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NUNZIO DELL'ERBA

  • IL CONFLITTO
    ISRAELO-PALESTINESE
    IN DUE LIBRI

    data: 20/06/2024 23:31

    Comunemente il conflitto tra ebrei e palestinesi è collocato nella prima guerra seguita alla costituzione dello Stato d’Israele (14 maggio1948). Esso cominciò invece negli ultimi lustri del XIX secolo, come si ricava dal volume Lo Stato di Israele. Dalle origini al conflitto israelo-palestinese» (1850-1948) (Milano-Udine, Mimesis, 2023, pp. 357) di Guido Regina, che su questa vicenda offre un prezioso contributo, ripercorrendo la diaspora ebraica dalla Russia zarista fino ai primi insediamenti in Palestina e alla costituzione del nuovo Stato.

    Proprio durante il regno di Alessandro II, morto il 13 marzo 1881 a causa di un attentato terroristico, si scatenò in diverse città della Russia un pogrom contro gli ebrei, accusati di avere ordito il regicidio. In realtà, solo uno degli attentatori era di origine ebraica e l’episodio offrì l’occasione di reagire ai pogrom. Fu così costituita nel 1881 un’associazione denominata «Bjlu» (dalle iniziali di un versetto di Isaia: «Beth Jaakov Lekhou Ve Nelkha» («Casa di Giacobbe, venite camminiamo», Isaia, 2, 5), composta da quaranta membri con il proposito di stabilirsi in Palestina.

    Il nome dell’associazione fu associato ad un programma in cui la Palestina era scelta come sede storica e naturale degli ebrei. Tra i primi a sbarcare nella «terra promessa» vi era Zèev Dubnov, promotore di un ambizioso progetto volto ad «prendere possesso nel tempo della Palestina e restaurare la indipendenza politica di cui gli ebrei sono stati privati per duemila anni». La selvatichezza turca, aggiunse egli, non avrebbe assunto resistenza all’insediamento (in ebraico «Yishuv») delle colonie agricole. Nel 1882 il governo ottomano vietò agli ebrei di stabilirsi in Palestina, ma il divieto fu aggirato con regalie ai funzionari locali, che favorirono così l’acquisto delle terre e scatenarono numerosi conflitti con i palestinesi.

    Negli anni compresi tra il 1883 al 1903 furono costituite 24 colonie ebraiche grazie allo stanziamento di un milione e 600 mila sterline da parte del barone de Rothschild e alla fuga dei contadini palestinesi, schiacciati dai debiti e oberati dalle imposte del dominio turco. In pagine ben documentate, Guido Regina analizza «palestinocentrico» dei primi sionisti, che predicano il ritorno alla patria ancestrale dei loro avi e appoggiano le iniziative del Fondo Nazionale Ebraico con lo scopo «di acquistare terre e promuovere lo sviluppo delle coltivazioni». Così incoraggiano la serie di «Aliyah» che si susseguono fino alla costituzione dello Stato di Israele (1904-1948.

    Negli anni inquieti del Primo conflitto mondiale, il progressivo disfacimento dell’Impero ottomano e le mire delle potenze europee furono gli eventi decisivi, intorno ai quali gli ebrei giocarono le loro carte per mettere a tacere le richieste di indipendenza dei palestinesi. Con la Dichiarazione Balfour (1917) e il Mandato britannico riconosciuto nella conferenza di San Remo (1920), gli ebrei furono favoriti nell’acquisto di nuove terre a Cesarea, ad Afule e nel Beisan. Il divieto di utilizzare manodopera palestinese inasprì i rapporti con gli ebrei con periodici scontri, spesso confluiti in omicidi da entrambe le parti.

    Nell’ultimo capitolo Regina analizza il ruolo della Gran Bretagna e dell’America nella partizione del territorio che portò alla risoluzione 181 delle Nazioni unite e alla nascita dello Stato di Israele, che assunse lo stesso nome biblico di quello antico. Nella scelta fu decisivo l’apporto di Ben Gurion (1883-1973) e Ben Zvì (1884-1963), che come protagonisti della Seconda «Aliyah» divennero l’uno primo ministro e l’altro presidente. Una minuziosa cronologia, un glossario dei termini ebraici, una ricca bibliografia e cinque cartine geografiche aiutano a comprendere la vicenda più controversa del Medio Oriente.

    Quando il 14 maggio 1948 Sir Gordon Cunningham si apprestava a lasciare la Palestina e il suo incarico di Alto Commissario durante la fase finale del Mandato britannico, egli si chiedeva sconfortato: «E adesso chi se ne occuperà?». Quel giorno gli inglesi concludevano così la loro funzione mandataria, gli ebrei costituivano lo Stato di Israele e gli arabi si mettevano in guerra in un conflitto che durerà fino ai nostri giorni.

    La storia del conflitto arabo-israeliano è ripercorsa nel volume di Lorenzo Kamel, Terra contesa. Israele, Palestina e il peso della storia (Roma, Carocci, 2023, pp. 338), che presenta una ricca bibliografia di oltre cento pagine ed affronta la questione più controversa del Medio Oriente. Dopo un lungo excursus storico sulla presenza delle due comunità nella Terra Santa in un territorio esteso meno della Sicilia, Kamel narra la storia dell’insediamento ebraico durante il dominio ottomano durato dal 1517 al 1917-18.

    La nascita del nuovo Stato venne così preparata da un lungo insediamento ebraico tramite l’acquisto delle terre di proprietà dei palestinesi. È in tale contesto che la disgregazione dell’impero ottomano e l’ipoteca delle potenze europee permisero l’arrivo di numerosi nuclei di ebrei, favorito dal mandato britannico dopo la Dichiarazione Balfour (2 novembre 1917). Tra il 1919 e il 1948 la vicinanza tra i due popoli provocò il conflitto arabo-sionista, poi arabo-isareliano o israelo-palestinese: nel 1922 e nel 1929 si ebbero i primi scontri, determinati in seguito all’espulsione dei contadini arabi dalle terre acquistate dagli ebrei nei territori di Cesarea, Afule e Beisan.

    Un’altra sanguinosa rivolta, che venne soffocata da un consistente apparato militare britannico, si ebbe negli anni 1936-39. Le proposte della Commissione Peel (1936) per una spartizione della Palestina tra ebrei e arabi; il libro Bianco del maggio 1939 diretta a stabilire il blocco dell’immigrazione ebraica e la proposta di costituire uno Stato palestinese indipendente si ripercossero in modo negativo nei rapporti tra i due popoli. La proposta delle Nazioni unite si rivelerà fallimentare con la risoluzione 181 dell’Assemblea generale, decisa a costituire due entità: 56% del territorio agli ebrei e il resto ai palestinesi con Gerusalemme collocata sotto sovranità internazionale.

    Concluso il 15 maggio 1948 il mandato britannico e formatosi lo Stato d’Israele si ebbe, proprio all’indomani della spartizione un nuovo conflitto, che rivelò le doti militari di David Ben Gurion (1886-1973) vide come protagonista nell’unione tra le varie forze ebraiche. Cominciò così per i palestinesi l’esodo con la fuga di 750 mila, mentre la loro sconfitta permise agli israeliani di stanziarsi su tre quarti del territorio: Gerusalemme fu divisa in due e il progetto di sovranità internazionale dimenticato. La risoluzione 194, adottata l’11 novembre 1948 dall’ONU e volta a riconoscere il diritto ai profughi palestinesi di ritornare nelle proprie residenze, si rivelò fallimentare, aprendo l’insorgere di nuovi scontri nel 1956, 1967 e 1973.

    La questione dei profughi palestinesi riemerse in tutta la sua gravità, quando nel 1969 fu costituita l’organizzazione per la liberazione della Palestina (OLP), guidata da Yasser Arafat (1929-2004), e nel 1982 quando le milizie cristiane di Bashir Gemayel (1947-1982) massacrarono con l’aiuto dell’esercito israeliano circa 300 palestinesi nel campo profugo di Sabra e Chatila. Si susseguono anni di azioni terroristiche e prese di ostaggi, che sfoceranno in un aspro e lungo conflitto che dura fino ai nostri giorni.

  • RITORNIAMO A MATTEOTTI!
    IL RIFORMISTA SCOMODO

    data: 30/05/2024 23:57

    Il dramma di Giacomo Matteotti è ancora oggi una fonte inesauribile di cronache appassionanti. Cronaca nera: un deputato nel cuore di Roma scompare fino all’orrenda scoperta nel quartiere della Quartarella. Cronaca politica: un regime che trema, l’Aventino, il ricatto dei falchi del partito fascista su Benito Mussolini. Cronaca giudiziaria: il processo di Chieti del 1926, dove Roberto Farinacci rovescia le parti e fa di Amerigo Dùmini un eroe romantico, di Matteotti un provocatore, e il nuovo processo di Roma del 1947 che apporta definitivi chiarimenti sulla delittuosa vicenda. Gli atti processuali rivelano sicari, mandanti, intrallazzatori e politicanti, alcuni dei quali al vertice del partito fascista e dediti al doppio gioco. Emerge un sottobosco affaristico, su cui si innestano le principali motivazioni, via via addotte per spiegare «il delitto Matteotti», che è attribuito all’odio politico di Mussolini nei suoi confronti, alla pista petrolifera, alla trama del gioco d’azzardo e alla salvaguardia della monarchia. Tuttavia la domanda più impellente riguarda la modalità dei fatti e se essi configurino un disegno premeditato del delitto.

