia ha alla sua base la filosofia occidentale. Socrate è un osservatore partecipante come lo è il sociologo e lo studioso di Scienze umane. L’ascolto, il dialogo sono fondamentali. Socrate vive nell’Agorà, partecipa e osserva.
    Sostiene Ferrarotti che dalla ricerca sul campo ha talvolta assunto importanti tappe teoriche, in particolare società come “insiemità”, identità e alterità, identità dialogica risultato di atteggiamento empatico che mette in crisi la visione elitistica di Platone.
    L’Autore parla della sua vita e della professione a cominciare dai primi passi, ancora fanciullo, alla scoperta della Sociologia. Passione oggetto di dialogo nelle passeggiate con l’amico fraterno Cesare Pavese che gli diede da tradurre un saggio di Veblen allora sconosciuto in Italia. L’interesse per la Sociologia viene anche dalla natura ibrida in cui epistéme e doxa coincidono superando il dualismo platonico.
    Una ricerca profonda quella di Ferrarotti che continua per tutta la vita, prima da autodidatta, poi in ambito accademico in USA ad approfondire la conoscenza della materia. Una vera avventura umana e ideale che Ferrarotti riassume appassionatamente.
    In questo denso saggio in Appendice è riportata anche una intervista di Sergio Zavoli all’Autore nel 1992 che dà una visione dell’uomo e dello studioso che tutto coglie ed elabora con visione profonda.
    Personalità forte dall’immensa cultura, Ferrarotti ci regala sempre nuovi saggi e riflessioni in una attività proficua e illuminata. Ogni lettura è per me un’esperienza straordinaria.
    Concludo con una citazione. “La vita delle idee si nutre delle esperienze umane, anche di quelle occasionali, frammentarie. Il teoretico ha bisogno del vissuto”.

     

  • LETTERA SULL'EUROPA
    A MARCHETTI TRICAMO

    data: 27/12/2021 16:01

    Carissimo, ho letto con attenzione e interesse il tuo bellissimo e sentito articolo sul futuro dell’Europa unita (“L’Europa si/ci salverà ritrovando la strada tracciata dai padri fondatori”), pubblicato su infodem.it. Vi ho scorto un fortissimo ideale e fiducia nella possibilità che il Vecchio Continente possa risolvere le difficoltà che colpiscono il campo economico, politico, sociale. Mi trovo in perfetta consonanza anche se a volte mi faccio prendere dallo scoramento per una UE che a tratti si fa prendere da astrattismi e manca dello spirito che animava i Padri Fondatori, riuniti, come ricordi con nostalgia ed entusiasmo, quasi meraviglia, a Messina nel 1955. I primi passi per un’Europa unita e pacifica dopo la Guerra e i totalitarismi.
    Un fortissimo afflato ideale animava i Padri fondatori che guardavano lontano aspirando a un’unione anche politica senza ostacoli che si opponessero alla libera circolazione delle merci e soprattutto delle persone. Un’Europa che, non dimentichiamo, ha garantito oltre 70 anni di pace. Ora l’Europa deve rifarsi a quello slancio ideale, come tu dici, puntando alla formazione di una classe politica adeguata che eviti il chiacchiericcio e il proliferare su tutto il Continente dei populismi che fanno proprio il malcontento generato dalla crisi economica e sociale, della sfiducia dei cittadini nella politica e nelle Istituzioni. Oggi una classe politica inadeguata pèerlopiù abbaia al vento e, più che proporre, capta il malessere parlando alla pancia dell’elettore dicendo ciò che i cittadini vogliono sentirsi dire.
    In un periodo in cui tutto cambia velocemente e la globalizzazione produce nuove potenze economiche e politiche, si pensi alla Cina, all’India, alla Russia, come dici, e ancora al Brasile mentre gli Usa appaiono indeboliti, si avverte un senso di incertezza, insicurezza ed è qui che lo spirito europeista dovrebbe inserirsi proponendo un importante punto di riferimento.
    La democrazia è in crisi e dici bene che debbano prevalere i valori, gli ideali, le tradizioni e le libertà. Molti sono i problemi, le priorità come anche la crisi climatica per la quale l’Europa deve farsi paladina di politiche ambientali che pongano freno allo sfruttamento delle risorse, al saccheggio del Pianeta in quella fase che qualcuno ha definito Antropocene, in cui una sola specie, l’uomo, mette a repentaglio la vita propria e quella della Terra. A Glasgow sono state prese decisioni importanti a tal riguardo sperando che, come scrive Luca Mercalli, “non sia troppo tardi”.
    In una crisi globale penso, come te, che solo riprendendo i valori, lo spirito dei Fondatori, la loro rettitudine morale, l’Europa possa salvarsi e salvarci. 

  • IL RUOLO DEGLI
    INTELLETTUALI AI TEMPI
    DEL PENSIERO DEBOLE

    data: 15/12/2021 15:20

    Sabino Cassese, docente alla Luiss, già giudice costituzionale e ministro, ha nel suo ultimo saggio Intellettuali (il Mulino) realizzato un quadro della funzione e ruolo degli intellettuali al tempo di Internet e in un momento in cui muta il quadro politico e viene meno la figura dell’intellettuale engagé. Egli ha messo in evidenza la crisi dei media di cui l’intellettuale si serviva in passato e il pubblico si volge sempre più all’oracolo Internet alla ricerca di informazione libera. Inoltre si vive in un momento in cui trionfa l’ignoranza in tutti i sensi. A sua volta il populismo che ha sostituito le ideologie e i partiti tradizionali, in un periodo di pensiero debole, propone un modello che è egualitario solo in apparenza con discredito alla figura dell’intellettuale.
    L’Autore si chiede quali possano essere i rimedi allo status quo e quali atteggiamenti debbano assumere gli intellettuali per reinventarsi senza tradirsi.
    Cassese esamina la condizione attuale ponendo in evidenza la situazione che già Huizinga nel 1935 aveva evidenziato sostenendo vi fosse un indebolimento del raziocinio e, aggiungerei, ciò che ora Spitzer definisce demenza digitale. Vi è come una esaltazione dell’ignoranza, rifiuto della razionalità. E’ ciò che è detto “effetto Dunning-Kruger", cioè più si è ignoranti più si ha fiducia di non esserlo. Mancanza di riflessione e conoscenza del proprio pensiero. Si rilevano tendenze anti-intellettualistiche che criticano la conoscenza e la cultura in un’esaltazione dell’ignoranza. Varie le cause di questa situazione di morte delle competenze (Nichols) tra cui la crisi del sistema scolastico e universitario, l’affidamento a Internet, l’avvento dei social e il rifiuto-incapacità di riflettere, elaborare, assorbire ciò che la realtà e i media propongono. La crisi riguarda anche la democrazia fondata sull’uguaglianza politica.
    Sostiene Cassese che non è detto che tutti i cittadini siano uguali in quanto anche se al punto di partenza lo si fosse durante il percorso molti resterebbero indietro. Se per i populismi l’élite intellettuale dovrebbe essere annullata, l’Autore sostiene che invece si debba fare in modo che tutti possano accedervi. Egli afferma che il rifiuto degli intellettuali, il silenzio degli intellettuali e la critica all’intellettualismo privano la società di un dibattito serio e colto in quello che definisce mercato delle idee, vero sale della democrazia.
    L’intellettuale, così come definito, non è soltanto un dotto, colto, maitre a penser, ma non è l’uomo di scienza che coltiva il suo orticello, egli deve aprirsi utilizzando un metodo che accolga un ambito multidisciplinare. L’intellettuale deve possedere un istinto esplorativo, deve saper trarre dal passato una lezione per il presente, una impostazione cosmopolita, la capacità di confrontare e comprendere i fenomeni internazionali, i Paesi e le istituzioni.
    Sostiene Cassese che Gramsci aveva messo a fuoco il quid dell’intellettuale ritenendo che esso consistesse nel “mescolarsi alla vita pratica, come costruttore, organizzatore, persuasore permanente”. Apertura mentale, capacità di confronto, impegno sono altre caratteristiche dell’intellettuale.
    Michel Foucault definisce due modelli di intellettuale: l’intellectuel specifique e l’intellectuel universel, il primo affronta i problemi della vita sociale, il secondo enuncia i grandi principi indicando gli obiettivi finali.
    Il termine nasce il 4 gennaio 1898 su invito, da parte di Georges Clemenceau, a firmare sull’ “Aurore” il Manifeste des intellectuels per schierarsi con Emile Zola a sostegno dell’innocenza di Alfred Dreyfus. Da quel momento l’intellettuale ha svolto il ruolo di guardiano delle pubbliche virtù ed è andato elaborando un palinsesto ideale diffuso globalmente.
    Per Mannheim l’intellettuale doveva svolgere una missione affrontando i problemi nelle diverse sfaccettature con metodi e punti di vista variegati.
    Cassese traccia la via percorsa dagli intellettuali dal rapporto maestro/discepolo all’università fino alla sua espressione tacitata spesso nei regimi totalitari, basti pensare a Gramsci, Gobetti, Matteotti e agli intellettuali del dissenso nell’URSS.
    Il politico intellettuale ha utilizzato nel redigere la Costituzione un linguaggio piano che potesse essere compreso da tutti. Vero, grande esempio di democrazia. Garin parla di coscienza critica. Compito è definire il significato dei concetti e delle parole, aiutare la società a ricostruire il proprio passato ricordando che la storia è sempre contemporanea. Si deve evitare l’uso politico della storia, stimolare la riflessione, fornire una prospettiva, usare la ragione pubblicamente. E, secondo Gramsci, coltivare una prospettiva cosmopolita.
    Gli intellettuali non devono rivolgersi soltanto alle élite, devono educare il popolo, la società. Nel secolo scorso si è stretto il vincolo tra “intellettuale organico” e classe operaia. Per Gramsci ogni classe deve creare una categoria di intellettuali. Ora, mutatis mutandi, l’intellettuale ha perso la classe di riferimento ed è cambiato il suo ruolo che è fondamentale non soltanto nella società ma anche nella democrazia.
    C’è da chiedersi se un governo epistocratico (da episteme, competenza) possa garantire una forte democrazia. In passato, sostiene l’Autore, quando il suffragio era limitato si votava scegliendo kratos (forza), areté (virtù) e episteme (competenza). Passando al suffragio universale si è andata costituendo l’idea che l’uguaglianza formale andasse di pari passo con l’uguaglianza sostanziale. Questa idea è errata in quanto vi sono disuguaglianze che devono essere appianate secondo Costituzione.
    L’intellettuale ai tempi di Internet deve rimodulare la propria posizione e funzione. Internet scalfisce il ruolo dell’intellettuale dando spazio a una pluralità di voci che ottundono creando quella che viene definita “l’amnesia digitale” che porta alla “pigrizia cognitiva”.
    Cassese parla di epoca in cui predomina il rumore universale e tutti vogliono parlare anche senza cognizione di causa. Muta anche il modo di esprimersi dell’intellettuale che deve essere conciso. Nell’epoca di Internet assistiamo anche ad una crescita di scuole, club, circoli, società che danno possibilità di dialogo e dibattito. E’ in questo settore che gli intellettuali possono inserirsi e avere spazio.
    L’Autore conclude sostenendo la necessità della presenza degli intellettuali. In primis gli interventi in Tv o sui quotidiani ampliano il pubblico interessato. Inoltre si parla di assenza di cultura civica e anche in questo campo è fondamentale l’intervento degli intellettuali che devono spaziare in vari ambiti.
    Con il populismo entra in crisi il ruolo della élite ma è necessario che l’intellighenzia faccia sentire la sua voce. Il venir meno del dialogo a causa della crisi dei partiti e all’esplosione dei media digitali, deve provocare una reazione che proponga riflessione e comparazione tra le nazioni in epoca di globalizzazione. Proporre letture, approfondimenti, suscitare la razionalità e il dialogo e infine si propone di ampliare gli interessi aprendo alla partecipazione di un pubblico più vasto.
     

  • LE DONNE NELL'UNIVERSO
    CONCENTRAZIONARIO

    data: 26/10/2021 18:38

    In questo profondo, puntuale ed esaustivo saggio Germaine Tillion, intellettuale ed etnologa francese, allieva di Marcel Mauss, ha attraversato tutto il Secolo breve per approdare ultracentenaria al XXI. Ha vissuto l’orrore del Nazismo e si è battuta fin dal 1940 come resistente subendo la delazione di un prete che la conosceva e che decretò il suo arresto nell’agosto del 1942. Dopo un periodo di prigionia venne inviata su un convoglio di carri bestiame per essere internata nel Lager di Ravensbrück a nord di Berlino. Liberata nei primi mesi del 1945 fu condotta in Svezia dalla Croce Rossa svedese per essere curata.
    Figura cristallina, impegnata nello studio delle popolazioni africane e nella strenua difesa dei diritti umani con particolare attenzione alla Guerra d’Algeria, Tillion ha fatto uso degli attrezzi dell’etnologo per applicarli nello studio dell’universo concentrazionario, in particolare quello riguardante Ravensbrück e la peculiarità di essere un Lager per donne.
    Il saggio - Germaine Tillion Ravensbrück Nacht und Nebel, Le donne nell’universo concentrazionario - in tre versioni, la cui ultima tradotta in italiano da Fazi nel 2012, fu scritto nel 1988 dopo l’apertura degli archivi della Seconda Guerra Mondiale ai quali l’Autrice poté attingere per gettare luce sul sinistro universo nazista e gli orrori che esso aveva perpetrato. Il saggio di Tillion mette in evidenza l’importanza del cambiamento avvenuto nella psicologia dell’Autrice dopo l’esperienza del Lager e ciò porta a una revisione del lavoro tenendo presente, da storica, la materia esteriore e l’esperienza interiore. La necessità di armonizzare le due fonti la porterà a rivedere il saggio.
    Una vicenda particolare attirerà l’attenzione della studiosa. Si trattava della pubblicazione di un libro che sosteneva l’assenza a Ravensbrück della camera a gas. Tillion, testimone oculare, la madre anche lei resistente, fu deportata e gasata a marzo del 1945 quando ormai il Lager stava per essere chiuso, modificò il saggio portando la prova provata dell’utilizzo della camera a gas fino agli ultimi giorni di funzionamento del Lager e alla liberazione da parte dei Sovietici il 30 Aprile 1945.
    Saggio denso e profondo e al contempo eccezionale e commovente storia di vita racconta le vicissitudini, i maltrattamenti, i tentativi di sottrarsi alle brutture, alle sofferenze e alla morte. Narra il terribile universo concentrazionario in cui si condensavano e trovavano sfogo gli istinti più belluini e sadici delle SS e dei loro accoliti che li superavano in sadismo come il bruto SS Moll che avvelenava uomini e donne e li eliminava, con un suo Kommando, col gas o un colpo di pistola alla nuca. Era in prima fila quando la notte venivano rastrellati prigionieri malati, anziani, bimbi, ebrei e zingari, deportati da ogni angolo del Reich con la sola colpa di essere diversi dalla fatidica, inesistente razza ariana. Questi rastrellamenti portavano in altri Lager vicini ed erano denominati trasporti neri perché si concludevano con la gasatura. Appena giunta l’Autrice conobbe delle ragazze polacche dette le conigliette perché i medici aguzzini usavano per esperimenti di vivisezione. Orrori che le giovani spiegavano e erano perfino riuscite a fotografare le ferite inflitte loro. Anche le conigliette furono condotte via, spazzate nella follia delle Nacht und Nebel. Erano queste le denominazioni per trasporti di cui non si conosceva la meta, tristemente immaginabile.
    L’Autrice nel saggio traccia la storia del Reich e del Lager con fermezza e commozione. Toccanti sono le righe che cucì in un pezzo di vestito grande quanto un francobollo e indirizzate alla madre che sta per essere gasata e alla quale tramite mani amiche invia un minuscolo pacchetto con zucchero e un pezzetto di pane. Ma il pacchetto tornerà indietro, resterà solo la insopprimibile, disperata speranza.
    Tillion smonta tutto il meccanismo dell’universo concentrazionario e mette in evidenza lo sfruttamento delle povere vite affittate da Himmler e complici a industrie belliche tra cui la Siemens e altre, che pagavano al capo delle SS il lavoro di cui i deportati non vedevano nulla e finivano spesso per morire per la fatica e la denutrizione.
    Emergono così i cosiddetti trasporti neri con destinazione la soppressione. E il termine carta rosa ad indicare l’esenzione dal lavoro per certe deportate che potevano trascorrere la giornata a cucire al chiuso. Alla fine della giornata esse venivano condotte via e tutti sapevano dove.
    Anche Tillion come Primo Levi e altri deportati si trovarono di fronte al problema della sopravvivenza che andava collegato alla capacità di esprimersi e alla conoscenza della lingua in una vera Babele che poteva letteralmente salvare la vita.
    Si creò tra compagne di tutte le nazionalità una rete di solidarietà e di informazione per cui le notizie giravano e si era informate dei trasporti, degli appelli di ciò che poteva accadere.
    Si lottava contro le malattie, la fame, il freddo, i parassiti, la paura che portava alla follia in una promiscuità totale.
    La vita non valeva. Caronte che batteva i dannati. Un vero terrificante Inferno dantesco, scrive l’Autrice, in cui implacabilmente e incessantemente il fumo del camino ricordava, memento mori, a ciascuno il suo destino.

  • QUEL "PASSATO SCOMODO"
    CHE TRANFAGLIA STUDIO'
    CRITICANDO DE FELICE

    data: 29/07/2021 19:14

    Nicola Tranfaglia, storico, politico, docente di Storia Contemporanea e Preside della Facoltà di Lettere e Filosofia dell’Università di Torino, recentemente scomparso, lascia un grande vuoto per la profonda capacità di analisi, ricerca, confronto e dibattito costruttivo con intellettuali di diverso orientamento. Nel volume  che qui si propone, pubblicato da Laterza (Un passato scomodo
    Fascismo e postfascism
    o), l’Autore affronta, nel periodo dell’ascesa di Berlusconi e del Centro-destra al Governo del nostro Paese, la questione mai risolta del Ventennio e dell’eredità politica e dell’assetto sociale e culturale che ci ha lasciato. Prendendo lo spunto dal successo riportato dal libro-intervista di Pasquale Chessa a Renzo De Felice Il rosso e il nero, con toni pacati ma sicuri nel discettare la visione e concezione del metodo storico, tratta con agilità la vicenda del Fascismo nella storia d’Italia. Pur pubblicato nel 1996 il saggio non perde freschezza, il passato non passa e anzi quei nodi che Tranfaglia aveva evidenziato nella crisi del nostro Paese non si sono sciolti. Egli aveva dato grande importanza al problema di un’educazione democratica e della necessità di una coscienza storica che la scuola avrebbe dovuto inculcare nei giovani. Si parla da decenni di formazione civile ma le giovani generazioni vengono lasciate in balia del web, non si riesce a insegnare la storia contemporanea e a concludere il quinquennio delle superiori studiando la storia del Novecento. Così, sostiene Tranfaglia, l’opinione pubblica è in balia dei mass-media e della televisione che pur di fare audience sfruttano i programmi che scivolano nella rissa, nella trivialità e non fanno informazione. Bensì danno cattivo esempio.
    Mi permetto un ricordo. Al liceo ci facevano acquistare un manuale di educazione civica e si programmava un’ora di tale disciplina alla settimana. Quel volume non l’abbiamo aperto mai. Ciò che sapevo di Costituzione, elezioni, ecc. lo sapevo perché me lo spiegavano i genitori e perché leggevo. La malapianta ha radici profonde.
    Tranfaglia sostiene che nel volume di De Felice, come in molte pubblicazioni di storici revisionisti, si tratti il binomio fascismo antifascismo con una visione manichea dando le colpe di quella che è stata definita morte della Patria agli antifascisti e alla Resistenza, non al Ventennio e alla trista avventura bellica. In particolare De Felice non riesce ad analizzare le condizioni economiche, sociali, culturali del Paese e si appiattisce nell’approfondimento della psicologia di Mussolini. L’Autore sostiene che nonostante la profondità di materiale biobibliografico esaminato dallo storico reatino per la biografia di Mussolini egli finisca nelle panie dell’esaltazione del Duce compromettendo tanto lavoro e studio.
    Tranfaglia sottolinea l’importanza dell’analisi di due fattori per comprendere la natura del sistema del potere fascista. Già negli anni Trenta lo storico francese Franck sosteneva che l’economia italiana fosse nelle mani di un’oligarchia, padronato, industria ma anche politica e amministrazione che esercitavano un importante controllo nella vita pubblica. Gli industriali cominciarono a non approvare l’accentramento del potere e a controllare il regime. Per operare avevano bisogno che le maglie della rete si sciogliessero. Altro fattore riguarda il rapporto tra sviluppo industriale, tecnologico e condizione di vita della popolazione. Tranfaglia nota che le condizioni rivelavano disparità tra classi medie e proletariato operaio e contadino. Luciano Gallino mette in evidenza che nel 1951 anno del Censimento post bellico le condizioni economiche, di vita, l’istruzione, risultavano piuttosto compromesse, pari a quelle del censimento del 1931, in pieno fascismo. E si dovranno attendere gli Anni Sessanta per vedere una crescita economica, sociale e culturale e finalmente la modernizzazione.
    Tranfaglia evidenzia anche negli studi storici un ritardo da parte degli studiosi nell’approfondire gli aspetti peculiari del regime e i residui che questo ha lasciato nella nostra società e il peso di essi.
    Il dibattito sul binomio fascismo stalinismo ha innescato contrasti tra intellettuali che ha avuto ripercussioni sulla politica. L’Italia ha avuto come in sottofondo, direbbe Giorgio Bocca, il filo nero, che ha trovato riscontri nelle scelte politiche degli ultimi vent’anni. Dice Tranfaglia che il nostro Paese trova difficoltà a compiere una potente riflessione sul passato e su fascismo e stalinismo. Secondo l’Autore ciò sarebbe dovuto alla recente storia repubblicana, debolezza della democrazia. E poi poteri occulti, il governo invisibile di Norberto Bobbio.
    L’Autore auspica che la crisi della fase politica che ancora stiamo vivendo serva almeno come stimolo a una riflessione profonda per uscire dalle sabbie mobili che tutto inglobano impedendo ogni reazione.

     

  • SOPPRESSIONE DEI PARTITI?
    CHE NE PENSAVA WEIL

    data: 26/06/2021 20:44

    A settant’anni dalla traduzione da parte di Franco Ferrarotti – docente emerito di Sociologia alla Sapienza Università di Roma – del saggio di Simone Weil Note sur la soppression générale des partis politique pubblicata su Rivista di Comunità, organo del Movimento Comunità fondato da Adriano Olivetti, Marietti 1820 ripropone questo libello con l’introduzione di Ferrarotti.
    Il saggio non perde col tempo la sua freschezza ed è molto interessante l’introduzione di Ferrarotti che appunta la sua attenzione sulla crisi dei partiti politici e a sua volta della ricerca sociologica che vede la scomparsa di uno dei suoi oggetti. Sottolinea Ferrarotti che i teorici “formalisti” della democrazia la ritengono una mera procedura senza considerazione di fattori psicologici, etici, ambientali. La democrazia finisce per essere decapitata e privata di aspetti valoriali.
    Assistiamo a una crisi dei partiti politici, alla necessità di un aspetto etico e valori propositivi da rendere concreta l’aspirazione all’utopia. La democrazia rischia – l’abbiamo constatato – un appiattimento nel parlamentarismo quanto una deriva autoritaria che privilegia le funzioni dell’esecutivo. Si ricorda che il partito politico ha origini nel movimento giacobino, figlio della Rivoluzione francese, con tendenza totalitaria. Abbiamo assistito e assistiamo giorno per giorno alla decadenza dei partiti, ricordo l’accusa di partitocrazia e dopo il delirio berlusconiano l’emergere nel nostro Paese di movimenti, espressione dell’universo massmediatico e dei social, che suscitano emozioni e parlano all’emotività degli elettori. Un populismo dilagante in un’Italia in crisi di ideali dopo la fine dei partiti di massa e la scomparsa delle ideologie che interpretavano la complessità narrandola in base a una visione totalizzante.
    Sostiene Ferrarotti nella icastica introduzione che il movimento sociale, attuale forma di partito debole e che ha sostituito le altre tipologie di partito, rischia di scivolare nel trasformismo e nel municipalismo poiché ha bisogno di idealità forti. E auspica una religione civile, insieme di miti fondativi, riti laici, valori, ideali, credenze condivisi in cui ci si riconosca come appartenenti a una Nazione. Fondamentale è la questione di regole etiche che le forze in campo accettino concordemente. La crisi della democrazia italiana è già in nuce dal post Risorgimento. L’Italia era definita dagli studiosi un arcipelago di culture.
    Secondo Ferrarotti si distinguono due tipologie di cultura: la cultura tradizionale e quella dei mezzi di comunicazione di massa. La prima è legata alla logica del libro mentre la seconda privilegia l’immagine che colpisce ma diviene evanescente, vive il tempo di colpire, di toccare l’emotività, di parlare a quella che è stata definita la pancia dell’elettore che è divenuto spettatore in una atmosfera in cui latita la coscienza critica. L’uomo da sapiens è diventato videns, come sosteneva in un famoso saggio Giovanni Sartori, e, aggiungerei, è un voyeur privo di capacità di riflessione. Mentre Ferrarotti definisce il passaggio da homo sapiens in sentiens.
    I movimenti affrontano i problemi volta per volta utilizzando un linguaggio che si rifà a quello dei massmedia e alla fiction prediligendo la paratassi, la coordinazione rispetto all’ipotassi, i periodi ricchi di subordinate propri della grande narrativa.
    Dopo l’Unità d’Italia molti intellettuali proposero la costruzione di una religione civile anche nel nostro Paese. Ma, sostiene Ferrarotti, l’opposizione dei neoidealisti e poi il Fascismo come religione politica impedirono lo sviluppo di una forte religione civile. E, secondo alcuni studiosi, la presenza forte della Chiesa in Italia avrebbe funto da surrogato di religione civile di fatto sostituendola.
    Si è parlato di familismo amorale per definire proprio una concezione di vita e dei rapporti interpersonali basato sulla soddisfazione degli interessi familiari piuttosto che sul bene generale. Si assiste allo sviluppo del potere della mediocrità, la mediocrazia. E i mezzi si trasformano in fini. L’Italia è l’unico Paese nel quale si parli di classe politica come entità separata, lontana dai cittadini, sorta di club chiuso che bada ai propri interessi. Sostiene Ferrarotti che si è separato lo Stato dai cittadini. La classe politica è arroccata come in una cittadella fortificata a difesa dei propri interessi.
    Questo excursus mette ancor più in evidenza l’attualità del pamphlet di Simone Weil (1909 – 1943), filosofa e scrittrice francese di origini ebraiche emigrata negli USA e poi in Inghilterra dove collaborò con le autorità in esilio della Resistenza francese.
    In Appunti sulla soppressione dei partiti politici Weil dimostra di vedere lontano preconizzando una situazione che tocchiamo con mano in molte nazioni. C’è da dire che l’Autrice prende come punto di riferimento il termine partito come si intende nel Continente europeo. Nei Paesi anglosassoni il termine party ha un aspetto di gioco, sport, competizione, una sorta di istituzione aristocratica. Nel Continente con la Rivoluzione francese si sviluppò il Club dei Giacobini ma con la guerra e il Terrore divenne un partito totalitario.
    Sostiene Weil che l’esistenza dei partiti non significa che essi debbano continuare a esistere all’infinito. Solo il bene può giustificare la permanenza. Pertanto l’Autrice esamina se vi sia un elemento di bene nei partiti politici domandandosi se essi siano un male o posseggano una briciola di bene perché il male genera male. Ma cosa si intende per bene? Per Weil esso è la verità, la giustizia e l’utilità pubblica. Anche la democrazia, il potere della maggioranza, è un mezzo in vista del bene. Idea fondamentale è che solo il giusto sia legittimo mentre il delitto e la menzogna non lo sono. Sostiene Weil che l’ideale repubblicano derivi dal concetto di volontà generale espresso da Jean Jacques Rousseau in Il Contratto sociale. Studiosi come Talmon in La democrazia totalitaria hanno posto in evidenza tale aspetto in contraddizione con il concetto di democrazia. L’Autrice ritiene che durante la Rivoluzione francese i rappresentanti riuscissero per un breve periodo a esprimere le idealità e le esigenze dei cittadini. Terminata questa fase si tornò ad una fase totalitaria.
    Secondo Weil il popolo non è posto nelle condizioni di esprimere il proprio pensiero e le sue esigenze mentre viene incoraggiata l’espressione delle passioni collettive. Ci si chiede, nel parlare di democrazia e repubblica, come permettere al popolo francese di esprimere il proprio sentire sui grandi temi della vita pubblica e, al contempo, riuscire a bloccare qualsiasi passione collettiva. Per Weil una soluzione sarebbe rappresentata dalla soppressione dei partiti politici. Ella esamina tre caratteri inerenti i partiti politici: un partito è una fabbrica di passione collettiva; il partito come una macchina soffoca l’espressione libera del pensiero del popolo; scopo fondamentale di un partito è lo sviluppo ad oltranza e quindi potenziamento di esso come fine.
    Come non scorgere in questo saggio lo sguardo attento che coglie molto prima della crisi dei partiti nel nostro Paese ed in generale la deriva populista in tutta Europa una preconizzazione? Quando l’Autrice scrisse il saggio sull’Europa e il Mondo soffiavano venti di guerra e si affermavano in vari Paesi regimi totalitari.
    Weil sostiene che nei partiti in cui il collettivo domina gli uomini si verifica un rovesciamento delle relazioni tra fine e mezzo. Le cose considerate come fini sono in realtà per natura, definizione, essenza, dei mezzi. Tra essi vi sono il Potere, lo Stato, il denaro, la produzione economica. Ritorna Weil e sostiene che solo il bene è un fine. Incapacità del pensiero collettivo di andare oltre il dominio dei fatti. E, aggiunge che lo stesso avviene per i partiti. strumenti per realizzare in pratica una concezione del bene pubblico. Avviene che spesso i partiti siano legati a una classe sociale ed esprimano le aspirazioni di essa e il bene pubblico finisca per coincidere col concetto che di esso possiede quella classe. Emerge una vaghezza delle dottrine. Weil ritiene i partiti siano costituiti pubblicamente e esprimano il senso di verità e giustizia dei loro adepti. Fondamentale mezzo di persuasione è la propaganda. Basta pensare a Hitler e alle oceaniche manifestazioni, come Norimberga, filmate con eccezionale maestria da Leni von Riefenstahl, regista del Reich, straordinario mezzo per manipolare le coscienze. Con l’avvento dei totalitarismi si vogliono controllare le menti. Penso a Goebbels, diabolico quanto acuto ministro della propaganda di Hitler. Il partito finisce per addomesticare il pensiero di colui che vi aderisce, in tal modo libera dalla fatica del pensare. Tutto ciò sviluppa fanatismo e aggressività verso i più deboli o i diversi. Già questo sarebbe un motivo sufficiente per l’abolizione dei partiti. Essi sono espressione del male. La loro soppressione sarebbe manifestazione del bene. In tal modo, non più riparati dalla macchina del partito gli elettori mostrerebbero il loro pensiero liberamente e le proposte per la risoluzione dei problemi concreti. Non esistendo più i partiti gli eletti potrebbero sposare le idee di altri anche alleandosi per sostenere le idee in cui si ritrovano. Si introdurrebbe la fluidità contrapposta alla cristallizzazione dei partiti. I partiti hanno contaminato la vita pubblica. I totalitarismi non ammettono neanche un’idea diversa da quelle che sono propugnate dai loro accoliti. Nulla esiste al di fuori della costellazione di idee e della dottrina di partito.
    Weil sostiene che in varie manifestazioni di genere culturale, letterario, artistico, scientifico si finisce per creare una mentalità che produce atteggiamenti con spirito di partito. Un tale atteggiamento viene rilevato anche nell’ambito della Chiesa.
    Fondamentale è la sottolineatura di come un atteggiamento settario attento allo spirito di partito finisca per sopprimere la riflessione, il libero esercizio del pensare.
    E in conclusione, con una visione profonda e lungimirante Weil coglie uno dei mali di fondo che avvelenano la vita in tutte le sue manifestazioni. Una deriva più che mai attuale nel nostro Paese ma non solo.
    Un saggio che a settant’anni dalla sua traduzione viene meritoriamente riproposto e che ci induce a riflettere grazie alla grandezza di Simone Weil, giovane intellettuale coerente col suo pensiero in ogni gesto della sua breve vita.
     

  • CULTO DI DANTE
    E IDENTITA' DELLA NAZIONE

    data: 26/05/2021 18:47

    Fulvio Conti, professore ordinario di Storia contemporanea all’Università di Firenze dove presiede la Scuola di Scienze politiche Cesare Alfieri, in Il Sommo italiano (Carocci) ha ripercorso, in occasione del 7° centenario della morte del Poeta, la figura e ciò che il Sommo ha rappresentato per l’Italia e gli italiani. Il suo studio, che si inserisce nel filone degli studi culturali, ha cercato di analizzare il culto di Dante. Per Conti si tratta di una storia culturale della politica. Emerge così una serie di declinazioni della figura di Dante che si sono sedimentate nel tempo. Di volta in volta il Poeta è stato considerato il ghibellin fuggiasco (Foscolo) fautore di un’Italia unita sotto i vessilli dell’Imperatore Arrigo VII. Ma anche il Dante guelfo che nella Commedia esprime una concezione di un cattolicesimo vincente. E poi ancora Dante assunto come vessillo della Nazione, a cominciare dal Romanticismo e Risorgimento per approdare all’uso che del mito di Dante ha fatto il fascismo e infine alla lettura data dall’Italia repubblicana. Ma Dante è stato anche in anni recenti trasformato in un’icona pop, basti pensare alle graphic novel o alla serie di fumetti Disney con L’Inferno di Topolino e L’Inferno di Paperino e la versione manga per approdare ai manifesti pubblicitari. Icona senza tempo, Dante emerge dall’aura di letterato per essere fruito a tutti i livelli.
    L’Autore parte dal Settecento analizzando il mito di Dante per trarne informazioni circa l’evoluzione del sentimento patriottico in Italia. In questo caso la mitologia dantesca, la sua declinazione, rivelano come col mutare dei secoli e della Weltanschauung col variare delle forme e delle ideologie politiche, Dante sia stato utilizzato come simbolo di italianità, soprattutto durante il Fascismo. Esso ha fatto un uso strumentale del Sommo che secondo Conti ha unito ma anche diviso. E, aggiunge, egli è rimasto vivo anche durante i periodi più critici della storia della nostra Nazione. Un saggio, questo di Conti, che fa riferimento, tra gli altri, a Hobsbaum e al suo Nazioni e nazionalismi dal 1780, e a George L. Mosse con il suo La nazionalizzazione delle masse che mettevano in luce il fatto che la nazione era una creatura preesistente rispetto ai nazionalismi e agli stati nazione sviluppatisi tra il XVIII e XIX secolo, bensì una creazione dei leader nazionalisti che si appellavano all’emotività suscitando emozioni, piuttosto che alla razionalità. Il culto della nazione veniva a costituirsi attraverso dinamiche e linee di frattura dal Settecento ai giorni nostri. Si tratta di un culto laico, una manifestazione di una religione civile con i suoi miti, rituali, simboli, credenze in cui gli appartenenti a una nazione si riconoscono.
    Secondo Conti la riscoperta di Dante quale Sommo italiano si ebbe a cominciare dalla Rivoluzione francese, il periodo giacobino e napoleonico, il Romanticismo con il nuovo culto dei sepolcri e delle reliquie in contrapposizione all’Illuminismo a cavallo dei secoli l’un contro l’altro armati, e infine la Restaurazione e il Risorgimento. Fu in questo giro di vicende che Dante riemerse ponendosi come vessillo di una religione civile nazionale. Il Romanticismo e una nuova sensibilità nei confronti dei sepolcri, come Philippe Ariés ha ben evidenziato in Storia della morte in Occidente (BUR), diedero un impulso al culto delle vestigia di Dante. La tomba del Poeta a Ravenna dove nella pineta di Classe egli spirò, fu meta di pellegrinaggi di letterati e intellettuali, come Alfieri pose in evidenza. Importante fu il nesso che Alfieri stabilì tra l’opera letteraria e l’alta statura morale del Sommo. Sarà questa concezione che il Risorgimento farà sua. La visione di Alfieri sarà sottolineata da Foscolo che avrebbe evidenziato anche il ruolo fondamentale di Vincenzo Monti. Egli esortò alla riscoperta di Dante tenendo una lettura dantesca a Pavia e, nominato dal Direttorio della Repubblica Cisalpina Commissario amministrativo per la riorganizzazione della provincia di Romagna, promosse una celebrazione pubblica in onore di Dante. In tal modo si avvicinava il popolo al genio e venivano poste le basi per la tradizione di festeggiamenti giunta sino a noi. Dante verrà acquisendo il ruolo di Poeta nazionale e scalzerà Petrarca che assurgerà al ruolo di poeta universale. Dante sarà riconosciuto come Poeta civile, politico militante, intellettuale engagé che ha pagato con l’esilio la difesa dei propri ideali. Nel Sommo si riconobbero Foscolo e Mazzini, Leopardi e Settembrini. Foscolo fece sua la figura di Dante omaggiata nei Sepolcri e creò l’icona del ghibellin fuggiasco da intendersi non in senso letterale bensì come portatore di spirito giacobino e democratico. Mazzini riconoscerà l’opera di Foscolo nella creazione del mito di Dante, un profeta, un vessillo, oggetto della religione della Patria. Dante sarà letto come fustigatore dei costumi e del potere, profeta di un’Italia unita. Si pensi all’epistola all’Imperatore Arrigo VII e a quella a Cangrande Scaligero Signore di Verona ai quali chiedeva un intervento per porre fine alle lotte che dilaniavano Firenze e l’Italia tutta, quell’Italia serva di dolore ostello, non donna di province ma bordello. Mazzini che pubblicò la Commedia con il commento di Foscolo, scrisse che quest’ultimo aveva condotto la critica sulla via della storia. Per Foscolo Dante fu non solo il Poeta e padre della lingua ma anche il cittadino, il riformatore, l’apostolo religioso, il profeta della nazione. Su questa visione anche Byron dedicò a Dante un poemetto che divenne testo di culto per la generazione risorgimentale. Byron vedeva nella descrizione dei mali italiani la base della decadenza che avrebbe avvolto l’Italia nei secoli a venire. Egli stimolava i giovani patrioti a liberare l’Italia dal giogo dello straniero e a acquistare l’indipendenza.
    Tra gli italiani Silvio Pellico rivestì un importante ruolo nella creazione del mito di Dante. Egli scrisse la tragedia Francesca da Rimini (1815) vero e proprio appello al popolo a risorgere. Si deve al Pellico una lettura neoguelfa di Dante contrapposta a quella più diffusa neoghibellina. Ma anche Cesare Balbo, Vincenzo Gioberti e Terenzio Mamiani ripresero il concetto di poeta vate. Nel filone neoghibellino alcuni vedevano in Dante un iniziato alla massoneria. Si pensi a Dante Gabriel Rossetti e ai Pre–Raffaelliti. Egli tradusse in inglese la Vita Nuova e dipinse molte versioni dell’incontro tra Dante e Beatrice.
    Nell’ambito del Romanticismo e anche successivamente si diffuse il viaggio letterario a Firenze ma soprattutto a Ravenna dove riposano le spoglie del Poeta. Byron, Gregorovius, Valery e il Principe di Sassonia sono tra alcuni nomi che iniziarono la tradizione del viaggio dantesco.
    Il centenario della nascita del 1865 è un punto di partenza per i festeggiamenti a Firenze e a Ravenna. Durante l’età liberale la Dantemania venne rafforzandosi con un uso pubblico del Poeta e la sua consacrazione a icona dell’identità nazionale. Fondamentale la creazione della Società dantesca italiana a Firenze il 31 luglio 1888 che si proponeva un’opera di divulgazione della conoscenza di Dante promuovendo manifestazioni e letture pubbliche. Fu poi istituita la prima cattedra dantesca all’Università di Roma il 3 luglio 1887. La visione della figura e dell’opera di Dante era però quella neoghibellina che veniva letta in senso anticlericale. Ciò causò polemiche tra gli studiosi, tra i quali Carducci, Croce, Papini e si misero in evidenza lo strabordare di citazioni dantesche e declinazioni del Poeta in senso di italiano liberale. Durante la Prima Guerra Mondiale Dante esprimeva una devozione che si alimentava di simboli e rituali sacri. Esprimeva una religione della Patria, simbolo alto e potente dell’Italia. Dopo il conflitto il governo volle festeggiare ufficialmente, a differenza del centenario del 1865 in cui le celebrazioni erano venute “dal basso”, istituendo un Giorno di Dante il 21 settembre. Stavolta i cattolici crearono un comitato per il restauro di edifici danteschi. La Chiesa diede una versione cattolica all’opera di Dante tanto che Papa Benedetto XV il 30 aprile 1921 emanò un’Enciclica in cui definiva il Poeta cantore eloquente del pensiero cristiano. Si promossero negli istituti cattolici di studi letterari manifestazioni celebrative e ci fu largo seguito. La Chiesa si riappropriava di Dante. Nel 1921, centenario della morte, le celebrazioni furono all’insegna del nazionalismo. Il Poeta veniva interpretato come simbolo della grandezza della Nazione che aveva come espressione l’esercito vittorioso di Vittorio Veneto. Numerose le manifestazioni a Firenze con la presenza del Re Vittorio Emanuele III e del Presidente del Consiglio Ivanoe Bonomi e a Roma in Campidoglio. Si tennero spettacoli e si attivò il cinema con la realizzazione di film anche negli USA. Numerosi gli studi letterari e filologici. Conti ricorda l’importante discorso di Piero Gobetti che si schierò controcorrente. Egli sosteneva che la poesia vive in chi la sente nel profondo e non sono necessarie reboanti celebrazioni. Egli sostenne inoltre che Dante non poteva considerarsi cattolico se non secondo una superiore elevazione. Dice Gobetti che Dante nella Monarchia esprime la convinzione dell’autorità civile che porterà al crollo dell’autorità pontificia. […]. Sostiene Gobetti: Non è ancora lo Stato che nega la Chiesa; è lo Stato che si afferma indipendentemente dalla Chiesa: la via a Machiavelli è aperta.
    Un allarmante avvenimento si ebbe dopo la chiusura delle celebrazioni del 1921. Si eseguì una nuova ricognizione sulle spoglie di Dante. Egli fu considerato l’esempio più alto della stirpe mediterranea. Questa visione fu fatta propria dal Fascismo che nel 1938 promulgò le infami Leggi razziali. Con la Marcia su Roma e la presa del potere il fascismo si appropriò di Dante in senso propagandistico e lo sacralizzò. Vennero costruiti monumenti e si pensò a un tempio a Roma, espressione della religione politica. Dante veniva così fascistizzato. Tra gli autori del tempio Terragni, Lingeri, Sironi. L’edificio che si rifaceva ai canoni del Razionalismo internazionale e che fu definito Danteum non fu mai realizzato per lo scoppio della Guerra, la morte di Terragni e il crollo del regime.
    Nell’Italia repubblicana Dante viene riletto come simbolo della Poesia e dell’Italia democratica. Nel settimo centenario del 1965 si cerca la partecipazione del pubblico e degli studenti. Gui, Ministro dell’Istruzione, sostenne Date la Poesia, date Dante al popolo, accostate Dante al popolo. Si era nell’Italia del Centrosinistra e del boom economico. Notevolissimo fu l’impegno della TV con sceneggiati su Dante, letture dantesche e tutto un fertile momento di libera attività creativa con al centro il Sommo.
    In questi tempi in cui il mondo è divenuto un villaggio globale, Dante è un’icona pop fatta propria e resa fruibile da tutti sotto forma di pubblicità, di fumetto, del cinema.
    In questo saggio interessantissimo e denso, l’Autore ci mostra con vastissima conoscenza, spaziando in varie direzioni, il divenire dell’Italia nazione libera e democratica attraverso il culto del suo maggior Poeta.
    Emerge Dante, simbolo universale, sempre attuale, vivo, immortale come i meravigliosi versi che ci ha donato.
     
     

  • VITA DI CAPITANO

    data: 29/03/2021 12:37

    L’estate si annuncia. Alto nell’azzurro il sole dardeggia strali di fuoco. Brillano scintille di luce, concentrato di arcobaleno, sul mare che è tutto un brulichio mentre lo scirocco porta il profumo dell’Africa. Orpheus si riposa, in attesa di nuovi lidi e avventure, di altre mani forti a guidarlo. Piangono le jacarande per la felicità dell’estate danzante, spandono un tappeto viola lungo i viali. Esalano aromi densi e dolci i grassi oleandri. I capperi sulle antiche mura si dilatano in fiori sublimi. Tutto è in preda a vis generandi.
    Anche tu, capitano, volevi vivere e navigare, rivedere le cale e le isole, aspirare il salso del mare, la brezza di terra che ti portava gli aromi della macchia. Ti conobbi, una stretta calda e forte, sorridente e premuroso, barba spinosa da lupo di mare. Eri amorevole e dolce in ogni gesto, gli occhi stellanti, sempre pronto a mettere a proprio agio e a Le Streghe parlammo della cara Gioia e della dedica a te sul libro. Sorriso aperto dicesti che era tutto frutto del suo genio. L’antro donato alla adorata Carla: che pensiero! Quanti ricordi, impressioni, pensieri hai lasciato, tanto più tangibili nella stagione più viva, quella che invita alla gioia, all’amore, al canto. E lì il tuo organo attende la musica.
    Musica. L’ultima volta le immagini sullo schermo, la musica nel cuore, il languido Fado, le barche, le Città, Lisbona, Parigi, e poi Piaf, Toquino, Baez , tutto vortica impazzito, si mescola ed è magia. E tu sei lì, presente ma già in viaggio, il lungo, estremo viaggio che rapisce nel per sempre.

     

  • AMORE E TRAGEDIA
    NELLA NOTTE DELLA SHOA
    FRA GLI EBREI ROMANI

    data: 16/03/2021 18:57

    Lia Levi, vincitrice di importanti premi per la narrativa e con Questa notte è già domani del Premio Strega Giovani 2018, con Ognuno accanto alla sua notte (edizioni e/o), ci ha donato un vero gioiello reso con un fine intreccio di vicende che si richiamano l’una con l’altra.
    Come nei lavori precedenti, è la Shoah il tema sviscerato: la scrittrice, di origine piemontese ma trapiantata a Roma, come narra in Una bambina e basta, si è salvata dalla deportazione perché trovò rifugio in un convento di suore.
    Le vicende narrate sono frutto d’invenzione ma rispecchiano la condizione della Comunità ebraica romana durante il Fascismo e la Guerra a cominciare dalla emanazione delle Leggi razziali nel 1938 fino alla caduta del Fascismo, all’Armistizio e all’occupazione tedesca. Partendo da vicende private che i protagonisti incontratisi per caso, raccolti in una villa in campagna sullo sfondo di una pioggia battente, narrano, lo sguardo si appunta su problematiche affrontate dagli storici. Nell’ultimo racconto, narrato da Saul, si affronta la questione del perché gli ebrei romani si siano fidati tanto della lealtà nazista e non abbiano cercato di fuggire o reagire all’occupazione prima che accadesse l’irreparabile. Nel racconto di Saul di fronte all’incalzare degli avvenimenti, Graziano, il figlio quindicenne del consigliere Sabatello, denuncia in lunghe discussioni col padre Vittorio l’atteggiamento rinunciatario, non reattivo da parte dei responsabili della Comunità che sostengono che vivere a Roma con la presenza del Papa sia una garanzia per la salvezza e ciò che si verifica nell’Europa orientale sia qualcosa che mai potrà accadere a Roma.
    Il 16 Ottobre 1943, nonostante la consegna ai nazisti di 50 chili d’oro pena l’uccisione di 200 persone, tutti gli ebrei romani tra cui alcune donne partorienti, verranno deportati. Caricati su camion saranno condotti alla stazione, fatti salire su vagoni piombati e spediti a Auschwitz. Scrive Giacomo Debenedetti nel suo 16 Ottobre 1943 (Einaudi): si attendeva un segno del Papa. I camion carichi di vite nude e destini intrecciati, si fermarono nei pressi del Vaticano. Tutti attendevano un segno ma non venne. Il silenzio del Vaticano è come un manto nero nella notte della ragione verso cui da sommersi e salvati si leva alto un perché? Il viaggio era solo all’inizio. Furono pochissimi a tornare da Auschwitz.
    Il racconto di Doriana affronta la questione delle Leggi razziali (che non furono cancellate dopo l’Armistizio), e dell’impossibilità degli ebrei di lavorare, insegnare, studiare se non in scuole ebraiche e con datori di lavoro ebrei. Struggente la storia d’amore dei protagonisti Anita e Giulio Limentani. Affetta da tisi, Anita non vuole che il marito, scrittore e commediografo di successo, ma anche antifascista aderente a Giustizia e Libertà, si sacrifichi per lei e per non lasciarla sola non vada con gli altri sui Castelli dove si sta organizzando la Resistenza. Giulio è impossibilitato a lavorare e ha trovato un prestanome che presenta come sue le commedie e i drammi dell’amico.
    Reso con fluidità e profondità di scavo nella psicologia dei personaggi, il racconto si incrocia con quello di Saul. Sono evidenziati il dialogo tra i personaggi, l’umanità, la solitudine. Tutto è un fervere di dibattito, scambio di idee, espressione di paura e amore fino al sacrificio. Nelle vicende narrate come tra i narratori protagonisti emerge il dolore che ognuno porta dentro di sé e che riesce ad esternare narrando. A spiegare il non detto è Fiammetta ,figura onnisciente dal nome letterario. Ella crea una sorta di cornice a ciascun racconto, intessendo una trama che unisce inanellando le narrazioni. Racconto nel racconto, le storie si rivelano come specie di scatole cinesi, l’una contiene e chiarisce l’altra. Fiammetta opera una sorta di maieutica per alleggerire dalla sofferenza e dal dolore i narratori. Mi viene da riflettere sulla struttura complessa del romanzo. Quali i personaggi? Essi si confondono con i narratori che a loro volta non sono veri ma frutto di finzione narrativa. I racconti possiedono vita di per sé, contengono il vero nucleo del romanzo. Chi racconta chi?
    Nel secondo racconto, quello di Gisella, sono due adolescenti, Colomba e Ferruccio, protagonisti di un tenero amore. Lei ebrea, lui figlio di un’alta carica del Fascismo, riescono anche in tempi difficili ad amarsi con dolcezza. La vicenda esprime come anche in tempi drammatici la vita continui la sua eterna eppur fugace danza.
    Un romanzo narrato ad arte con delicatezza e levità nonostante la materia dolorosa.
    Un libro che appassiona, scritto magistralmente, da leggere per riflettere sul passato e la vita.

     

  • "DIPINTI A VOCE"
    NELL'INFERNO DEL LAGER

    data: 02/02/2021 19:30

    Tra le tante proposte dedicate al Giorno della Memoria si deve dar merito alla Marietti 1820 per la pubblicazione di un solo (apparentemente) libriccino, Dipinti a voce, in realtà un densissimo e profondissimo scritto di François Le Lionnais, finissimo intellettuale francese (1901- 1984), ingegnere, matematico e letterato che aderì alla Resistenza nelle file del Partito comunista e, catturato e torturato dalla Gestapo, fu deportato nel 1944 nel campo di concentramento di Mittelbau–Dora nel quale si fabbricavano le cosiddette Wunderwaffen, le armi meravigliose, secondo i nazisti. In particolare le V2 che avrebbero dovuto cambiare il corso del conflitto e che Le Lionnais provvedeva a sabotare. Durante la durissima prigionia egli cercò di sopravvivere, cercando un barlume di luce dentro sé, utilizzando le capacità mnestiche straordinarie che gli permettevano di descrivere ai compagni durante gli interminabili appelli e perquisizioni nel gelo dell’inverno, dipinti famosi nei minimi particolari, creando, come egli stesso scrive, dei libri ideali e delle opere d’arte estrapolando e mescolando particolari diversi, realizzando creazioni originali. Ma non solo l’arte impegnava la mente di Le Lionnais e del compagno di prigionia col quale discuteva e che purtroppo non scampò alla morte. Egli creava un atlante delle idee partendo dal mito greco fino all’esistenzialismo e a Marx. Uno straordinario modo per sopravvivere in un luogo di morte che mi ricorda il dialogo tra Primo Levi e il compagno francese in Se questo è un uomo. Egli gli recitò il Canto di Ulisse in cui Dante descrive il folle volo e ciò li condusse a evadere dall’orrore e riacquistare una briciola di umanità in un luogo in cui si era altro che uomini.
    Lo scritto di Le Lionnais è definito un vero inno alla vita.
    Nell’introduzione di Roberto Alessandrini Dettagli vitali si paragona l’Autore alla Sharazad delle Mille e una notte e alle vicende del pittore cinese Wang Fo delineate da Marguerite Yourcenar nelle Novelle orientali. Entrambi, condannati a morte, riescono a sfuggirle, la prima invertendo il tempo, il secondo fuggendo su una barca da lui dipinta e in tal modo materializzando lo spazio.
    Racconta Le Lionnais che un mattino durante un lunghissimo appello si sentì rapire dal paesaggio autunnale. Come in una sorta di derealizzazione l’inferno di Dora si trasformò in un Bruegel. Si sentì come evadere da quella realtà orribile e lo richiamò una passione antica. I blocchi venivano dipinti dai reclusi che cercavano di dare una nota di bellezza alla prigione. Erano spesso croste e in occasione di questo risveglio Le Lionnais si intratteneva col suo amico di prigionia Jean Gaillard. Cominciò così un dialogo profondo e colto in cui si tracciava il percorso della conoscenza passando dalla Matematica alla Chimica, alla Filosofia fino alla pittura. L’Autore descriveva a Jean dipinti famosi e da lì cominciava un dialogo proficuo e appassionante. Si evocava il Trittico delle Tentazioni di Bosch o La Vergine delle rocce di Leonardo, la Decapitazione dei Santi Cosma e Damiano del Beato Angelico, le Stigmate di San Francesco di Giotto. Tutte opere che affascinavano il giovane amico il quale commentava con capacità critiche e commozione come se avesse visto e conosciuto realmente tutti quei capolavori. Estrapolando particolari si venne creando un meraviglioso museo, come un viaggio in un’altra realtà e dimensione. Si passò a Velasquez e Las Meninas, Moulin de la Gallette colpiti dalla sensualità e dai colori, dalle linee e pennellate materiche de La casa dell’impiccato di Cezanne. Ma anche a Mondrian e Braque, con i loro assi cartesiani e rettangoli. E poi Duchamp e Marc Ernst.
    Il percorso era un vero e proprio viaggio che permetteva un volo nell’universo dell’arte e della capacità dell’uomo di creare bellezza contrapposta al tragico mondo del lager. E ciò mostrava, ancora una volta, la grandezza dell’uomo che riesce a volare e al tempo stesso la piccolezza che lo precipita nell’abiezione.
    Straordinaria voce che si alza da un abisso infernale donandoci speranza.
    Testimonianza commovente che dovremmo sempre avere presente per non ricadere nell’orrore e ricordare che il Giorno della Memoria è sempre.
     

  • TUTTE LE VITE
    DI MERLOCHEPARLA
    NEL LIBRO DI FULCI

    data: 10/01/2021 17:26

    Ludovico Fulci, nato a Roma da genitori siciliani, dopo aver insegnato e pubblicato saggi e racconti, ha scritto il romanzo Tutte le vite di Merlochenonparla (L’Erudita), vicenda dedicata a un giovane guerriero nativo americano vissuto tra la metà e la fine dell’Ottocento. La vicenda, scritta con notevole capacità affabulatoria, si dipana su vari piani narrativi e dimensioni spaziotemporali. L’Autore dà grande rilievo all’attività onirica che Merlochenonparla ha imparato dall’anziano saggio Vecchiopescatore che gli permette di immergersi in dimensioni altre, vivendo esistenze parallele lontane nel tempo e nello spazio.

    All’interno del romanzo, come sorta di metanarrazione, l’Autore onnisciente interviene e inserisce i racconti dei sogni del protagonista alternando la realtà vera con quella onirica che si pone su un altro piano dimensionale pur mantenendo una sua realtà. Merlochenonparla vive così sognando vite parallele assumendo dal sogno fonte di saggezza. Ecco tanti personaggi alter ego del protagonista. Egli sogna addirittura le vicende di Sir Christopher Marlowe ed Elisabetta I d’Inghilterra e non manca una riflessione su una testa gigantesca trovata da Marlowe al Circeo che sembra essere di un Ciclope. La riflessione è sulla realtà o mito dell’esistenza di questi giganti figli di Poseidone che vengono considerati buoni, ingannati dall’astuzia, da non confondersi con l’intelligenza, di Ulisse. Polifemo (più lingue) possiederebbe così l’occhio della mente, quello della saggezza vera, capace di scandagliare le profondità della coscienza e di un’altra dimensione della realtà. Ulisse, dotato di profondo desiderio di conoscenza (pensiamo ai versi di Dante con cui sprona i suoi compagni al folle volo: considerate vostra semenza, fatti non foste per viver come bruti ma per seguir virtute e canoscenza), interrogava Polifemo tendendogli una trappola mortale.
    Le vicende sognate da Merlochenonparla si intrecciano con la vita reale fatta di avventure venatorie e guerresche, amore per la moglie Codadilepre e per i suoi figli, crescita e saggezza fino alle vicende di Littlebighorn e alla tragedia che vedrà la sua famiglia e la sua tribù massacrate dall’uomo bianco. Le vicende del grande guerriero Merlochenonparla verranno cantate nella riserva indiana dove il suo popolo sarà relegato dai Lunghi coltelli dalla Lingua biforcuta.
    Il romanzo, avvincente e profondo, si conclude con la morte di Merlochenonparla avvenuta forse mentre sognava di Polifemo e Ulisse. Scrive l’Autore che forse proprio sognando si possa acquisire qualche verità realmente profonda. Aggiunge nel ritenere che l’homo sapiens sapiens abbia rubato a homo neanderthalensis il senso del sacro. Il sogno fin dall’antichità era considerato come accesso a un altro mondo, basti pensare, aggiungerei, anche alle Tombe dei giganti nuragiche dove dormendovi accanto si teneva il rito dell’incubazione per scoprire profonde verità dal mondo dei morti.
    Conclude l’Autore: homo sapiens non possiede la capacità di indagare il mondo dei morti come homo neanderthalensis, così Ulisse non avrà mai il terzo occhio di Polifemo celebrato da antichi poeti precursori di Omero dei quali non sappiamo se siano esistiti così come si dice sia esistito Merlochenonparla.
    Romanzo polisemico da leggere e meditare, profonda riflessione sull’esistenza, l’Uomo e le dimensioni del mondo che lo circonda.


     

  • ANTOLOGIA DI SCRITTORI
    SUI GIORNI DEL LOCKDOWN

    data: 03/12/2020 11:35

    Il momento delicato dovuto alla diffusione del Covid-19 ha ispirato tante riflessioni sul futuro dell’uomo e del mondo. In particolare il periodo di chiusura forzata, che tutto il Paese ha dovuto affrontare per evitare il diffondersi del terribile virus, ha dato luogo a raccolte di racconti e poesie come è il caso dell’antologia Domani è un giorno Nuovo, frutto della intraprendenza di Alessandra Ulivieri, fondatrice della agguerrita Casa editrice Ibiskos Ulivieri.
    Ne è emerso un lavoro che sussume in tante sfaccettature il modo di vivere, le paure, le speranze, il dissenso, il senso di solidarietà e fraternità, il pianto per chi non ce l’ha fatta, l’impressione della tragedia di Bergamo, con le bare trasportate dai camion dell’Esercito, provate in quei mesi.
    La magistrale ouverture di Giuseppe Marchetti Tricamo ci apre alla speranza rappresentata dall’albero cercis siliquastrum che rinsecchito e salvato dall’autore dall’abbattimento, dal tronco genera un timido fiore. E ciò mi ricorda la struggente poesia di Brecht Il pioppo di Karlsplatz che recita: Un pioppo c’è sulla Karlsplatz in mezzo a Berlino città di rovine/ e chi passa per la Karlsplatz vede quel verde gentile. Nell’inverno del Quarantasei/ gelavano gli uomini, la legna era rara/ e quanti mai alberi caddero/ e fu l’ultimo anno per loro. Ma sempre il pioppo sulla Karlsplatz/ la sua foglia verde ci mostra: sia grazie a voi gente della Karlsplatz/ se ancora è nostra.
    L’autore ricorda chi non c’è più, come l’amato Sepulveda, ma la nuova stagione che si avvicina fa rinascere nei cuori la speranza in un tempo nuovo ricco di incontri e di attività dopo il forzato riposo. E di leggere la realtà con spirito diverso volto alla comprensione dell’altro. Voglia di vivere, di rivedere Roma e le sue meraviglie e guardarla con occhi nuovi, scoprendola nel suo cuore pulsante di Città eterna.
    L’auspicio è lasciato ai versi di Ornella Vanoni: E oggi non mi importa/ della stagione morta/ (…) Domani è un altro giorno, si vedrà.
    L’antologia raccoglie tanti apporti di alto livello. La poesia è intercalata da brani di prosa che si intersecano a ricordi di fanciullezza, ad analisi della situazione pandemica. C’è lo struggente racconto di Tommaso Biggero, un ricordo dei suoi nove anni del 25 aprile 1945. Il mirabile e commovente racconto di Lia Viola Catalano in cui il mondo è visto dalla parte dei cani che accompagnano i padroni per la passeggiata. Cani che parlano e pensano e che ci ricordano quanta umanità, sensibilità, vi è in ogni bestiola che ci dona tutta la sua dedizione.
    E poi brani di diario di Gregorio Patané, 13 anni d’età e tanta capacità di riflessione e sintesi sulla pandemia che ci ha colpito. E il racconto di Gianni Garrucciu che immagina la malattia e il vivere il ricovero e la convalescenza come in una atmosfera straniante in cui i medici sembrano astronauti. Conclude che quando tornerà alla normalità potremo continuare a sperare e a sognare non tanto in un mondo nuovo, ma in un io più sincero, in un noi più vero.
    E il racconto di Marta Garofalo ambientato nel 2031, a dieci anni dalla pandemia quando un ipotetico Governo decide di incrementare la didattica a distanza con programmi da esso creati togliendo così ogni possibilità di insegnamento ai docenti. Dice l’autrice che insegnare deriva dal latino insĭgnare cioè lasciare il segno. Ed è ciò che può far crescere l’amore per lo studio e la conoscenza quando il maestro è capace di comunicare.
    Tanti sono i componimenti degni di nota tra i quali segnalo il racconto di Ludovico Fulci che immagina la malattia e la morte di un boss per coronavirus. Pungente e amaro rivela la solitudine di chi crede di vincere anche la morte.
    E anche un mio racconto dedicato alla carissima mamma che è scomparsa proprio in questi tristi tempi e alla quale vanno i miei pensieri.
    Molte anche le poesie che attendono soltanto di essere lette e assaporate con la loro capacità di condurci in un universo altro. Quello che solo la poesia sa creare e rivelare. Ci sarebbe da citarle tutte così come i racconti, spero gli autori non me ne vogliano.
    Un’opera degna di considerazione per riflettere su questo nostro presente e sulla necessità di rivedere il nostro modo di vivere e rapportarci col Mondo.

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    Autori vari
    Ouverture di Giuseppe Marchetti Tricamo
    DOMANI È UN GIORNO NUOVO
    IBISKOS – ULIVIERI
    Pagine 274, euro 24

     

     

  • MADRI

    data: 28/10/2020 20:16

    In questi mesi di clausura forzata, nel tempo sospeso della straordinarietà, si è avuto modo di riflettere e domandarsi se qualcosa cambierà nei rapporti con gli altri e verso il mondo che ci circonda e che abbiamo predato, saccheggiato scriteriatamente, voracemente come se fosse una proprietà che potevamo sfruttare a piacere, padroni dell’unico Pianeta per ora conosciuto, in cui meravigliosamente si è sviluppata, dal coacervo di sostanze e amminoacidi nel brodo primordiale, immenso amnios, la vita. Quel grumo di vita, azzurro, struggente nella sua bellezza, perso nell’infinito, l’aiuola cara al Poeta che scorgeva le nequizie colpendo duramente la malvagità dell’Uomo. La Terra, grande Madre, feconda, raffigurata come Venere steatopigia agli albori dell’umanità. Colei che dà e che accoglie, nel momento della fine, nel suo grembo (in una sorta di ciclo di nascita, morte e rinascita), l’uomo nella sua essenziale terrestrità, nudità che Frate Sole interpreterà in senso cristiano facendosi adagiare nudo sulla nuda terra.
    Ci siamo riproposti di cambiare anche nelle piccole grandi cose della vita di tutti i giorni. Ho sempre osservato con rinnovato stupore gli spettacoli che ci offre il tramonto, comune nella sua quotidianità ma sempre diverso. O il mare d’inverno, agitato dal potente soffio del Maestrale, e la vita che si rinnova ad ogni Primavera, il cipilare dai nidi dei nuovi nati, il sorriso di un bimbo. Piccole cose che alleggeriscono il vivere se le sappiamo cogliere. Sorgerà un’alba nuova? L’Uomo in una sorta di palingenesi si libererà dei ceppi delle invidie e gelosie, degli egoismi, dei mille orpelli che si trascina dalla sua comparsa sulla Terra? Servirà il sacrificio di tante vite, l’impegno dei sanitari che hanno dimenticato sé stessi per soccorrere, salvare, mantenere viva la fiamma della empatia e della solidarietà? Struggimento, tristezza, speranza, gioia, rabbia, senso di impotenza si sono accavallati nel mio animo. Ma anche compassione da cum passio (patire – con), nei confronti degli anziani nelle case di riposo e di chi non ce l’ha fatta.
    Tante riflessioni e letture, lo scrivere, mi hanno accompagnato in questi mesi vissuti in casa ma con l’impegno costante verso la mamma anziana e malata. Ho riflettuto sulla nostra famiglia, chi non è più, chi è presente assiduamente da ormai vent’anni, su mamma e il rapporto complicato con lei. E ho scritto per lei e per me. Ed ecco perché il titolo plurale. Perché se è vero che di madre ce n’è una sola è pur vero che il rapporto che si stabilisce con i figli è plurivoco, complesso, includente vari registri emozionali e inconsci, variegato, viscerale nel senso più profondo del termine. Tanti aspetti materni per un’unica figlia. Un rapporto capace di innalzare verso la felicità o di sprofondare in un abisso di depressione. Trasmettere l’entusiasmo per la vita o condurre nel limbo dell’indifferenza. Mettersi a nudo con se stessi significa trovare gli snodi cruciali per comprendere il proprio vissuto e conquistare serenità nel rapporto con chi mi ha messo al mondo.
    Mettere al mondo è una grande responsabilità, è un presentare alla società, agli altri il proprio frutto e in un continuo soppesare lo si deve far crescere in mezzo agli altri cercando di creare un adattamento con l’ambiente. E’ una questione di dosi, piccole dosi, e penso non esista un genitore che non abbia sbagliato. Ed è proprio correggendo gli errori, accettando, che si cresce e matura.