    L’esito del rapimento e dell’omicidio di Matteotti ha una larga eco in tutti i Paesi europei e innesca una grave crisi politica che Mussolini riesce a superare per i contrasti dei suoi avversari. Gli eventi, che si svolgono tra il giugno 1924 e il gennaio 1925, costituiscono il capitolo finale della sconfitta subìta dalla Sinistra italiana.  Con il discorso pronunciato alla Camera il 30 maggio 1924, Matteotti esprime un grande rispetto delle istituzioni politiche e, al termine del discorso, prevede quasi la sua fine. È un atto di lotta che paga con la vita. La scomparsa consegna al Paese una lezione politica che, oltre ad opporsi all’estremismo velleitario dei comunisti, resta un modello di democrazia rappresentativa. È il primo delitto politico dell’Italia unita, che si colloca in uno scenario intriso di sangue e si sviluppa in una narrazione avvincente, densa di vicende suggestive e di personaggi implicati negli affari più loschi.

    Al di là dell’omicidio del deputato socialista, di cui quest’anno ricorre il 100° anniversario della morte, bisogna ricordare che Matteotti è uno studioso di economia e diritto, un amministratore, un promotore di cooperative e di iniziative scola  stiche. È questa molteplicità di interessi che rende ancora oggi interessante una figura intrisa di precise denunce durante un impegno quotidiano volto a fustigare il costume compromissorio delle alchimie politiche, a contrastare la violenza e a combattere la corruzione del nascente regime fascista. Il rigore morale è una caratteristica peculiare della sua azione pubblica, svolta a contatto dei lavoratori per salvaguardare la loro dignità e rendere più umana la  condizione sociale.

    Diventato militante socialista nei primi anni del XX secolo, Matteotti – denominato «il compagno dalle braghe curte» –s’impegna attivamente nella costituzione di circoli, cooperative agricole e di leghe nel Polesine con lo scopo precipuo di risollevare le misere condizioni dei contadini, colpiti dalla malaria per la cattiva nutrizione e sfruttati da un padronato senza scrupoli. La formazione culturale e l’esperienza politica maturano a stretto contatto con i contadini, ai quali non fa mancare la propria assistenza giuridica, difendendo le loro rivendicazioni sociali nel consiglio comunale e provinciale.

    Colto e raffinato, Matteotti può intraprendere una tranquilla carriera politica tra i conservatori oppure seguire la carriera universitaria per i suoi lavori giuridici, ma preferisce dedicare la propria vita all’emancipazione dei contadini, seppure sia consapevole che questa scelta gli avrebbe nociuto sul piano personale. Tacciato di essere un «socialista milionario» e un «rivoluzionario impellicciato», Matteotti segue la sua coscienza con passione e con una dedizione quasi da calvinista. L’origine benestante non preclude a Matteotti di vivere tra la «sua gente» del Polesine, dove compie le prime esperienze politiche e il passaggio da amministratore locale a personaggio di statura nazionale. Lo studio di quel «mondo rurale» avvia l’uso di categorie interpretative come quelle relative al socialismo territoriale e di democrazia verticale dalla periferia comunale al centro statale. Tra continuità e ripresa dei codici etici, Matteotti matura una fedeltà assoluta ai valori democratici. Per questo motivo difende i principi di eguaglianza e di giustizia sociale in un’Italia che sottomette i diritti più elementari dei lavoratori al potere consolidato del ceto politico.

     

    Lontano dai massimalisti dogmatici quanto dai riformisti inclini ai patteggiamenti o, peggio ancora, ad alleanze di opportunismo politico, Matteotti non si sente vincolato a formule teoriche astratte e professa una visione pragmatica, le cui radici affondano nella tradizione gradualista del socialismo europeo. Il confronto tra Matteotti e Turati è significativo per comprendere il socialismo riformista e l’opposizione all’insorgenza del fascismo. Non sempre concorde con il veterano del socialismo italiano, Matteotti è tra i primi a comprendere la natura eversiva del fascismo e la manipolazione dell’opinione pubblica da parte del regime dittatoriale. La costituzione del Partito socialista unitario risponde ad un’esigenza di lotta, a cui buona parte delle masse è estranea o indifferente. La centralità della Parlamento diventa così il luogo preferenziale del dialogo, ma anche di denunce per ripristinare il rapporto tra Stato e cittadino.

  • LENIN, IL CENTENARIO
    DELLA MORTE

    data: 05/02/2024 00:41

    Il 21 gennaio è ricorso il centenario della morte di Vladimir Il’ič Ul’janov Lenin, il rivoluzionario russo che fece sprofondare il suo Paese nell’abisso più cupo del comunismo. Ora, per l’occasione, l’editore Carocci ha pubblicato il volume «Lenin, il rivoluzionario assoluto (1870-1924)» di Guido Carpi, già autore di altri due libri sul medesimo personaggio e sulla sua formazione politica fino alla rivoluzione bolscevica del 1917. Con essa ebbe inizio un nuovo sistema politico, che all’esaurirsi della guerra civile costituirà «il nerbo esecutivo nei soviet, nel partito e nelle aziende di stato» (p. 17).

    Carpi inquadra le origini familiari di Lenin, l’ambiente sociale (pp. 21-26), le letture formative e le prime esperienze politiche con la nascita della rivista «Iskra» («La Scintilla», 1900-05). Una rivista che, per l’autore, è destinata «a grandi fasti» per la presenza di «un nuovo tipo di militante» (p. 27), coadiuvato da Lenin per «tenere i compagni a tenere la barra dritta» (p. 28). Così pubblica il «libello Che fare?» (1902) come guida metodologica per costituire una setta rivoluzionaria, guidata da professionisti con lo scopo di somministrare al proletariato la dottrina marxista. Grazie ad essa la classe operaia può acquisire una «coscienza politica» e condurre «una serie di lotte inizialmente solo economiche» e poi indirizzate in una  «dimensione politica» (p. 29 e p. 30).

    Nel prosieguo della sua narrazione, l’autore presenta il soggiorno di Lenin in Svizzera, dove negli anni compresi tra il 1905-07 «percepisce tutta la fragilità del movimento da lui diretto e invita i compagni presenti in loco a puntare sui giovani» (p. 33). Così stabilisce la sua teoria del partito come forma suprema di organizzazione proletaria «e il nodo centrale della lotta per l’egemonia» (p. 34). È però l’evento del Primo conflitto mondiale che segna una svolta nel pensiero di Lenin, che definisce un legame inscindibile tra teoria e azione politica: un modello organizzativo che porterà alla Rivoluzione russa e alla gestione  degli «affari di governo» (p. 75). Così smobilita il vecchio esercito, denuncia la diplomazia segreta, pubblica le clausole predatorie definite dalle potenze dell’Intesa e costituisce il Partito comunista russo (Pcr) sulla base della vecchia frazione socialdemocratica.

    Nei capitoli successivi l’autore analizza «l’organizzazione del potere» (pp. 85-92), «la questione nazionale e il Komintern» (pp. 93-102) e la crisi che investe il partito nel corso del 1921 con la battuta d’arresto del partito bolscevico. La questione deriva – come afferma Lenin più volte – dal fatto che concludere il progetto rivoluzionario è  più difficile di averlo iniziato. Sorgono le prime proteste dei contadini, che scatenano una guerra civile per le «vessazioni odiose» imposte dal nuovo governo (p. 104). Si crea anche una situazione di riflusso rivoluzionario, come evidenzia la rivolta di Kronštadt, che «viene in buona misura fomentata dall’ex generale Alexandr Kozlovskij» con obiettivi diversi tra marinai e ufficiali, poiché «i primi vagheggiano un ingenuo anarchismo sovietico senza i bolscevichi, mentre i secondi contemplano un ampio spettro di opzioni che dal ritorno all’Assemblea costituente alla restaurazione monarchica» (p. 106).

    Nel X congresso del partito (marzo 1921), Lenin impose la NEP, ossia quella nuova politica economica, che deve investire anche le masse contadine per favorire la distensione nei loro confronti (p. 111), incoraggiare la formazione di investimenti e l’elettrificazione del Paese (p. 113). Alla soluzioine di questi problemi Lenin dedicò l’ultima attività politica, volta ad organizzare la società su basi operaie e contadine. Per cause di salute si ha la crisi del leader (pp. 117-127) con l’ultima apparizione il 20 novembre 1922 di Lenin, la sua uscita di scena e l’ascesa al potere di Stalin (pp. 129-134). Colpito da emorragia cerebrale e paralisi, Lenin si spegne il 21 gennaio 1924, lasciando un testamento critico verso il suo successore.