    Un castello fatto di tante piccole certezze, il tempo scandito dai farmaci, le abitudini consolidate di una vita. Ottantaquattro anni e una vita insieme. Mamma quanto sei bella anche se non sei la ragazza e poi donna del fiore degli anni che amavo da piccola. Per me lo sei ancora, come quando piccina ero innamorata di te, del tuo splendido viso, della figura alta e slanciata e del profumo di pulito della tua pelle e dei tuoi vestiti. Mi voleste appena sposati, tu e papà e così a 25 anni e a undici mesi dal matrimonio ti ritrovasti con un batuffolino tra le braccia. Era candida quella bimba, sorridente dal riso sdentato, gli occhi castani dalle folte ciglia e una nube setosa di capelli chiari. Si legò a te per una sorta di imprinting per tutta la vita fino a giungere a provare come sue le tue emozioni e le tante insicurezze. Paura dell’abbandono, di perdere i punti di riferimento e vagolare sola in un mondo sconosciuto e minaccioso in cui ci si poteva perdere. Ma anche tanto grintosa e sveglia quella bimba che amava la vita, le meraviglie offerte da un prato di margherite e papaveri nella calda primavera sarda. E poi il mare, quello che papà, Direttore di Macchina, solcava con le petroliere dell’ ENI e, tornato, raccontava le meraviglie di mondi favolosi ed esotici o la piovra dai giganteschi tentacoli ripescati nell’Oceano indiano. Quell’attaccamento di cui prenderò coscienza solo da adolescente, definito rapporto simbiotico, non può essere racchiuso in una formula perché è nucleo di vita, grumo di emozioni, sentimenti, vissuto, giorno per giorno per una vita. La definizione serve a oggettivarlo, a renderlo percepibile, quasi tangibile, come un prisma di cristallo dalle mille sfaccettature, quello di cui è fatto un rapporto madre/figlia. Dolcezze e asperità, amore, scivoloni, rabbia, delusione, si procede come sul filo del rasoio e l’amore spesso si trasforma in un odio larvato per cui si avverte un profondo senso di colpa. Come se non si fosse ancora nati, le emozioni si sentono a pelle, si conosce l’altra da prevederne le mosse, i pensieri, in una sorta di comunicazione telepatica. Piangevi sempre, ti ho sempre vista piangere, dolente per papà che era lontano o per il rapporto critico con i suoi. E poi tanti medici nella tua vita, sintomi di malattie indefinibili che altro non erano che espressione di un malessere interiore, profondo, inconscio, il male di vivere, quello che Berto definì Male oscuro per il quale è difficile trovare le parole, le parole per dirlo che la scrittrice Marie Cardinal così bene espresse. Infanzia difficile la tua: è lì la radice prima che non ti ha fatto godere le piccole cose della vita e che ti ha imbozzolata in una te stessa insincera avvolta da mille fili che ti frenavano nei movimenti e ti legavano i pensieri e i sentimenti. Quanti passi da mille specialisti, luminari, in tutta Italia? Passi perduti. Eppure hai vissuto un grande amore, hai viaggiato per mare lottando con le tue mille paure, la valeriana, le gocce e pilloline per l’ansia. Hai trovato l’uomo della tua vita, perduto troppo presto, imbarcato in quell’infinito che accendeva la sua curiosità intellettuale. L’uomo dolce e forte, lupo di mare, che adoravo fin da piccina e che era il modello cui aspiravo, no, non era come te, mamma, che avrei voluto essere da grande, troppo debole mi apparivi per imitarti. Volevo essere forte. Dovevo proteggerti quando papà non c’era, difenderti dalle mille insidie che la vita ci presentava. Ma eri tu a minare per prima, senza volerlo, la mia vita infondendomi insicurezza e tentennamenti in un circolo vizioso. Forse ho finito per fare da madre a te, chissà, mille paure, ansia, panico, con la forza di lottare. Ma non hai colpe se non hai potuto gustare appieno la vita e hai involontariamente trasmesso col sangue e il latte le tue paure. Madre, esserlo non è facile e io, che non lo sono, non posso esprimermi. Non sono come te né come papà, sono io, persona unica e irripetibile come ogni essere umano in fondo è.
    E ora che tu, mamma mia, ti sei come persa e non mi vedi, io sono con te, ancora una volta in quel doloroso rapporto che volge al fondamentale snodo. Noi che non ci siamo mai lasciate, io che ho rinviato con mille evitamenti, il distacco per paura del vuoto confondendo l’indipendenza con la solitudine, tu che mi hai avviluppata col tuo amore esasperato da far male, siamo vicine al nodo cruciale. Ti vedo sempre più piccola sull’orlo dell’abisso che tutto accoglie rimescolando immagini, pensieri, sentimenti, voci, buco nero che inghiotte esistenze nell’eterno respiro dell’Universo. E se… che ne sarà di me? Chi reciderà il cordone ombelicale che ancora ci unisce? Mamma, cosa ci attende? Noi due per quanto ancora? E se…mancassi io? Cosa sarà di te, fragile più che mai? Forse….il destino…! Quanta forza, coraggio, lacrime, impasto di umori, fiato, fatica, grida, dolore, strazio per diventare davvero una, soltanto una, infine una!

     

  • SCONFIGGERE TRUMP
    E LA PANDEMIA GLOBALE

    data: 01/07/2020 18:15

    Durante la fase di isolamento, la preferisco all’espressione inglese lockdown (perché non usare la nostra bella Lingua che ha dato tra gli altri, i Natali al Sommo?) dovuto alla pandemia Covid-19, è stato edito da Rubbettino l’ultimo lavoro tra i ben cinquanta, di Massimo Teodori, americanista notissimo: Il Genio Americano. Sconfiggere Trump e la pandemia globale. Docente di Storia e istituzioni degli Stati Uniti, opinionista insigne, egli ci ha fornito importanti chiavi di lettura del nostro Mondo e delle società opulente tracciando, come fa anche in questo agile ma esaustivo saggio, la storia e le istituzioni degli Stati Uniti che si sono, soprattutto dopo la Seconda Guerra Mondiale, la fine della Guerra Fredda e il crollo della Potenza sovietica, imposti come la massima Potenza economica, militare e politica del Pianeta.
    L’Autore si pone il problema di come reagirà la Nazione, nell’anno delle Presidenziali con la complicazione del Covid-19, e quali prospettive si potranno realizzare concretamente dopo il periodo di crisi della Presidenza Trump populista e razzista, nativista, suprematista in cui il tycoon newyorkese ha offerto degli Stati Uniti l’immagine più bieca e peggiore della sua non facile esistenza.
    Teodori mette in evidenza l’unicità degli Stati Uniti e sottolinea come il Genio americano, costituito da un insieme di elementi teorico – politici che costituiscono la base, oserei, della religione civile fortemente radicata e che fa da collante del comune sentire, costituisca i fondamenti della democrazia liberale americana. Tra essi fondamentale è la Costituzione del 1787 che regola la politica e le istituzioni della Nazione. Scrive l’Autore che il presidenzialismo è un potere forte, laico e viene bilanciato perché non diventi assoluto. Poiché i primi coloni fuggivano dalle Guerre di religione e da Nazioni in cui vigeva ancora l’Ancien Regime fu fondamentale evitare ogni forma di potere assoluto. Si scelse la forma federale perché fossero riconosciuti i diritti delle entità di cui era basata la Nazione. Così, basandosi sulla divisione dei poteri formulata da Montesquieu si crearono tre organi istituzionali ognuno dei quali potesse agire ma essere sempre sotto il controllo della Costituzione e della Corte Suprema. Mentre il Presidente, eletto dal popolo, esercita il potere esecutivo, la Camera e il Senato esercitano il potere legislativo e, infine la Corte Suprema controlla il potere giudiziario ma soprattutto che non siano eluse le regole fissate dalla Costituzione, poche volte emendata in secoli di democrazia. Inoltre nella parte della Costituzione definita Bill of Rights sono tutelati i diritti della persona in modo da non essere sopraffatti da abusi di potere dello Stato o di altre entità politiche o amministrative.
    Teodori spiega il meccanismo di conta dei voti durante le Presidenziali. Perché Trump pur avendo ottenuto oltre tremila voti popolari in meno rispetto a Hillary Clinton. In origine i Padri fondatori volevano che la maggiore carica fosse affidata anche ai voti degli Stati. Ecco perché si stabilisce il collegio dei grandi elettori che sono stabiliti in un numero uguale per ogni stato per Camera e Senato. Accade così, anche se di rado, un’aberrazione cui si dovrebbe tenere conto.
    Inoltre, importantissimo è il bipolarismo perfetto e l’alternarsi di Presidenti Democratici e Repubblicani.
    Fondamentale è la vocazione antitotalitarista che ha condotto gli Stati Uniti a impegnarsi contro Nazismo e Fascismo ma anche, dopo la Guerra, a contrastare l’URSS e i Paesi satelliti proponendo un modus vivendi libertario e opulento basato sul capitalismo che contrastava il grigiore dei Paesi comunisti. Gli USA idearono il Piano Marshall per rilanciare l’economia dell’Europa devastata dalla Guerra ma anche per sottrarre all’influenza dell’Unione Sovietica gli stati satellite o, come Italia, Germania e Giappone affinché entrassero nella loro orbita. Ciò non significa che gli USA non siano stati percorsi da correnti populiste o razziste o, terrore contro il nemico rosso come il maccartismo, vera caccia alle streghe. Mi permetto un appunto. Gli USA, oltre che essere il gendarme del Mondo, durante tutta la Guerra fredda hanno fomentato golpe in America Latina (Cile e Argentina in particolare) o il regime dei Colonnelli in Grecia. Il fine giustifica i mezzi. Mentre i Paesi comunisti straziavano nel corpo e nell’anima i loro sudditi. Spero che il Professor Teodori non me ne voglia.
    L’internazionalismo, fondamentale nodo della politica Usa, è andato, in questo ultimo mandato col populista Trump, perdendo vigore per involgere la politica estera nella minaccia del virus cinese, o dei latinos, del diverso. Per non parlare degli ultimi gravissimi episodi di razzismo che hanno incendiato il Paese. America First, lo slogan del rosso Trump rovescia l’internazionalismo giungendo a istituzione di dazi, quindi al protezionismo che non fa parte dei dettami del liberismo americano. E poi l’amicizia con leaders autoritari come Putin e Erdogan, distacco dalla NATO e dal Patto Atlantico, dall’Onu, insomma la politica del miliardario populista pare dettata, con uso di trivialità, dal rivolgere l’attenzione dal catastrofico andamento interno attribuendone la responsabilità all’esterno con mille contraddizioni. In questo caso il Covid-19 ha esacerbato la situazione. Mancanza di welfare che tuteli la salute di chi non può permettersi un’assicurazione, mancanza di misure protettive, tutto sembra rispondere all’umore di un Presidente che governa come si trattasse di una sua Società, come se potesse avere poteri assoluti. Sembrerebbe tutto perduto.
    E no! Sostiene Teodori perché in tutti gli anni da quando esiste la Nazione le elezioni presidenziali si sono sempre svolte ogni quattro anni, e così con regolarità le elezioni di Camera e Senato e quelle dei Governatori. Un grande Stato che l’Autore ama e che riuscirà a rialzarsi, Covid-19 nonostante, al ruolo di prestigio e di accoglienza dei tanti e tra essi quanti italiani vi sono giunti e continuano a cercare lavori soprattutto in campo della ricerca e dello studio. Latinos che fuggono dalla miseria e dalla dittatura, mentre Trump ha ridato fiato al Ku Klux Klan, ha lanciato proclami dei gruppi suprematisti e nativisti, ha distrutto ciò che Obama aveva costruito nel settore del sociale e anche all’Estero riprendendo rapporti con l’Iran giungendo ad accordi sulla proliferazione nucleare.
    Il saggio, che sottolinea la sacralità in cui viene tenuta la Costituzione e la bandiera stelle e strisce, ci fa capire i meccanismi politici, istituzionali, economici, sociali su cui si basa la più potente democrazia mondiale. Conclude un’interessantissima ed esplicativa parte dedicata ai meccanismi elettorali. Ora che tutti guardiamo con speranza alle prossime elezioni il saggio si rivela utilissimo per conoscere meglio il Grande Paese.

     

     


     

  • LE MEMORIE DI SALVEMINI
    E L'AVVENTO DEL FASCISMO

    data: 28/04/2020 19:41

    Il 25 Aprile del 1945, esattamente settantacinque anni fa, l’Italia veniva liberata dal giogo nazifascista che tanto dolore e morte aveva seminato nel nostro Paese. I componenti del Comitato Liberazione Alta Italia sfilarono a Milano mentre ancora si combatteva in alcune parti del Nord. Mussolini, dopo l’incontro in Arcivescovado col Cardinale Schuster e altri appartenenti al CLNAI, decise di prendere la via di Como, chi dice per raggiungere il cosiddetto ridotto in Valtellina per combattere fino all’estremo, chi invece sostiene che cercasse di fuggire unendosi alla colonna tedesca che lasciava l’Italia attraverso la Statale Regina che conduceva oltre l’Alto Lario. Ma l’autocolonna fu intercettata dai partigiani a Dongo e il 28 il Duce e Claretta Petacci furono, in circostanze ancora poco chiare, fucilati a Giulino di Mezzegra e portati quali macabri trofei in Piazzale Loreto dove avvenne lo scempio che non fa onore alla vera Resistenza.
    La Resistenza, ma storici del calibro di Claudio Pavone (Una Guerra civile, Bollati Boringhieri) hanno ormai acclarato si sia trattato di una guerra civile, deve rappresentare un altissimo momento di passione morale e civile per riacquistare dignità di uomini liberi dopo vent’anni di Fascismo e di guerra, violenza e fame. Il 25 Aprile, lungi da mille controversie e dalla monopolizzazione da parte del PCI, appartiene alla memoria collettiva, momento fondante della nostra Repubblica democratica che ripudia la guerra come recita la nostra Costituzione. E, come disse il Presidente Sandro Pertini citando Voltaire, non amo la tua idea ma sono disposto a dare la vita affinché tu possa esprimere quella idea liberamente. La Liberazione deve essere monito affinché non ci si lasci incantare dall’idea che per risolvere i mali che riguardano la nostra società sia necessario un Uomo della Provvidenza, o l’uomo forte senza un bilanciamento parlamentare. Uniti più che mai, soprattutto in questo momento delicato per il nostro Paese e per tutti noi. Ora e sempre Resistenza!
    E proprio in questo periodo, complice la strana atmosfera che pervade questi nostri giorni in casa, ho dedicato più tempo alla lettura ritrovando nella mia biblioteca, nella libreria del nonno maestro senza tessera, antifascista amico di Emilio Lussu, un’edizione del 1960 dell’Universale Economica Feltrinelli, prezzo £300, delle Memorie di un fuoriuscito di Gaetano Salvemini. La ristampa pubblicata recentemente da Bollati Boringhieri, a cura di Mimmo Franzinelli, è ora difficilmente reperibile ed è un vero peccato perché ci dà l’idea di quale dovesse essere l’atmosfera in Italia all’avvento del Fascismo e come ci vedessero negli altri Paesi, in particolare Gran Bretagna e Francia e, ultimo approdo di un lungo esilio per il Professore di Molfetta, gli Stati Uniti. Antifascista della prima ora, socialista, repubblicano, docente di Storia moderna nella Facoltà di Lettere dell’Università di Firenze, Salvemini (Molfetta 1873 Salerno1957) attaccò Giolitti definendolo in uno scritto Ministro della malavita. Egli fu interventista e si arruolò volontario, fu al fronte e nel dopoguerra condannò le violenze squadriste. Fine intellettuale laico, meridionalista convinto, allievo di Pasquale Villari, per la fiera posizione e l’integerrima onestà politica e morale fu minacciato di morte dai fascisti e condannato alla detenzione. Amnistiato, fu con Carlo e Nello Rosselli tra i fondatori del Non mollare, giornale antifascista clandestino fucina di elaborazioni politiche e intellettuali. E, sempre con i Rosselli e Lussu fondò Giustizia e Libertà che fu alla base del Partito d’Azione cui confluirono forze vive e che sarà una componente fondamentale nella Resistenza dopo la caduta del Fascismo (25 luglio 1943) e l’Armistizio (8 settembre 1943). A tal proposito vorrei sottolineare come DC e PCI, i due partiti di massa che avrebbero condizionato per decenni con la loro visione fideistica le vicende della nostra democrazia (cosiddetta bloccata), erano durante il periodo resistenziale meno presenti delle altre componenti laiche rappresentate soprattutto da Socialisti, GL, Repubblicani, Badogliani, Monarchici. Suggerisco al riguardo la lettura dell’interessantissimo Intellettuali laici nel ‘900 italiano di Nunzio Dell’Erba, Grasso Editore, Padova.
    Salvemini, costretto a espatriare, si mantenne con conferenze e lezioni fino all’approdo ad Harward dove ricoprì la cattedra di Storia italiana. Egli, come emerge oltre che dai saggi anche dalle Memorie, era anticlericale e condannò la supina soggezione della Chiesa al Fascismo ma riconobbe che il basso clero era antifascista e molti parroci, come don Minzoni, pagarono con la vita il loro dissenso. Salvemini riteneva che se il Re avesse mobilitato l’esercito contro i fascisti avrebbe sradicato la malapianta ma si sa che anche il re favoriva il mantenimento dello status quo. Ci vorrà una Guerra perduta e il sacrificio di tanti, non solo partigiani ma anche militari, che si rivolteranno contro i Tedeschi come a Cefalonia la Divisione Acqui.
    Toccante è, nelle Memorie, l’incontro alla Gare de Lyon a Parigi, con Carlo Rosselli, Emilio Lussu, Tarchiani, Dolci e Nitti appena giunti in Francia dopo la rocambolesca fuga da Lipari. Salvemini con Rosselli, Lussu e Cianca fonderanno a Parigi nell’estate del 1929 Giustizia e Libertà. L’entusiasmo anche nel ricordo è vivido. Scrive Salvemini: Giustizia e Libertà convocava in Italia alla resistenza attiva contro la dittatura uomini provenienti da tutti i partiti antifascisti, purché accettassero il metodo della libertà. Non domandava l’adesione a nessun dogma economico, liberista o dirigista che fosse. Domandava solo l’impegno di dedicarsi a ristabilire in Italia le libertà personali e le libertà politiche dei cittadini (p.118). Continuava: GL non è un partito e non intende sostituire nessuno dei partiti politici tradizionali. (p.119) Esso raggruppa tutti gli uomini di sinistra ed i fuori partito purché di idee democratiche e repubblicane che sono disposti a mettere a rischio la vita per la lotta rivoluzionaria contro la dittatura fascista (p.119). E, fondamentale è la scelta decisa di non effettuare alcun attentato né in Italia, né fuori. Ed inoltre, egli sottolinea come GL sia un’organizzazione provvisoria destinata a durare finché durerà la lotta contro il fascismo. Caduto il fascismo i gruppi di GL si scioglieranno e si ricostituiranno i partiti politici.(p.121).
    Appassionanti e commoventi le Memorie ci forniscono un ritratto vivido di uomini che credevano nell’ideale di democrazia e giustizia e che combatterono e anche morirono per donarci un’Italia libera.

     

  • LA CHIESA E LE DONNE:
    LA RIVOLUZIONE
    DI FRANCESCO

    data: 12/04/2020 12:18

    Finalmente lo sguardo di un Papa si appunta sulla condizione femminile, dentro e fuori la Chiesa per valorizzare le specificità, le capacità peculiari, in particolare l’empatia, la tenerezza, lo sguardo femminile sul mondo e sulle cose diverso ma, sottolinea Francesco, complementare a quello dell’uomo. E non smette di sottolineare che fin dal Genesi emerge la non subordinazione della donna all’uomo. Essi sono fatti entrambi a immagine di Dio e si integrano, sono chiamati ad esistere reciprocamente l’uno per l’altro.
    Nina Fabrizio (Napoli, 1979), giornalista professionista, vaticanista per la redazione Cronache italiane dell’Ansa e per alcuni quotidiani quali Il Giorno, Il Resto del Carlino, La Nazione, oltre che per la Radiotelevisione della Svizzera italiana, ha avuto modo di seguire il pontificato di Papa Francesco e ancor prima della sua elezione al Soglio di Pietro. Ella con la sua ultima fatica Francesco. Il Papa delle donne (San Paolo), ci dona un ritratto sentito e toccante del Papa venuto dai confini del mondo cogliendo gli aspetti non convenzionali e l’impulso dato da Bergoglio ad un rinnovamento della Chiesa che tenga conto della fondamentale presenza delle donne con le loro specificità di genere, stabilendo con esse un dialogo fin dalle prime battute del suo pontificato.
    La prefazione di Alessandra Smerilli ci porta al nocciolo della questione se si possa parlare di un’economia “al femminile”.
    Mi ha particolarmente colpito la dedica del libro oltre che alle donne della famiglia dell’Autrice, alla piccola di tre mesi con l’idrocefalo conosciuta in Ospedale in Cisgiordania. Soffriva e già lottava per la vita.
    La valorizzazione del genio femminile, l’attenzione al dialogo, alla testimonianza di vita talvolta sofferta, alle offese inflitte alle donne, anche religiose, alle efferatezze di cui esse sono oggetto, sono un fatto nuovo e rappresentano un grande passo per giungere anche in seno alla Chiesa al riconoscimento della dignità femminile e alle pari opportunità. Tanti i passi da fare in questo senso ma la via è tracciata e, come scrive l’Autrice, il percorso procede con improvvise accelerazioni e momenti di stasi. E’ ciò che si definisce come processo.
    Fin da quando era Provinciale dei Gesuiti di Buenos Aires sotto il sanguinario regime di Videla e dei suoi accoliti, Bergoglio aiutò in tutti i modi ricercati o fuggitivi a riparare all’Estero. Accolse nel Collegio tanti fuggiaschi mantenendo il segreto anche dopo la fine della dittatura. Ha incontrato tante volte le abuelas de la Plaza de Mayo e chi chiedeva aiuto per ritrovare i desaparecidos e i loro figli nati in carcere e adottati, vero delitto, dalle famiglie degli stessi aguzzini. Le madri e nonne chiesero al Papa l’apertura degli archivi ecclesiastici per ritrovare i figli dei loro cari uccisi barbaramente.
    Una delle battaglie condotte dal Papa è quella contro la prostituzione e lo sfruttamento dei migranti come schiavi. Nell’aprile del 2014 ha annunciato una conferenza internazionale contro il traffico di persone. Tra i partecipanti i capi della polizia di ventidue Paesi, alti prelati e tante donne violate con quattro delle quali si è intrattenuto in privato ad ascoltare commosso le loro testimonianze. La prostituzione coinvolge globalmente dai 40 ai 42 milioni di esseri umani sfruttati, oltraggiati, costretti in schiavitù. E riguarda in primo luogo le donne. E dietro vi sono clan mafiosi di varie nazioni. Bergoglio ha esortato la comunità internazionale ad adottare misure più severe ed efficaci per contrastare la tratta di esseri umani. Egli ha sempre sostenuto che la tratta è una ferita nel corpo di Cristo, è un delitto contro l’intera umanità. L’Autrice mette in evidenza i tanti passi fatti dal Papa perché si contrasti concretamente, con tutti i modi, la tratta e il traffico d’organi, la riduzione in schiavitù, la prostituzione e qualunque pratica contraria ai concetti di uguaglianza, pari dignità e libertà di ogni essere umano. Egli chiede che siano considerati crimine contro l’umanità.
    Importante è l’attenzione di Francesco sulla cosiddetta “tratta delle novizie”. Tutti sapevano ma non si pronunciavano al riguardo. Il Papa parla delle novizie provenienti dalle terre di Missione. Esse vengono mandate in Italia per la formazione ma molte a contatto con un altro mondo cambiano idea e vengono letteralmente lasciate in strada dalle congregazioni e private del permesso di soggiorno. Alla base vi è la crisi delle vocazioni cui si cerca di sopperire reclutando suore in Africa e Asia. Avverte Francesco che si deve porre fine a questa tratta.
    Un altro passaggio fondamentale è la nomina di una commissione composta da teologi, sei donne e sei uomini, per lo studio del diaconato nella chiesa primitiva. Da molte parti infatti si preme affinché si apra la via al diaconato e al sacerdozio femminile. In Amazzonia vi sono suore che somministrano i Sacramenti, predicano in mancanza di sacerdoti. Ciò viene rilevato con forza e sottoposto all’attenzione del Papa.
    Nel pontificato di Francesco è emersa con forza la questione degli abusi sessuali su suore (e non) da parte dei sacerdoti. Terribili storie vengono alla superficie ed è un’esplosione che riguarda tutto il mondo. E riguarda le superiore generali che chiedono a gran voce che si faccia chiarezza e che le religiose abusate parlino.
    La Chiesa di Francesco è in pieno fermento, soffia un vento nuovo, si è, dice il Papa, aperto un processo, e per ciò ci vuole tempo. Novità sono anche le donne che hanno assunto ruoli professionali e lavorativi in Vaticano. Anche qui è un processo.
    L’Autrice tocca tanti punti interessantissimi che riguardano quella povertà che vi è nelle nostre città e nelle società cosiddette opulente. Con chiarezza, competenza e sensibilità traccia le vicende del pontificato toccando la questione dell’aborto e del Giubileo della Misericordia dedicato appunto a questo tema e che nelle intenzioni del Papa avrebbe dovuto riconciliare chi ha abortito con Dio. Lo stile è fluido e la lettura rivela tanti aspetti “dietro le quinte”. Il libro raccoglie testimonianze, rivela ampia conoscenza della materia, un sentire profondo. Un filo rosso sottende tutta la trattazione ed è, oltre l’ammirazione per il Papa, la passione in primis per la materia, per la vita in tutte le sue manifestazioni, la “compassione” (da cum passio, patire con) per i piccoli, gli affaticati e oppressi. E ovviamente per l’universo femminile con le sue peculiarità, la “tenerezza”, la capacità di ascolto e di discernimento, con una “mente colorata”, duttile, adattiva, come scrive nella interessantissima postfazione Giulio Maira.
     

  • PSICOLOGIA
    E PSICOPATOLOGIA
    DEL NAZISMO

    data: 23/03/2020 16:17

    Adolf Hitler – Analisi di una mente criminale (Mimesis) è un ampio e profondo studio sulla personalità di Hitler e sui meccanismi psicosociali e i fattori culturali in senso ampio che hanno permesso l’ascesa al potere del “Messia nero”, incarnazione del male assoluto e della follia al potere. Gli autori sono Riccardo Dalle Luche, psichiatra e psicoterapeuta di Alta Specializzazione presso la ASL Nordovest Toscana, autore di numerosi e notevoli saggi e Luca Petrini, psicologo e psicoterapeuta della Gestalt a orientamento fenomenologico-esistenziale, autore di diversi articoli in Riviste del settore.
    I due studiosi hanno indagato, attraverso una imponente bibliografia e riferimenti a testimonianze dell’epoca, con la “cassetta degli attrezzi” fornita dalla Psichiatria e dalla Psicopatologia ma anche tramite una “lettura” multifunzionale, fondamentale per comprendere fenomeni complessi, l’ideologia nazionalsocialista, definita tödliche Utopie (Utopia mortale).
    Il Nazismo ha rappresentato la più grande Weltanschauung anticristiana e antievangelica, la realizzazione di massa della transvalutazione di tutti i valori, sostenuta da Nietzsche. Il Nazismo ha realizzato una sorta di reductio ad unum nel senso di semplificazione del molteplice, della realtà, secondo una visione univoca che tutto comprendeva. Gli Autori sottolineano che l’aver sottoposto Hitler a un’analisi psichiatrica e l’aver trovato elementi mentali fortemente perturbati, non libera il Nazismo e il Führer dalle colpe e terribili crimini da essi condotti contro l’Umanità, in particolare dalla responsabilità della Shoah.
    Il Nazismo è stato la concretizzazione di una visione positivista estrema permeata di elementi tardoromantici, materialista e atea che ha fatto proprio il culto per gli dei degli antichi Germani in una commistione di elementi magico-occultistici (Il Nazismo magico, Giorgio Galli, BUR) e l’introduzione di nuove feste e rituali pagani. Il Nazismo è stato una Religione politica al pari del Fascismo italiano e ha finito per permeare di sé ogni ambito della vita dei tedeschi con un’occhiuta e capillare vigilanza. La delirante utopia del Reich millenario e l’idea del popolo eletto e di una razza eletta, di sangue puro, la razza Ariana, del Führer che come un profeta si faceva portatore della salvezza del suo popolo sono follia. Un profeta, sostengono gli Autori, è un veggente che si allontana dalla complessità del Reale a favore di un progetto ideativo e ideale semplificato e indifferente alla realtà di chi non lo condivide: un profeta è formalmente uno psicotico. Hitler si sentiva investito di una missione salvifica ed è l’insieme di questi elementi che autorizzano gli Autori a trattare, da professionisti della follia, l’argomento.
    Si sottolinea la concomitanza di una serie di fattori che hanno reso possibile l’ascesa e la realizzazione del disegno hitleriano. Un concetto radicato tra gli osservatori è quello della follia causa del Male. Per tale motivo gli Alleati cercarono di tracciare un quadro della presunta follia di Hitler. I primi studi al riguardo furono di psichiatri e psicoanalisti anche se Freud si rifiutò di fare una diagnosi senza un’osservazione diretta del paziente. Alcuni ufficiali, nel 1938, tentarono di convincere un Docente di Berlino, Bonhoeffer, a inviare Hitler in un istituto psichiatrico senza riuscirci. Hitler fu curato da medici di fiducia e dal dottor Morell non all’altezza della situazione che curò i disturbi psicosomatici del Führer con stimolanti e amfetamine e, come evidenziato nel saggio di Tania Crasniansky “I drogati che hanno fatto la Storia” (Mimesis), nell’ultimo periodo prima della disfatta, Hitler mostrava il quadro riconducibile a un sospetto Parkinson ma la quantità importante di droghe che Morell gli somministrava potevano aver determinato reazioni avverse.
    Dopo aver preso in esame i principali studi che si sono susseguiti dall’avvento di Hitler al potere, alcuni commissionati dai Servizi di intelligence inglesi e statunitensi, gli Autori cercano di giungere a una sintesi il più possibile esaustiva di un fenomeno complesso e tragico quale il Nazismo e di come sia potuto accadere che un uomo “banale” abbia potuto farsi interprete, secondo Jung, di ciò che albergava nell’inconscio collettivo di una nazione civile e progredita quale la Germania.
    Jung ancora sottolineava come Hitler fosse un “involucro” vuoto in cui si specchiava l’inconscio del popolo tedesco e quindi che debba essere analizzato quale fenomeno collettivo. Spiega Jung che nelle società primitive il potere fosse rappresentato dal capo e dallo stregone. Questo era in contatto con le entità sovrannaturali che evocava in stato di trance causato dall’assunzione di droghe psicotrope. Per Jung Hitler è lo sciamano e ciò è avvalorato anche dallo sguardo magnetico, il suo presentarsi come salvatore della Patria, il transfert che si stabilisce con il popolo di cui percepisce le pulsioni più profonde, le paure e le insicurezze. Un popolo che ha una sorta di complesso d’inferiorità rispetto alle grandi Nazioni in cui il processo di formazione nazionale era avvenuto molto prima che in Germania ed è frustrato dalle pesanti condizioni dettate dal Trattato di Versailles. Hitler si sente come mosso, fin dal momento del crollo del Reich nella Prima Guerra Mondiale, da un ideale salvifico, si dedicherà alla politica incarnando la guida salvifica che inconsciamente il suo popolo attendeva. Per Jung Hitler, involucro vuoto, sarebbe la proiezione della parte satanica inconscia di milioni di individui che ne hanno permesso la concretizzazione.
    Ma in conclusione, quale diagnosi per Hitler
    ? Tra gli autori presi in considerazione Fromm che trova in Hitler i caratteri della personalità necrofila. Egli sarebbe attratto da tutto ciò che è morto, la passione della distruzione, di uccidere ciò che è vivo, la convinzione della necessità della violenza, la patologica assenza di affetti e sentimenti. Hitler fin da bambino rivelò difficoltà di adattamento, voli pindarici, visse a Vienna quasi allo stato di clochard, vide frustrate le sue velleità di artista e architetto. Per Fromm certe personalità dotate sfuggono alla follia quando, in presenza di particolari condizioni economiche, sociopolitiche, storiche, riescono a realizzare i sogni di grandezza. Scrive Fromm in “Anatomia della distruttività umana” (Mondadori) che i demagoghi sull’orlo della psicosi preservano la salute mentale facendo apparire normali idee che prima sarebbero state giudicate pazze. Allo stesso modo l’odio per gli ebrei sarebbe stato determinato dalla Rivoluzione del Novembre 1918 che vide tra gli esponenti politici molti ebrei. E allora ecco che l’Ebreo viene considerato agente patogeno, sporco, corpo estraneo da eliminare. Hitler e i Nazisti erano ossessionati dalla pulizia e dalla contaminazione. Quella contaminazione, aggiungerei, del sangue che metterebbe in pericolo la purezza della razza Ariana. Da qui la politica riproduttiva del Reich allo scopo di creare la razza pura e l’eutanasia, il Progetto T4 per l’eliminazione dei malati di mente o dei bimbi malformati o portatori di handicap. La diagnosi di Fromm, concludono gli Autori, esclude la psicosi ma ritiene Hitler malato in termini di dinamica interpersonale. Secondo le moderne categorie diagnostiche egli assume tratti dei disturbi di personalità schizoide, narcisistica, istrionica, paranoide, antisociale, borderline, evitante, in comorbilità con il disturbo ossessivo compulsivo, disturbo d’ansia per le malattie, Disturbo dello spettro autistico dell’adulto, Disturbo bipolare.
    Tante sono le diagnosi. Gli studiosi sono concordi nel ritenere che Hitler, pur non manifestando sintomi di vera follia, fosse però un individuo disturbato che ha realizzato con il suo agire risultati ascrivibili a follia criminale. Analizzando una grande messe di diagnosi e servendosi dei metodi della moderna psicopatologia gli Autori concludono che Hitler è stato un criminale con ambizioni smisurate ed è proprio la loro concretizzazione in forma acritica a rendere illimitata l’entità degli atti criminali che egli dovette ordinare e commettere.
    I meccanismi psicologici e sociali di regressione e adesione acritica ai voleri del Capo, il sentirsi folla e quindi destituiti da responsabilità, si inverano anche oggi a livello microsociale. Basti pensare a fenomeni come il bullismo o il “fare branco” nell’universo giovanile. Ciò appartiene alla sfera della psiche, all’aspetto del funzionamento proprio della mente umana ed è inquietante pensare che perciò, trovando le condizioni propizie, questi fenomeni possano riproporsi.
    Saggio densissimo, tratta anche aspetti di psicologia delle masse con lo studio fondamentale di Gustav Le Bon “Psicologia delle folle” (TEA) e il riferimento a Wilhelm Reich “Psicopatologia di massa del Fascismo”. E studia anche l’aspetto del sopravvissuto alla Shoah, gli effetti sui familiari. Inoltre ampio spazio si dà alla “personalità nazista”. Utilissimo il quadro storico e la biografia di Hitler. Lavoro profondo ed esaustivo rappresenta una full immersion nella mente di un uomo e nella mentalità di un’epoca permettendo di comprendere le tante sfaccettature del cuore di tenebra del Nazismo.
     

  • EPIDEMIE: DALLA FRATERNITAS SEICENTESCA
    ALL'APOCALITTICA
    RADIO MARIA DI OGGI

    data: 02/03/2020 19:11

    L’interessantissimo articolo di Nunzio Dell’Erba sul Coronavirus mi ha portata a fare alcune riflessioni su come è “vissuta” l’epidemia e a effettuare alcuni confronti su come nel passato, nel nostro Paese, in particolare nel Granducato di Toscana, è stata affrontata dalla Magistratura Granducale, dalle autorità sanitarie e dallo stesso Granduca un’epidemia di peste che colpì la Toscana tra 1630 e 1631. In particolare vorrei soffermarmi su Arezzo che già nel 1348 fu colpita dalla Peste Nera ma importantissime a contenere il contagio furono le misure prese dai magistrati della Fraternitas Sancta Maria De Misericordia, costituita nel 1263 e attualmente Fraternita dei Laici.
    Lavorando di concerto con le autorità cittadine si decise di chiudere le porte di accesso alla città murata. La Peste rimase lontana dalla Città anche per le misure igieniche obbligatorie sulle sepolture e le esequie dei cittadini defunti che dovevano essere chiusi in una bara. La Peste ricomparve nel 1631 e a Firenze era in atto un’epidemia di Tifo petecchiale trasmesso dai pidocchi e causa di alta mortalità.
    (Ricordiamo per inciso che Anna Frank morì proprio di tifo petecchiale determinato dalle terribili condizioni igieniche e dallo stato fisico defedato nel Lager di Bergen Belsen negli ultimi giorni di prigionia).
    La comorbilità di Tifo e Peste falcidiò la popolazione di Firenze. Il Granduca Ferdinando II dei Medici soccorreva personalmente i malati e attuò varie misure atte a aiutare economicamente la popolazione stremata.
    Anche Arezzo fu colpita dall’epidemia. Il Magistrato rimase fino alla conclusione della crisi. Tra le misure adottate per far fronte alla crisi economica il Granduca accese un mutuo per rifornire di pane la popolazione “che poteva pagare” ma la Fraternita riuscì a fornire pane e derrate a tutta la popolazione compreso chi doveva stare chiuso in casa per non contagiare il resto degli abitanti. Si presero tutte le misure che vennero ritenute, in mancanza di conoscenze medico–scientifiche adeguate, adatte a “tenere fuori” il morbo. E così la “chiusura” diede i suoi frutti. E la Città si salvò ancora una volta dalla Peste. Un bell’esempio di sinergia tra le Strutture preposte alla salute pubblica e un esempio anche per i tempi presenti. (*)
    Il tempo passa, mutano le conoscenze ma c’è chi resta ancorato a una visione superata dalla “vituperata” scienza. E’ il caso trattato da Nunzio Dell’Erba nell’articolo sul Coronavirus definito dal Direttore di Radio Maria "una punizione divina" contro l'ateismo e la tecnologia invasiva e invadente. Come ben dice l’Autore col riferimento al pensatore cinese del IV secolo a. C., mi sembra che nulla ci sia di nuovo sotto il sole. Radio Maria ha sempre usato toni apocalittici ed è facile trovare nella storia esempi di attribuzione alla punizione divina di catastrofi e pestilenze, guerre ed epidemie. Basti pensare alle famose città bibliche Sodoma e Gomorra ricettacolo di ogni nefandezza e corruzione. Furono incenerite dal Signore e la moglie di Lot, patriarca biblico, che mossa a pietà dalla sorte che aveva colpito gli abitanti si voltò a guardare, fu trasformata da Dio in una statua di sale. Ma il Dio biblico è Dio degli eserciti, durissimo non conosce misericordia neanche verso il popolo Eletto. Riflette una visione antichissima del mondo e della vita, una Weltanschauung propria di un'antichità agli albori e di una escatologia millenaristica. Basti pensare al Diluvio, al "mille e non più mille", alla Peste del Trecento, quella di Boccaccio (1348), a quella del Seicento così ben tratteggiata da Manzoni e, per non andare tanto lontano, alla "Storia della colonna infame" che riflette condannandola la "caccia agli untori". Certo viviamo tempi critici dal punto di vista storico, sociale, ambientale, climatico e morale ma ci si aspetterebbe una visione più vasta, organica che faccia riflettere per cambiare noi stessi e il mondo e non chiuderci e vedere "col paraocchi", senza speranza, attribuendo le calamità e le malattie al volere divino che nella visione cristologica è misericordia, ce lo dicono menti più illuminate, anche tra i religiosi, e non terrore e fine del mondo. Concludo: "lasciamo a Cesare quel che è di Cesare e a Dio quel che è di Dio".
     

  • NAPOLI E LA STORIA FAMILIARE NEL LIBRO
    DI ROSANNA O. DE CONCILIIS

    data: 30/01/2020 17:23

    Rosanna Oliva de Conciilis, nata  a Salerno negli anni Trenta del secolo scorso da genitori napoletani di origini nobiliari, appena laureata in Scienze Politiche, avrebbe voluto intraprendere la carriera di Prefetto. Ma si trovò la strada sbarrata da una legge discriminatoria che non permetteva alle donne di accedere ad alte cariche nella Pubblica Amministrazione. Fece ricorso alla Corte Costituzionale che si pronunciò con la sentenza 33/60 con cui si eliminavano le principali discriminazioni per l’accesso alla Pubblica Amministrazione.
    Grazie anche alla sua tenacia che la vede impegnata per l’abbattimento di ogni ostacolo all’uguaglianza tra uomini e donne, si è giunti recentemente alla nomina, da parte del Presidente della Repubblica Sergio Mattarella, della professoressa di Diritto costituzionale Marta Cartabia a Presidente della Corte Costituzionale, prima donna nella storia della Consulta a ricoprire tale incarico. Già funzionaria dello Stato si è impegnata in vari ruoli per la salvaguardia dei diritti delle donne e dei minori.
    Recentemente in una cornice suggestiva, nell’Aranciera dell’Orto botanico di Roma, è stato presentato con successo il libro di ricordi della sua Napoli e della storia dell’ampia famiglia dal titolo significativo Quando il Vesuvio aveva il pennacchio (Guida editori).
    Un libro che è un tuffo, lungi dall’oleografia, nella Napoli brulicante di vita, i colori, gli aromi e i saporiti e succulenti cibi del Sud. Con i quartieri dove convivevano i “Signori” e i popolani e dove si faceva la spesa calando un cestino dai piani alti. Atmosfere che ci riportano ai film del Neorealismo e di De Sica con Sofia Loren che vendeva le pizze fritte.
    E i ricordi delle bancarelle con la frutta fresca e i venditori d’acqua e il mare tutto un baluginio sotto i raggi del Sole mentre la brezza leggera portava il pungente, inconfondibile profumo di salso e di immensità. E su tutto, testimone solo in apparenza silente, lui, il Vesuvio che effettivamente durante l’infanzia dell’Autrice si risvegliò col pennacchio di fumo che si elevava dalla sommità.
    Come ben dice Giuliana Cacciapuoti nella Prefazione, il libro è scritto con precisione entomologica nella descrizione di parenti e di avi. Una memoria analitica che riprende i fili delle vicende familiari come tante storie che vengono a intrecciarsi giungendo poi a una sintesi in cui tutto si ricompone nell’alveo della Storia grande della quale in vari modi e forme tutti sono partecipi.
    Tutti i capitoli si aprono con un brano tratto da Cunto de li Cunti perché l’infanzia dell’Autrice era ricca di racconti, storie e favole che la mamma, che lei e il fratello Mimmo chiamavano mammina, e la nonna materna raccontavano creando così un universo fiabesco che stupiva e incantava stimolando l’immaginazione. Ma i racconti riguardavano anche la storia familiare con ricordi che venivano trasmessi oralmente. L’Autrice ha fatto tesoro di ciò che ha ascoltato e ha potuto ricostruire la storia familiare con tanti interpreti e comprimari.
    Il libro si apre col riferimento a Biancaneve e col ricordo di una frase che la Mammina (combinazione chiamo così anch’io la mia mamma) diceva spesso e si impresse nella mente della quattrenne Rosanna: “Poveri bambini miei, quando morirò, vostro padre si risposerà e verrà una matrigna cattiva”. Nonostante la mamma fosse spesso depressa, l’infanzia dell’Autrice trascorse serena in compagnia del fratello e di tanti cuginetti della sua vasta famiglia e molti amichetti. La mamma, Rita de Conciliis, era molto bella e alta, cantava le canzoni del repertorio napoletano tra cui O sole mio, Marechiaro, Santa Lucia.
    Di famiglia di origini nobili, il padre Giulio de Conciliis, avvocato, apparteneva al ramo cadetto dei baroni de Conciliis. Giulio sposò Maria Caprioli e dal matrimonio nacquero quattro figlie. Rita era la primogenita, nata nel 1908. Il “povero nonno Giulio”, come lo definiva la moglie, si arruolò volontario nella Grande Guerra e morì nel 1924 per una malattia contratta in guerra. La famiglia dovette affrontare un periodo difficile. Rita durante un soggiorno alla villa Lucia di Marianella, dove trascorrevano l’estate con la nonna materna e gli zii non sposati, conobbe Geppino Oliva, il futuro marito padre dell’Autrice.
    Funzionario al Banco di Napoli era molto affezionato ai bimbi e alla moglie che seguiva con dedizione. Rosanna ricorda il papà che li accompagnava ai giardini, comprava un frutto fresco da una bancarella. E poi le estati a Marianella dove a settembre gustavano i fichi dal cuore zuccherino. E poi i tanti giochi semplici e divertenti, il topolino fatto con le cocche di un fazzoletto, le figure ottenute ritagliando la carta e poi il giochino con lo spago che a quattro mani formava una culla, la rete e così via. Un po’ più grandicella, nascondino, campana ed altri ancora.
    Inoltre a quei tempi si festeggiava la Befana più che Babbo Natale venuto dopo, portato dagli americani. E allora era una gioia aspettare che la Befana passasse e alzarsi la mattina trovando la carrozzella per le bambole e tanti bei regali anche per il fratellino. Ci si divertiva con poco, si riciclavano i cibi, ad esempio la torta col pane raffermo delle nostre zie e nonne ed è interessante leggere anche la lista di ricette che l’Autrice pone alla fine del libro. Forse allora veniva dato più valore alle cose, al piccolo e si era felici col minimo. Ora nella società opulenta dell’“usa e getta” si “rottamano” anche le persone. E poi venne la Guerra, i bombardamenti, la corsa nel cuore della notte ai rifugi, fino all’arrivo degli Alleati. Tutta una vita. Fino alla Laurea, il matrimonio, i figli, il lavoro come funzionaria nel pubblico, il trasferimento a Roma.
    La vita dell’Autrice è ricchissima di incontri, persone, fatti, ambienti che non possono essere riassunti senza snaturarli. Una vita fatta di impegno che l’essere nata in una famiglia borghese non legata alle convenzioni ha favorito. Ecco quindi subito dopo la laurea in Scienze politiche la battaglia, con l’appoggio dei suoi, per poter accedere alla carriera prefettizia negata alle donne. Battaglia cinta e che aprirà la strada ad altre conquiste.
    Mi permetto di fare un riferimento a una vicenda che ha riguardato mia mamma. Nata nel 1936, perse il lavoro appena sposata nel gennaio del 1961. Aveva 25 anni e in Sardegna avere un lavoro era come la manna.
    I tempi sono cambiati tantissimo e di ciò dobbiamo ringraziare tutte coloro che come Rosanna hanno “osato” facendo da “rompighiaccio”, aprendo la strada per il riconoscimento dei diritti delle donne.
     

  • GIORNO DELLA MEMORIA

    data: 27/01/2020 17:49

    Il 27 gennaio 1945, nella sua inarrestabile avanzata, l’Armata Rossa liberava il Lager di Auschwitz, luogo mortifero di infinite sofferenze e di orrore concepito dai Nazisti per annientare la personalità, abbrutire, cancellare la scintilla divina presente in ogni essere umano. In quella macchina di morte erano passate per il camino milioni di vite offese, ridotte larve di uomini, donne e bambini.
    Gli ebrei venivano condotti in treno da ogni parte dell’Europa occupata dai Nazisti, in viaggi estenuanti su carri bestiame. Ingannati, derubati dei loro averi, le piccole cose care che venivano invitati a portare con loro e che poi sarebbero finiti in mucchi nel blocco definito Canada perché ricco di quelle miserie che divenivano oggetto di contrattazione da parte degli abitanti del Lager. Gli ebrei venivano selezionati sulla cosiddetta Judenrampe e lì si compiva il loro destino. Menghele, trista figura, il medico del Campo noto per le sue sperimentazioni, vivisezioni su chi finiva nelle sue grinfie, sceglieva chi gasare e chi salvare.
    Le madri con i bimbi, i vecchi e gli inabili venivano inviati a destra e caricati su camion diretti alle camere a gas per essere poi cremati nei forni che lavoravano di continuo e il cui camino rischiarava le notti di allucinanti bagliori ammorbando l’aria con odori nauseabondi. Gli uomini abili venivano inviati a sinistra per essere avviati al lavoro coatto, non senza subire i riti iniziatici di ingresso in un mondo a parte. Anche le giovani donne venivano selezionate per il lavoro o il famigerato Blocco 10 dove si svolgevano le sperimentazioni.
    Di ciò parla il medico ebreo olandese Eddy de Wind nello straordinario documento scritto nei giorni dopo la fuga delle SS dal Campo con gli ultimi sopravvissuti nella marcia della morte (descritta con icastica espressività dal Nobel Elie Wiesel nel capolavoro La notte): Ultima fermata Auschwitz (Rizzoli).
    Finito ad Auschwitz con la giovane moglie Friedel, Eddy de Wind godette di una condizione, se così si può dire, privilegiata, in quanto medico. Ma Friedel fu inviata al Blocco 10 e subì esperimenti che causavano atroci sofferenze e la sterilità. Assistette ad orrori inenarrabili giustificati dal velo di esperimenti scientifici. Mengele mostrò addirittura umanità quando Eddy gli chiese di salvare la vita a Friedel. Ci si chiede se Mengele sia stato meno malvagio di quanto si crede? Risponde lo stesso Eddy in un colloquio con Friedel. Egli sostiene che le giovani SS, educate nello spirito di sangue e suolo, non conoscono altro. Proprio i più anziani tra le SS mostrano che in loro si celano retaggi di una educazione precedente. L’aver appreso valori diversi avrebbe anche potuto farli rimanere umani. Conclude sottolineando che proprio il sapere che cosa è l’umanità rende Mengele un essere ancor più spregevole.
    Eddy, una volta libero, dopo aver ritrovato la moglie, si perfezionerà nello studio della psicoanalisi, in particolare si occuperà dei disturbi post-traumatici e sarà il primo a descrivere la sindrome del sopravvissuto. Ma il trauma troppo grande, direbbe Bruno Maida nella biografia di Lidia Beccaria Rolfi, Non si è mai ex deportati (UTET), finirà per incrinare l’amore tra i giovani coniugi che si separeranno. Egli studierà i meccanismi psicologici che si instaurarono nel Lager, sorta di società con le sue gerarchie. Il lavoro, gli orari scanditi dal gong e dalla distribuzione del cibo, perfino la musica con l’orchestra di Auschwitz che accompagnava l’uscita per il lavoro massacrante, creavano una sorta di società rovesciata, esperimento di società. Scrive l’Autore che la morte domina su tutto e la coscienza di dover morire prima o poi finisce per creare un’intollerabile tensione da far desiderare che essa arrivi quanto prima.
    Precedentemente alla deportazione, gli ebrei olandesi vivevano in campi cosiddetti buoni, dove ci si poteva anche sposare, come accadde a Eddy e Friedel. Nonostante la radio inglese desse notizia delle camere a gas in Polonia già dal 1941, nessuno ci credeva e si verificava una rimozione della realtà. Quando si partiva per Auschwitz un umore ipomaniacale si impadroniva delle persone. In alcuni casi ci si metteva a cantare attendendo con ansia l’arrivo al Campo. Ma qui li attendevano le bastonate, le urla, gli ordini incomprensibili, la selezione in una sorta di Inferno dantesco Quivi sospiri, pianti e alti guai/risonavan per l’aere sanza stelle (…) Diverse lingue, orribili favelle,/parole di dolore, accenti d’ira/voci alte e fioche e suon di man con elle ( …) in quell’aura senza tempo tinta. Dice de Wind che entrando nel Campo si svolgeva passo passo il trauma psichico multiplo. Fino all’ingresso con il motto che doveva infondere speranza ARBEIT MACHT FREI. E l’intento dei Nazisti era di non parlare mai di sterminio.
    Ciò che coglieva i nuovi deportati era una sorta di stupor e a poco a poco un adattamento per cui chi più si adattava, chi entrava negli ingranaggi della macchina di morte del Lager più aveva probabilità di salvarsi. Si determinava una psiche da campo dovuta a carenza di cibo e decadimento delle funzioni mentali e da particolari rapporti sociologici in cui vivevano. Il sistema Auschwitz Birkenau era un sistema fatto di gerarchie e di sfruttamento del lavoro pagato alle SS dai vari industriali che avevano nei campi vere e proprie fabbriche come la Buna (dove lavorò Primo Levi) che per il colosso della chimica IG-Farben doveva fabbricare gomma sintetica. O Krupp, fabbrica di munizioni e armi.
    Questo stato di cose induceva negli aguzzini una sorta di personalità scissa. Da un lato si doveva sterminare l’ebreo ma d’altro canto quest’ultimo serviva al guadagno ingentissimo che le SS ricavavano dal lavoro coatto. In tal modo anche la personalità dell’internato è scissa, altalenante tra speranza e disperazione. Nel suo operare con pazienti reduci dai Campi, de Wind sottolineò che la difficoltà da parte di essi a “tornare alla realtà” debba necessariamente essere determinata proprio dalla fitta trama dei rapporti sociali all’interno del Lager e che si debba tenere conto di essi per aiutarli.
    Moltissime sono le testimonianze che si vanno raccogliendo a mano a mano che gli ultimi sopravvissuti scompaiono. E fondamentale è l’imperativo categorico di non abbassare la guardia anche difronte a una recrudescenza di episodi di antisemitismo cui stiamo assistendo e che hanno anche riguardato la Senatrice Segre, sempre attiva nella sua opera di testimonianza.
    Tra le testimonianze segnalo quella di Luciana Nissim Momigliano, ebrea e partigiana, amica di Primo Levi con il quale venne arrestata e condotta a Fossoli per essere caricata il 22 febbraio 1944 su un carro bestiame direzione Auschwitz. In Ricordi della casa dei morti (Giuntina) è raccolta la sua testimonianza come medico, quindi per certi versi una condizione privilegiata, nel Lager ma che le fa toccare con mano tutto l’orrore delle selezioni e degli esperimenti di Mengele sulle internate. Da donna coglie il lato più tragico della maternità nel Lager. Molte mamme diedero alla luce i loro piccoli che alcune dottoresse fecero subito morire perché la soppressione del bambino permetteva alla madre la sopravvivenza. Altrimenti sarebbero stati entrambi destinati alla camera a gas.
    A proposito dei tanti ricordi condivisi con l’amica Vanda (che non tornerà) dei compagni, delle avventure partigiane, delle parole d’amore sussurrate, a Luciana Nissim sembra assurdo che loro, ridotte ormai simulacri di donne, abbiano un tempo pronunciato tali parole. E aggiunge che non sanno neanche più piangere. Toccante il ricordo della selezione e della partenza delle francesi, nude sul camion verso il crematorio, che cantano la Marsigliese. Significative anche le lettere che si scambiano col futuro marito Franco Momigliano, col quale era già fidanzata prima della deportazione. Emerge in Luciana, ormai libera e di ritorno, con un lungo viaggio, in Italia, l’imperativo morale di testimoniare e di agire (c’è tanto da fare), per la nuova Italia liberata. Necessità di trovare un centro di gravità, sottolinea. E anche il lungo viaggio di ritorno, sorta di leitmotiv per tutti i salvati, è come una necessità, una tregua, direbbe Primo Levi, un riprendere contatto col mondo fuori, rispetto al mondo altro del Lager.
    Giuliana Tedeschi (Milano, 1914 – Torino, 2010) ebrea, laureata in linguistica con Benvenuto Terracini, ci dà conto della vita delle donne nel Lager, nel suo C’è un punto della terra… Una donna nel Lager di Birkenau (Giuntina), profondissimo e ricco di vita interiore. Denunciata dai fascisti ai tedeschi perché ebrea, fu deportata col marito Giorgio e con la suocera ad Auschwitz. Le sue due bimbe furono messe in salvo dalla fedele domestica. Ella perderà marito e suocera e al ritorno struggente ritroverà le bimbe. Tutto il libro è percorso da uno struggimento per la maternità. Si chiede se potrà avere un figlio e se si salverà. Saputo degli esperimenti e della sterilizzazione delle donne da parte di Mengele, esplode in una disperazione e indignazione per il corpo violato nel più profondo della femminilità, la capacità generatrice.
    C’è un punto della terra che è una landa desolata, dove le ombre dei morti sono schiere, dove i vivi sono morti, dove esistono solo la morte, l’odio, il dolore. E nel descrivere quelle ombre di donne che come manichini slogati, neri, senza femminilità bevono all’unica ciotola un poco di un liquido amaro, sembra che ci voglia far pensare alle pitture nere di Goya dove si affollano gli incubi di una mente sconvolta e di un mondo altro dalla realtà. Se non che la realtà vera è proprio quella rovesciata.
    Per non dimenticare.



     

  • L'UOMO DI CARTA

    data: 13/01/2020 12:33

    Franco Ferrarotti ci dona con l’ultima fatica, L’uomo di carta (Marietti 1820), il suo più toccante e dolente lavoro dedicato alla figura del padre, dal quale si sentiva incompreso per la visione del mondo divergente ma di cui, operando una sorta di scavo archeologico, recupera la presenza e l’importanza nella sua vita da concludere significativamente il libro con l’affermazione: talis pater, talis filius.

    Professore emerito di Sociologia all’Università di Roma “La Sapienza”, Accademico dei Lincei, direttore della rivista La Critica sociologica, deputato tra gli indipendenti al Parlamento dal 1958 al 1963, Ferrarotti ha insegnato nelle più prestigiose Università negli USA e in tutto il mondo.

    Nasce a Palazzolo, nella Bassa Vercellese che guarda i colli del Monferrato, da una famiglia di proprietari terrieri benestanti che proprio nel 1926, anno della sua nascita, subisce un duro colpo a causa delle misure economiche prese dal Fascismo per combattere l’inflazione. Esse producono una deflazione, con mancanza di liquidità, che conduce alla rovina medi e piccoli proprietari molti dei quali, disperati per non poter far fronte ai debiti, finirono per togliersi la vita. Egli nasce proprio nel mezzo del tracollo economico della famiglia. La madre soffre di disturbi che compromettono l’umore e l’alimentazione e la gravidanza è sofferta. Alla nascita il piccolo viene dato dal padre per spacciato: tanto gracile da apparire, scrive Ferrarotti, un ranocchio. Condotto, per cambiare aria, dai bisnonni materni che vivevano in una grande casa in mezzo a un bosco, vi resterà anni, circondato premurosamente dall’affetto silenzioso di essi ma comincerà a camminare solo a tre anni e a parlare a quattro. Tutti lo consideravano ritardato. La sua vita dimostrerà tutt’altro.

    Questa gracilità permetterà all’Autore di essere esentato dai lavori agricoli e di dedicarsi alla lettura e allo studio. Amore di una vita, la lettura, coltivata con attenzione, fonte di rivelazioni, di conoscenza, di riflessione, sostituisce, oserei, il cibo che in fondo non è che Natura sottoposta a un processo culturale. Ferrarotti introietta ciò che legge elaborandolo, soppesandolo e rileggendolo, trovando nuove rivelazioni.

    Ma in fondo ciò che si legge in una rilettura, dopo tempo, non rivela nuovi aspetti, significati che non si erano colti anche perché noi siamo cambiati nel frattempo? Dice Ferrarotti che il lettore ricrea, rielabora il testo mettendoci un quid che ne modifica il significato. Basti pensare alle interpretazioni di classici della Letteratura nelle varie epoche. Muta la temperie socio-culturale e anche la lettura che si fa di testi. Oggi leggiamo la Commedia e la intendiamo in modo diverso che nella Firenze di Dante o poco dopo. Per non parlare dei secoli l’un contro l’altro armati, contrapposizione di Illuminismo e Romanticismo, ma ricordiamo che nel primo sono in nuce elementi che si svilupperanno nel secondo (Rousseau), che intendevano lo stesso testo in modo diametralmente differente.

    Il vero lettore è lo scopritore di significati.  Non potrebbe essere, oserei, come una sorta di archeologia del sapere tanto cara a Foucault? Questo amore sensuale per il libro porta Ferrarotti a considerarlo come un essere vivente, accarezzandone lievemente le pagine, il dorso, annusandolo, adorando la ruvidezza della carta e la polvere sottile che vi si è depositata.

    Uomo di carta gli diceva il padre con durezza, sarai e resterai sempre un uomo di carta! Ma il padre non detestava lo studio, egli riteneva che la conoscenza derivasse dall’esperire. Egli lavorava e sentiva con le mani, parlava agli animali, gli adorati cavalli che carezzava dolcemente, conosceva il linguaggio della Natura, viveva in simbiosi con essa. Ruvido, taciturno, amava toccare la terra, la zolla che l’aratro tirato dal cavallo rivoltava, il fango delle risaie fumanti, e poi al momento della semina con gesto ampio apriva la mano per donare il seme in una sorta di unione con la Madre Terra. Egli si rifiutò di usare il trattore per non ferire la terra. Ferrarotti ammette che il padre avesse ragione nella sua personale Weltanschauung ma si riconosce in pieno nel suo essere uomo di carta. Ci offre ricordi di una vita intensa e ricca e prova la nostalgia di quel padre, comprende la bontà del conoscere a pelle, rifiuta nella indagine sociologica di considerare le persone meri oggetti di statistiche, vede la persona, la vicenda personale, l’irriducibilità della pienezza e complessità dell’essere umano a numero. Conoscere è penetrare, possedere, ma con dolcezza, una sorta di ruminare interiore, come la mucca nel prato.

    La cultura del padre, sostiene l’Autore, era la coltura dei campi, conosciuti a pelle con infinite camminate nella bella stagione come d’inverno. Il padre aveva un atteggiamento di ascolto, conosceva il ritmo lento delle stagioni, il frusciare delle foglie secche sospinte dal vento, coglieva il calare della sera preceduta dagli ultimi voli, fruscii, pigolii, pispigli prima della notte. Ascoltava il suono del silenzio.         

    Era un padre come il pater, non un amico o un pari grado. Nelle famiglie allargate di quei tempi il padre dominava. Ferrarotti sostiene di essere stato colpito dallo studio di Bachofen sulle società matriarcali e sul culto della Dea Madre. Ma, si domanda, è esistita veramente un’età dell’oro? Lo studio di Bachofen è discusso.

    Mi permetto un’osservazione alla luce dell’archeologia. Il Neolitico è caratterizzato dal culto della Grande Madre che è rappresentata dalle cosiddette Veneri steatopigie portatrici di fecondità che si ritrovano nelle sepolture in grotticelle artificiali. In Sardegna si chiamano domus de janas che significa casa delle fate. Le grotte sono una sorta di utero che accoglie il defunto, spesso cosparso di ocra rossa a ricordare il parto, nel grembo della Madre. E’ un periodo prospero e pacifico. Quando si svilupperà l’agricoltura si passerà alle divinità maschili tutt’altro che pacifiche.

    Il padre nella nostra società è latitante. Spesso i figli sono lasciati a sé stessi senza una guida. Viene a mancare così un deciso ma non severo punto di riferimento attraverso il quale viene introiettato il senso morale, il Super-Ego. Ferrarotti fa un’accurata disamina della società contemporanea sottolineando come la vita sia fatta di frammenti, briciole. E fa riferimento al Padre padrone di cui ci ha lasciato testimonianza Kafka. Il peso del padre che lo schiaccia, il sentirsi nullità, insetto che finisce schiacciato senza che nessuno se ne curi. L’incapacità di dialogo col padre e l’incapacità di dialogare nelle famiglie contemporanee. Presi da mille impegni si trascurano i figli. Li si riempie di regali per mettere a tacere la coscienza, magari mille aggeggi elettronici, iPhone cui staranno attaccati tutto il giorno. Altra fonte di silenzio.

    Ma tantissimi gli argomenti toccati in questo intimo, profondissimo, denso libro scritto per ritrovare un padre e, in cui in fondo trova sé stesso. C’è tutto Ferrarotti che si mette in gioco e rivive tutta la sua esistenza sempre intrecciata con lo studio, ma ricca di esperienze come il traduttore alla Einaudi, l’amicizia con Pavese e l’esperienza con Adriano Olivetti e il Movimento di Comunità di cui dirigerà la Casa editrice. E poi la politica, la cattedra alla Sapienza, la prima di Sociologia in Italia. Il padre della Sociologia nel nostro Paese. I viaggi, la vita errabonda in giro per il mondo chiamato nelle più prestigiose Università. Si potrebbe definire, con una battuta, spero l’Autore non me ne voglia, il primo cittadino che abbia precorso la Globalizzazione!          

    Ma sostiene Ferrarotti che in fondo ciò che più apprezzava era la solitudine, fin da bambino. E racconta di una definizione di un suo fedele assistente universitario: l’eremita sociale. E aggiunge che forse si è occupato di sociologia per ovviare a certe tendenze antisociali.

    L’impressione che offre il libro è vi sia da parte dell’autore grande energia vitale, un vero e proprio fiume in piena, una capacità di padroneggiare tanta materia passando a volte da un argomento all’altro come seguendo lo stream of consciousness, il flusso di coscienza. E veramente pare seguire un discorso e pensare ad altro ancora come egli stesso riferisce.

    L’Autore riconosce di aver avuto in dono dal padre la natura, il gusto dell’esperire, toccare con mano, mentre dalla madre ha acquisito la cultura, il dono della memoria e della razionalità. Ciò che egli apprezzava più del padre erano il silenzio, la tenacia, la decisione nell’azione. Si scambiavano poche parole e in casa nessuno seppe della sua Laurea o del matrimonio negli States. Sostiene Ferrarotti che in ciò ci possa essere una feroce difesa del privato personale anche verso la famiglia di origine. Alla morte del padre giunse in ritardo perché era all’estero, al funerale si ricordò delle passeggiate fatte da bambino con lui al cimitero. Il padre guardava l’erba del viale e riconosceva la stagione. Nella sua ruvidezza, nel profondo doveva averlo amato tanto. L’Autore conclude che l’affinità col padre sia anche nell’opposizione al fascismo. Quando Mussolini costruiva gli acquedotti il padre, anarchico con devozione all’autosufficienza, scavava pozzi, voleva la sua acqua. Non avrebbe mai bevuto l’acqua del regime. Piuttosto, sarebbe morto di sete, lui e le sue bestie. Talis pater, talis filius.

    Un libro che apre tante prospettive come vie di fuga che permettono molteplici approfondimenti anche dal punto di vista linguistico e filologico.

    Cercando un padre è emerso fra le carte un uomo, soltanto un uomo, per sempre un uomo.