    Per oltre sessant’anni il culto di Lenin fu mantenuto vivo con vigore dalle autorità sovietiche: alla sua morte esso regredì così tanto da ritornare alla situazione antecedente alla Grande Guerra.  Solo nel 1987 con Gorbaciov ebbero inizio le prime critiche al dominio personale di Lenin. I suoi metodi antidemocratici, che verranno poi applicati da Stalin, furono diretti contro gli avversari politici (liberali e socialdemocratici) e contro la Chiesa ortodossa con arresti indiscriminati e condanne ai lavori forzati. Corollario principale della sua attività politica fu infatti la distruzione del nemico, responsabile di impedire l’ascesa al potere del proletariato. Eppure la morte di Lenin, i cui funerali furono organizzati dalla polizia segreta (Čeka), suscitò un immenso cordoglio e il 27 gennaio 1924 uno stuolo imponente di persone rese omaggio al padre dell’Unione sovietica. Ottant’anni dopo, a poco distanza dalla Piazza rossa che ancora ospitava la mummia di Lenin nel suo mausoleo, migliaia di russi si accalcarono per baciare l’urna con la mano di San Giovanni Battista, ritornata per la prima volta dopo la Rivoluzione russa.

  • JOSÉ SARAMAGO.
    LA LETTERATURA
    COME IMPEGNO CIVILE

    data: 18/12/2023 23:54

    La ristampa dei romanzi «Il viaggio dell’elefante» e «La zattera di pietra» di José Saramago, entrambi editi quest’anno da Feltrinelli, deve essere considerata un’iniziativa encomiabile per conoscere le opere di colui è considerato il maggiore romanziere portoghese. José Saramago (1922-2010) diventa noto in Italia negli anni Ottanta del secolo scorso. Ma le sue simpatie per il nostro Paese risalgono al 1970, quando decide di ambientarvi «Manuale di pittura e di calligrafia» (1977) e acconsente alle prime traduzioni dei suoi romanzi.

    Con le opere «Memoriale del Convento» (1984) e «Zattera di pietra» (1986), Saramago pubblica due libri diversi come trama, ma prodotti da una fervida fantasia e da un’inventiva straordinaria. Nel primo racconta la storia del convento di Mafra che don João V promette di edificare se gli fosse nato un erede al trono, mentre nel secondo narra in chiave fantapolitica l’unione tra Portogallo e Spagna per descrivere il diverso comune sentire nei due Paesi iberici. Con quei due romanzi Saramago riscuote un successo europeo, dopo un impegno diretto contro la dittatura di Salazar, la partecipazione alla cosiddetta «rivoluzione dei garofani» e la condirezione del periodico

    «Diario de noticias». Con la morte di Salazar (1970), egli intensifica la sua produzione letteraria, pubblica racconti e poesie a sfondo erotico sessuale per spostarsi poi su temi di carattere sociale.

    Nel 1980 Saramago scrive il suo primo vero romanzo «Una terra chiamata Alentejo», un grande affresco della società contadina dedicato a quella regione del Portogallo. Segue «La storia della leggenda di Lisbona» (1989), in cui narra la vicenda di un correttore di bozze che cambia il corso degli eventi inserendo una negazione nella frase di un cronista riguardo all’assedio del 1147.

    Grazie a questa operosità letteraria Saramago riceve nel 1990 la laurea ad honorem a Torino, nel 2001 a Roma e nel 2002 a Siena, dove tiene conferenze, pubblicate nel volume «Lezioni italiane» (Roma 2022). Si tratta di dieci testi che lo scrittore portoghese espone in diverse università italiane,

    alle quali è legato da vincoli di affetto, oltre che da una simpatia per quella che egli considera «la prima delle sue altre patrie».

    Con l’opera «Il Vangelo secondo Gesù Cristo» (1991) utilizza i temi religiosi per muovere un’aspra critica alla Chiesa: una situazione che provoca la censura delle autorità governative, il suo abbandono del Portogallo e il trasferimento nelle isole Canarie. Con «Cecità» del 1995 Saramago inaugura un nuovo stile narrativo denominato allegorico, dal momento che la cecità corporea è un

    espediente per denunciare l’ottusità sociale e il mondo di coloro che non sanno usare la ragione: «La cecità del romanzo è la metafora della mancanza di ragione nei rapporti umani». Durante il confinamento da coronavirus, «Cecità» – insieme alla «Peste» di Camus – è uno dei libri

    più letti per il suo riferimento allegorico ad un’umanità imbarbarita che viene travolta da un’epidemia che conduce alla cecità. Un’altra forma di allegoria si rileva anche nel romanzo «Tutti i nomi» (1997), dedicato al tema del doppio, il cui protagonista si muove alla ricerca di una morta trovata nel casellario dell’anagrafe.

    Grazie ad una ricca operosità di romanziere, Saramago ottiene nel 1998 il premio Nobel per la letteratura, che gli viene concessa dall’Accademia svedese per la sua capacità di «conoscere realtà difficili da interpretare». L’impegno letterario non viene meno neppure dopo la concessione del Nobel. Nel 2000 pubblica «La caverna» e nel 2004 «Saggio sulla lucidità», le cui storie si muovono tra una critica alla globalizzazione e la denuncia ironica delle armi.

    Proprio al traffico d’armi dedica negli ultimi mesi della sua vita un ultimo romanzo, a cui dà il titolo provvisorio «Alabarde, Alabarde, spingarde, spingarde» tratto dai versi del poeta portoghese Gil Vicente. 

  • GUIDO REGINA. ALLE
    ORIGINI DEL CONFLITTO
    ISRAELIANO-PALESTINESE

    data: 06/12/2023 22:40

    Comunemente il conflitto tra ebrei e palestinesi è collocato nella prima guerra seguita alla costituzione dello Stato d’Israele (14 maggio1948). Esso cominciò invece negli ultimi lustri del XIX secolo, come si ricava dal volume «Lo Stato di Israele. Dalle origini al conflitto israelo-palestinese» (1850-1948» (Mimesis, Milano-Udine 2023, pp. 357) di Guido Regina. Su questa vicenda l’autore offre un prezioso contributo, ripercorrendo la diaspora ebraica dalla Russia zarista fino ai primi insediamenti in Palestina e alla costituzione del nuovo Stato.

    Proprio durante il regno di Alessandro II, morto il 13 marzo 1881 a causa di un attentato terroristico, si scatenò in diverse città della Russia un pogrom contro gli ebrei, accusati di avere ordito il regicidio. In realtà, solo uno degli attentatori era di origine ebraica e l’episodio offrì l’occasione di reagire ai pogrom. Fu così costituita nel 1881 un’associazione denominata «Bjlu» (dalle iniziali di un versetto di Isaia: «Beth Jaakov Lekhou Ve Nelkha» («Casa di Giacobbe, venite camminiamo», Isaia, 2, 5), composta da quaranta membri con il proposito di stabilirsi in Palestina.

    Il nome dell’associazione fu associato ad un programma in cui la Palestina era scelta come sede storica e naturale degli ebrei. Tra i primi a sbarcare nella «terra promessa» vi era Zèev Dubnov, promotore di un ambizioso progetto volto ad «prendere possesso nel tempo della Palestina e restaurare la indipendenza politica di cui gli ebrei sono stati privati per duemila anni». La selvatichezza turca, aggiunse egli, non avrebbe assunto resistenza all’insediamento (in ebraico «Yishuv») delle colonie agricole. Nel 1882 il governo ottomano vietò agli ebrei di stabilirsi in Palestina, ma il divieto fu aggirato con regalie ai funzionari locali, che favorirono così l’acquisto delle terre e scatenarono numerosi conflitti con i palestinesi.

    Negli anni compresi tra il 1883 al 1903 furono costituite 24 colonie ebraiche grazie allo stanziamento di un milione e 600 mila sterline da parte del barone de Rothschild e alla fuga dei contadini palestinesi, schiacciati dai debiti e oberati dalle imposte del dominio turco. In pagine ben

    documentate, Guido Regina analizza «palestinocentrico» dei primi sionisti, che predicano il ritorno alla patria ancestrale dei loro avi e appoggiano le iniziative del Fondo Nazionale Ebraico con lo scopo «di acquistare terre e promuovere lo sviluppo delle coltivazioni». Così incoraggiano la serie di «Aliyah» che si susseguono fino alla costituzione dello Stato di Israele (1904-1948.