     

     

      

  • GIUSTIZIA E MITO

    data: 06/01/2020 18:08

    Marta Cartabia, professore ordinario di Diritto costituzionale con una ricca produzione saggistica e un molteplice impegno come giurista conosciuta anche all’Estero, a soli 56 anni è stata nominata dal Presidente della Repubblica, Sergio Mattarella, Presidente della Corte costituzionale diventando così la prima donna a ricoprire tale incarico nella storia della Repubblica.
    Con Luciano Violante, già ordinario di Diritto e procedura penale, magistrato e parlamentare, Presidente della Camera dei deputati dal 1996 al 2001, in Giustizia e Mito (il Mulino) hanno affrontato dal punto di vista giuridico il mito di Edipo, Antigone e Creonte che il genio di Sofocle ha magistralmente trasposto, consegnandoli all’eternità, come eroi tragici che incarnano gli eterni dilemmi del potere e della giustizia, della colpa e della responsabilità, del diritto che l’uomo da animale politico (da polis), si trova ad affrontare nel divenire storico.
    Gli Autori si pongono la domanda del perché due giuristi si trovino a dialogare su Edipo Re e Antigone. Sostengono che i due archetipi siano portatori di valori universali sempre attuali e presentino una tale complessità di significati, una ricchezza semantica che permette una ampia lettura sotto molteplici punti di vista. Edipo è divenuto fondamentale per la visione freudiana e la psicoanalisi provocando ampio dibattito e Antigone e Creonte sono stati oggetto di trasposizioni teatrali, basti pensare a Brecht, e cinematografiche in cui rappresentavano la rivolta (Antigone) contro lo Stato totalitario (Creonte).
    Molti gli spunti che le tragedie hanno presentato alla interpretazione dal punto di vista giuridico e politico, una ricca messe di temi che fanno riflettere e che avvincono il lettore ampliando la conoscenza e stimolando il desiderio di approfondire le tematiche trattate.
    In Antigone la tragedia si innesca dalla contrapposizione tra la legge divina (Antigone) e la legge della polis (Creonte), tutta giocata sulla scena pubblica e sul conflitto tra ethos, ius radicati nella società in una fase di mutamento e lex rappresentata dal diritto esercitato dal sovrano della Città che nel V secolo a.C. sta trasformandosi in Stato e che vede primeggiare Atene, esempio di democrazia. In Edipo Re la tragedia è in primo luogo interiore, vissuta nella mente e nelle azioni compiute da Edipo che nel cercare di scoprire il parricida incestuoso finisce inconsapevolmente per avvoltolarsi sempre più nelle panie della profezia di Apollo.
    Cartabia sottolinea come Edipo non sia stato oggetto di attenzione da parte dei giuristi al pari di Antigone pur presentando aspetti interessanti e una notevole complessità.
    Il dramma di Edipo è quello di non sapere di non sapere, il contrario del so di non sapere di Socrate. Edipo al quale era stato vaticinato che avrebbe ucciso suo padre e sposato sua madre, non si rende conto che Apollo interrogato non risponde alla domanda se i genitori adottivi siano i veri genitori. Egli si è macchiato di un orribile nefandezza e ora a Tebe infuria la peste. Egli è stato un buon re, giusto e virtuoso. Edipo rappresenta la fragilità dell’uomo di fronte al destino che si compie nonostante egli cerchi di sfuggirgli, anzi, dice Cartabia, proprio nel fare il bene Edipo è perduto. Sofocle drammatizza il mistero dell’insuccesso, della condanna senza colpa propria dell’umana esistenza. Edipo pecca di hybris, la superbia. Egli non crede all’oracolo o crede di capire, e va in esilio, lascia Corinto, per sottrarsi al destino. Ciò è la hybris che il Coro gli rinfaccerà accusandola di generare tiranni. Vi è in questo aspetto tutta una visione se posso definire politica nel senso che si è nel periodo della fioritura democratica nella Grecia del V secolo a.C. e Sofocle la evidenzia. Evidenziando, inoltre il pericolo della corruzione per la democrazia. Il Coro rappresenta la cittadinanza ed esprime l’aspetto dialettico, la complessità della realtà. Ma hybris esprime anche entusiasmo, desiderio di oltrepassare i limiti, al pari, oserei, dell’Ulisse dantesco, il folle volo cui mosse i compagni, l’ultimo viaggio per raggiungere ciò che nessuno aveva mai visto, la montagna azzurra per la distanza, (…) fino a che il mar fu sopra noi richiuso.
    Edipo inoltre nell’amministrare la giustizia racchiude in sé la figura del legislatore, inquisitore, giudice. Ciò, sottolinea Cartabia, dà alla tragedia l’aspetto di un’inchiesta giudiziaria. Edipo è inflessibile, il contrario di Creonte che pur sarà tacciato, nei secoli, di essere un tiranno. Edipo è durissimo, convinto della bontà del suo agire che può portare alla violenza. La giustizia, sottolinea Cartabia, deve essere prudente, iuris prudentia, deve valutare, ponderare (la bilancia), essere aperta all’ascolto e al contradditorio. Il processo è dibattito, dibattimento, si svolge secondo un rituale, segue il Codice. E i due gradi di giudizio con eventuale ricorso in Cassazione, sono nel nostro sistema una garanzia. Ciò non significa che non si incorra in errori e che la verità processuale non coincida talvolta con la verità vera.
    La civiltà greca, culla del pensiero occidentale, esprime con la tragedia il passaggio dalla giustizia come vendetta, si pensi alle Erinni, le Furie dal capo anguicrinito, che nell’ultima tragedia dell’Orestea di Eschilo sono mutate, anche se non scompaiono del tutto, da Atena, dea della ragione, in miti Eumenidi. Atena istituisce l’Areopago, il tribunale, segnando un passaggio fondamentale per la civiltà.
    Sottolinea Cartabia come le Carte Costituzionali istituite in varie democrazie parlamentari siano fondamentali nel definire diritti e doveri e garanzie giuridiche nell’amministrazione della giustizia. Il riferimento della Consulta alla Costituzione è fondamentale nel dirimere questioni che involgono la società contemporanea sempre più complessa e nella quale si affacciano sempre nuove problematiche tra le quali quelle del fine vita e dell’attribuzione del cognome materno.
    Ma si chiede Cartabia se la giustizia sia giusta. E qui la hybris si applica alla contemporaneità. L’eccesso di giustizialismo, i casi dell’applicazione delle leggi ingiuste come quelle discriminatorie degli ebrei in Italia e Germania col Fascismo e il Nazismo, le deportazioni nell’Unione Sovietica e l’affermazione dei totalitarismi, lo stato etico, rendono necessario un continuo vigilare affinché il passato non ritorni. Si rende necessaria una giustizia imperfetta perché consapevole che la giustizia nelle vicende umane è una meta sempre da raggiungere. E ancora imperfetta perché consapevole che l’uomo è intrinsecamente incapace di raggiungere la pienezza e il compimento delle sue aspirazioni. Anche alcuni principi del diritto costituzionale contengono il concetto di giustizia ragionevole, imperfetta, aperta, flessibile, mite. Fondamentali il principio di ragionevolezza e il principio di proporzionalità.
    Il giudice deve essere in grado di cogliere le angolature, le sfaccettature, la complessità della realtà e della società.
    E citando la Bibbia sottolinea la richiesta di Salomone a Dio di donargli un cuore docile.
    Fondamentale nella tragedia è il difetto di conoscenza. Edipo conosce spezzoni di realtà e così ogni protagonista. E ciò riferito al presente ci fa capire che si deve cercare la visione (doxa) di ognuno, il suo angolo visuale, in tal modo, in un atteggiamento di ascolto, si può cogliere la realtà nella complessità.
    Cartabia fa emergere la complessità, le sfaccettature del personaggio Edipo dandocene una visione attualissima e complessa e avvincente.
    La parte curata da Violante è dedicata alla lettura di Antigone. Scritta prima di Edipo Re e Edipo a Colono ne rappresenta il compimento. Antigone ha avuto un enorme successo e infinite riletture e interpretazioni divenendo l’archetipo della ribellione al potere costituito rappresentato da Creonte, divenuto dopo la morte di Edipo e dei figli di questo Eteocle e Polinice che si erano uccisi reciprocamente, re di Tebe. Egli cerca di riportare la pace nella città e stabilisce che poiché Polinice aveva tradito Tebe debba essere lasciato insepolto, orrido pasto di cani e di augelli. A ciò si oppone Antigone, sorella, che seppellisce Polinice sostenendo che così vuole la legge degli dei e viene condannata a morte. Sostiene Violante che l’interpretazione di Antigone che è stata data nel tempo è quella della innovatrice che si contrappone al potere assoluto rappresentato da Creonte. Ma egli ritiene, riferendosi a Cacciari, che poiché la legge cui si appella Antigone è il nomos, l’antica legge non scritta, il diritto naturale, ella rappresenti il vecchio. Nell’età della polis il nuovo è rappresentato da Creonte, che segue la lex. L’innovatore viene punito come in tutti i miti greci da Icaro a Prometeo a Fetonte.
    Secondo Hegel la legge assoluta di Antigone non è, non è verificabile. Le leggi che si impongono sono quelle del sentire etico, non si discutono.
    Antigone a poco a poco conquista la città, diviene un’eroina, ancor più perché donna e perché finisce per suicidarsi in nome dell’ideale. Sostiene Violante che il conflitto tra Antigone e Creonte finisce per divenire politico. A poco a poco la vicenda si destoricizza, si perdono i riferimenti di ciò che è accaduto, tutto ruota attorno al conflitto tra Antigone e Creonte. Il conflitto è tra due ragioni irriducibili. Ecco perché tutto si assolutizza.
    Creonte rappresenta icasticamente la solitudine del potere, rimane solo dopo la morte del figlio Emone del quale Antigone era promessa sposa. Abbandonato dalla città, rappresentata dal Coro, da tutti.
    Violante fa riferimento alle dinamiche politiche tra maggioranza e opposizione trovando interessanti paralleli con la tragedia.
    Molti gli argomenti approfonditi tra cui il Processo di Norimberga ai criminali nazisti. Qui Antigone è rappresentata dalle potenze vincitrici, Creonte dai criminali. Ma non sempre tutto è così lineare. Infatti non vennero processati industriali che avevano avuto ruoli importanti nel sistema. Inoltre l’URSS Paese giudicante, aveva firmato con la Germania il 3 agosto 1939 il Patto di non aggressione per la spartizione della Polonia. Il presidente del tribunale vietò al difensore di Hess di rendere noto l’accordo aggiuntivo.
    Un saggio denso, interessantissimo, che merita di essere letto aprendo la mente alla luce del mito a una poliedrica visione della realtà.

     

     

  • PIAZZA FONTANA.
    IL PROCESSO IMPOSSIBILE

    data: 13/12/2019 09:50

    Milano, 12 Dicembre 1969. Una data che segna uno spartiacque tra il prima e il dopo. La madre di tutte le stragi, segna, è stato sostenuto, la fine dell’innocenza per un Paese e una democrazia ancora giovane dopo il Ventennio fascista. La strage alla Banca Nazionale dell’Agricoltura con 18 morti e 100 feriti e il suo seguito di processi dai quali emergono depistaggi e trame oscure, determinano un sentimento di sfiducia nelle Istituzioni ma anche una dolorosa presa di consapevolezza che porterà alla maturazione di una coscienza critica tra i cittadini.
    Benedetta Tobagi (Milano, 1977), Laurea in Filosofia, Ph.D in Storia presso l’Università di Bristol, si è occupata dello stragismo, che segue con una Borsa di ricerca all’Università di Pavia, e ha esordito con Come mi batte forte il tuo cuore (Einaudi), omaggio rigoroso e struggente alla figura amatissima del padre Walter, giornalista al Corriere della Sera, assassinato dai terroristi rossi sotto gli occhi innocenti della figlia. Ha proseguito con una saggio sulla strage di Piazza della Loggia a Brescia dal titolo Una stella coronata di buio. Storia di una strage impunita (Einaudi) e ha recentemente scritto Piazza Fontana. Il processo impossibile (Einaudi).
    Come suo solito l’Autrice, da storico, basandosi su un grande apporto documentale, ci guida con mano sicura, e con notevolissima capacità narrativa, passo passo nell’atmosfera di quegli anni di tensione sociale e politica, all’interno di un quadro internazionale caratterizzato dalla Guerra Fredda e in cui il Paese si trovava a far da cuscinetto tra due blocchi: USA e URSS, con la presenza del più forte Partito Comunista dell’Occidente. Forze contrapposte si combattevano più o meno sotterraneamente e l’Italia era la sentina di tutto ciò. Emerge inoltre, posto efficacemente in evidenza da Tobagi, la presenza nei Servizi di Intelligence di agenti che avevano fatto parte del Regime mentre il Codice di Procedura Penale era ancora il Codice Rocco, cioè in vigore durante il Fascismo.
    Mi permetto un commento. Faceva parte del Codice Rocco, fino a pochi anni fa, anche il reato di stupro che veniva considerato delitto contro la morale. Finalmente, dopo tante battaglie combattute dalle donne, ricordiamo anche la messa in onda in TV del Processo per stupro che causò tanto clamore, si è giunti a legiferare in materia e ora tale delitto è considerato reato contro la persona. Paradossalmente tra le promotrici vi è l’On. Alessandra Mussolini, nipote del Duce!
    Intanto tramontava l’era del Centro Sinistra e le manifestazioni operaie dell’autunno caldo si saldavano alla contestazione giovanile. Mentre prendeva vita, o visibilità, il neofascismo, con tante cellule che a volte, come per i fatti di Valle Giulia, presso la Facoltà di Architettura a Roma, si alleavano ai movimenti extraparlamentari di Sinistra. Ciò troverà anche un riscontro nella figura di Mauro Merlino che proveniente dalla Destra, infiltrato tra gli Anarchici del Collettivo di Valpreda, sarà tra gli imputati della strage di Milano. Era questa una prova di quella tesi cara alla DC, sostiene Tobagi, degli opposti estremismi in versione antisistema.
    Il Presidente della Repubblica era il socialdemocratico Saragat che dopo la scissione dal PSI e la nascita del PSDI, si avvicinava alla DC in opposizione a qualsiasi accordo con il PCI e sostenitore agguerrito del Patto Atlantico in contrapposizione al Patto di Varsavia.
    In Italia una fascia di elettorato moderato che votava DC era in realtà di Destra e aveva trovato una sponda anticomunista nel partito di maggioranza relativa.
    Nei primi anni della Repubblica si erano verificati episodi a dir poco inquietanti: il cosiddetto tentato golpe di Junio Valerio Borghese e il Piano Solo del Generale De Lorenzo capo del Sifar, Servizio Segreto Militare in versione anticomunista. Questo humus costituiva brodo di coltura di tutte le trame occulte che avrebbero avvelenato l’atmosfera sfociando nella stagione delle Stragi di cui Piazza Fontana rappresenta il banco di prova.
    Tobagi ricostruisce minuziosamente la vicenda come in una messa a fuoco, ci mostra le persone e l’atmosfera natalizia nella Milano brumosa ma gioiosa di attesa, le trattative tra i coltivatori e allevatori, in tutto erano circa 300 persone in Banca quel pomeriggio, i fratellini che dovevano pagare una cambiale, e poi il botto, e tutto si mise a vorticare, come in una giostra impazzita, e nulla fu come prima! Si entrava in quella che Sergio Zavoli avrebbe definito la notte della Repubblica. Quel Natale di sangue vedrà la reazione composta e civile della gente, in una Milano livida che seguirà le esequie officiate dal Cardinal Martini che rivestirà nel tempo un ruolo fondamentale nella stagione del terrorismo riuscendo a farsi consegnare le armi dalle BR.
    Milano, la Capitale morale, terribilmente colpita esprime la forza della società civile.
    Tobagi ci guida lungo i labirinti di un processo impossibile, monstre, il primo, quello trasferito a Roma e poi a Catanzaro e conclusosi dopo oltre 10 anni, in una girandola di imputati che compaiono e si dissolvono come nel nulla. Si procede così dall’accusa all’anarchico Pietro Valpreda alle condanne dei neofascisti Franco Freda, Giovanni Ventura e l’uomo dei Servizi, Giannettini. Tale giudizio verrà rovesciato in Appello e Freda, Ventura e Giannettini verranno prosciolti, Valpreda condannato per associazione a delinquere.
    Durante tanti lunghi anni i p.m. Occorsio e Alessandrini troveranno la morte, il primo per mano del neofascista Concutelli e il secondo da parte dei rossi di Prima Linea.
    L’Autrice segue, parallelamente alle vicende processuali che qui possono essere solo brevemente riassunte (data la complessità del quadro e i vari fronti d’indagine e di giudizio), l’evolversi della situazione storico–politica e sociale del Paese. Gli USA e in particolare Kissinger e altri attori sulla scena politica, in particolare Saragat, sono favorevoli alla svolta conservatrice. Il Paese è scosso, vengono rilevate tensioni, sentimenti di preoccupazione e allarme. Il settimanale britannico The Observer parla di progetto per un golpe in Italia sul modello di quello (appoggiato dagli Usa) dei colonnelli in Grecia nel 1967. La tensione sale e tra il 1968 e il 1969 si registrano 87 attentati di cui molti con obiettivo i Tribunali.
    Dopo la strage le indagini si svolgono a Milano e Roma dove opera il giudice Occorsio. Si segue immediatamente la pista anarchica. Pietro Valpreda, riconosciuto da un tassista che lo avrebbe condotto sul luogo della strage, viene arrestato. La prima inchiesta, rileva Tobagi, ha un carattere politico distruttivo rivolto a colpire gli anarchici. Il dibattimento si sposta a Roma ma dopo 7 udienze si ripassa a Milano che dovrebbe essere la sede naturale. Il processo si blocca per tre volte e da Milano viene rimesso per motivi di ordine pubblico a Catanzaro. Intanto in Veneto, dove sono attive molte cellule neofasciste, si batte la pista nera e, accusati dal teste Lorenzon, vengono arrestati Giovanni Ventura e Franco Freda accusati di ricostituzione del Partito fascista e associazione sovversiva. Tanti i nomi coinvolti, da Pino Rauti, incriminato e arrestato per associazione sovversiva e partecipazione agli attentati ai treni dell’estate 1969, a Marco Pozzan. Da parte della stampa di Destra si grida alla persecuzione giudiziaria e al processo politico. Rauti viene candidato nelle liste del MSI e eletto deputato con 100.000 voti, verrà scarcerato per via dell’immunità parlamentare.
    A Milano la seconda istruttoria vede indagati Ventura, Freda, Pozzan, Pan e Pino Rauti. Pubblico ministero è Emilio Alessandrini, Giudice istruttore Gerardo D’Ambrosio. Sarà proprio quest’ultimo a rilevare lacune e distorsioni nell’indagine su Valpreda. Inoltre, dopo stringenti interrogatori, emerge che Ventura è stato una talpa per conto del SID. Ventura tira in causa Giannettini, consulente dei Servizi e D’Ambrosio chiede informazioni in merito al Capo servizio generale del SID, il Generale Vito Miceli che risponde di non poter rivelare segreti militari. Colpo di scena che scoppia come una bomba: Miceli, indagato nell’inchiesta sulla Rosa dei Venti per associazione cospirativa tra Servizi, militari e gruppi di estrema destra per perseguire scopi extra–costituzionali, è arrestato per cospirazione. Verrà poi prosciolto.
    Sostiene Tobagi che prima che il SID fosse coinvolto altre entità avevano lavorato alla creazione di una matassa così avviluppata.
    Il Processo per Piazza Fontana si inserisce in un momento storico fondamentale, fungendo da catalizzatore per un rinnovamento della giustizia e della legislazione che potesse essere a misura di una democrazia moderna. Gli organi istituzionali erano in gran parte rimasti ancora di impronta fascista. Si pone il problema della lunga carcerazione in attesa di giudizio. Giuristi e politici saranno sollecitati a trovare soluzioni. Si rende necessaria la riforma dei codici penali. Viene promulgata la cosiddetta legge Valpreda (n. 773 del 15 Dicembre 1972) per accelerare e semplificare i procedimenti. Il dibattito per una giustizia degna di un paese civile scalda lo scontro tra le varie correnti della magistratura. Nasce Magistratura democratica che sarà oggetto di informative del SID.
    Prima della sentenza, il 23 Febbraio 1979, erano stati barbaramente uccisi il giudice Occorsio nel luglio del 1976 dal neofascista Concutelli e il giudice Alessandrini, convinto dell’innocenza di Valpreda, nel gennaio 1979 dai terroristi di Prima Linea.
    Il processo, sostiene Tobagi, è anche un processo allo Stato. A Catanzaro sfileranno Andreotti e altri nomi della Politica. In effetti confluiscono nel processo altri filoni che come in un delta si ramificano e intersecano obbligando a un’opera di scavo in tanti settori da parte dei magistrati. Mi viene da pensare alle scatole cinesi che riservano sempre nuove sorprese.
    La sentenza viene emessa il 23 febbraio 1979 con assoluzione di Valpreda per insufficienza di prove e condanna con Mario Merlino per associazione a delinquere per il gruppo 22 Marzo. Ergastolo per Freda, Ventura per prove incontrovertibili della partecipazione alla Strage del 12 Dicembre.
    Concludendo la sua requisitoria il p.m. Mariano Lombardi aveva detto: questa è una storia che non può ritenersi chiusa. Toccherà ad altri giudici trovare l’anello di congiunzione tra i terroristi e i gruppi di potere che furono all’origine della determinazione di dare inizio all’escalation del terrorismo nel nostro Paese sotto sigle diverse.
    In appello, il 20 Marzo 1981, Freda, Ventura e Giannettini vengono assolti. Valpreda pure ma per insufficienza di prove.
    Nel 2001 vengono condannati all’ergastolo per strage altri neofascisti, Maggi, Zorzi e Rognoni. In Appello verranno assolti.
    Dopo questo sabba infinito di cui Benedetta Tobagi ci dà conto non solo con capacità di sintesi ma anche affabulatorie, mi domando “Se la verità processuale è raggiunta, quale la verità vera, (direbbe Machiavelli) effettuale?” .
     

  • IL POTERE TOSSICO
    CHE HA FATTO LA STORIA

    data: 04/12/2019 19:01

    Prima di dedicarsi alla scrittura, Tania Crasnianski, nata in Francia, è stata avvocato penalista a Parigi. Ora vive tra Francia, Germania e Stati Uniti. E’ autrice de I figli dei nazisti (Bompiani), che ha ottenuto vasto successo. In Il potere tossico (Mimesis), sua seconda fatica appena pubblicata, dedicata al rapporto che si instaura tra il capo di Stato e il medico di fiducia, si pone il problema di quanto il rapporto medico–paziente sia una sorta di dipendenza reciproca, in cui si stabilisce un legame intenso e intimo. Sono così sconvolti i rapporti di lealtà, riservatezza e indipendenza che informano la relazione medico–paziente.
    L’Autrice si pone il problema di quanto possa influire questo legame sull’esercizio del potere e quanto conti lo stato di salute di un potente sulle sorti del Paese che governa. E ancora, se sia giusto nascondere col segreto di Stato le reali condizioni psicofisiche di un uomo di potere all’opinione pubblica in nome della sicurezza e della immagine del capo di Stato.
    Crasnianski analizza attentamente le vicende di Hitler e Stalin, Mussolini e Pétain, Churchill e Franco, Kennedy e Mao. Importante sottolineare che nel caso di feroci dittatori l’Autrice non li scagiona dalle loro colpe e responsabilità. Fornisce, secondo me, una ulteriore tessera di un mosaico complesso come la Storia del Novecento e su cui influiscono molteplici fattori. Che si tratti di Olocausto, Purghe staliniane, Genocidi e abomini di ogni genere, nulla potrà scagionare gli autori che resteranno fissati alle loro colpe, condannati dal tribunale della Storia per l’eternità.
    Hitler che così tanto ha influito sulla grande storia del cosiddetto Secolo breve, ma anche su tante vicende minute, familiari, destini che si sono incrociati, vite tristemente concluse in un fil di fumo, ha sempre voluto accanto a sé medici e specialisti che gli curassero le monomanie, le fobie dei parassiti che per lui si materializzavano nell’ebreo, portatore di tutte le aberrazioni e malattie, abiezioni e vizi.
    Seguito da ufficiali medici delle SS, gli fu indicato, come luminare in grado di affrontare qualunque patologia, con farmaci magici, il dottor Theodor Morell. Egli lo cura con cocktail di anfetamine, oppioidi e corticosteroidi di suo brevetto tanto che riuscirà a acquisire varie Case farmaceutiche. Morell ricorre a dosi elevate, sottolinea ai limiti della legalità, ma per brevi periodi. Egli sostiene di aver accettato il difficile compito per il bene della Germania e del suo Führer. Procede con iniezioni che devono essere ripetute in tempi sempre più ravvicinati. Le anfetamine erano state sintetizzate di recente e non si conoscevano appieno gli effetti collaterali. Davano energia, senso di onnipotenza, assenza di stanchezza, velocità di ragionamento, ma ben presto il rapporto tra Hitler e Morell diventerà di dipendenza reciproca e col procedere in tal senso le condizioni del Führer e del Reich millenario andranno sempre più peggiorando. Nessuno poteva intervenire sull’operato di Morell senza incorrere nella vendetta di Hitler. Egli non si mostra più in pubblico dal 24 febbraio 1944 e si rinchiude nel quartier generale, la Tana del Lupo o nella tenuta di montagna, il Berghof in Baviera. Morell lo seguirà anche nel Bunker sotto la Cancelleria negli ultimi giorni in attesa della catastrofe.
    Molte le ipotesi di cosa realmente soffrisse Hitler, dalla sifilide che ne avrebbe causato la pazzia, all’avvelenamento progressivo. Per lungo tempo si è creduto alla follia del Capo e di un popolo intero fino a che, sottolinea l’Autrice con convinzione, non si è parlato da parte di Hanna Arendt di banalità del male. Forse una realtà ancora più tristemente grave della follia.
    Crasniaski riporta testimonianze di persone dell’entourage e referti di medici che avevano seguito Hitler. Fa riferimento a molti apporti e a una ricca bibliografia. Un saggio che fa luce sul Potere e la debolezza degli uomini.
    Ultimo per quanto riguarda la Germania c’è da dire che era diffusa la prescrizione di farmaci stupefacenti ai civili e ai soldati che dovevano affrontare il Blitzkrieg. Durante la Prima Guerra Mondiale ai nostri soldati prima degli assalti venivano offerte laute libagioni di grappa e ai militi della Brigata Sassari l’acquavite fatta artigianalmente, il cosiddetto fileferru. Anche se molti feriti finirono morfinomani, mi permetto di aggiungere un esempio della Guerra del Vietnam e dei tanti reduci tossicodipendenti.
    Tra i potenti che hanno fatto la storia, esaminati dall’Autrice, mi soffermo su Mussolini. Egli dopo il 25 luglio 1943 viene fatto imprigionare dal Re e durante il soggiorno a Campo Imperatore, sul Gran Sasso, viene liberato dalle SS al comando di Otto Skorzeny e ormai in balia di Hitler, posto a capo della Repubblica Sociale, a Salò sul Lago di Garda. Mussolini, ormai l’ombra di sé stesso, è sottoposto a continuo controllo dalle SS e viene seguito dal medico personale inviato da Hitler per assicurarsi che resti leale ai tedeschi. Georg Zachariae si prenderà a cuore la salute e lo stato psichico del Duce divenendo il suo unico vero amico. Si instaurerà una sorta di transfert che li legherà anche dopo la morte di Mussolini.
    Mussolini soffriva di depressione e di ulcera gastroduodenale, secondo ciò che era emerso da esami e visite. Era ipocondriaco. Si nutriva di alimenti leggeri e seguiva una dieta vegetariana. Il professor Zachariae gli diede fiducia rassicurandolo. Scrive l’Autrice che Mussolini che si era sottratto alle relazioni per tutta la vita per paura di essere tradito, trova nel suo ultimo medico l’unica persona che potesse assicurargli una lealtà assoluta chiedendo a Hitler che il medico resti con lui. Zachariae ammira il duce e lo cura amorevolmente e con competenza. Il risultato è un miglioramento delle condizioni del paziente.
    Dopo la fucilazione e lo scempio di Piazzale Loreto, la salma del duce sarà sottoposta ad autopsia ed emergerà che era “incredibilmente sano”. Niente ulcera né sifilide ma disturbi psicosomatici che si attenuarono con la presenza di Zachariae.
    Conclude Crasnianski che Mussolini aveva usato la malattia per magnificare la sua immagine di uomo ascetico e forte, insensibile alla fatica e al dolore. Mussolini artista della dissimulazione è riuscito anche a “contagiare” il suo medico che contribuirà alla costruzione del mito del condottiero coraggioso e Zachariae diverrà colui che ha guarito uno degli uomini più potenti e temuti del Novecento.
    Non si può riassumere un saggio vasto e profondo. Ho preferito fornire un assaggio che spero incuriosisca il lettore.
    Un libro molto interessante e coraggioso che concorre a chiarire lati della Storia rimasti nell’ombra o non affrontati per tema di giustificare con la malattia o la tossicodipendenza gli abomini perpetrati da molti uomini di Potere.

    IL POTERE TOSSICO.
    I drogati che hanno fatto la storia.
    Hitler, Mao, Mussolini, Pétain, Churchill, Franco, Kennedy, Stalin
    di Tania Crasnianski
    Editore: Mimesis

     

  • SALVARE IL MONDO
    PRIMA DI CENA...

    data: 25/09/2019 21:55

    In questi giorni di mobilitazione giovanile, e non solo, per sensibilizzare i governanti di tutto il mondo sulle tematiche ambientali e la salvaguardia della vita nel nostro Pianeta messa a repentaglio dall’imbelle sfruttamento senza limiti delle risorse, e dall’inquinamento, giunti quasi a un punto di non ritorno, mi pare utile proporre la lettura dell’ultima fatica di Safran Foer Possiamo salvare il mondo, prima di cena (Guanda). Il pamphlet, scritto dall’autore di Ogni cosa è illuminata e Molto forte, incredibilmente vicino che hanno ottenuto notevoli riconoscimenti di critica e lettori, fa riflettere sulla crisi ambientale che involge il Pianeta con tutti i suoi abitanti. Purtroppo nell’era delle fake news create ad arte e del Presidente Trump che nega l’effetto serra e non accetta di ridurre le emissioni di gas serra come deciso dai Protocolli internazionali, diviene difficile contrastare la catastrofe e a volte manca la convinzione per agire.

    Il libro è a tratti struggente, come quando l’Autore ricorda la fuga dalla Polonia invasa dai Nazisti della nonna giovane ebrea che, unica nella sua famiglia, scampò alla camera a gas. Riuscì a raggiungere gli Stati Uniti dove si creò una famiglia unita e alla quale trasmise valori forti e saggezza. Safran Foer prende la nonna a modello sostenendo che se fosse rimasta inerte a non credere a ciò che si diceva dei Nazisti non si sarebbe salvata, come accadde a tantissimi che non riuscivano a capacitarsi di tanto orrore. Al pari avvenne al partigiano polacco Jan Karski che riuscì, nel 1943, a raggiungere Washington portando un importantissimo messaggio alle Autorità in cui dava conto delle atrocità di cui gli ebrei erano vittime. Egli riuscì a parlare col giudice della Corte suprema Felix Frankfurter uno dei massimi giuristi, di origine ebrea. Al racconto di Karski egli reagì con incredulità, la sua mente non riusciva a concepire l’orrore dei Campi o del Ghetto di Varsavia. Il giudice concluse che non riusciva a credere, che la sua mente e il suo cuore erano fatti in modo che non gli permetteva di accettare e ne era perfettamente cosciente.

    L’Autore sostiene che anche nel caso della crisi climatica si verifica un tale processo. Ci rendiamo conto che qualcosa avviene ma, presi da mille stimoli e futilità tutto sembra lontano, riguardare altri, laggiù. Safran Foer cita Raymond Aron che fuggito a Londra disse che sapeva ma non ci credeva e poiché non credeva era come non sapesse. L’Autore spiega l’apatia di fronte alla crisi ambientale in base a questi meccanismi psicologici. E applica gli stessi parametri a sé stesso perché avverte un’incapacità di reagire e si sente colpevole perché, convinto vegano, a volte non riesce a rinunciare alla carne. Il suo è un combattimento, una lotta interiore implacabile, un costringersi a reagire e agire.

    Sentirsi di agire, agire perché lo senti è ciò che sostiene Safran Foer. Egli espone con chiarezza le proposte per evitare che il nostro pianeta si trasformi in una landa desolata a causa dell’effetto serra. Sostiene che oltre i combustibili fossili, la deforestazione, esempio eclatante gli incendi che stanno devastando l’Amazzonia, vero polmone verde che con la fotosintesi assorbe l’anidride carbonica rilasciando ossigeno. Spiega l’Autore che gli incendi, oltre produrre altra anidride carbonica, eliminano una fonte di ossigeno e in più le piante con la combustione rilasciano l’anidride carbonica immagazzinata nelle loro fibre. Un vero suicidio perché se la deforestazione dell’Amazzonia è realizzata per produrre foraggio per impiantare allevamenti industriali, si crea un’altra fonte di gas serra, in particolare metano dai processi digestivi dei bovini.

    Come sostenuto anche in Se niente importa. Perché mangiamo gli animali (Guanda), l’allevamento oltre causare sofferenze e dolore in tanti esseri senzienti e sensibili ha un fortissimo impatto ambientale. Egli ritiene che tutti noi possiamo agire, nell’immediato, rinunciando alla carne, dando in tal modo un segnale forte e eliminando dalla nostra dieta alimenti che causano malattie cardiovascolari, cancro, obesità. Inoltre con tali alimenti si introducono anche i farmaci, tra cui ormoni che vengono somministrati agli animali per farli crescere e antibiotici per evitare la diffusione di malattie, facile in ambienti sovraffollati.

    L’Autore sostiene, dati alla mano tra cui il documento Fao e quello del Worldwatch Institute sull’impatto dell’allevamento industriale sull’ambiente, che non c’è tempo da perdere, che il Pianeta è depauperato delle sue risorse oltre la capacità di reintegrazione.

    Gli effetti sono sotto gli occhi di tutti e certi Paesi del Sud del Mondo sono tra i più colpiti da eventi meteorologici estremi. Proprio quelli che utilizzano minori risorse come il Bangladesh, Haiti, Vietnam, India tra gli altri.

    Ed inoltre propone di evitare viaggi in aereo, uso dell’auto quando non indispensabile o uso collettivo, che ognuno può mettere in atto, ogni giorno.

    Si parla di colonizzare Marte e il grande fisico Stephen Hawking sosteneva che l’uomo dovrebbe creare la vita su altri pianeti, rendere abitabile un mondo inospitale. Ma, si chiede l’Autore e mi unisco a lui, come possiamo creare la vita se quel meraviglioso Pianeta azzurro che incantò gli astronauti siamo stati capaci di offenderlo? E, aggiungo, se l’abbiamo sfruttato e maltrattato con esplosioni nucleari in isole di sogno, abbiamo ridotto tratti di Oceano senza vita, l’abbiamo affumicato con emissioni letali, ridotto l’Himalaya a pattumiera di un turismo volgare, abbiamo riempito di plastica il mare e la pancia dei capodogli, confuso e disorientato i cetacei che finiscono per spiaggiarsi, incantato un cavalluccio marino con un volgare cotton fioc. Dove possiamo trovare un mondo bello come questa aiuola tanto cara al Poeta? Cosa lasceremo ai nostri figli e nipoti? Siamo arrivati al punto limite oltre il quale c’è l’abisso.

    Un libro da leggere e meditare in cui si specchia anche la vicenda biografica dell’Autore. Scritto seguendo vari registri narrativi è un inno alla vita, attenzione per l’esempio da dare ai figli, tentativo accorato e profondamente sentito di scuotere le coscienze.

    Ascoltiamolo perché il nostro Mondo non diventi come l’incubo fantascientifico espresso icasticamente da Ballard ne Il mondo sommerso.

  • LA MEMORIA E' IN PERICOLO,
    L'ALLARME DI FERRAROTTI

    data: 10/07/2019 22:09

    Franco Ferrarotti, professore emerito di Sociologia a La Sapienza, Accademico dei Lincei, finissimo intellettuale, ha sottoposto la nostra società al vaglio della ragione e degli strumenti offerti dalla Sociologia dandoci uno spaccato utilissimo a comprenderne le dinamiche e le crisi. Collaboratore di Adriano Olivetti, ha avuto modo di partecipare a quell’eccezionale esperimento sociale, culturale, politico, umano, che è stato il movimento di Comunità, vero laboratorio fecondo di idee e progetti.
    In Il pensiero involontario (Armando), ultimo saggio di una produzione notevolissima, frutto di un fervore intellettuale inesausto, di amore della conoscenza, Ferrarotti appunta l’attenzione sulla contrapposizione tra la logica del pensare e della lettura e la logica dell’audiovisivo che cattura le facoltà cognitive per manipolare la psiche a fini commerciali. In tal modo la logica, il pensiero involontario risultano compromessi e emerge una società irretita.
    Con la verve che lo contraddistingue Ferrarotti affronta la problematica partendo da una frase del padre che, poiché lui da ragazzo si addormentava col libro in mano, gli diceva: “Sarai un uomo di carta”. E in fondo l’Autore riconosce che aveva ragione. Il libro è il suo amico fedele di una vita, ha sollecitato riflessioni e sogni, suscitando la curiosità e la sete di conoscenza e la memoria.
    Fondamentale è la memoria per l’essere umano che in fondo è ciò che ricorda di essere stato. Sostiene Ferrarotti che l’assioma cartesiano all’origine della scienza e del pensiero moderno deve essere mutato e cioè non più cogito, ergo sum ma reminisco, ergo sum. Perché la memoria, il ricordo,sono il fondamento dell’integrità psichica, ciò che ci identifica come individui, persone umane formate da un’infinità di esperienze che la memoria assembla elaborandole, dando il senso della continuità della vita e dell’integrità dell’Io. Ora, sostiene Ferrarotti, la memoria è in pericolo, messa in scacco dalla memoria digitale, supporto esterno all’uomo che mina alla base, con la meccanicità e la velocità, le capacità mnestiche surrogando alla ben più complessa e profonda memoria umana e rappresentando un serio pericolo per il futuro dell’umanità.
    Parte dalla morte della filosofia intesa come tensione verso la sapienza: atteggiamento, direi, di disposizione all’ascolto, all’aperturaversoilmondochecicirconda, dice Ferrarotti, volta all’esperire. Nella nostra società complessa e globalizzata si è persa la capacità di ascoltare l’ascolto, ascoltare la domanda, imparare il silenzio. La crisi odierna è dovuta non a problemi che riguardano la individualità, bensì ci si trova di fronte a una trasformazione epocale dell’idea di uomo. Secondo l’autore ciò è dovuto allo strapotere delle tecnologie comunicative che portano allo sgretolamento dell’identità individuale. L’uomo perde la capacità di ragionare sommerso da un’abbondanza di informazioni e stimoli che vengono immediatamente sostituiti da altri e, come dice con un’espressione colorita Ferrarotti titolando un capitolo del saggio, si diventa un popolo di informatissimi idioti: sanno tutto ma non capiscono niente.
    Anche la lettura è superficiale, si è persa la capacità di concentrazione. Ora la cultura del monitor finisce per creare effetti di de-realizzazione della realtà, creaunasortadi ipnosi, di incantamento. L’uomo da sapiens si è trasformato in homo sentiens che è diventato videns. Mi permetto una riflessione. Siamo diventati un popolo di voyeurs, attratti dai programmi in cui si guarda dal buco della serratura al continuo filmare e scaricare in Rete le foto o le riprese, si è persa la capacità di vedere per cogliere ciò che ci circonda, la bellezza del mondo e della vita.
    Fondamentale è quindi il fattore-comunicazione che finisce per scardinare le reti sociali che creavano solidarietà tra gli individui. Ora davanti al monitor o chini sullo smartphone con le cuffie si è soli in contatto con avatar. La solitudine, Ferrarotti parla anche di stato di ebetudine, crea sofferenza psichica. Appiattimento sul presente, carenza immaginativa, predominio dell’emotività sul ragionamento sono alcuni dei problemi che le nuove generazioni manifestano con evidenza. Secondo l’Autore si sarebbe entrati in un’epoca di pensiero unico standardizzato e garantito da una società totalmente amministrata in cui non c’è posto per il rapporto umano fecondo ma esso è mercificato, pura transazione.
    Ferrarotti anche con interessantissimi riferimenti ai grandi filosofi propone un ritorno all’uomo, ai rapporti interpersonali profondi in un recupero delle capacità contemplative chenonsignificaimmobilitàmaattività, mi permetto, nel più alto senso del termine.
    Il saggio, profondissimo, spazia affrontando l’argomento nelle sue sfaccettature anche con riferimento agli intellettuali e al ruolo che possano svolgere nella società attuale per acquisire consapevolezza dei pericoli di disgregazione della personalità, dell’Ego, e di dissoluzione dell’individuo. Una riflessione lucidissima che fornisce una chiave interpretativa per capire, prima che sia troppo tardi, il nostro presente e i trabocchetti che ci riserva la società interconnessa e globalizzata. 