    Negli anni inquieti del Primo conflitto mondiale, il progressivo disfacimento dell’Impero ottomano e le mire delle potenze europee furono gli eventi decisivi, intorno ai quali gli ebrei giocarono le loro carte per mettere a tacere le richieste di indipendenza dei palestinesi. Con la Dichiarazione Balfour (1917) e il Mandato britannico riconosciuto nella conferenza di San Remo (1920), gli ebrei furono favoriti nell’acquisto di nuove terre a Cesarea, ad Afule e nel Beisan. Il divieto di utilizzare manodopera palestinese inasprì i rapporti con gli ebrei con periodici scontri, spesso confluiti in omicidi da entrambe le parti.

    Nell’ultimo capitolo Regina analizza il ruolo della Gran Bretagna e dell’America nella partizione del territorio che portò alla risoluzione 181 delle Nazioni unite e alla nascita dello Stato di Israele, che assunse lo stesso nome biblico di quello antico. Nella scelta fu decisivo l’apporto di Ben Gurion (1883-1973) e Ben Zvì (1884-1963), che come protagonisti della Seconda «Aliyah» divennero l’uno primo ministro e l’altro presidente. Una minuziosa cronologia, un glossario dei termini ebraici, una ricca bibliografia e cinque cartine geografiche aiutano a comprendere la vicenda più controversa del Medio Oriente.

  • JON FOSSE
    IL NOBEL DEL DOPPIO

    data: 26/10/2023 00:03

    Una famosa frase del poeta Arthur Rimbaud è posta in esergo all’ultimo romanzo Io è un altro. Settologia III-IV (2020) di Jon Fosse. Esso, non ancora edito in Italia, comprende un’opera che nella prima parte ha come protagonista una giovane coppia in cerca di identità. Grazie a questa impresa narrativa, di cui è uscito il primo volume L’altro nome. Settologia I-II (2019, 2021), e alle numerose pièce teatrali, lo scrittore ha ricevuto il Premio Nobel, quarto drammaturgo norvegese dopo Biørnstjerne Biørnson (1903), Knut Hamsun (1920) e Sigfrid Undset (1928).

    Nato a Haugesund il 29 settembre 1959, Fosse vive a Oslo nella residenza reale di Grotten per meriti letterari, ma trascorre lunghi soggiorni in Austria con la moglie di origine slovacca. Dopo la laurea in Lettere comparate all’Università di Bergen, Fosse esordisce nel 1983 con il romanzo Rosso, nero, a cui aggiunge nel 1992 Qualcuno arriverà: titolo che è posto in antitesi al celebre Aspettando Godot di Samuel Beckett. Oltre all’influenza del drammaturgo irlandese, Fosse subisce quella del poeta austriaco Georg Trakl e dello scrittore norvegese Tarjei Vesaas.

    La vasta produzione di Fosse comprende Melancholia I e II (1995 e 1996) e Insonni (2011), il primo monologo del pittore norvegese Lars Hertervig e il secondo di una favola moderna. Altri titoli sono E la notte canta (1997), La ragazza sul divano (2002), che sono preparatori di una impresa narrativa, poi confluiti nel romanzo Io è un altro.

    Settologia III-IV, in cui è ripreso il tema classico del doppio. Il protagonista di nome Asle, un vecchio pittore ex bevitore, ha come amico un altro Asle, un suo doppio che si muove nel paesaggio norvegese di mare e di neve. Una trama che nasce solo in parte dall’autobiografia, ossia da esperienze personali, arricchite da una fervida fantasia e da una vasta conoscenza della letteratura europea.

  • RENZO VIDESOTT,
    PIONIERE DELL’AMBIENTALISMO

    data: 16/08/2023 22:57

    In un momento così critico per l’Italia, afflitta da alluvioni, grandinate e incendi, non è fuori luogo ricordare Renzo Videsott, pioniere dell’ambientalismo e protagonista dell’alpinismo italiano. Pur essendo originario di Trento, egli - era nato il 10 settembre 1904 - si formò nell’Ateneo di Torino, dove si laureò nel 1928 in medicina veterinaria, insegnando poi nella città subalpina patologia e clinica medica. Tre anni prima è già considerato un eroe dell’alpinismo italiano grazie alla lezione di Luigi Scotoni (1891- ?), suo mentore e amico, che lo introdusse nella Società degli alpinisti trentini e nel Gruppo di Brenta.

    Segnalatosi in una serie di imprese come la scalata alla Cima di Brenta, Videsott divenne alla morte di Scotoni il rappresentante dell’alpinismo dolomitico, nutrendo verso di lui una tale devozione da considerarlo un maestro di vita e di arrampicata al punto di porlo come modello ideale accanto a George Mallory (1886-1924), il primo alpinista a tentare a più riprese la conquista dell’Everest.

    Prima cacciatore e «sterminatore di selvaggina d’alta montagna», e poi «vero apostolo della natura», come ricorda Luigi Piccioni nella biografia Primo di cordata.

    Renzo Videsott dal sesto grado alla protezioinne della natura (prefazione di Armando Aste e Fulco Pratesi, Tipografia Editrice Temi, Trento 2010). Ma un giorno, di fronte ad un camoscio ferito a morte, cambiò atteggiamento verso gli animali e giurò di «impegnarsi per la specie stambecco e per l’istituzione di un parco».

    Durante la Seconda guerra mondiale Videsott militò nelle file del movimento partigiano e strinse amicizia con Federico Chabod, il quale lo aiutò nel suo impegno contro l’estinzione dello stambecco e, con il beneplacito del comando alleato, riuscì a riorganizzare il Parco del Gran Paradiso. Così nel 1948 realizzò il suo progetto con la promozione e la rinascita del Parco, che sottrasse all’incuria della politica e della devastazione bellica.

    Con Tommaso Gallarati Scotti il 25 giugno 1948 Videssot fondò il Movimento italiano per la Protezione della Natura. Lo stesso anno diventò direttore del Parco, ricostituì l’organico dei guardiaparco e rinnovò la rete dei sentieri e dei casotti di sorveglianza per porre fine al bracconaggio. Per la sua politica innovativa, volta alla protezione della natura, egli fu sottoposto ad aspre critiche dai valligiani, che il 28 dicembre del 1968 chiesero la testa del loro direttore. Così alcuni membri del Parco nazionale del Gran Paradiso, nominati dalla regione Valle d’Aosta, presentarono una mozione contro Videsott «per una serie di addebiti e una richiesta di sospensione». Egli reagì con un minuzioso memoriale, dove ripercorse il suo operato venticinquennale (cfr. Il Parco nazionale del Gran Paradiso nelle lettere di Renzo Videsott, a cura di Franco Pedrotti, Tipografia Editrice Temi, Trento 2007, pp. 461- 490).

    Nonostante ciò, Videsott rassegnò le dimissioni e mantenne fede ai suoi ideali di visionario con il vizio di agire in fretta e di guardare lontano. Alla sua morte, avvenuta a Torino il 4 gennaio 1974, l’alpinista e musicologo Massimo Mila scrisse un necrologio e cosi ricordò l’amico scomparso: «Molti ricordano quel simpatico gruppo di “dolomitici” che sotto i portici di piazza Carlo Felice, tutti i giorni dall’uno alle due, iniziavano i rustici alpinisti torinesi ai dolci segreti del canto corale alla trentina».

    Morto in solitudine e dimenticato negli anni successivi, Videssot fu ricordato a Torino l’11 ottobre 1985 in un convegno sui parchi. Solo nel 2000, quando l’Associazione amici del Gran Paradiso gli dedicò un sentiero a Videsott, quello che si stacca dalla destra che da Ceresole va al Nivolet e dove è facile trovare branchi di stambecchi.

  • CÉLINE E IL ROMANZO
    INCOMPIUTO “GUERRA”
    IL DISINCANTO DELLA REALTÀ

    data: 01/08/2023 09:09

    Che Louis-Ferdinand Céline sia un grande scrittore è riconosciuto anche dai suoi avversari. Prosa avvincente stile sarcastico caratterizzano l’opera di questo scrittore nato a Courbevoie il 27 maggio 1894 e morto a Meudon nei pressi di Parigi il 1° luglio 1961. Del romanziere francese, che esprime una profonda visione pessimistica dell’uomo, si ricordano i tre libri (Bagatelle per un massacro del 1937, La scuola dei cadaveri del 1938 e La bella rogna del 1941), da decenni  noti in Italia.

    A questi libri si aggiunge ora il romanzo incompiuto libro Guerra (Adelphi, Milano 2023, pp. 160), che dopo aver riscosso un discreto successo in Francia giunge anche in Italia con la traduzione di Ottavio Fatica. Se nel romanzo La scuola dei cadaveri (1938) Céline attribuisce le responsabilità della guerra futura ai falsi democratici, indicando soluzioni concrete alla crisi europea nella riconciliazione tra Francia e Germania, in Guerra la trama si colloca nel Primo conflitto mondiale e presenta le esperienze dello scrittore ferito in battaglia durante una missione per conto del suo reggimento.

    Scritto alcuni anni dopo un capolavoro come  Viaggio al termine della notte (1932), il nuovo libro narra l’orrore della guerra e racconta le vicissitudini dei soldati in uno stordimento peculiare già presente in altri scritti. In pagine dense di cupo pessimismo il romanziere francese mette a nudo le miserie dei soldati in un mercato saturo di sesso, dove infermiere necrofile cedono il passo a prostitute venute al fronte per rimpinguare le loro richieste di denaro.

    Nella rievocazione dei giorni terribili trascorsi al fronte, Céline descrive il lugubre scenario della guerra, dove vittima del bombardamento tedesco subisce per la ferita al braccio e all’orecchio allucinazioni e svenimenti. Sono esperienze lontane nel tempo, ma i ricordi restano ancora vividi: il ferimento a Poelkapelle, il ricovero e la degenza nell’ospedale militare, le cure di un’affascinante infermiera e l’intervento del medico impaziente di estrarre la pallottola. Su tutto domina il turbamento di un destino funesto e la paura di essere accusato di diserzione o tradimento e di finire al muro. 

    Il “fetente” vissuto quotidiano rende consapevole lo scrittore che nella descrizione di un microcosmo rivela la verve di un fine ritrattista e la qualità di un impareggiabile conoscitore dell’animo umano. È in questa consapevolezza emerge un ritratto della realtà, che oltrapassa la nuda e gretta verità dei fatti per valutare le miserie umane con disincanto poetico e raccontare l’egoismo dell’istinto di sopravvivenza. con naturalezza. È in questo stile sarcastico e iroso che emerge l’arte narrativa di Céline, conscio che i più nobili ideali civili possano dar spazio ai più bassi istinti della carne.

    Considerato per queste riflessioni un ostinato conservatore Céline sfugge alle tradizionali categorie politiche per il suo “andare controcorrente” e per la sua visione pessimistica dell’uomo. Ritorna sempre attuale il concetto secondo cui il ripristino automatico del male è dettato dall’assenza di alternative e dalla possibilità per l’uomo di immaginare vite diverse nelle sue relazioni con il proprio simile.

  • AMELIA ROSSELLI E
    GAETANO SALVEMINI.
    UN CARTEGGIO INEDITO

    data: 28/04/2023 00:02

    Amelia Rosselli e Gaetano Salvemini, l’una  scrittrice e letterata, l’altro storico e meridionalista, sono personaggi noti nella cultura democratica del nostro Paese. Di queste due figure dell’antifascismo italiano sono stati pubblicati molti saggi, ma sino ad oggi mancava un volume che raccogliesse il loro carteggio. Ha colmato questa lacuna l’edizione del «Carteggio», a cura di Carla Ceresa e Valeria Mosca e pubblicato con il titolo «Non ci è lecito mollare» (Effigi edizioni. Arcidosso-Gr 2023, pp. 354). Si tratta di 213 lettere che, ad eccezione di quattro datate tra il 1915 e il 1926, coprono il periodo che va dalla tragedia di Bagnoles-de-l’Orne fino alla morte della scrittrice veneziana avvenuta a Firenze il 26 dicembre 1954. 

    Proprio nella cittadina francese il 9 giugno 1937 i figli Carlo e Nello furono uccisi da sette membri del gruppo  estremista «Cagoule». La prima lettera è datata 13 luglio con l’invito della madre a tenere viva la memoria dei fratelli Rosselli. Salvemini si impegna a raccogliere gli scritti e a svolgere un’opera di denuncia finalizzata a individuare i responsabili e a chiarire il movente del loro omicidio. Alcuni mesi dopo la tragedia lo storico pugliese pubblica a Londra un libretto rievocativo per difendere l’opera di Carlo e confutare la voce che Nello avesse aderito al Regime fascista dietro influsso dello storico Gioacchino Volpe. 
    Nei prossimi 17 anni Salvemini, su invito di Amelia, smonta la diffamazione mediatica che circola in alcuni ambienti storici di un cedimento di Nello per l’annuncio di una «prossima pubblicazione» della sua storia diplomatica in una collana diretta dallo storico fascista. Si avvia così un fitto dialogo con uno scambio culturale che raggiunge alti toni interpretativi della storia d’Itallia. La raccolta postuma dei «Saggi sul Risorgimento», edita nel 1946 con la prefazione di Salvemini, esprime un fecondo e attivo impegno, da cui non si può prescindere nei saggi storici sulla costruzione dello Stato unirario. 
    Sull’opera di Carlo Rosselli, Salvemini offre un contributo storico rilevante mediante una lettura della storia d’Italia attraverso la questione delle classi dirigenti secondo moduli interpretativi riconducibili alla teoria delle élites di Vilfredo Pareto o a quella minoritaria di Gaetano Mosca. «La storia  – dirà lo storico di Molfetta – non è fatta né dalle moltitudini inerti, né dalle oligarchie politiche. La storia è fatta dalle minoranze consapevoli ed attive, le quali vincendo l’inerzia delle moltitudini, le trascinano verso nuove condizioni di vita anche contro la loro immediata volontà».
    In quest’àmbito il carteggio offre una vera e propria narrazione storica che entrambi metteranno a frutto nelle loro memorie. Amelia Rosselli si dilunga sugli interessi del figlio Nello, sulla sua attività di storico e i rapporti con Volpe. Salvemini si impegna a ripubblicare il suo saggio biografico del 1937 come lavoro di aggiornamento per una raccolta completa degli scritti di entrambi i fratelli. Il nuovo clima politico seguito alla caduta del Fascismo e all’età repubblicana non approda all’edizione completa dei loro scritti, che vedranno la luce solo negli Ottanta e Novanta del XX secolo. 
    Il carteggio è  arricchito dai saggi di Simone Visciola e di Gigliola Sacerdoti Mariani, il primo pubblicato nel 2007 e ora riadattato per la sua edizione, mentre il secondo è volto ad uno studio sulle occorrenze per analizzare «il linguaggio della sofferenza e della generosità». Se Visciola ripercorre la storia dello scambio epistolare, la Sacerdoti Mariani offre uno spaccato linguistico per definire sentimenti e valenze culturali, che presentano un grande interesse per la conoscenza del periodo storico in cui le lettere sono collocate dai due curatori. L’imperativo del «Non mollare», il cui titolo è ripreso dal periodico uscito a Firenze dal gennaio all’ottobre 1925, pervade il carteggio fra Amelia Rosselli e Gaetano Salvemini, entrambi impegnati a tenere viva la memoria di Carlo e Nello Rosselli.
     

  • LA RUSSA, I REGIMENTI BOZEN E VIA RASELLA

    data: 06/04/2023 23:44

     

    Le parole di Ignazio La Russa sulla strage romana di via Rasella hanno scatenato un putiferio su tutta la stampa nazionale. Se fossero state dette da un semplice cittadino, esse sarebbero state subito dimenticate, ma nel caso del presidente del Senato la questione ha assunto toni allarmanti anche per la sua valenza politica. Quella frase sui soldati uccisi il 23 marzo del 1944, considerati «non biechi nazisti delle SS, ma semipensionati di una banda musicale». ha spostato l’attenzione su un episodio storico che divide gli Italiani da quasi ottant’anni. Sembra assistere a un derby calcistico dove si scontrano fazioni avverse che si rinfacciano numero di morti e di feriti con gravi elenchi di responsabilità riversate sui tedeschi occupanti oppure sugli adepti dei Gruppi di azione patriottica.

    In un’intervista di Simonetta Fiori a Lutz Klinkammer, questi ha smentito la frase di La Russa, sostenendo «di non avere mai letto questa notizia in nessun libro di storia» (“Erano soldati appartenenti alle SS ecco la verità sulla Bozen”, in “la Repubblica”, 1° aprile, p. 9). Così lo storico tedesco cita il libro «Uomini comuni. Polizia tedesca e “soluzione finale” in Polonia di Cristopher (recte: Christopher) Browning per ribadire la ferocia dei battaglioni di polizia creati da Himmler nello sterminio degli ebrei nell’Est europeo e nel «rastrellamento degli ebrei il 16 ottobre del 1943».

    Per Giovanni De Luna è in atto un tentativo di «riscrivere la storia», che sfiora per alcuni aspetti «il grottesco» mediante operazioni artificiose volte a considerare la Resistenza come un’esperienza «di comunisti voltagabbana». Persino nell’increscioso episodio di Via Rasella – secondo l’articolista de “La Stampa” – si asssiste ad un tentativo di stravolgere la storia, perché si trattò del più clamoroso attentato urbano antidedesco della Resistenza europea», ossia «fu la risposta vincente alla delusione per la mancata insurrezione antifascista a ridosso dello sbarco di Anzio; fu il tentativo – come appurò una Commissione italo tedesca nel 2012 – di contrastare l’occupante  e “scuotere la maggioranza della popolazione civile dello stato di attesa passiva in cui versava” » (G. De Luna, Quel battaglione Bozen, in «La Stampa» del 1° aprile). Nulla è detto sui contrasti che l’azione dei Gap provocò nella compagine antifascista: eclatante il giudizio negativo di Ferruccio Parri. Non vi è alcun cenno al fatto che nelle settimane successive Roma sarebbe stata liberata senza vedere alcuna popolazione in armi.