           

  • IL MESTIERE DI SCRITTORE
    NEGLI ANNI '60-'70 IN ITALIA

    data: 11/06/2019 15:14

    A quarantasei anni di distanza dalla prima pubblicazione di questi saggi ad opera di Garzanti, le Edizioni di Storia e Letteratura con un’opera meritoria ripropongono questi straordinari dialoghi con alcuni dei più grandi letterati italiani del Novecento che ci permettono, non solo di apprezzare la loro poetica e l’arte sapiente ma di scoprire la lungimiranza – un nome per tutti Pier Paolo Pasolini – la preveggenza che li rende particolarmente attuali e ci fornisce un metro di lettura della nostra contemporaneità.
    Ferdinando Camon (1935), scrittore vincitore del Premio Strega per Un altare per la madre e del Premio Viareggio per le poesie Liberare l’animale, è tradotto in venticinque Paesi e anche in edizione per non vedenti.
    Le conversazioni critiche si sono svolte negli anni tra i Sessanta e i Settanta. Sono dialoghi con Moravia, Pasolini, Pratolini, Cassola, Bassani, Ottieri, Calvino, Roversi, in cui emerge lo scrittore nel modo più naturale e al tempo stesso meditato e chiaro. Spicca la freschezza e l’attualità della letteratura e della riflessione. Ed è ciò che rende l’arte senza tempo e consegna i grandi interpreti all’eternità. Scorrendo il libro, gli Autori sono come naturalmente lumeggiati dal tessuto della discussione e si avverte il desiderio di approfondire la conoscenza, di entrare nel loro mondo poetico e umanissimo in una sorta di full immersion letteraria.
    La mia attenzione si appunta su Moravia. Fino alla sua scomparsa era maitre à penser, anche seforse non sarebbe contento di questa definizione dato che egli stesso in polemica con Sartre a proposito dell’engagement, sosteneva la libertà dello scrittore e a Sartre preferiva Camus. Dopo, è come finito nel dimenticatoio senza una apparente spiegazione.
    Camon chiede a Moravia se quando scrisse Gli indifferenti nel ’29 il Fascismo lo avesse osteggiato. Spiega Moravia che, nonostante egli avesse dato della borghesia un ritratto negativo, il fascismo non impedì la pubblicazione in quanto non ancora fornito di una politica culturale, anzi, nato dall’ignoranza. Solo più tardi il Regime avrebbe controllato e censurato le opere letterarie a esso non gradite. Anche se, fin dall’inizio, sottolinea Moravia, Mussolini non guardò di buon occhio il romanzo.
    Per quanto riguarda l’apporto della psicoanalisi nei romanzi di Moravia egli sostiene che se avesse scritto Agostino leggendo Freud non avrebbe scritto un’opera d’arte ma un trattato di psicoanalisi. Il punto sta nel freudismo induttivo e non deduttivo. Sostiene lo scrittore che egli ha dato voce alle proprie esperienze di vita quindi per induzione.
    Camon chiede come mai sia attratto dall’Africa da dedicarle viaggi e reportage. Moravia ritiene che l’Africa sia un’alternativa all’Occidente europeo che è monumento dell’uomo mentre l’Africa è monumento della natura. Interessante la concezione della storia e cultura dell’Africa. L’Africa è preistoria in cui la lotta è tra uomo e natura, l’Europa è storia, lotta tra uomo e uomo. E prosegue sostenendo che l’africano sia il complemento dell’Europeo, l’altro dell’europeo. In Di che tribù sei? sottolinea l’economia di sfruttamento, i mille problemi ancora legati al colonialismo. Purtroppo, aggiungo, sembra che il tempo scorra solo per una parte del Mondo, l’Africa si trova sfruttata non soltanto dall’Occidente, pensiamo al coltan, l’oro del Terzo Millennio, ma anche dalle potenze emergenti.
    Egli già nel 1973 parla di crisi delle ideologie deducendola dalla fine del Nazismo, nato in Germania culla delle ideologie totalizzanti che esauriscono il Mondo, spiegandolo definitivamente. Il marxismo, dice Moravia, può dare una interpretazione della realtà con l’apporto dello strutturalismo e della psicoanalisi. E’ la via tracciata da Levi-Strauss e dalla Scuola di Francoforte con Marcuse, Horkheimer, Adorno.   
    A questo punto si potrebbe spiegare l’oblio in cui è finito Moravia. Forse, azzardo, è il mutamento della società e della cultura, l’emergere di un modo di pensare individualista, edonista, un lungo riflusso dopo l’ubriacatura della contestazione che ci conduce direttamente al pensiero debole postmoderno e al Mondo villaggio globale, alla società liquida, così ben indagata da Bauman.

    Un saggio da leggere con passione, interessante, profondissimo e acuto, ricco di spunti per comprendere la macchina narrativa ma anche la temperie culturale, artistica e letteraria di un secolo e che fornisce strumenti per leggere il presente e capire il divenire storico. 

  • LA RESISTENZA HA FALLITO?
    STORIA D'ITALIA 1946-48

    data: 05/06/2019 17:03

    Giovanni De Luna, storico, docente presso la Scuola di studi superiori dell’Università di Torino, in La Repubblica inquieta. L’Italia della Costituzione (Feltrinelli), ci offre un’immagine del nostro Paese che abbraccia il periodo precedente la Liberazione, fino al Referendum che sancì la nascita della Repubblica proclamata solennemente il 2 Giugno 1946 e alla Costituente che elaborò una Carta Costituzionale presa a modello da molti Paesi, per approdare alle prime elezioni politiche del 1948.
    Scorrevole, avvincente quanto rigoroso il saggio ci conduce in un’Italia uscita da una terribile Guerra, con sacche di miseria soprattutto al Meridione e nelle Isole e un alto livello di analfabetismo ben lontano dalla immagine oleografica che il Regime ne aveva dato. Distruzione delle infrastrutture, mancanza di tutto, borsa nera, lotta quotidiana per sbarcare il lunario, tasso di criminalità elevatissimo che vede un notevolissimo calo a partire dal 1946.
    De Luna si pone la fondamentale domanda se la Resistenza avesse fallito l’occasione storica di innovare profondamente le strutture portanti del Paese. Da lettere, documenti, memorie dei protagonisti della Resistenza tra i quali Giorgio Agosti, nome di spicco di Giustizia e Libertà di cui fu comandante partigiano, emerge lo scoramento perché, nominato Questore di Torino dopo la Liberazione, vedrà che nulla era cambiato. Lo Stato aveva ereditato dal Fascismo istituzioni, uomini, schemi mentali, comportamenti. Ma, a sua volta il Regime, mancò nel tentativo di nazionalizzare gli italiani. Si scontrò con una sorta di universo parallelo in cui la famiglia, il familismo, le comunità, la Chiesa, l’Esercito, la Corona, il Capitale giocavano un ruolo fondamentale nell’attrarre a sé e impedire che lo stesso processo di nazionalizzazione delle masse che ebbe luogo in Germania si realizzasse anche in Italia. La burocrazia statale aveva più potere del Partito. Scrive De Luna che più che di fascistizzazione si può parlare di una statalizzazione.
    Così il Paese continuò a presentare due facce, due aspetti corrispondenti a mentalità, che bene emersero anche durante l’avanzata degli Alleati da Sud a Nord. Se in Sicilia gli Americani trovarono diffidenza, a Napoli vennero accolti festosamente e sfruttati per averne favori e mercanzie da vendere al mercato nero. Ma il clima festoso nascondeva l’altra faccia della medaglia: spesso le madri portavano le figlie in dono per prostituirle. Ne La pelle Curzio Malaparte mostra lo stato di abbrutimento di parte della popolazione. A Roma saranno visti come liberatori mentre al Nord le grandi città si liberarono prima dell’arrivo degli Alleati.
    Nota dolente fu lo scempio fatto dai nordafricani al comando dei francesi. Buttati sulla Linea Gustav nella fornace ardente di Montecassino, si diedero a violenze e stupri indicibili verso donne, uomini, bambini, vecchi, perfino sacerdoti. Come non pensare a tal proposito alla straordinaria interpretazione di Sophia Loren ne La ciociara tratto dall’omonimo romanzo di Alberto Moravia?
    De Luna parla di Italia disunita che presentava notevoli differenze coincidenti, in buona parte alla classica contrapposizione Nord–Sud.
    Gli intellettuali e gli antifascisti, come Ferruccio Parri, Ernesto Rossi, Gaetano Salvemini, Emilio Lussu, solo per citare qualche nome, si trovavano davanti a una realtà non facile ma erano animati da profondo spirito patriottico e si impegnarono a fondo, ognuno nel suo ambito per creare un’Italia democratica e libera. Il 21 giugno 1945 fu varato il governo della Liberazione con a capo Ferruccio Parri esponente di spicco del Partito d’Azione. Tutti erano consapevoli delle difficoltà e delle responsabilità ma nutrivano un fortissimo senso di responsabilità e alta idealità. Secondo gli studiosi quel governo sarebbe un interludio in una fase di normalizzazione che, con la Guerra Fredda, sarebbe giunto alla dicotomia tra forze cattoliche dominanti e i partiti di Sinistra che sarebbero rimasti emarginati dal governo del Paese. Parri si pose in una condizione di garante super partes, capo di un governo che avrebbe garantito anche coloro che non avevano le sue idee.
    In un clima molto effervescente, un continuo dibattito, si giunse finalmente al 2 Giugno 1946. L’Italia disunita affluì ai seggi col 90% degli aventi diritto. Per la prima volta si votava a suffragio universale e le donne, che tanta parte avevano avuto durante la guerra e la Resistenza, per la prima volta. Si elessero i rappresentanti alla Costituente e si scelse per il Referendum sulla forma statuale: Monarchia o Repubblica. Come sappiamo vinse la Repubblica. Fu proprio in quell’occasione che si ebbe il primo riscontro di preferenze ai partiti e la nascita della repubblica dei partiti. Sin dal voto per la Costituente emerse prepotentemente la DC seguita dal PSIUP e dal PCI. Il Partito Repubblicano conseguiva il 4,4% e il Partito d’Azione l’1,5%. I partiti emergevano dopo vent’anni di Regime e acquistavano una visibile fisionomia. Un vero terremoto, lo definisce De Luna, non solo politico ma, aggiungerei, sociale e culturale. L’Autore analizza gli aspetti di questo avvenimento come la nascita di partiti di massa e dei prodromi della partitocrazia che, mi permetto, col tempo finirà per isterilire il dibattito politico e soprattutto svuotare di senso e di rappresentatività le istituzioni della Repubblica. Egli tratta vividamente, dando voce a protagonisti e comprimari, delle vicende politiche e civili dell’Italia nei primi tre anni della Repubblica. E così si giunge alle elezioni politiche del 18 Aprile 1948. Dopo una campagna elettorale infuocata che vide l’intervento del clero dai pulpiti e il Papa Pio XII schierarsi contro il Fronte che riuniva Comunisti e Socialisti e a favore della DC si ebbe la vittoria, che avrebbe segnato profondamente la storia del nostro Paese, della Democrazia Cristiana.
    Il 14 Luglio ci fu l’attentato a Togliatti cui De Luna dedica una approfondita analisi.
    Saggio denso, scritto come un romanzo, sottolinea Sabino Cassese, nella parte finale mette a confronto le Italie che finiscono e quelle che cominciano. Ed ecco il boom economico che fa terminare l’Italia immortalata da Visconti ne La terra trema ancora come fossilizzata quasi ai tempi dei Malavoglia.

    Conclude De Luna sottolineando come con la Costituzione avessero vinto i partiti della Resistenza e, citando Calamandrei, la Costituzione è la Carta della propria libertà, la carta per ciascuno di noi della propria dignità di uomo. Infine, scrive, i partigiani, gli uomini in armi, erano diventati elettori, ed erano restati uomini, proponendo direttamente il proprio vissuto come l’elemento indispensabile “perché la libertà e la giustizia potessero essere scritte su quella Carta”. 

  • INTERNATO AD AUSCHWITZ
    EDITORE A FIRENZE

    data: 14/05/2019 14:52

    Daniel Vogelmann, fondatore della Casa editrice Giuntina, ha scritto la delicata e dolente Piccola autobiografia di mio padre da lasciare in dono alle nipotine e non solo. Lo ha fatto basandosi su ciò che sapeva della vita del padre Schulim, ebreo polacco trapiantato, dopo tante peripezie durante gli anni del Fascismo, a Firenze. Poiché Schulim aveva intenzione di scrivere la sua vicenda, emblematica della condizione del popolo ebraico in quegli anni terribili per l’umanità tutta, senza riuscire a realizzarla, il figlio Daniel ha idealmente raccolto il testimone per dare voce al padre e a chi non ha potuto testimoniare.
    Nell’agile ma denso volume, presentato al Salone del Libro di Torino, è racchiusa una vita, tante vite. Gli affetti, anche i più importanti, sono evocati con semplicità e una sorta di pudore, con sensibilità e leggerezza eal tempo stesso profondità da cui emerge l’importanza dei valori della famiglia, del lavoro, della religione. Narra della nascita di Schulim su un treno che da Tarnopol città nella Galizia orientale, in Polonia - ma in quell’anno 1903 faceva ancora parte dell’Impero austro-ungarico - li conduceva, in fuga da un incendio (forse un pogrom? Non viene spiegato) verso la città di Przemyslany, dove risiedeva la famiglia della madre.
    Era il 28 aprile 1903. La famiglia era composta dal padre Nahum, la madre Sissel Pfeffer, il fratello maggiore Mordechai che sarebbe diventato rabbino e la sorella Miriam. Schulim ebbe una educazione ebraica seguito dal melamed, il maestro della scuola religiosa ebraica, il cheder. Lì imparò l’ebraico, parte della Torà e le Massime dei Padri. Importante una di Samuele il Piccolo che recita quando cade il tuo nemico non ti rallegrare… che gli venne in mente sul treno per Auschwitz, dove vi era un noto ebreo fascista.
    Famiglia agiata e osservante, seguiva i dettami dell’alimentazione kashèr. Si parlava in yiddish.Venivano in Italia per le vacanze ma allo scoppio della Guerra, dato che il Fronte passava per Tarnopol, dovettero rifugiarsi a Vienna e lì la vita si fece difficile. Morì improvvisamente l’adorata mamma lasciando un vuoto incolmabile e, finita la Guerra, padre e sorella tornarono in Polonia, Mordechai andò a completare gli studi rabbinici a Zurigo e Schulim partì per la Palestina, allora sotto mandato britannico. L’addio col padre – non sai videro più - è toccante ma scritto in modo piano senza indulgere nel patetico. Le parole del padre Sii onesto! saranno sempre presenti nel cuore e nella mente di Schulim.
    Dopo varie peripezie Mordechai, ormai rabbino che avrebbe insegnato al Collegio di Firenze, lo convinse a trasferirsi nella città sull’Arno. E ciò segnerà il destino del giovane. Trovò, grazie all’interessamento del rabbino capo della Comunità ebraica di Firenze, lavoro come compositore in Tipografia, presso la famosa casa editrice Olschki fondata dall’editore omonimo. E così lavorando e praticando il nuoto, seguendo le funzioni religiose e frequentando gli amici ebrei, passò il tempo fino a che venne quello dell’amore. Schulim conobbe l’adorata Annetta, figlia del rabbino di Torino. Sposatisi, non si lasciarono più fino a quando in seguito alle leggi razziali, allo scoppio della Guerra e all’occupazione tedesca dopo l’8 settembre 1943, un destino rio li condusse, con la piccola Sissel Emilia amatissima, nei famigerati treni con destinazione Auschwitz. Qui vennero separati. Annetta e Sissel furono condotte direttamente alle camere a gas.
    Mi interessa soffermarmi un momento sulla spiegazione che viene data dell’atteggiamento degli ebrei che, colpiti dalle leggi razziali nel 1938, si trovarono all’improvviso privati di ogni fonte di sostentamento perché scacciati dal lavoro o impediti nell’esercizio della professione. Viene sottolineato l’atteggiamento del Re e di Badoglio il 25 luglio 1943, giorno della caduta del Fascismo, con gli Alleati che erano sbarcati in Sicilia e con i quali si stava trattando per una pace separata. In quel mese di agosto – prima dell’Armistizio firmato il 3 settembre a Cassibile e della ignominiosa fuga a Brindisi dopo l’8 settembre - si sarebbe potuto fare qualcosa per mettere in salvo gli ebrei. Purtroppo non si fece niente. L’ambiguo La guerra continua non spiegava nulla e lasciava campo libero alla vendetta nazista. Gli ebrei sottostimarono il pericolo, per la presenza del Vaticano che avrebbe fatto di tutto per salvarli. Tutto sembrava impossibile, irreale, ma si ricorda nel libro che, con la retata nel Ghetto di Roma il 16 ottobre e il silenzio del Papa , il terrore si impadronì degli ebrei italiani e tutti cercarono in qualche modo di fuggire. Tutti avevano sperato che il Papa andasse alla stazione a fermare il convoglio o, prima, che al passaggio e alla sosta nei pressi del Vaticano dei camion carichi di vite egli si affacciasse alla finestra per fermare l’irrimediabile…
    Schulim e la famiglia tentarono di riparare in Svizzera ma furono fermati e, dopo varie vicissitudini, caricati al Binario 21 della Stazione di Milano su un treno. Destinazione Auschwitz. Fu nello stesso convoglio che viaggiarono Liliana Segre, nominata recentemente Senatrice a vita, e il papà che non si salverà. Si sottolinea il fatto che non si parli del viaggio, forse per una sorta di pudore. Da Auschwitz riuscì a passare, data la specializzazione come tipografo, a Plaszow, dove venivano stampate sterline false che avrebbero dovuto causare la bancarotta della Gran Bretagna. Da lì Schulim riuscì a intrufolarsi fra gli internati che lavoravano nella fabbrica di Schindler e ciò fu la sua salvezza. Al rientro seppe che Mordechai si era salvato, mentre Miriam e la famiglia erano anch’essi finiti nelle spire della Gorgone.
    Inserirsi nella vita normale fu dura, anch’egli vedrà indifferenza e, come sottolineano anche Liliana Segre e Primo Levi, rifiuto di ascoltare. E poi il senso di colpa per essersi salvato e la domanda:  Cosa abbiamo fatto per essere stati puniti? Riprenderà il lavoro alla Giuntina che poi acquisterà e ricomincerà a vivere riuscendo a crearsi una famiglia sposando una giovane vedova ebrea che aveva un bambino ed era riuscita a salvarsi nascondendosi in un convento. Con Albana avrà un bambino, Daniel, e ciò sarà fonte di immensa gioia: dopo Auschwitz avere ancora la capacità di generare un bimbo ebreo! Dopo Auschwitz aveva perso la fede ma non si era mai sentito tanto ebreo.
    Schulim morirà nel 1974.
    Daniel Vogelmann ha fondato nel 1980 la Casa editrice ebraica Giuntina che ha stampato, primo libro, La notte di ElieWiesel.
    Toccanti le poesie scritte da Daniel bambino e dedicate alla sorellina Sissel mai conosciuta. C’è come un nodo di affetti che tiene unito il libro che nella solo apparente semplicità ci pone davanti alle grandi domande della vita.

    Piccola autobiografia di mio padre scritta da Daniel è un atto d’amore per un padre che ha sempre amato la vita.         

  • MIA CARA MAMMA...
    FIRMATO SAINT-EXUPERY

    data: 10/05/2019 23:27

    Vorrei proporre, anche in concomitanza con la Festa della Mamma, una lettura per piccoli ma anche per adulti che sono stati bambini. Si tratta di una raccolta di lettere che Antoine de Saint-Exupéry scrisse – mentre era in collegio e poi al Liceo Saint Louis a Parigi – tra i dieci e diciotto anni, all’adorata madre. Ci viene presentata nella traduzione italiana di Davide Bregola che è anche il curatore, dalle Edizioni Oligo col titolo Mia cara mamma… Un libro piccolo ma prezioso per il messaggio d’amore che trasmette, per i valori che propone: la famiglia, gli affetti, l’amicizia, la lealtà, la tolleranza e gli ideali di libertà e di patriottismo.
    Meritoria proposta da parte di Oligo piccolo editore ma, come ho avuto spesso modo di notare, sono proprio gli editori piccoli e indipendenti che mossi più dall’amore per i libri che dall’imperativo categorico del mercato, presentano vere chicche, novità di qualità.
    Antoine de Saint-Exupéry, nato il 29 giugno del 1900 a Lione in una famiglia aristocratica composta da cinque figli, perse il padre precocemente e affrontò la vita con la guida amorevole della madre, Marie de Fouscolombe. Vita avventurosa da Pilota militare e civile, Saint-Exupéry fu giornalista e scrittore e anche se la sua fama è legata a Il Piccolo Principe, scritto nel 1943, vero lirico messaggio di amore per la vita e, potrei dire, manifesto di educazione sentimentale, egli ci ha lasciato altre opere e interventi giornalistici. Figura leggendaria in vita che la morte ha suggellato e nel contempo esaltato con la misteriosa scomparsa il 31 luglio 1944 durante un volo di ricognizione nel Sud della Francia occupata quando del suo aereo si persero le tracce.
    La raccolta di lettere è significativa e ci fa toccare con mano la formazione letteraria oltre che umana dell’Autore. Egli, come sottolinea il curatore Davide Bregola, rivelava già la personalità che ce lo farà amare e la passione per la scrittura che si manifestava con lettere ad amici e parenti e con racconti inviati a riviste letterarie. Esordì a 26 anni con Corriere del Sud. Le lettere sono accompagnate da schizzi e disegni dell’Autore che aveva già da piccolo la passione per il disegno, lo schizzo, la vignetta. La prima lettera è scritta a giugno del 1910 e comunica entusiasmo, passione per la scrittura e per gli strumenti della scrittura (non sta nella pelle per l’acquisto di una stilografica). Emerge un universo di affetti, lo zio che gli promette l’orologio per l’onomastico.
    Il commiato è struggente: Antoine esterna il grande desiderio di rivedere l’adorata mamma. In tutte le lettere dai dieci anni ai diciotto, si esprime struggente, con venature di lirismo, il bisogno di avere vicino la madre. Si rivela un animo gentile, affettuoso, un carattere estroverso e socievole, insomma una personalità che va formandosi ma che è già in nuce. E vi è il racconto del pellegrinaggio che diventa l’opportunità per una gita divertente in cui Antoine non si tira indietro davanti alle novità. Tutto è registrato nella sua mente e tutto lo colpisce. E la nostalgia della mamma che rimanda la visita al collegio diventa rispettoso rimprovero a colei che tanto desidera vedere.
    Lo stile cambia col tempo e con la crescita psicoaffettiva. A dieci anni esso è ancora un po’ troppo diaristico e poi va via via affinandosi ma non manca mai di rispetto e l’affetto si manifesta con spontaneità. Nelle lettere dal Liceo a Parigi a 17 anni chiede alla madre con garbo e delicatezza (e lo ripeterà in altre lettere) di scrivergli tutti i giorni. Si rivelano in queste lettere la voglia di vivere, gli entusiasmi per lo studio fecondo, la passione per lo sport, per la Natura, i progetti per il futuro, gli antagonismi tra studenti di diversi Istituti. E poi la golosità quando chiede che da casa gli inviino dolci e caramelle! Al Liceo, laico, l’Autore nota che vi sono meno credenti ma maggior rispetto umano. Gli atei rispettano le convinzioni degli altri.
    Entusiasmo, felicità, massimo della gioia e se tu fossi accanto a me sarei al Settimo Cielo. Così Antoine si accommiata dalla madre e poi Scrivimi spesso, così le tue lettere è come se fossero un po’ di te.

    Un libro toccante, per tutti, adulti e bambini, ricordando che Tutti gli adulti sono stati bambini ma pochi di loro se lo ricordano.      

  • L'EUROPA PER FERRAROTTI
    CONVIVENZA E CULTURA

    data: 23/04/2019 21:26

    Franco Ferrarotti, professore emerito di Sociologia all’Università di Roma La Sapienza, Accademico dei Lincei, primo a ricoprire una Cattedra di Sociologia in Italia, con il saggio La convivenza indispensabile (EDB), frutto di un’inesausta attività intellettuale e di una apertura ai problemi del nostro tempo, ci regala un contributo per una migliore comprensione del mondo globalizzato e sulla necessità di trovare motivi e ragioni di una convivenza pacifica tra culture e religioni differenti.
    Il saggio parte da una riflessione sulla crisi della Unione Europea rievocando le aspirazioni che animavano i politici e gli intellettuali, tra i quali Ernesto Rossi e Altiero Spinelli che scrissero nel confino fascista il famoso Manifesto di Ventotene nel quale propugnavano, come contropartita ai nazionalismi e alle dittature, l’ideale di un’Europa libera e unita, federale, sogno di una società nuova in cui avrebbe finalmente regnato la pace.
    Amico di entrambi, Ferrarotti, nel periodo in cui era parlamentare negli indipendenti di sinistra, si fece promotore di una mozione per un’Europa rinnovata che avesse trovato unione non solo economica bensì politica con una Costituzione e un esecutivo che avesse reali poteri di governo. Era il contrario dell’Europa delle Patrie che De Gaulle aveva sostenuto e che significava un arroccarsi nei propri limiti e confini. Era il 1959. La mozione di Ferrarotti apriva la via a una collaborazione tra Stati e a una vera unità politica. Impegnava il Governo a farsi portatore energico della stipulazione di un trattato che istituisse un’assemblea costituente, eletta da tutti i cittadini dei Paesi membri per l’elaborazione di una Costituzione europea in senso federalista e che sarebbe dovuta essere ratificata dal voto dei cittadini di ogni Stato.
    La mozione fu approvata a larga maggioranza ma a distanza di decenni la Costituzione è stata rigettata dal voto in Francia e Olanda e l’europeismo è in piena crisi. Euroscetticismo, sovranismo, incapacità, mi permetto, di gestire uniti anche le emergenze umanitarie (ma mi domando, non potrebbe essere un prevalere di interessi di parte?), predominio dell’asse franco tedesco, hanno finito per disaffezionare i cittadini all’Unione Europea proprio nel momento in cui ci sarebbe più bisogno di unità e collaborazione.
    Sostiene l’Autore che l’Europa è già una unione dal punto di vista culturale e sociale, nella sua lunga storia e nella storia delle idee è stata matrice dei valori di libertà,  uguaglianza e giustizia sociale. In essa si è inverato il concetto di rispetto dell’individuo quale fondamento etico della comunità. Nel suo saggio Storia dell’idea d’Europa (Laterza) il grande storico Federico Chabod delinea la formazione da comuni radici di una coscienza di appartenenza all’Europa fin dal Medioevo. E’ col Rinascimento che emerge l’individuo cui l’Illuminismo, scrive Ferrarotti, garantirà la libertà di pensiero, di parola e di stampa. Fondamentali sono per l’Autore le radici cristiane dell’Europa. Ma la forza dell’Europa sta anche non solo nelle idee comuni ma nel patrimonio di diversità, di apertura verso il nuovo, nella speculazione filosofica e scientifica, l’essere crogiuolo di culture. Da qui si deve partire, secondo Ferrarotti, per creare un’Europa del domani, amalgama di tradizioni che tutte le esalta e comprende. L’Autore sostiene l’importanza del multilinguismo che non è sinonimo di confusione bensì, come dimostrato dal progetto Erasmus di scambi interculturali tra atenei di tutta la UE, rappresenta un serbatoio di diversità. Ma questa Europa sempre più multilingue, multietnica e multiculturale è coesa e articolata, forte delle sue diversità.
    Dalla attuale crisi si può ricavare una lezione che è data dalla manifestazione degli elementi di crisi. La crisi viene da krino (divido, separo), quindi lacerazione ma anche rivelazione. Mipermetto di sottolineare l’aspetto dialettico di questo processo. L’eurocentrismo nel mondo globalizzato è superato. Viviamo in un mondo policentrico o come dice Ferrarotti, a – centrato. La globalizzazione inoltre che sembrerebbe universalizzare il modello europeo, impiantando in tutto il mondo centri di produzione europea finisce per causarne la fine. Finiti i due Blocchi retaggio della Guerra Fredda, ora si assiste a un periodo di transizione epocale. Oggi sono compresenti in una prospettiva sincronica tutte le culture attive e vive nel piano planetario. Tutto ciò significa che ogni gruppo umano produce cultura in senso socio – antropologico; ogni cultura ha pari dignità; consapevolezza che identità e alterità sono concetti correlativi. Il concetto di cultura va più che mai inteso in senso antropologico nel senso di modi di vita e valori condivisi, in tal modo si manifesta la capacità di includere.
    Per concludere Ferrarotti esamina il mondo islamico e gli apporti che la cultura araba ha fornito alla scienza, alla matematica, alla filosofia europee. Parlando di immigrazione egli sostiene che sono gli appartenenti alla seconda e terza generazione di immigrati, quelli cioè che sono nati in Europa a non accettare una società che non li fa sentire inclusi e a voler rivendicare le proprie radici. Fondamentale in questo conflitto è l’importanza del dialogo, della ricerca di un modo di convivere. Da un lato abbiamo l’eurocentrismo cui si contrappone il fondamentalismo islamico. Sostiene Ferrarotti che si debba non cedere a pregiudizi e stereotipi. E’ necessario imparare ad essere abitanti del villaggio globale e contemporaneamente cittadini del mondo.          
    Dopo aver considerato la complessità della situazione geopolitica attuale e aver propugnato la necessità di dialogo e interazione tra culture Ferrarotti sostiene ancora l’importanza di imparare a convivere accettando la regola che tutti gli esseri umani devono essere per ciò accettati.
    I valori per la formazione di una coscienza europea inclusiva sono per Ferrarotti: valore dell’individuo; solo in occidente si è avuto lo sviluppo scientifico e tecnologico ma la tecnologia finisce per essere utilizzata per indicare valori finali e non strumentali; il cristianesimo ha avuto la funzione di valorizzare il lavoro libero nei confronti della schiavitù della gleba.
    E’ il riconoscimento dell’universalità della cultura a sradicare dalla base qualsiasi fondamentalismo.
    Ferrarotti sostiene che solo attraverso il dialogo tra religioni e culture sarà possibile trovare un modo di convivere senza pregiudizi e odio. D’altra parte sostiene che non ci sia una religione che abbia il primato sulle altre. L’accettazione e la convivenza tra culture e religioni diverse attraverso il concetto di co-tradizioni culturali, conclude l’Autore in questo magistrale saggio, possono aprire una via d’uscita dalle contraddizioni che pesano sulla vita quotidiana dell’umanità segnandone duramente il destino.

        

  • COME NACQUE IL ROTARY
    DAL LIBRO AL TEATRO

    data: 07/04/2019 17:45

    Nella pièce Succedeva a Chicago in una fredda sera d’inverno, scritta da Giuseppe Marchetti Tricamo che, con la Compagnia Ad Hoc - debutterà in prima nazionale il 6 maggio alle ore 20:30 al Teatro Manzoni di Roma (ma si potrà leggere: il libro è edito da Ibiskos – Ulivieri) - si rappresenta magistralmente in forma poetica e appassionata, la vicenda del giovane avvocato Paul Harris e dei suoi amici che il 23 febbraio 1905 diedero vita a Chicago, sulle rive del lago Michigan, al Rotary, importantissima organizzazione filantropica che si è diffusa in tutto il mondo entrando a far parte del Consiglio delle Nazioni Unite.
    Assistiamo, nel susseguirsi dei quadri e delle scene, con in sottofondo lo swing della tromba di Buddy Bolden, il sapiente uso dei chiaroscuri, le luci soffuse, l’emergere dei protagonisti dal fondo verso il proscenio, al vivace dialogo e le varie fasi dell’elaborazione dell’idea, fino al suo inverarsi quando, a fine rappresentazione Paul e Jean Thomson, sua moglie, ormai anziani, ripercorreranno le tappe di un viaggio lungo un sogno. Anzi, proprio la prima scena vede Jean sola in una stanza illuminata, nella casa di Comely Bank sulle colline di Chicago, ricordare ed ella rimane poi in penombra quando entrano in scena i quattro amici. Mi pare, oserei, che l’Autore abbia sottolineato in tal modo l’importanza del ruolo della compagna di una vita di Paul Harris e quella di tutte le donne che, pur profondendo tante energie, non poterono entrare ufficialmente nel Rotary fino agli anni Settanta.
    Composta di sette scene la pièce ci mostra l’ambiente americano in cui i protagonisti si muovono. La Chicago trasformatasi in pochi anni da poco più che un paese in una metropoli industriale e mercantile, nella quale fu costruito il primo grattacielo, che doveva fare i conti con il gangsterismo portato dal flusso immigratorio soprattutto di origine italiana. Tutti gli amici si lamentano del venir meno, con la crescita incontrollata della città, dei valori di solidarietà, di umanità, amicizia, vicinato in un vivere frenetico indifferente e con tanta povertà. Harris sostiene che non si debba fare l’elemosina a chi non ha mezzi, bensì cercare di aiutarlo perché riesca a prendere in mano la propria vita. L’umanesimo propugnato da Harris, il valore dei rapporti umani e dell’amicizia, sarà questa una delle basi di fondo di tutti i Rotariani che oltre l’impegno in campo sociale, morale, li ha visti occuparsi nella campagna di eradicazione della polio e nel Terzo Mondo – ma non solo – combattere la denutrizione, la carestia e le tante malattie frutto della povertà.
    La pièce evidenzia con tocco lieve e al tempo stesso fortemente icastico, le similitudini di quei tempi col nostro presente. Gli Stati Uniti che dovevano fare i conti con una immigrazione da tutto il mondo che portava anche gli italiani a volere la merica. Così Paul Harris e i suoi amici discutono dell’arrivo a Ellis Island e dell’attesa cui dovevano sottostare i migranti. E la statua della Libertà con i sette raggi del Sole sul capo, allegoria della diffusione della Libertà nei sette mari del mondo, in mano la Dichiarazione d’indipendenza, le catene spezzate. Paul racconta della sua difficile vita fatta di fatica e lavoro e solo alla morte del nonno adorato decise di studiare mantenendosi agli studi con mille lavori.
    Gli amici si rifanno a Jefferson secondo il quale tutti gli uomini sono creati liberi e uguali, espressione di quella religione civile che dà un senso di appartenenza alla Nazione Americana.
    Essi vogliono lottare contro le diseguaglianze, l’indifferenza, lo schiavismo e l’oppressione dell’uomo sull’uomo, le discriminazioni e qualunque forma di esclusione. Paul sostiene che ci si debba sostenere reciprocamente con amicizia e onestà manifestando queste qualità nell’ambito del lavoro. Egli si rifà anche al grande poeta Emerson che scriveva che l’unico modo per avere un amico è essere amico.
    Ma Paul non è l’unico saggio della “compagnia”: c’è anche Harry che afferma che bisogna saper guardare oltre i confini della propria casa, del proprio Paese, per trasmettere sentimenti di pace, di speranza, di gioia, di bellezza della vita.
    Così, in quella fredda sera di Chicago, è cominciata la storia.
    L’Autore nel finale fa dire a Jean che è il presente che ha fatto e farà sempre la Storia, anche quella del Rotary.
    Nel libro la pièce è introdotta magistralmente da Massimo Teodori che sottolinea le capacità dell’Autore.
    La pièce è molto ben strutturata, sia nella scelta dei tempi che dei dialoghi e rende l’entusiasmo dei protagonisti che si avviano verso un’avventura straordinaria. L’inizio e la conclusione sono affidate a Jean, protagonista donna e espressione di capacità introspettiva e sensibilità particolarmente acute.