    Nell’editoriale uscito su «La Stampa» del 2 aprile,  Massimo Giannini ha espresso un aspro giudizio sulla «sparata su Via Rasella» del presidente del Senato. La sua frase sui soldati uccisi il 23 marzo del 1944, considerati «non biechi nazisti delle SS, ma pensionati di una banda musicale», non è che il risultato di una boutade che non trova alcun riscontro nella realtà storica. Nonostante ciò essa non presenta alcun elemento di novità, poiché già i tedeschi (e i fascisti) «più tardi affermarono che la colonna non si componeva di SS. Questa ed altre affermazioni avevano l’intento di descrivere la colonna come un gruppo di uomini anziani e innocui» (cfr. R. Katz, Morte a Roma. Il massacro delle Fosse Ardeatine, Editori Riuniti, Roma 1994, p. 7).

    Lo storico americano precisa che il 3° battaglione di reggimento di polizia SS Bozen fu costituito nell’ottobre 1943 con reclute del Sud-Tirolo, incorporate nella miliazia tedesca con la denominazione di «Alpenvorland». Dal febbraio del 1944 esso fu comandato da Hellmuth Dobbrik con lo scopo di prevenire e reprimere gli atti diretti contro le milizie tedesche. Formato da 156 uomini, i soldati di questo battaglione acquisirono una fama «notoriamente crudele», secondo la testimonianza di un cittadino svizzero, che affermò: «Le SS di Karl Wolff stanno comportandosi in Italia come se si trattasse della Russia» (E. Wiskemann, The  Rome-Berlin Axis, Oxford 1940, p. 133, cit. da R. Katz alla p. 22).

    Al battaglione militare tedesco si opposero i Gruppi di azione patriottica (i famosi Gap), costituiti alla fine del settembre 1943 come «quinta colonna» finalizzata a danneggiare sul piano militare l’avversario, considerato responsabile di atti nefandi. L’iniziativa di formare questi gruppi di ispirazione comunista è attribuita comunemente a Ilio Barontini (1890-1951), già comandante della XII brigata Garibaldi nella guerra civile spagnola e organizzatore della guerriglia in Etiopia durante l’occupazione fascista. Ritornato in Italia subito dopo l’armistizio, egli insegnò ai gappisti la preparazione di ordigni esplosivi rudimentali ma molto efficaci.

    Tra le azioni dei gappisti si ricorda l’attentato dinamitardo che fece saltare in aria il 2 ottobre 1943 un deposito di munizioni a Milano; l’uccisione qualche giorno dopo di quattro soldati a Novara; l’omicidio il 29 ottobre del responsabile della Milizia di Torino; l’omicidio il 1° dicembre a Firenze del colonnelo Gobbi; l’omicidio il 18 dicembre del federale di Milano; quello del federale di Bologna il 28 gennaio 1944, l’omicido di Giovanni Gentile il 15 aprile e l’eccidio di Via Rasella.

    Una pagina poco nota che precede il triste episodio delle Fosse Ardeatine, è quella connessa alla morte del modenese Giorgio Labò, del lionese Guido Rattoppattore, del tedesco Paul Lauffer e altri uccisi a Forte Bravetta il 7 marzo 1944. Arrestati per atti di sabotaggio, essi furono sottoposti a sevizie disumane prima di essere fucilati dai tedeschi. Labò fu tenuto per 18 giorni con mani e piedi legati, mentre a Rattoppattore furono tagliate le dite della mano destra. Fu l’unica rappresaglia eseguita prima delle Fosse Ardeatine, in cui come quella dei Martiri di Forte Bravetta vide coinvolti venditori ambulanti e membri dell’aristocrazia piemontese, civili e militari, cattolici ed ebrei, apolitici ed antifascisti.

    Sull’efferato attentato di Via Rasella, che causò la morte di 32 soldati e il ferimento di altri 110, pagine interessanti si ritrovano nei libri di Roberto Battaglia, di Claudio Pavone  e di Mario Ragionieri. Nel volume «Storia della Resistenza italiana 8 settembre 1943 – 25 aprile 1945, Einaudi, Torino, p. 226)», Battaglia offre una ricca bibliografia su Via Rasella, citando i libri «La prigionia di Roma. Diario dei 268 giorni dell’occupazione» (Roma 1946) di Carlo Trabucco e «La carte vincente. Memorie diplomatiche 25 luglio 1943 – 2 maggio 1945» (Roma 1948) di Eitel F. Moellhausen. Nel volume «Una guerra civile. Saggio storico sulla moralità nella Resistenza» (Torino 1991, p. 494) Claudio Pavone ricorda Ferruccio Parri e la sua contrarietà alle azioni di terrore perpetrate dai gappisti, in opposizione ad altri azionisti favorevoli come Dante Livio Bianco o Leo Valiani. Nel libro «La campagna d’Italia. Maggio 1944-aprile 1945. L’anno più difficile» (Porto Sefuro 2021, p. 11), Ragionieri dà un quadro efficace dell’attentato di Via Rasella e del ruolo che ebbero Carla Capponi e il marito Rosario Bentivegna, colui che fece brillare la carica d’esplosivo nell’azione di Via Rasella: «un’esplosione che scosse tutto il centro della città» di Roma.

    Sulla scia della lezione di Parri, Norberto Bobbio espresse un giudizio negativo, ripudiando «la necessità del terrorismo come prevenzione dell’inevitabile terrorismo tedesco». In una dichiarazione pubblicata sui «Quaderni Radicali» del 1979, egli richiamò una frase di Popper, secondo cui «la violenza genera violenza sempre maggiore», e condannò senza mezzi termini l’attentato di Via Rasella, invitando a distinguere «giudizio politico e giudizio storico». Solo così è possibile «capire e far capire come sono andate le cose», perché le nuove generazioni giudichino con serenità «i fatti del passato», lasciando un messaggio straordinariamente attuale: «Non possiamo fare di tutti i nostri discendenti una ininterrotta stirpe di figli di Bruto. Se cosi fosse, non vi sarebbe posto per la riflessione storica. Vi sarebbe posto soltanto per la perpetuazione della contesa di parte».

    Su questo raggruppamento fecero affidamento invece i leaders del Partito comunista per realizzare un progetto ben definito di sovversione sociale. Il 24 gennaio 1944 Palmiro Togliatti invitò i «patrioti e le loro organizzazioni» a  «sabotare  nel modo più radicale le vie di comunicazione dei tedeschi, fare deragliare i treni, distruggere i nodi di smistamento, provocare scontri ferroviari, incendiare le stazioni ferroviarie, fare saltare i ponti, distruggere le linee elettriche, le prese d’acqua, le segnalazioni, le strade. Rendere impossibile ai tedeschi lo sfruttamento normale della rete ferroviaria e delle rete stradale» (cfr. P. Togliatti,  «I nuovi compiti in legame con lo sbarco nel Lazio», in «Da Radio Milano alla libertà», Editori Riuniti Rinascita, Roma 1974, p. 431 ).

    In questa stategia di lotta, come scrive Giorgio Bocca nel suo libro «Storia dell’Italia partigiana» (Milano 1995, p. 146), devono essere poste le azioni dei gappisti, arruolati nelle file studentesche dagli «stessi comunisti che [...] spiegano anch’essi la necessità del terrorismo come prevenzione dell’inevitabile terrorismo tedesco». Scelto l’obiettivo e individuato il luogo dove compiere l’attentato, i gappisti rivolsero la loro azione contro gli uomini dell’«SS-Polizei-Regiment Bozen», causando la morte di 32 soldati e il ferimento di altri 110.

    (Dedico questo lavoro a Beppe Lopez con affetto, perché la sua lezione rimanga impressa nei nostri cuori).

  • LA PREMIER E
    LE FOSSE ARDEATINE

    data: 27/03/2023 19:39

    La ricorrenza delle Fosse Ardeatine – l’eccidio che il 24 marzo del 1944 provocò numerose vittime – ha dato adito alla premier Giorgia Meloni di usare un termine generico per definire gli oppositori all’occupazione tedesca. Nel suo messaggio ella ha precisato che «335 italiani sono stati barbaramente trucidati dalle truppe di occupazione naziste come rappresaglia dell’attacco partigiano di via Rasella. Una strage che ha segnato una delle ferite più profonde e dolorose inferte alla nostra comunità nazionale: 335 italiani innocenti massacrati solo perché italiani».

    Di fronte a questo giudizio onnicomprensivo c’è stata una reazione immediata da parte di esponenti del Pd, che hanno invitato la presidente del Consiglio a «studiare» e a leggere il libro intitolato «L’ordine è stato eseguito dello storico Alessandro Portelli». A dire il vero, la letteratura sulle Fosse Ardeartine è molto ampia: basti pensare ai saggi si Silverio Corvisieri e di altri storici come Cesare De Simone, Robert Katz, R. Perrone Capano, Enzo Piscitelli e Gabriele Ranzato.

    Di quest’ultimo, autore del libro «La liberazione di Roma. Alleati e Resistenza» (Laterza, Roma 2019, pp. XXV-651), si ha un quadro esaustivo della strage delle Fosse Ardeatine, considerata «il più terribile episodio di rappresaglia subito in Italia da un grande centro abitato», utile per conoscere «il trapasso all’occupazione tedesca all’insediamento degli Alleati e del governo Bonomi».

    La strage delle Fosse Ardeatine non fu la prima rappresaglia temporale in ordine temporale, perché essa venne preceduta da quella connessa all’eccidio compiuto il 7 marzo 1944 a Forte Bravetta, dove furono uccisi il modenese Giorgio Labò, il lionese Guido Rattoppattore, il tedesco Paul Lauffer e altri oppositori alle truppe tedesche. Arrestati per atti di sabotaggio, essi furono sottoposti a sevizie disumane prima di essere fucilati dai tedeschi. Labò fu tenuto per 18 giorni con mani e piedi legati, mentre a Rattoppattore furono tagliate le dite della mano destra. Fu l’unica rappresaglia eseguita prima delle Fosse Ardeatine, in cui come quella dei Martiri di Forte Bravetta vide coinvolti venditori ambulanti e membri dell’aristocrazia piemontese, civili e militari, cattolici ed ebrei, apolitici ed antifascisti.

    Tuttavia fu l’attentato di via Rasella, attuato il 23 marzo 1944 dai Gruppi di Azione Patriottica (GAP) a scatenare la furiosa rappresaglia dei tedeschi, che subirono un attentato con la morte di trenta soldati uccisi. Tutti gappisti, guidati da Rosario Bentivegna, riuscirono a fuggire senza danni. Il giorno successivo la furibonda reazione del comando tedesco – come precisa Gabriele Ranzato – si scatenò all’impazzata: «accorsero sul luogo sparando a casaccio nella via e nei dintorni, rastrellarono invano passanti e residenti», decidendo su ordine di Hitler la morte di cinquanta uomini «italiani» e «antifascisti» per ogni soldato ucciso.

    La rappresaglia delle Ardeatine diede un duro colpo alle organizzazioni antifasciste e diffuse un clima di terrore a Roma, dove la resistenza si sposta nelle periferie con la scomparsa di nuovi attentati, mentre la città è alla fame con la riduzione della razione giornaliera di pane. Bisogna aspettare che i tedeschi abbandonino Roma e l’ingresso il 5 giugno delle truppe alleate, perchè gli abitanti riprendano una vita normale. Dopo la Seconda guerra mondiale, i tribunali militari alleati condannarono a morte i responsabili del comando militare tedesco, ma non venne inflitta nessuna pena. Si ebbe il ritorno alla libertà dei responsabili, ad eccezione di Herbert Kappler condannato all’ergastolo per avere aggiunto alle 320 vittime designate altre 10 dopo la morte dell’ultimo soldato tedesco, e cinque per un errore causato dalla sete di vendetta.

  • L'ANARCHIA FRA RAGIONE
    E NICHILISMO (A PROPOSITO
    DEL CASO COSPITO)

    data: 26/01/2023 20:02

    La vicenda di Alfredo Cospito, in carcere a Sassari per vari reati, ha riacceso i riflettori sulla storia del movimento anarchico. Egli, sebbene partecipi alla cosiddetta Federazione anarchica informale, si definisce «anarchico individualista» ed è lontano dalla struttura organizzativa dalla Federazione Anarchica Italiana, simile solo per la sigla “Fai”. Le due visioni di lotta, presenti anche nell’anarchismo storico, esprimono il nichilismo e la razionalità ottimistica. 

    Fin dalla sua origine il movimento anarchico è caratterizzato da interpretazioni diverse e opposte. Una controversia che accompagna la sua storia fin dalla cosiddetta «propaganda del fatto» e dalla mitizzazione rivoluzionaria, contraria ad ogni forma organizzativa. L’assenza di una dottrina codificata, ossia di un’univoca linea teorica, ha impedito ed impedisce il formarsi di un filone razionale, illuministico ed educativo.
    In quest’àmbito si trovano infatti l’educatore William  Godwin (1756-1836) e il nichilista Max Stirner (1806-1856), il libertario Mikhail Bakunin (1814-1876) e il comunista Pëtr A. Kropotkin (1842-1921). Se Godwin invoca un nuovo ordine societario  in nome della ragione, Stirner nega ogni autorità in nome di un nichilismo individualista. Se Bakunin esalta la libertà come fine supremo della storia, Kropotkin pone il sistema comunitario nel processo inarrestabile del progresso umano. 
    Su un piano diverso si pone Errico Malatesta (1853-1932) che, oltre a distinguere l’anarchia come fine e l’anarchismo come mezzo, si interessa solo a verificare la verità effettuale e a conferire ad esso una valenza realistica. L’emancipazione umana può essere ottenuta solo con il ricorso a istanze volontaristiche. Francesco Saverio Merlino (1856-1930), invece, punta ad una nuova società tramite lo sviluppo associazionistico dei lavoratori. Nel corso del XX secolo la diversità di opinioni non si è ridotta, ma si è esasperata tra la tendenza organizzatrice e quella individualista, entrambe rintracciabili peraltro in episodi specifici, che vanno dall’omicidio di Umberto I (1900) all’organizzazione dell’Unione sindacale italiana (1912), dalla strage del Diana (1921) alla presenza anarchica nella rivoluzione spagnola (1936).
    La persecuzione degli anarchici durante il Regime fascista e la loro partecipazione alla lotta clandestina hanno lasciato inalterate le controversie teoriche, che sono sopravvissute negli anni dell’età repubblicana. Animato da gruppi minoritari negli Cinquanta e Sessanta, il movimento anarchico assiste ad una sua ripresa nella protesta giovanile del ’68. 
    La ricerca di un «fil rouge», in grado di coniugare speranze e conflitto sociale, ha una vita breve, tramutandosi ben presto in un esasperato divario tra sogni e realtà. Alcuni ricordano ancora il messaggio di di Charles Malato (1857-1938), che lasciò un semplice pensiero letto alla sua morte dal nipote: «È morto un libertario che si è sempre battuto per realizzare i suoi ideali, vi dono questo suo pensiero: sognate bene, ma sognate forte». 
    La dottrina anarchica, trasfusa in pratiche sociali e in azioni educative, può essere efficace nel rispetto dei principi liberali e dei valori di tolleranza, ma è resa ingannevole e deleteria all’emancipazione umana con il ricorso alla violenza. L’appello di un vasto gruppo di intellettuali, rivolto al Ministro della Giustizia di intervenire sul caso Cospito e di sottrarlo al regime di detenzione del 41-bis, è un gesto esemplare di giustizia umana.