    In questi particolari vedo un omaggio a tutte le donne, non posso che essere grata all’Autore.  

  • LA STORIA DELLE PAROLE
    PER CAPIRE IL MONDO

    data: 31/03/2019 14:39

    Marco Balzano (Milano 1978) scrittore pluripremiato, Premio Campiello per L’ultimo arrivato, finalista al Premio Strega con Resto qui, insegnante, con il recentissimo Le parole sono importanti (Einaudi) ha affrontato il tema delle parole dal punto di vista etimologico rivelando un universo di contenuti e significativasto e variegato, aperto alla conoscenza che ci fornisce la Weltanschauung non solo dell’Autore ma ci prospetta una possibile, personale visione del mondo.

    Le parole hanno una loro storia dovuta a contatti tra Popoli e Lingue, a dinamiche di cui la Filologia ci rende consapevoli mettendo in evidenza le influenze linguistiche con gli influssi del sostrato (la Lingua originaria) e dell’adstrato (quella che si sovrappone ad esempio in seguito a conquiste da parte di altri popoli) dando luogo a una sorta di meltingpot dell’Antichità che le rende sfaccettate e polisemiche.

    Balzano, ricordando un episodio del Liceo quando il docente di Latino, in un momento in cui si attendeva il suono della campanella per uscire rivelò che homo halastessaradicedi humus e ciò risvegliò l’attenzione degli studenti, ritiene che smontare una parola sottoponendola a un’indagine diacronica, renda la pienezza del significato e che si dovrebbe nelle scuole dedicare spazio alla linguistica e allo scavo etimologico perché fornisce capacità di comprensione delle cose e del mondo che ci circonda sviluppando le capacità critiche. Egli sostiene che la degradazione personale o nazionale, come riteneva De Maistre, si rivela a livello della lingua e per Benjamin il livello più basso della lingua è il semplice scambio di informazioni, a maggior ragione l’etimologia è un’importante arma contro la decadenza.
    L’Autore sceglie dieci parole di uso comune ma significative della sua visione del mondo e le sottopone ad analisi etimologica, ci racconta la loro storia e ci fornisce uno strumento di lettura della realtà sociale, politica, che ci circonda. Tra esse  appunterò l’attenzione su alcune in particolare lasciando al lettore il piacere della scoperta in una sorta di archeologia del sapere per citare Foucault.
    Mi permetto una digressione a proposito della parola humus corradicale di homo. Se l’uomo, il primo Uomo, Adamo, fu creato da Dio dal fango, in sostanza potrebbe essere dall’humus, una manciata di succo di terra cui Dio insufflò la vita. Homo ed humus allora si identificherebbero come la Genesi ancora dice (memento mori) ricordati uomo che polvere sei e in polvere ritornerai.

    Tra le parole che mi hanno colpito vi è il termine confine che suggerisce l’idea di qualcosa di invalicabile come una barriera e particolarmente attuale. Il termine latino che più si avvicina a questo concetto è il limes che era originariamente il limite del campo tracciato anche con delle pietre di confine. Il termine in uso militare significava limite invalicabile e il limes perantonomasiaeraquellotra il mondo romano e l’universo barbarico. Balzano però appunta l’attenzione sul termine limen, soglia, inizio. Il limen è la soglia che Ulisse superò con i compagni nel folle volo oltre le Colonne d’Ercole verso l’ignoto ed il proibito. Limen è anche la siepe leopardiana che dell’ultimo orizzonte il guardo esclude e che il Poeta oltrepassa annegando nell’infinito mare dell’essere.

    Confine si esprime anche con cum e finis. Finis significa fine e anche il fine. Luogo dove si finisce insieme. Ci si incontra e si va oltre quel limes invalicabile. Confine, frontiera, quindi dove si incontra l’altro da noi, lo si guarda di fronte, ci si riconosce, dice Balzano, guardandoci negli occhi. 
    Ma si parla anche di Felicità, Social, Memoria, Fiducia, Scuola di cui si critica il considerarla, da parte dei Politici, secondo una concezione aziendale, propedeutica al lavoro riducendo sempre più la vocazione educativa da e-ducere, portare fuori da uno stato inferiore a uno superiore. Forse traslato potrebbe intendersi anche come portare fuori ciò che c’è dentro di noi, il meglio di sé. Concludo sottolineando con l’Autore che la scuola a Roma e ad Atene era considerata luogo di educazione ma anche di divertimento (ludus), imparare divertendosi. L’educazione coinvolgeva mente e corpo in una immersione totale.
    Un saggio avvincente, chiaro, scritto con passione e attenzione all’uso della parola giusta al posto giusto. C’è anche Parola tra i termini scelti e devo dire che c’è bisogno, in questi tempi di parole in libertà, di una profonda riflessione al riguardo. Il saggio di Balzano è fortemente significativo, scritto da docente che sa comunicare e divulgare e da scrittore che deve soppesare ma anche da critico della nostra società. Un importante apporto per la comprensione della realtà in cui siamo immersi.

  • VOLGARE ELOQUENZA

    data: 05/03/2019 11:59

    Giuseppe Antonelli, docente di Storia della lingua italiana all’Università di Cassino, nel saggio Volgare eloquenza – Come le parole hanno paralizzato la politica – (Laterza), ci fornisce una chiave di lettura della situazione politica e sociale del nostro Paese basata sui meccanismi della comunicazione e dei media ormai protagonisti della scena politica. L’Autore con un linguaggio chiaro ma non semplicistico, da vero divulgatore, ci mostra i mutamenti intervenuti nella lingua dei politici a cominciare, nel gennaio 1994, con la discesa in campo di Berlusconi che, rifiutando il cosiddetto politichese, lingua per iniziati di difficile decifrazione, usò per primo un linguaggio semplice fatto di frasi brevi e ad effetto, apparendo tranquillizzante e vicino alla gente. Fu il primo nella nostra Repubblica a fare populismo, rivolgendosi, dice Antonelli, alla pancia della gente. Così il partito del popolo (della Sinistra e della Dc) divenne il partito della gente o meglio, poiché il termine partito faceva tanto Prima Repubblica col corollario di partito dei giudici e l’aborrita partitocrazia, il movimento Forza Italia. Mutuando il termine dal mondo del calcio introduce nella politica gioco di squadra, squadra di governo, tutta una serie di neologismi. Egli si presenta come portatore di un miracolo, segno dell’unzione divina. Ma, sostiene Antonelli, dietro questo modo di porsi c’è lo studio della comunicazione – il Cavaliere possiede un impero mediatico – e dei messaggi ad hoc. A tal proposito è illuminante il saggio che Umberto Eco scrisse nel lontano 1961 e dal titolo Fenomenologia di Mike Bongiorno. Eco mise in evidenza il modo di presentarsi del conduttore come un uomo qualunque, ignorante, distratto, dalle famose gaffes intenzionali e lo definì un everyman. Quella apparente mediocrità rendeva Mike simile ai telespettatori, uno di noi, nel quale potersi specchiare rasserenati e catturati. Sostiene Antonelli che il modello cui si ispirò Berlusconi fu proprio il celebre Mike che aveva funto da apripista nella comunicazione televisiva. Dal fatidico 1994 si sono alzati i toni dello scontro politico e ciò ha determinato l’attuale alto tasso di aggressività con linguaggio rissoso e uso di espressioni scurrili che, sostiene l’Autore, portano i seguaci a comportarsi di conseguenza. In particolare si mette in evidenza il turpiloquio di Grillo fondatore del Movimento Cinque Stelle. Ciò, nota Antonelli, era presente già negli spettacoli del comico in piena Tangentopoli ed esprimevano rabbia e una visione apocalittica. Gli elementi c’erano tutti, mancava un vettore che mutatis mutandi si è materializzato nella rete e nelle possibilità illimitate di comunicare. Ma condividere non significa confronto democratico, democrazia. La libertà è partecipazione diceva Giorgio Gaber, confronto, dialogo, uscire, incontrare altri, discutere, partecipare, appunto, mentre si finisce per banalizzare le questioni cui si deve far fronte. E ciò è acuito dallo spostamento del dibattito politico nell’ambito della chiacchiera televisiva nei talk show, e poi nei blog, social network e chat. Dice Antonelli che si è passati alla politica raccontata, all’affabulazione e quindi, cita il famoso psicologo Matte Blanco, all’ambito onirico, quindi al livello, direi subliminale. E’ la politica al tempo dello storytelling, tutto deve essere raccontato ma le parole che si condividono diventano pesanti ma perdono il loro peso specifico allontanandosi dalla concretezza dei fatti, diventano parole senza cose. Ciò non accade solo in Italia, viene meno il dibattito politico, pensiamo a Trump e al suo modo di esprimersi elementare e fatto di slogan. La democrazia richiede degli organi rappresentativi che devono confrontarsi in base al mandato popolare. Saltare questa fase, delegittimare il Parlamento per avere per unico interlocutore il popolo significa passare dalla democrazia alla demagogia, al populismo. Ma non pensiamo che il populismo sia appannaggio di Grillo, Salvini, quanto anche di ciò che resta del Centrodestra e Centrosinistra.             
    Perché parlare di volgare eloquenza? Volgare deriva da vulgus (popolo inlatino)e quindi lingua parlata, popolare. Si dice infatti riferendoci alle prime attestazioni della lingua italiana volgare e Dante scrisse il De vulgari eloquentia perché si desse dignità di lingua scritta al volgare. In questo caso l’eloquenza di cui parla il saggio è proprio volgare nel senso dispregiativo. E’ una lingua paternalista e antipedagogica, dice l’Autore. E così dal politichese si è passati al gentese.
    Ma mi soffermerei su un aspetto fondamentale del passaggio dal politichese al nuovo linguaggio. Snodo chiave è la crisi dei partiti tradizionali con Tangentopoli e la discesa in campo di Berlusconi. Il nuovo che avanza è portatore di un linguaggio diverso ma si rivolge, abbiamo visto, a nuove categorie di elettori che non rispecchiano più quelle identitarie tradizionali. Il discorso della discesa in campo di Berlusconi il 26 gennaio 1994 segna lo spartiacque tra un prima e un dopo. Berlusconi utilizza le categorie del marketing politico. La politica si rivolge agli elettori attagliando il linguaggio a quello dei destinatari. Non c’è più, in apparenza, un’aura di superiorità da parte dei politici, si passa perciò sostiene Antonelli, dal paradigma della superiorità al paradigma del rispecchiamento. Quest’ultimo cela i meccanismi di persuasione messi in atto adottando un linguaggio discorsivo e confidenziale. La cultura viene disprezzata, tale malapianta è cresciuta a dismisura e assistiamo a un’esaltazione dell’ignoranza, del turpiloquio, a un’involuzione culturale e sociale. Ora, dice l’Autore, si è passati al votami perché parlo (male) come te. Il cosiddetto mirroring (rispecchiamento) è un fenomeno psicologico per cui si tende a dare fiducia a chi si presenta simile a noi nei gesti e nelle parole ed è ciò che si è verificato in ambito politico e nel linguaggio non solo nel nostro Paese.
    Il politichese, tanto biasimato sin dagli anni Ottanta, è un linguaggio della politica – una sorta di lingua nella lingua – oscuro e fumoso che dice per non dire, bisognava cercare di interpretare ed era come per iniziati. Ora si è passati al politicoso, dice Antonelli, cioè il linguaggio elementare, ricco di parolacce, sgrammaticato, fatto di affabulazioni. Anche la politica è passata da politicante a politicosa, sempre più tronfia di sé. Manca un vero progetto politico, un insieme di proposte e di programmi. Il posto della narrazione deve essere preso dalla visione del futuro del Paese, dal volere il bene della nostra bistrattata Italia.
    Il saggio è molto articolato, permette di comprendere appieno la difficile situazione che stiamo vivendo e di leggere i mutamenti velocissimi che i media stanno determinando nella nostra vita e nel sistema politico.
    L’Autore conclude: perché non spostare la nozione di chiarezza dalla forma al contenuto? Perché non rendere la linearità espressiva frutto di chiarezza di idee e pensiero? L’elaborazione di un nuovo linguaggio è impossibile senza l’elaborazione di un progetto politico innovativo. Rem tene, media sequentur.

  • A COME ARCHEOLOGIA

    data: 24/02/2019 18:23

    Andrea Augenti, docente di Archeologia medioevale all’Università di Bologna, in A come Archeologia (Carocci), saggio divulgativo accurato e rigoroso e al tempo stesso chiaro e appassionante, ci guida alla scoperta di luoghi ma anche di grandi figure che hanno segnato la storia e delineato l’evoluzione del metodo e di una Disciplina che, lungi dallo stereotipo di Indiana Jones, è fatta di passione, studio, lavoro in biblioteca e sul campo. In questo prezioso volume, tratto dalla trasmissione Dalla terra alla storia, da lui condotta su Rai Radio 3 con grande successo di ascolti, l’Autore con mano sicura ci presenta dieci grandi scoperte archeologiche mostrandoci passo passo le peculiarità di ciascuna e permettendoci di seguire i mutamenti nel porsi, da parte degli studiosi, di fronte all’oggetto della loro ricerca evidenziando una crescita della sensibilità e l’utilizzo di mezzi sempre più ad hoc di pari passo con lo sviluppo della tecnologia.
    Augenti segue dei filoni, il tema delle origini con Lucy e Ötzi, l’archeologia funeraria, come non far riferimento a Tutankhamon e all’esercito di terracotta di Xi’an? E poi le città e civiltà scomparse (Ebla, Troia, Roma, ecc.). Egli è andato delineando le personalità degli scopritori: da Schliemann e Carter, alle innovazioni di Matthiae, Carandini e Manacorda. Il tutto scritto in modo appassionante da vero amante dell’Archeologia che, lungi dall’essere una caccia al tesoro, offre la possibilità di viaggiare nel tempo e immaginare la vita, la mentalità, gli usi e i costumi di uomini vissuti migliaia d’anni fa in una ricerca infinita perché infinite sono ancora le scoperte da fare, le antichità sepolte dalla polvere dei secoli che attendono, queste sì veri tesori, di essere riportate alla luce.
    Si parte dalla scoperta destinata a retrodatare la comparsa dei nostri antenati bipedi in una zona particolarmente ricca di testimonianze fossili. Nel 1972 la National Geographic Society finanzia delle ricerche paleoantropologiche nella regione dell’Afar, nell’Africa orientale tra Etiopia, Eritrea, a Nord-Est di Addis Abeba. Per fenomeni geomorfologici e climatici la regione ha conservato, a cielo aperto, lo strato fossile primordiale e si possono scoprire così ossa fossili senza scavare. Molti studiosi si avventurano e vengono casualmente in contatto con una tibia di quello che verrà denominato Australopithecus Afarensis, un ominide bipede risalente a 3 milioni di anni. Ma il bello deve ancora venire. Il 30 novembre 1974 i paleontologi Johanson e Gray si imbattono in Lucy, l’Australopitecina nostra antenata, perfettamente bipede, più famosa: 3.200.000 anni. La conquista della posizione eretta permette l’uso degli arti superiori e quindi l’utilizzo di oggetti e costituisce un salto nella evoluzione delle capacità cerebrali. Lucy prenderà il nome dalla famosa canzone dei Beatles Lucy in the sky with diamonds tormentone ascoltato dagli studiosi in quelle giornate di straordinarie emozioni. Scene di giubilo accompagnarono quella scoperta che fece il giro del mondo. Tanti sacrifici, studi meticolosi per giungere a tali risultati quasi casuali. Il più antico Australopiteco il cui bipedismo è in dubbio è Ardi, anch’essa una femmina che risale a 4.400.000 anni fa.
    Ma vorrei soffermarmi sulla scoperta di una civiltà ad opera di un grandissimo archeologo italiano. E’ la storia di Paolo Matthiae e di una città scomparsa: Ebla. Matthiae si reca nel1962, a 22 anni, ad Aleppo, Siria, per effettuare dei sopralluoghi. Al Museo archeologico della Città è messo sull’avviso da un reperto raro, un bacino in basalto costituito da due vasche affiancate con raffigurazioni di guerrieri e teste di leone. Un oggetto rituale. La datazione non è esatta, Matthiae chiede il nome del sito di ritrovamento. Si tratta di una collina a 55 chilometri da Aleppo chiamata Tell Mardikh. Da questa intuizione Matthiae vedrà segnata la vita e la sua carriera di archeologo portando a compimento – ma in Archeologia mai tutto è compiuto – un’impresa tra le più importanti dell’Archeologia orientale grazie al fondamentale apporto italiano. Si scopre una città a pianta romboidale con al centro un’acropoli. Si dubita da subito possa trattarsi di Ebla, città – Stato potentissima del III e II millennio a.C. Dagli scavi emergono iscrizioni tarde che nominano Sargon, Sovrano di Akkad, e la città risulta oggetto di conquista. Sarà nel 1968 la scoperta decisiva che fornirà la prova provata che si tratti di Ebla. Si tratta di una statua in basalto che reca inciso il nome di un re della stirpe di Ebla.
    Dai primi brandelli, lacerti di passato, emergono vestigia che permettono di ricostruire la vita, lo splendore, la storia della Città e degli uomini che vi vissero. Il primo insediamento risale tra il 3500 e il 3000 a.C. Ebla vive dal 2400 al1600 a.C. La Città diventa ben presto florida e snodo fondamentale di traffici: vengono ritrovati 40 chili di lapislazzuli provenienti dall’Afghanistan, oggetti provenienti dall’Egitto e da luoghi più lontani. Ebla ha il monopolio su prodotti di lusso: vesti, tessuti, gioielli, mobili. La Città, posta tra le vie che conducono all’Eufrate e al Mediterraneo, occupa una posizione strategica di controllo dei traffici fra Asia e Africa e rappresenta un’insidia per i Fenici di Biblo e per la città di Mari, sull’Eufrate. Fornita di mura, Ebla è molto estesa e possiede sull’acropoli un Palazzo reale e residenze dei notabili della città. Sono state ritrovate una dea madre nel santuario e altri tre santuari di divinità maschili. Ebla subisce varie distruzioni, di cui la prima nel 2260 a.C., ad opera del re Sargon di Akkad, fondatore del primo impero mesopotamico. Successivamente un incendio la offenderà ma attorno al 2000 conoscerà una nuova fioritura come facente parte di un regno che occupa tutta la Mesopotamia, con a capo i re di Ur. La città era ricchissima e in essa si moltiplicavano i centri del potere. Tante sono le meraviglie che Ebla svela ai suoi visitatori e agli archeologi che hanno continuato, fino al 2010, a scavare con passione, entusiasmo sete di conoscenza, coraggio. La scoperta più elettrizzante è stata nel 1974 un archivio di tavolette d’argilla – 17000 tra intere e frammenti – in scrittura cuneiforme. Si tratta di scrittura in una Lingua semitica allora sconosciuta ma che Matthiae definirà terza Lingua scritta dopo il cuneiforme sumerico e i geroglifici egiziani. Definitivamente distrutta dagli Ittiti nel 1600 a.C. non verrà mai abbandonata del tutto. Ciò, sostiene Augenti, si è verificato solo a Pompei, Città unica, rimasta cristallizzata nel momento dell’eruzione.
    Ora, in pieno teatro di guerra, Ebla ha subito sottrazioni e danneggiamenti, come Palmira che ha visto il suo scopritore ucciso mentre cercava di difenderla. Grande è il dolore per le vittime innocenti e per i capolavori inestimabili, le vestigia del passato.
    Scrive Augenti: la forza del passato è enorme, davvero indistruttibile. Agli archeologi il compito di recuperarla e raccontarla con passione.
     

  • IL LE CORBUSIER ITALIANO

    data: 11/02/2019 08:22

    Giuseppe Terragni (1904–1943), comasco, nome di spicco dell’architettura italiana, ha rappresentato -  in un momento in cui prevaleva un generale ritorno all’ordine e nei regimi totalitari il classicismo dalle forme piene e i materiali tradizionali (come in Italia rappresentato da Piacentini che si espresse, facendo da modello, nel Palazzo di Giustizia di Milano) - un percorso controcorrente che si riallacciava al razionalismo internazionale rappresentato in particolar modo da Le Corbusier, Gropius, il Bauhaus.
    L’Ottocento si chiuse con una sorta di eclettismo degli stili in cui si trovano elementi che richiamano il gotico e il neorinascimentale. Essi trapasseranno nell’Art Nouveau, floreale e dalle linee voluttuose, stilizzate e sinuose con pampini, tralci di frutti, cascate di fiori. Celebri i gazebo della Metro parigina. Ogni nazione declinerà una variante propria in Italia il Liberty, e poi la Secessione viennese con le composizioni di Gustav Klimt: Le tre età della donna, Il bacio, L’abbraccio e il progetto di Opera d’arte totale in cui i minimi dettagli interni ed esterni, rifiniture sono curatissimi e tutte le Arti concorrono a attuare l’idea. Il Modernismo di Antoni Gaudì sembra costruire con la sabbia. Le case paiono smaterializzarsi nelle loro facciate, creazioni fantastiche, linee sinuose. Casa Battlò, Parco Guell, per non parlare dell’apoteosi incompiuta della Sagrada Familia. Tutto sembra concrezionato, vivente una vita propria. Barcellona ispirerà molti romanzieri: da Manuel Vasquez Montalban a Luis Zafòn, ma prima George Orwell, Omaggio alla Catalogna.
    Il secolo si chiude, come una preveggenza di orrori futuri, su l’Urlo di Munch. La sinuosità, anche qui, dei colori in fiamme da cui emerge solo una bocca che mostra un abisso di buio, mentre intorno tutto è come fuso, come magma incandescente e domina l’angoscia dell’esistere. Già preannuncia l’Espressionismo.
    Prima della Grande Guerra furono le Avanguardie, in primo luogo il Futurismo, a influenzare l’arte, l’architettura e la letteratura.
    I futuristi, attaccando il vecchiume passatista, furono accesi interventisti giungendo con Marinetti a definire la guerra sola igiene del mondo. La sperimentazione di stili, di oggetti, delle pitture che dovevano esprimere il movimento, il dinamismo, la macchina, l’aereo, tutto si proiettava verso il futuro. Pensiamo a Boccioni e ai suoi cavalli imbizzarriti o a Balla e la lampadina accesa nel colore scomposto per rendere il movimento. L’Architettura fu influenzata dal Futurismo, basti pensare a Sant’Elia visionario che progettò una città futurista e altro portati a termine da Terragni perché morì in guerra.
    In tale clima si forma la personalità artistica di Terragni che dal 1926 comincerà a progettare portando a termine il Monumento ai Caduti sul Lungolago di Como progettato da Sant’Elia. Così farà per l’Asilo Sant’Elia. Rifacendosi ai modelli di Le Corbusier  e delle avanguardie, il razionalismo propugnava la linearità delle forme, la simmetria, la leggerezza, l’economia, la funzionalità, l’uso del cemento e del vetro, l’equilibrio di vuoti e pieni, l’inserimento della costruzione nello spazio. Terragni farà propri tali principi coniugandoli col classicismo di Novecento e declinandoli da dar forma al cosiddetto razionalismo lariano. Ciò culminerà nella Casa del Fascio di Como (1932–1936). In essa, lieve nelle forme, l’equilibrio è perfetto. Tutto è studiato da costruire un prisma. L’uso del vetro dà luminosità e interno ed esterno si compenetrano in un tutto organico. Tutti i particolari sono progettati ad hoc da costituire un’opera d’arte totale.        

  • ROTH, PERCHE' SCRIVERE?

    data: 04/01/2019 16:25

    Perché scrivere? - ultimo recentissimo volume che conclude la pubblicazione dell’Opera omnia di Philip Roth, edita da Einaudi - contiene scritti, saggi, conversazioni (dal 1960 al 2013) con altri amici scrittori, tra i quali Primo Levi, Milan Kundera, Aharon Appelfeld. E’ un vero gioiello di arte affabulatoria che ci consente di entrare nel mondo dello scrittore: un continuo intrecciarsi di arte e vita in cui l’opera narrativa attinge dall’esistenza dello scrittore.
    Roth (Newark, 1933 – ivi, 2018), origine ebraica, ci ha lasciato trentuno libri di cui ventisette tra romanzi e racconti. Più volte candidato meritatamente al Nobel, l’ha purtroppo mancato per quelle strane combinazioni che hanno privato di questo riconoscimento scrittori della levatura di Borges. Roth ha ottenuto comunque il Premio Pulitzer, il Man Booker International Prize, il National Book Award e, dai Presidenti Clinton e Obama, la National Medal of Arts e la National Humanities Medal.
    Ci ha fornito un ritratto della esperienza ebraica americana tra Novecento e Duemila attraverso alter ego tra i quali Nathan Zuckerman. Ha trattato le sue origini spesso criticamente, ricevendo l’ingiusta accusa di antisemitismo. Ironico, graffiante, polemico, profondo conoscitore dell’universo ebraico americano, di cui tratteggia nella sua opera i difetti, le autocelebrazioni, i miti, le idiosincrasie e le manie, dandone uno spaccato esaustivo e avvincente. Nelle prime pagine di Perché scrivere?, dopo aver immaginato che Kafka fosse il suo docente di lingua ebraica, in una mescolanza di autobiografia, fresca e stupefacente capacità narrativa, traendo materia di racconto da spunti letterari, rivela una profondissima e mimetica conoscenza della letteratura mondiale: in Scrivere narrativa americana, discorso del 1960 tenuto alla Stanford University, viene esaminata criticamente la società americana contemporanea quale presentata dai mass media. Interessantissimo schizzo di una società opulenta, dominata dall’apparire, dalla pubblicità, dal continuo cicaleccio dei mass media che tutto rimescolano e triturano nelle fauci di Moloch alla ricerca del particolare che faccia notizia. Una pagina di esemplare freschezza che sembra scritta oggi nella nostra società postmoderna ed era già realtà negli States di quasi sessant’anni fa.
    Mi viene da citare l’analisi di Packard I persuasori occulti (Feltrinelli) o la riflessione di Edgar Morin ne Lo spirito del tempo recentemente edito in una nuova traduzione da Meltemi. Roth sottolinea l’impossibilità di scrivere narrativa americana in un clima in cui il banale quotidiano, fatto da elettrodomestici, agenzie pubblicitarie, gossip, universo di plastica, sono oggetto di narrazione di serie B. Ma egli cita Mailer, Styron, Malamud, Salinger, Bellow, tutti nomi di rilievo. La situazione comune e angosciante della realtà esaminata da Roth pesa sullo scrittore. Egli sbatte contro la quotidianità e allora si rifugia in mondi immaginari o nella celebrazione dell’Io. Ma talvolta, come in Uomo invisibile di Ellison, l’eroe è solo, solissimo. Eglihacombattuto contro il mondo e ha finito per ritrarsi nel sottosuolo, vivere lì. Interessantissimi saggi Nuovi stereotipi ebrei e Scrivere di ebrei in cui emerge l’officina dello scrittore, un grandissimo Roth.
    In Chiacchere di bottega Roth raccoglie le conversazioni con altri scrittori tra i quali Primo Levi. E’ un incontro pacato e toccante se si pensa che poco dopo Levi, senza darne segni premonitori, si sarebbe suicidato. Per Roth la scelta di vita fatta di stretti legami con la comunità di appartenenza è stata, al pari del capolavoro dello scrittore su Auschwitz, una sorta di vigorosa e profonda risposta a coloro che hanno cercato in ogni modo di troncare tutte le sue relazioni e di eliminare lui e i suoi simili dalla storia. Forse mi viene da pensare che Auschwitz, a distanza di una vita, abbia lasciato segni indelebili come quel numero marchiato a fuoco nella carne viva che fungeva da memento e una sorta di senso di colpa per essere sopravvissuto mentre i musulmani, senza risorse, i sommersi, come scriveva Primo Levi, fossero in fondo i salvati. Essitestimoniavanoconlalorofine e costringevano i vivi a raccontare, a portare un fardello troppo pesante.
    Un libro ricchissimo e fonte di mille riflessioni sulla scrittura, l’ispirazione, la società, l’essere ebreo, la vita, la letteratura, la cultura e, infine anche la liberazione dal demone della scrittura. Demone di cui Roth si è sbarazzato lasciandoci una grandissima eredità fatta di infinite letture come dono di una vita.   

     

  • SOLITUDINE DIGITALE

    data: 21/12/2018 22:01

    Marc Augé, etnologo africanista, filosofo e esploratore del mondo contemporaneo, nel recentissimo saggio dal titolo Cuori allo schermo (Piemme), confronto con Raphael Bessis, studioso dell’universo digitale, ci offre una ulteriore prova della capacità di analisi e comprensione della contemporaneità definita surmodernità. Egli applica il metodo etnologico alla società postmoderna e ai fenomeni che la riguardano. Nella sua riflessione illumina con sguardo attento la società digitale e i problemi che la interessano. E’ come se l’opera di Augé fosse una costruzione fatta di tanti apporti di cui i saggi rappresentano  tappe che delineano una vera e propria Weltanschauung, una mappa per comprendere l’universo globalizzato.
    Nel dialogo con Bessis si appunta l’attenzione sul mondo digitale e la solitudine dell’uomo contemporaneo. Dietro lo schermo del computer si celano tante identità che non si riesce a cogliere nonostante siamo immersi nell’universo della comunicazione. Augé lo definisce delle tre C: circolazione, comunicazione, consumo. L’indagine antropologica è costituita da tre elementi principali: spazio, tempo, soggettività. L’etnologo partecipa di due spazi tra la realtà etnologica e la sua formazione di uomo e studioso occidentale che rifugge l’etnocentrismo ma non partecipa completamente del mondo altro. Analogia tra etnologo e internauta, studioso del mondo parallelo del Web.
    Per Augé, il cybernauta non ha di fronte un uomo vero ma un’immagine e la comunicazione ne è condizionata. Egli nota come Internet crei assuefazione e depressione. Il metodo dell’osservazione partecipante e l’atteggiamento empatico inteso da Augé  come partecipazione a livello intellettuale, comprensione dell’altro da sé, dell’alterità e di ciò di cui quest’ultimo è portatore, viene proficuamente applicato allo studio dei fenomeni del mondo contemporaneo. Fondamentale per l’antropologia è il concetto di altro che è anche individuo di contro alla società digitale in cui scompare l’identità, la profondità dell’essere umano, che lasciano il posto a fantasmi, sorta di avatar, identità fittizie che non comunicano pur immersi nel flusso perenne della comunicazione. L’antropologia dà importanza alla questione del senso come relazione con l’altro istituzionalizzata.
    La famiglia, il matrimonio, le fasce d’età sono codificazioni del rapporto con l’altro. Quindi si intende il senso sociale che si rifà alla cultura. L’emergere dell’individuo è cominciato tra il XVII e XVIII secolo in contrapposizione a istituzioni e forme sociali oppressive. Montesquieu e Voltaire affermano la molteplicità delle culture. Si pensi alle Lettere persiane dove specchiandoci nell’Altro facciamo emergere noi stessi. L’individualità e la questione dell’altro sono fenomeni europei. Poiché l’identità si costruisce nella relazione con gli altri, quando vi è una crisi nel rapporto con il prossimo vi è un deficit di simbolismo e la propria identità viene messa in discussione. Nelle società globalizzate vi è tale situazione. Manca il legame culturale che unisce gli esseri umani, da qui la crisi di senso e il male di vivere che si esprime anche patologicamente.
    L’antropologia dà importanza al contesto e all’osservazione partecipante e come disciplina storica guarda l’uomo e il mondo. L’immaginario occidentale attuale si manifesta con la fine dei miti di fondazione avvenuta con la modernità anche se le religioni non sono scomparse ma hanno spesso dato luogo a commistioni e sincretismi. Il vuoto così creato ha fatto emergere filosofie individuali. Fondamentale per Augé il concetto di nonluoghi, ovvero spazi privi di simbolismo, come metro, stazioni, aeroporti, centri commerciali in cui non si comunica e  manca un codice che definisca il rapporto con l’altro. Una sorta di spazio liminale (da limen, soglia). Il Mondo sembra diventato un nonluogo. Il tempo della globalizzazione scorre velocissimo ma appiattito in un eterno presente senza prospettiva storica. Il presente è come un buco nero che inghiotte il passato e il futuro. Esso è segnato dalla velocità e dal flusso inarrestabile di immagini. Tempo planetario creato dalla mondializzazione. Il nostro mondo è privo di esotismo, dedito al consumo di oggetti come di immagini e all’individualismo. Potere delle immagini che attraggono chi sta davanti allo schermo da desiderare di passare dall’altra parte.
    Oltre al voyerismo più marcato è l’esibizionismo. Le immagini e la presentazione che di esse fanno i media annulla la distinzione tra finzione e realtà e  la spettacolarizza. Le immagini sono spettri, si attua la finzionalizzazione della realtà. L’uomo contemporaneo vive una vertiginosa solitudine, manca il confronto con l’altro su cui Augé si sofferma. Ma lo sguardo critico dello studioso si apre alla speranza di un cambiamento auspicando una rivoluzione, la presa di coscienza da parte degli uomini di essere liberi e capaci di immaginare e di rivolgere lo sguardo verso l’Altro.
     
     
     
     

  • L'ITALIA AI TEMPI DI BENITO

    data: 13/12/2018 19:31

    È appena uscito in edizione economica nella collana Oscar Storia Mondadori, il saggio di Emilio Gentile In Italia ai tempi di Mussolini. Viaggio in compagnia di osservatori stranieri. Storico del Fascismo, Docente Emerito a La Sapienza, Accademico dei Lincei, studioso di fama internazionale, allievo di Renzo de Felice, Gentile ci dà in questo saggio una illuminante lettura dell’Italia vista dal di fuori, da giornalisti, storici, intellettuali, scrittori stranieri che colgono, a cominciare dall’inizio del Novecento, le caratteristiche, i difetti, i pregi di un popolo e dei suoi governanti, una Nazione e un Paese che sin dai tempi del Grand Tour aveva attratto per le bellezze artistiche, storiche e paesaggistiche poeti e letterati, artisti che avevano riscoperto le antichità classiche elaborando i canoni del classicismo, basti pensare a Winkelmann.
    L’attenzione di Gentile si appunta sul periodo ante Grande Guerra fino allo sbarco degli Angloamericani in Sicilia e al definitivo crollo del Fascismo.
    Edgar Ansel Mowrer, corrispondente in Italia del Chicago Daily News, seguirà tutto il percorso storico a cominciare dal primo incontro con Mussolini il 1° Maggio 1915 durante un comizio a Milano a favore della causa interventista per la conquista dei territori irredenti di Trento, Trieste e la Dalmazia. L’ex direttore del quotidiano socialista Avanti! gli spiegò che inizialmente aveva osteggiato l’intervento per poi sentire il richiamo della Patria e dissentire con la linea internazionalista e neutralista del Partito fino ad esserne espulso. Fondò così il Popolo d’Italia dalle cui pagine sostenne con toni accesi l’intervento. Gli suggerì di ascoltare il giorno dopo il discorso di d’Annunzio, vate della nuova Italia, a Quarto. Mowrer ci andò, lo trovò ampolloso e retorico ma capace di accendere gli animi e fu l’incontro col nazionalismo italiano.
    Il giornalista americano avrebbe amato l’Italia e imparato a conoscerla ammirando quello che sarebbe diventato il suo Duce. Egli fu inviato di guerra ma dopo riesplosero gli antagonismi nazionalisti tra vincitori e vinti. Affascinato dalle bellezze artistiche e naturali, dal carattere della gente, scrisse un libro dal titolo Immortal Italy (Italia immortale). Altri osservatori in quei tempi videro nell’Italia il mito che aveva attirato gli artisti nei secoli precedenti. La vittoria sugli Austro Tedeschi dopo la disastrosa rotta di Caporetto fu segno di un senso di patriottismo che segnò anche la presa di coscienza delle nuove generazioni che richiesero i riconoscimenti promessi nei momenti più duri della guerra. Così ci fu al Sud l’occupazione dei latifondi improduttivi e parassitari con la richiesta che la promessa di terra ai contadini venisse mantenuta. Anche le fabbriche del Nord videro la presa di coscienza della classe lavoratrice e dal 1919 cominciarono scioperi in tutti i settori fino a giungere nel settembre 1920 all’occupazione delle fabbriche.
    Gli osservatori leggevano in tale situazione un negativo prodromo all’anarchia e alla dissoluzione. Il malcontento generale era dovuto anche, notarono Mowrer, Alazard, Cambo e altri, alla delusione per quella che tutti ritenevano una vittoria mutilata, per il fatto che gli Alleati non avessero concesso la Dalmazia e soprattutto Fiume a tutti gli effetti italiana. Ciò avvenne per frenare le mire italiane sui Balcani dove fu favorita dagli alleati la nascita di un nuovo Stato: la Jugoslavia. Lo storico francese Hazard notò che, delusi gli interventisti, furono i neutralisti, socialisti e cattolici, ad acquistare proseliti. Egli registrava il malumore di tutte le classi sociali contro i governanti che avevano condotto il Paese in guerra.
    L’Italia era, secondo gli osservatori stranieri, nel caos più totale con un diffuso disprezzo delle masse per i militari (Beals e Mowrer). Questa anarchia, secondo Herron, sarebbe stata determinata dalla propaganda bolscevica e dalla propaganda occulta controllata finanziariamente da potenze straniere che temevano la ripresa economica dell’Italia. Nel settembre 1920 dopo difficili trattative, mediatore il governo Giolitti, la Confindustria e il Sindacato si accordarono sulle richieste salariali e sul controllo operaio dell’industria. Si concludeva così il biennio rosso da cui sarebbe cominciata la parabola discendente delle forze socialiste anche per via della scissione del Congresso di Livorno, nel gennaio 1921 che segnò la nascita del Partito comunista d’Italia fondato da Antonio Gramsci.
    Beals sosteneva che l’autunno 1920 fosse il momento più decisivo del dopoguerra italiano ma in senso negativo in quanto il momento di maggior trionfo delle forze rivoluzionarie coincideva con la disillusione dei lavoratori nei confronti del Bolscevismo russo. La disorganizzazione cui andava incontro il proletariato coincideva con l’organizzazione dei ceti tradizionali, dei contadini e della piccola borghesia. Appoggiato dagli agrari e dagli industriali, dai delusi di ogni ceto il fascismo cominciò la sua ascesa su una dimensione nazionale. La fine del biennio rosso vedeva l’inizio della guerra civile.
    Si sviluppò così il movimento dei Fasci di combattimento fondato da Mussolini a Milano in Piazza San Sepolcro (da qui il termine di sansepolcristi dei militanti della prima ora), e il fenomeno dello squadrismo e delle camicie nere. Alla fine del 1920 cominciò la reazione armata dei fascisti contro le organizzazioni del proletariato. Il fascismo per Mowrer fu conservatore ma profondamente rivoluzionario e repubblicano, contrario alla democrazia, al liberalismo e al pacifismo. La violenza squadrista si diffuse nella Pianura Padana e in Toscana ma tutto il Paese vide un crescendo di efferatezze. Lo Stato stava a guardare, anzi favoriva lo sviluppo di questo frutto amaro nato dal proprio ventre.
    L’esercito, sottolineava Beals, forniva armi e appoggio al movimento che imperversava impunito. Secondo Pernot per evitare la rivoluzione l’autorità rinunciava a esercitare i propri diritti e il governo si asteneva temporaneamente dall’esercitare la sua funzione contenendo i rischi in attesa di tempi migliori. In tale atteggiamento Mowrer vide il perpetuarsi di un difetto insito fin dall’Unità, cioè il ruolo decisivo delle minoranze nella storia d’Italia. La carenza di senso civico, di una religione civile, la considerazione da parte della maggioranza dello Stato – patrigno  rendeva inevitabile il predominio di una fazione. Nelle elezioni del 1921 si affermarono i fascisti a danno di socialisti e popolari.
    Si giunse così all’agosto 1922, quando il fascismo, divenuto partito, PNF, si affermava ancor più e da più parti si parlava di marciare su Roma. E, con il diniego di Vittorio Emanuele di firmare lo stato d’assedio per la Capitale e il successivo conferimento dell’incarico al Cavaliere Benito Mussolini di formare il nuovo governo, il 30 ottobre 1922 Mussolini assunse il potere. Beals tenne un diario dei giorni della Marcia. Riportò una frase di Cavour La paix est signeé. Le drame est fini. E aggiunse gli eventi di questi ultimi giorni sono parte di una tendenza europea che è iniziata con la Grande Guerra, comprende la rivoluzione russa, e può non concludersi durante la nostra generazione.

    Saggio chiaro e avvincente come un romanzo, scritto con mano sicura da grande divulgatore, approfondisce i punti chiave della storia della prima metà del Secolo breve partendo dal nodo che avrebbe determinato le vicende successive: la Grande Guerra e che ebbe in Mussolini l’inventore del Fascismo considerato peculiarità italiana. Lascio ai lettori la sorpresa di leggere l’intero saggio.            

  • I VINTI DI VITTORIO VENETO

    data: 13/12/2018 19:02

    L’ultima fatica dello storico Mario Isnenghi, già docente nelle Università di Padova, Torino e Venezia, in collaborazione con Paolo Pozzato, docente di storia e filosofia a Bassano ed esperto di Storia militare della Grande Guerra, è dedicata a come è stata vissuta la battaglia di Vittorio Veneto dagli Austroungarici. Già il titolo dell’interessantissimo saggio I vinti di Vittorio Veneto, edito da Il Mulino (pag, 385, euro 26), ci mostra l’angolo visuale da cui parte e si sviluppa la ricerca, quello dei vinti che si trovarono improvvisamente a fare i conti con lo sfacelo della compagine imperiale e con le defezioni e gli ammutinamenti delle varie componenti nazionali da cui era costituito l’esercito dell’Impero asburgico. Entità sovranazionale prestigiosa e dalla durata secolare, l’Impero implose e si disgregò perdendo le componenti slave, ceche, ungheresi, polacche che in un moto centrifugo finirono per rendersi indipendenti dando vita a Stati nazionali e al costituirsi di un nuovo assetto geopolitico dell’Europa.
    Fu la fine di un mondo che pareva monolitico e esso venne vissuto come un lutto, la finis Austriae di cui scriveranno, tra gli altri, Joseph Roth e Stefan Zweig. Il saggio comprende una parte introduttiva curata da Isnenghi che illustra il vissuto e la percezione che ebbero della fine gli Austro tedeschi che attinge a tante fonti memorialistiche e diaristiche in un fervore di testimonianze che esprimono i punti di vista più vari. Isnenghi mostra come sempre attenzione alla Storia degli individui, delle persone, dei piccoli, e ci pone davanti a una prospettiva globale, una polifonia, da cui si può avere una visione ampia e articolata. Quindi si lascia spazio ai combattenti o ex combattenti per poi passare nella seconda parte, alla visione dei grandi scrittori e intellettuali, tra cui Thomas Mann che scrisse le Considerazioni di un impolitico, manifesto bellicista e filotedesco, a Guerra ormai conclusa, e poi Musil che mostra la dura educazione in un collegio prussiano, Hermann Hesse, anch’egli in Sotto la ruota condanna la durezza educativa. E poi Heinrich Mann molto più aperto a preveggente del fratello. Tanti sono i nomi famosi che non si sottraggono al dibattito, spesso acceso sul durante e sul dopo  e che spesso si sono dimostrati in consonanza col comune sentire.
    I testimoni combattenti scrivono con sempre presente l’essere stati un noi, raccontano una realtà perduta nella dissoluzione dei reparti. Ciò che pareva eterno e monolitico si frantuma e improvvisamente, scrive Isnenghi, la frattura e la discontinuità si rovesciano in valore. I racconti narrano lo sfacelo, il tramonto. Anche i reduci austriaci e tedeschi, come i reduci italiani, non si ritrovano più in un mondo mutato che non li comprende. Creano associazioni, gruppi e fanno scrivere i ricordi da uno per tutti. C’è la necessità di testimoniare. I testi sono antologizzati e spesso tradotti da Pozzato nella seconda parte del libro.
    Isnenghi mette in evidenza come gli austro tedeschi facciano gruppo a sé e abbiano una considerazione negativa degli slavi, dei cechi, degli ungheresi, dei polacchi che prima del crollo finale si ribellano e rivolgono le armi verso quelli che fino a un attimo prima erano commilitoni. C’è il senso del tradimento. Gli italiani sono considerati fedifraghi, quelli che erano alleati e sono passati con l’Intesa, inetti, il popolo di Caporetto non può essere lo stesso di Vittorio Veneto. Ergo: la battaglia di Vittorio Veneto non esiste. Gli italiani non hanno vinto: sono stati francesi, inglesi a combattere. Sprezzo per gli italiani.
    Al medesimo modo emerge lo sprezzo per i socialisti che sono considerati in Germania e Austria tra le due Guerre imboscati che hanno tramato nell’ombra, al medesimo modo anche gli ebrei saranno visti come traditori e così considerata la Repubblica di Weimar e si vedrà quali risultati produrrà l’esacerbazione e il senso di tradimento e di rivalsa nei confronti delle dure condizioni imposte dai vincitori. Dagli scritti emerge, anche dopo anni, il militarismo, il credo pangermanista. Non si riesce a capacitarsi perché, scrive Isnenghi, non si può perdere vincendo stando ancora oltre le linee. Allora l’armistizio è considerato un tradimento.

    Nelle testimonianze emergono i patimenti, la fame che fa sentire i suoi morsi e leva le forze. L’esercito si dissolve nella totale anomia: chi comanda chi? Nelle testimonianze raccolte con passione e curate con attenzione e competenza da Pozzato, è presente tutto ciò e si può toccare con mano il vissuto profondo degli invitti. Non mancano pagine toccanti. La prigionia, l’ultimo attacco degli Schützen a cavallo, cinque anni di guerra. Riemerge un mondo che  ci parla e che a un secolo di distanza è ancora vivo e il cui ricordo deve essere preservato con cura affinché il passato non ritorni perché ciò che si dimentica prima o poi presenterà il conto.  

  • CONSERVARE LA MEMORIA

    data: 26/11/2018 18:54

    Lettera a Giuseppe Marchetti Tricamo, a proposito del suo articolo "1915-1918". Conservare la memoria per le generazioni future".
    Carissimo Giuseppe, ho letto il tuo bellissimo articolo sulla Grande Guerra. Mi trovo in completo accordo con ciò che scrivi e sulla necessità di conservare la memoria affinché il passato non ritorni e le nuove generazioni sappiano ciò che è accaduto. E poi che dire del richiamo al Presidente Ciampi? E' verissimo! Ciò che è pericoloso è l'infiacchimento morale, il lassismo morale. Ora che gli ultimi testimoni che hanno combattuto non ci sono più tocca a noi tenere deste le coscienze. I miei nonni avevano combattuto entrambi nella Grande Guerra, in particolare nonno Fenu in prima linea, mentre il padre di mamma nella Finanza di mare. E raccontavano e mi raccontavano le difficoltà della vita di trincea, mentre nonno Mereu mi diceva che, lui piccolino, aveva un fucile ad avancarica (questo la dice lunga sull'equipaggiamento dei nostri soldati) e per caricarlo doveva posarlo e fare un passo avanti tanto il fucile era lungo!!! Ma lui ci faceva dell'ironia, aveva una "verve", era sottile!!! Invece nonno Fenu aveva uno zaino talmente pesante che gli aveva lasciato per tutta la vita il segno visibile e doloroso, delle bretelle. Nonno Fenu, figlio unico di madre vedova, non sarebbe dovuto andare in guerra invece fu richiamato. Quando la Patria chiama!!!
    Ho pensato di inviare la recensione del saggio di Isnenghi e Pozzato "I vinti di Vittorio Veneto" che raccoglie memoriali e diari della disfatta degli Austroungarici e le percezioni del crollo dell'Impero plurisecolare con gli ammutinamenti delle varie componenti nazionali all'indomani dell'Armistizio. Proprio la "finis Austriae"!!! Come sempre Isnenghi è attento a cogliere le testimonianze dei singoli da varie prospettive, dal "basso" e tra gli ufficiali. Con una parte antologica curata da Paolo Pozzato possiamo "toccare con mano" il vissuto dei combattenti "dall'altra parte". Merita, secondo me, è un saggio recentissimo, edito da Il Mulino.  

  • HO VISTO AGIRE S'ACCABADORA
    di Dolores Turchi

    data: 26/11/2018 18:47

    La Sardegna, definita quasi un continente, a causa dell’isolamento che l’ha caratterizzata, ha dato vita alla Civiltà nuragica, unica e peculiare. Ma per la posizione al centro del Mediterraneo è stata anche punto d’incontro, lungo le coste, di popolazioni orientali con l’elemento autoctono. Queste condizioni hanno dato luogo, dal punto di vista culturale, a tendenze recessive che hanno permesso la conservazione di usi ancestrali e, con l’introduzione del Cristianesimo, a interessantissimi e importantissimi sincretismi magico – religiosi, vere sopravvivenze di cui ci è data testimonianza dai Sinodi, da sentenze inquisitoriali e, in epoca più vicina a noi, da viaggiatori e studiosi.Alberto La Marmora, in primis, diede dettagliatissima relazione nel suo Voyage en Sardaigne de 1819 à 1825 su cui si basano tutti gli studi successivi.
    Il fenomeno sul quale voglio riferire, studiato con passione e competenza dalla professoressa Dolores Turchi, studiosa di Tradizioni popolari, riguarda l’eutanasia. Col termine Accabadora si indica una particolare persona che, con molta discrezione, veniva chiamata al capezzale di un morente la cui agonia sembrava non avesse fine. Accabadora deriva dal verbo accabare, a sua volta dal fenicio ed arabo hacab (por fine), ella praticava una forma di eutanasia. Perché donna? Certe donne conoscevano il potere delle erbe, di gesti apotropaici, realizzavano amuleti, e donne erano anche le persone che eseguivano i lamenti funebri, gli attitos in cerchio, sa roda, attorno al defunto. Antichissima origine il lamento, il canto rituale. Pratiche sincretistiche che segnavano il passaggio da uno stato o fase a un altro come Van Gennep ha illustrato ne I riti di passaggio (Bollati Boringhieri).
    Dolores Turchi ha raccolto la prima testimonianza oculare di una persona novantenne sull’operato de s’Accabadora nel saggio Ho visto agire s’accabadora (Edizioni Iris) e al quale è allegato il dvd col filmato dell’intervista all’anziana testimone. Secondo la studiosa la lunga agonia aveva per causa peccati che il morente aveva compiuto in vita e che era necessario espiare per morire serenamente. Tra essi bruciare un giogo o aver spostato una pietra di confine. L’Autrice, raccolte molte testimonianze in varie località della Sardegna, si convinse che si trattava di tabu di cui si era dimenticato il significato originario. Bisognava allora mettere un giogo, su juale, in miniatura sotto il capo del morente o un ciottolo. S’Accabadora agiva come ultima ratio soffocando o colpendo il capo del moribondo o con su juale o con su mazzuccu, un martello di radice di olivastro. Un attimo e tutto era finito.
    La convinzione generale era che si agisse per il bene del malato. L’usanza era diffusa in tutta l’Isola. Ma non solo. Turchi già nel saggio Lo sciamanesimo in Sardegna (Newton Compton), sostiene che tale uso era diffuso in Italia centro meridionale. Pitré riporta credenze analoghe in Sicilia nel saggio Usi e costumi, credenze e pregiudizi del popolo siciliano. Anche in Francia è attestata tale credenza. Mentre in Friuli, nelle regioni ladine, l’oggetto apotropaico è un pettine. Turchi fa riferimento al saggio della Gimbutas, Il linguaggio della dea (Longanesi) che segnala la presenza del pettine come amuleto in figurine stilizzate del Neolitico. Alla base di tutto vi sarebbe, secondo Turchi, un’antica religione dimenticata di cui restano sincretismi e sopravvivenze. Ella ipotizza che non si avesse paura della punizione nell’aldilà bensì la punizione concreta in questa vita da scontare con la lunga agonia per cui, come un’antica sacerdotessa, interveniva s’Accabadora.  
    Tra gli usi vi erano preghiere a Sant’Anna e Santa Marta affinché scongiurassero una lunga agonia tagliando il filo della vita e ricomponendolo. In questo caso le due Sante sarebbero una rielaborazione cristiana della Dea Madre e della Parca romana. Sant’Anna protegge le partorienti, la Parca reciderebbe il filo della vita. In una testimonianza raccolta a Busachi si fa riferimento al diavolo che s’Accabadora aveva pronunciato col nome antico, Micidissu. Deriverebbe da Ningirsu, divinità della città sumera di Lagash, massima divinità della città e figlio di Enlil supremo del Pantheon sumerico. Al culto di Ningirsu era dedicato uno ziqqurat, in tutto simile a quello, unicum nel bacino del Mediterraneo, di Monte d’Accoddi presso Porto Torres datato al 2500 a.C. Poiché s’Accabadora potesse agire con successo era necessario che tutto ciò che vi era di sacro nella stanza del morente fosse portato via perché si riteneva che legasse alla vita il malato. Ciò ci mostra che si agisce in un contesto pagano, altra prova dell’antichità del fenomeno e la possibilità che vi fossero rispecchiati elementi orfici.

    Massimo Pittau, eminente glottologo dell’Università di Sassari, in Credenze religiose degli antichi Sardi (Della Torre) in uno specchio etrusco che raffigura personaggi tra cui Atropo, Parca che recideva il filo della vita, con in mano un martello, vede riflessa la nostra accabadora e ritiene entrambi i popoli essere originari della Lidia.  

  • L'EUROPA DI CHABOD

    data: 22/11/2018 12:54

    Federico Chabod (1901–1960), insigne storico e intellettuale, ha precocemente, in tempi ancora lontani dall’Unione Europea, delineato, analizzandola, la nascita ed evoluzione, vero processo, dell’idea d’Europa. Nel saggio Storia dell’idea d’Europa edito da Laterza lo studioso dà una spiegazione lucida e profonda, nel medesimo tempo chiara, che cattura appassionando e chiarisce tante questioni sollevate dalle recenti vicende che scuotono l’unità dell’Europa. I primi passi verso la creazione di una Comunità europea furono dettati dall’aspirazione, da parte dell’Europa uscita da una terribile Guerra, a creare le condizioni di pace e prosperità che favorissero la fratellanza e ponessero le premesse di crescita economica, morale e intellettuale degli stati e degli individui.
    Ma quali sono gli elementi che permettono di definire e distinguere dagli altri continenti e gruppi umani, l’Europa e gli Europei? Per cominciare Chabod si domanda quando sia nata la coscienza di essere europei, la consapevolezza di possedere peculiarità culturali, storia, insomma una comune Weltanschauung. Sostiene Chabod nel suo saggio che nell’affrontare i problemi storici è fondamentale l’attenzione alle mentalità, al pensiero, agli aspetti culturali, religiosi e alla cultura materiale, indagati con strumenti filologici rendendoli nella loro oggettività lungi dal piegarli al nostro modo attuale di pensare. Importanza delle fonti e dei documenti. Ciò che interessa Chabod è l’Europa come quid distinto dal resto del mondo. Sottolinea Chabod che se di civiltà europea si può parlare fin dall’antichità e nel Medioevo tale aspetto è rafforzato dall’elemento religioso, una vera coscienza di sé la si raggiunge solo nell’età moderna. Coscienza europea significa differenziazione da un “altro da sé”, da ciò che le si contrappone. Questa coscienza si manifesta come opposizione, dai tempi di Alessandro Magno. Ancora una volta il pensiero greco rappresenta un elemento basilare di riferimento per l’evoluzione della speculazione successiva. Se nel mondo greco l’Altro si definisce barbaro, questo concetto va estendendosi a comprendere, con le Guerre persiane, i popoli asiatici che vivono sottomessi poiché incapaci di governarsi da soli, in contrapposizione ai Greci che vivono secondo il Logos, la legge. La creazione dell’ecumene ellenistico da parte di Alessandro finirà per estendere ad altri popoli e paesi questa caratterizzazione. Con l’avvento del Cristianesimo il termine barbaro indicherà i non cristiani. Con la fine dell’Impero Romano e la scissione in Oriente e Occidente, Roma e Bisanzio, le due parti si contrapporranno per questioni politiche, religiose, etniche e culturali e il barbaro saràilnonRomano che finirà però per amalgamarsi ad esso con la creazione dei regni Romano – barbarici . Il Cristianesimo sarà discrimine tra i popoli e nel Medioevo imbeverà tutte le espressioni intellettuali, manifestandosi come una potentissima Weltanschauung che condizionerà col suo afflato, non immune da feroci controversie teologiche e di potere, tutto un mondo fino all’Illuminismo. Mentre con la conquista turca dei Balcani l’Oriente verrà considerato terra di barbarie. Il Medioevo vedrà la concezione della reductio ad unum, unione del potere spirituale e temporale nelle mani dell’Imperatore, come proposto da Dante nel De Monarchia. Anche Dante parlerà di Europa intendendo i confini occidentali dell’ecumene, mentre l’attuale Est europeo e la Grecia sono mondo a sé.
    Machiavelli renderà conto del grande movimento di popoli a creare un amalgama che vedrà la civilizzazione di una parte di essi e il confluire nell’Europa. Sarà Enea Silvio Piccolomini, grandissimo intellettuale, che formulerà l’apprezzamento dei valori culturali europei fondati sulla tradizione classica, sul culto di Roma e sul pensiero antico avvicinandosi a ciò che Voltaire definirà republique litteraire per comprendere l’universo nato dalle guerre di religione. Prima di Voltaire sono l’Umanesimo e il Rinascimento a elaborare il concetto di Europa luogo di cultura, letterati che portano la luce della civiltà dove era solo superstizione. L’Umanesimo rivestirà un importantissimo ruolo nell’elaborazione dell’idea d’Europa. In Erasmo da Rotterdam, maggiore di tutti gli umanisti d’oltralpe, si trova il concetto di antibarbarismo, volto alla salvaguardia delle popolazioni Amerindie. Ma è sempre una visione cristiana, differente dal laicismo illuminista.
    La prima formulazione dell’idea di Europa al di fuori di una visione confessionale la troviamo in Machiavelli ed è una formulazione politica. Il Padre della moderna Scienza politica sottolinea come l’Europa sola abbia avuto repubbliche e qualche regno a differenza dell’Asia e degli altri continenti. Si delinea così un modo di differenziazione che è peculiare dell’Europa. Ma Machiavelli guarda alla grandezza del Principe e dello Stato. Saranno gli Illuministi a porre in primo luogo il benessere dell’individuo di cui lo Stato si fa garante. Voltaire appunterà l’attenzione sulla necessità di mantenere un equilibrio di poteri negli Stati per garantire un equilibrio tra Stati. Ma sarà Montesquieu nel capolavoro Esprit des lois (1748) a elaborare la tripartizione dei poteri: esecutivo, legislativo e giudiziario, che garantiscono la libertà politica e che sarà alla base del moderno stato liberale. Fondamentale è, inoltre, il vivissimo senso di libertà. Esaltazione dell’Europa.Anche in questo caso si parte da un’opposizione tra civiltà ma ora sono gli altri a guardarci come nelle Lettere persiane di Montesquieu. Nelle considerazioni politiche emerge netta la differenza dell’Europa rispetto all’Asia. Vita e costumi sono ancor più differenziati soprattutto si sottolinea la libertà di cui godono le donne europee. E poi la socievolezza, l’esprit de société, motivo di fondamentale importanza alla base del concetto di civilisation e di Europe. Montesquieu ovvero il suo alter ego persiano, si soffermerà sul dinamismo, la laboriosità dell’Europeo, una vera etica del lavoro che secondo Chabod annuncia il capitalismo. Febbre del lavoro e sviluppo della scienza e della tecnica e nuove invenzioni. Ma si sottolinea anche il cattivo uso della tecnica quando posta al servizio della distruzione e della guerra. Caratteristica dell’Europa è lo sviluppo delle scienze e del metodo sperimentale che vedono Galileo e Newton punte di diamante. Inoltre si pongono le basi di ciò che Chabod definisce scientifizzazione delle scienze umane che preconizzerà il Positivismo.
    Voltaire dal canto suo propugnerà la costituzione di una sorta di unione europea. Si viene affermando anche tra autori minori, il senso europeo. Ma l’atmosfera va cambiando con l’emergere prepotente del concetto di nazione. Ora Rousseau sottolinea l’individualità contrapposta all’universalità, il particolare contrapposto al generale. L’Illuminismo segna il passo ed emergono i primi elementi del pensiero romantico. Settecento e Ottocento, l’un contro l’altro armati, porranno le basi della modernità. Rousseau sottolinea la diversità, varietà, peculiarità delle singole nazioni di cui va preservata la unicità contrapposta all’europeismo di Montesquieu e Voltaire. Si esalta l’anima nazionale, l’individualità della nazione che richiede legislazioni differenti che si attaglino alle caratteristiche di ciascuna. Rousseau riconosce l’unità civile dell’Europa ma sostiene che essa non possa sovrastare l’originalità, la identità di ciascuna nazione che la costituisce. La nazione emerge prepotentemente nella storia. Il concetto di Patria, di ethnos, la passione nazionale, non mettono però in discussione quel senso di appartenenza all’Europa come comunanza di cultura, di visione del mondo, di libertà. A questo punto una visione ampia che abbracci in una sintesi fruttuosa l’Europa e la singole nazioni viene proposta da Mazzini che parla non solo di Giovine Italia ma di Giovine Europa. La nazione, scriveMazzini, è mezzo, necessario e nobilissimo per il compimento del fine supremo, cioè l’umanità. Mazzini vede crollare l’Europa dei principi e sorgerne una nuova, quella dei popoli. Redimere i popoli con la coscienza di una missione affidata a ciascuno di essi che dovranno essere portatori di una nuova coscienza civile. Novità della visione ottocentesca è la storicizzazione dei pensieri fondamentali dell’unione europea, esaltazione del Medioevo ma per trarne linfa vitale e considerare la civiltà europea nel suo divenire storico, non solo nel punto d’arrivo. L’illuminismo viene utilizzato in una prospettiva storica. Europa unica e al tempo stesso varia, costituita da molteplicità nazionali il cui apporto realizza la coscienza europea, la civiltà europea. E tutto contribuisce a esaltare la libertà, vera peculiarità della civiltà europea. L’Europa nella sua storia ha rappresentato una sorta di laboratorio di varie forme di governo, e di potere coesistenti, confliggenti a tratti ma al medesimo tempo convergenti in una sorta di amalgama che ne rende l’unicità. Tale dialettica di idee, concezioni, visioni hanno costituito il brodo di coltura di una entità transnazionale che tutto comprende. Verrà esaltato l’aspetto della cristianità dell’Europa ed emergerà anche il nodo del primato che vedrà Gioberti sostenere il primato morale e civile dell’Italia. Purtroppo tale aspetto contiene i germi per l’esaltazione del nazionalismo con le sue nefaste conseguenze.
    Se nel Settecento si è formata la coscienza d’Europa è nell’Ottocento che si storicizza. Senso della storia alla base dell’unità europea e di comprensione dello sviluppo come processo a cui tutte le Età, anche quelle prima ritenute barbare, hanno contribuito.

    Per concludere, sostiene Chabod che i fattori morali e culturali hanno avuto una preminenza esclusiva al formarsi del concetto di Europa e di una coscienza europea                

  • L'UTOPIA DI OLIVETTI

    data: 13/11/2018 12:43

    Franco Ferrarotti, sociologo e intellettuale eccelso, Accademico dei Lincei, padre della Sociologia in Italia, nella sua vita ha conosciuto tanti personaggi illustri e ha avuto l’onore di collaborare, dal 1948 al 1960, con Adriano Olivetti. Con affetto, chiarezza e profondo sentire - in La concreta utopia di Adriano Olivetti, EDB - ne tratteggia ora la personalità e la visione del mondo e della società oltre che l’operato da imprenditore illuminato, attento al benessere dei lavoratori e della comunità che con l’azienda doveva costituire un tutto integrato. Ciò, sottolinea Ferrarotti, non deve intendersi come paternalismo bensì come apertura mentale e lungimiranza da operatore sociale, uomo politico nel senso pieno che sperimentava nel campo industriale una visione complessa e organica che abbracciava la comunità territoriale, la convivenza democratica e il problema della ristrutturazione dello stato che rende la visione olivettiana di notevolissima attualità.
    Preveggenza, acume, profonda umanità, rendono Olivetti un modello scomodo per le camarille e gli interessi di bottega dei politici e dei sindacati tradizionali. Per Olivetti la contrattazione a livello nazionale con le parti sociali da una parte, gli imprenditori dall’altra e il potere politico a mediare non era rispettosa della peculiarità dell’impresa e dei lavoratori e della Comunità. Egli aveva una visione aperta all’Europa e contemporaneamente alla Comunità. Era un socialista, sperimentatore di un progetto riformista aperto al regionalismo che non è panacea per ogni male. Riformatore per temperamento e per convinzione, intellettuale e morale, sostiene Ferrarotti. Era un utopista concreto nel quale progetto ideale e realizzazione pratica si fondevano in un tutto integrato. Umanista ma anche tecnico, riteneva si dovesse conoscere la tecnica delle riforme.
    Coltissimo, credeva profondamente che la cultura elevasse l’uomo. Nato a Ivrea nel 1901, laureatosi in chimica industriale al Politecnico di Torino nel 1924, entrò da subito nella società Olivetti. Soggiornò negli Stati Uniti dove apprese i metodi produttivi e l’organizzazione delle grandi industrie americane. Al rientro mise a frutto ciò che aveva appreso razionalizzando la linea produttiva e formando un nucleo di giovani quadri laureati. In tal modo si accrebbe la produttività e la Olivetti uscì indenne dalla crisi del 1930. Direttore generale dal 1933, proseguì il rinnovamento coinvolgendo anche la comunità locale con iniziative volte a realizzare una armonia fra industria e comunità.
    Sottolinea con forza Ferrarotti che la fabbrica era, per Olivetti, il punto di partenza degli esperimenti sociali e che l’idea di non licenziare portasse il suo Direttore a incentivare creativamente la produzione, ricercare nuovi sbocchi. Gli operai erano per Olivetti non dipendenti bensì fautori, essi stessi, dell’emancipazione della classe operaia alla quale spettava il compito sociale e civile di essere portatrice del valore della giustizia.
    Nel 1948 fondava il Movimento di Comunità e nel dopoguerra le Edizioni di Comunità. Fu presidente dell’Istituto nazionale di urbanistica e elaborò già nel 1937 il piano regolatore della Valle d’Aosta. Egli appuntò il suo interesse alle condizioni del Mezzogiorno considerando l’industrializzazione un processo globale e il progresso un tutto integrato in cui intervenivano varie variabili.
    L’ideale sempre più sentito portò Olivetti a impegnarsi in politica. Eletto in Parlamento e, nel ’59 dimessosi, gli subentrò Ferrarotti che gli promise di rifiutare collaborazioni con i partiti tradizionali e di elaborare un ideale democratico sostanziale. Quella indicata da Olivetti è una terza via che presagiva i mali del nostro presente. Egli guardava lontano anticipando deriva partitocratica, crisi delle istituzioni e della politica. Il suo pensiero, che Ferrarotti, amico fraterno, ci espone in questo denso e sentito saggio, dovrebbe essere ripreso, egli mancò nel 1960. Fu proprio Ferrarotti a fare in Parlamento il discorso commemorativo.

    Ringrazio l’Autore per aver condiviso i suoi ricordi e affetti con noi lettori che non possiamo che trarre un profondo insegnamento.