  • Il BRIGANTE E IL GENERALE
    LE CONTRO-BIOGRAFIE
    DI CROCCO E PALLAVICINI

    data: 04/01/2023 16:44

    Negli anni successivi all’unità d’Italia il Meridione divenne teatro di vere e proprie rivolte sociali. Alla maggioranza dei suoi abitanti l’unificazione apportò la leva obbligatoria (sette anni di durata), sconosciuta durante il regime del borbone Francesco II, un inasprimento delle tasse e nessun beneficio immediato. Si creò così un terreno favorevole alla diffusione del brigantaggio, già presente per un concatenarsi di fattori, tra i quali spiccava il malgoverno borbonico.
    Il fenomeno del brigantaggio, che turbò gran parte del Mezzogiorno nei primi anni postunitari, nasceva dal malessere dei contadini, ma fu stimolato da forze politiche in parte estranee ai loro interessi. Le prime reazioni si ebbero a causa delle promesse disattese da parte di Garibaldi, ma furono strumentalizzate da agenti borbonici senza l’appoggio dei quali sarebbe stato impossibile la formazione delle prime bande.
    In quest’ambito storico operarono il brigante Crocco (1830-1905) e il militare sabaudo Emilio Pallavicini di Priola (1823-1901), che si scontrarono in una guerra feroce in nome di obiettivi diversi. Le biografie dei due personaggi sono ora ripercorse da Carmine Pinto nel volume «Il brigante e il generale. La guerra di Carmine Crocco e Emilio Pallavicini di Priola» (Laterza, Roma-Bari 2022, pp. 260). Una lettura del brigantaggio e della società meridionale che riprende le ricostruzioni già presentate nel precedente volume «La guerra per il Mezzogiorno. Italiani, borbonici e briganti 1860-1870» (2019).
    La lettura storica di Pinto ripropone una nuova documentazione tratta da archivi locali (Potenza, Salerno, Torino), ma utilizza libri usciti dopo la famosa e fortunata «Storia del brigantaggio dopo l’Unità» (1964, 1966, 1976) di Franco Molfese. Merito dell’autore è quello di arricchire il quadro delle rivolte sociali che si erano verificate nel 1820 e nel 1848, la situazione economica dei contadini oberati da esose imposte dal sovrano Francesco II e il ruolo dell’indipendentismo siciliano nel crollo del regime borbonico. Con il nuovo regime unitario, i Savoia conoscevano questa situazione e sapevano che ad ogni mutamento politico si sarebbero avute sommosse sociali, che avrebbe determinato l’insorgere del brigantaggio.
    Ne nacque una guerra, forse sarebbe stato meglio dire «una guerriglia», a cui ricorsero i «galantuomini» per difendere i loro privilegi e utilizzare le bande di briganti spesso in funzione antiunitaria. In Sicilia i contadini si schierarono a favore del nuovo sovrano e dell’impresa garibaldina, ma – quando videro sfumare i loro obiettivi (abolizione della tassa sul macinato, divisione dei demani comunali) – essi ricorsero nuovamente alle sommosse sociali represse duramente dall’esercito sabaudo: la rivolta di Bronte fu il caso pù eclatante.
    Durante quest’operazione repressiva, caratterizzata dalla presenza di 120 mila militari, furono inviati corpi d’armata contro i ribelli definiti banditi: Pietro Fumel, Ferdinando Pinelli, Enrico Cialdini dimostrarono una ferocia inaudita, non minore a quella dei briganti. Tra i militari di professione troviamo Pallavicini, di cui l’autore ricostruisce la vicenda biografica, che da sottufficiale nella spedizione di Crimea (1853-56) diventa nel 1860 il protagonista della lotta al brigantaggio e al brigante Carmine Crocco. Le stampe dell’epoca lo raffigurano come un «aristocratico baldanzoso», partecipe al gran ballo tenuto a Palermo e immortalato nelle pagine del «Gattopardo» di Giuseppe Tomasi di Lampedusa e nel film girato a Palazzo Valguarnera-Gangi del capoluogo siciliano. Il colonnello appare nel film come un individuo coraggioso e guascone, autorevole ed esaltato, ma non simpatico all’aristocrazia siciliana.
    Carmine Crocco è presentato come un uomo rozzo e vigoroso, che accudiva ai lavori campestri della ricca famiglia dei Fortunato di Rionero in Vulture. Lasciato quel lavoro, egli si arruolò nell’esercito borbonico fino a diventare caporale. Le traversie cominciarono dopo una sanguinosa lite con un commilitone, che portò al suo arresto e alla traduzione in carcere, da dove riuscì a fuggire per diventare brigante. Cominciò così la sua attività criminosa, dedita alle ruberie, ai saccheggi e ai sequestri di persona perpetrati nelle cascine dei benestanti locali. Fu arrestato e incarcerato, ma riuscì ad evadere grazie alla potente famiglia dei Saraceno e dei Fortunato.
    Di quest’ultima famiglia, che darà i natali al grande meridionalista Giustino Fortunato (1848-1932), Pinto segue vicissitudini e peripezie, ascesa e declino fino agli ultimi lustri del XIX secolo. Egli racconta gli intrecci malavitosi, le «vite parallele» dei collaboratori di Crocco, da Giuseppe Caruso a Nicola Summa denominato Ninco Nanco. Il pentitismo di alcuni briganti contribuì alla sconfitta del brigantaggio: fu infatti Giuseppe Caruso, il braccio destro di Crocco a rivelare i covi segreti del suo capo. Le sue rivelazioni furono messe in risalto per la prima volta nel libro «Gli ultimi briganti della Basilicata» del 1903, laddove il medico Eugenio Massa diede un’immagine nuova di Crocco, presentato come un eroe deciso a difendere i deboli angariati dal dominio dei potenti.
    Tuttavia a creare il «mito del brigante eroe» contribuirono gli studi di Giustino Fortunato, che giovinetto era stato spettatore delle loro storie e che nel 1880 considerò la lotta tra Pallavicini e Crocco come «una vera e propria guerriglia» con un numero di vittime assai maggiore a tutte le guerre del Risorgimento. Il mito del brigante continuò nei primi anni del secolo XX grazie ai contributi di scrittori, letterati e giornalisti come Salvatore Di Giacomo (1860-1934), destinato come poeta e drammaturgo a lasciare un’impronta indelebile nella cultura meridionale. È questa la parte finale del libro, in cui l’autore rileva l’interesse seguito alla morte di Crocco, a cui si interessarono antropologi come Cesare Lombroso e Salvatore Ottolenghi. Più che al brigante patriota o rivoluzionario, essi erano interessati a ricercare le anomalie dell’uomo come soggetto privilegiato nella ricerca delle ragioni psicologiche della delinquenza.


     

  • PERCHE' IL FASCISMO
    E' NATO IN ITALIA?
    LA TESI FLORES-GOZZINI

    data: 06/12/2022 19:29

    Nella biografia politica di Mussolini, prima della marcia su Roma, vi sono due fasi significative che corrispondono al periodo socialista e a quello prefascista. L’aspetto divisorio è comunemente rappresentato dal passaggio del neutralismo all’interventismo, ossia dal divorzio dell’«Avanti!» alla fondazione il 15 novembre 1914 dell’organo «Il Popolo d’Italia». Da questo aspetto peculiare prende avvio il nuovo libro Perché il fascismo è nato in Italia (Laterza, Roma-Bari 2022, pp. 273) di Marcello Flores e di Giovanni Gozzini.

    Il voltafaccia del futuro duce non piacque al sindaco di Milano, che costituì una Commissione d’inchiesta sul «caso Mussolini» per appurare l’«origine dei fondi del giornale» e definire così il nesso con la «sua tesi interventista». La Commissione espresse un giudizio positivo sul suo comportamento e negò qualsiasi addebito, respingendo «il sospetto di una qualsiasi indegnità morale e professionale».
    In realtà, come mettono in rilievo gli autori, vi furono sovvenzioni a favore del nuovo giornale, che provennero da più parti, ovvero da industriali interessati alle commesse belliche e da potenze straniere, principalmente francesi ed inglesi, dirette ad un mutamento di alleanza da parte dell’Italia. Al momento dell’uscita il nuovo organo, che ebbe una tiratura tra 30 mila copie fino a 80 mila, si presentò come «quotidiano socialista», diventato il 1° agosto 1918 «quotidiano dei combattenti e dei produttori».
    La scelta dell’intervento e il cambiamento del sottotitolo si rivelano decisivi per l’intera vita successiva di Mussolini e del fascismo. È questo aspetto apodittico che dà adito agli autori di svolgere il loro racconto, spesso viziato da una lettura ideologizzata e volto a «sottolineare il nesso genetico Grande Guerra-fascismo». In quest’ambito la «brutalizzazione» dell’evento bellico sfocia al termine della guerra nella violenza squadrista e nell’assalto fascista alle sedi politiche degli avversari. Ciò scuote l’opinione pubblica e favorisce il loro successo alle elezioni del 16 novembre 1919 dei popolari e dei socialisti: un successo che non è coronato da alcuna ipotesi governativa di reciproca coalizione.
    Le elezioni successive del 15 maggio 1921 portano alla Camera 35 deputati, i quali guidati da Mussolini imprimono un notevole impulso al movimento fascista, organizzatosi in partito nel novembre dello stesso anno. Ex combattenti e reduci di guerra costituiscono il gruppo più consistente, quasi il 60% dei 150 mila iscritti. Dalla loro natura violenta trae alimento il fascismo, che diventa forza organizzata, pronta per la conquista del potere tramite la Marcia su Roma. Segue il consenso degli Italiani, ai quali il duce concede un modesto welfare state, di cui corporativismo, dopolavoro, assistenza alla maternità e infanzia, Istituto per la ricostruzione industriale fanno parte di «strutture funzionali a una trasformazione del corpo sociale secondo un modello militare fondato sull’unità esclusiva del comando e dell’obbedienza». A questo modello è riconducibile la dittatura di Mussolini, che elabora un «progetto di terza via» incapace di aumentare i salari e le quote del reddito nazionale per diminuire le stratificazioni di uguaglianza nella società italiana.

  • LA MARCIA SU ROMA
    IN PROVINCIA: CATANIA

    data: 24/11/2022 18:20

    È ormai assodato nella storiografia contemporanea che la marcia su Roma, di cui il 28 ottobre cade la ricorrenza del centenario, abbia avuto largo consenso in Sicilia. Come in altre regioni italiane la marcia coinvolse attivamente sparute e bellicose minoranze, che provenivano dall’area nazionalista e dal mondo degli ex combattenti e degli arditi. Nell’assemblea di San Sepolcro (Milano, 23 marzo 1919), costitutiva dei Fasci di combattimento, le adesioni furono poche e si contavano sulle dita di una mano. Solo nell’ottobre dello stesso anno furono costituiti la “Lega antibolscevica studentesca” e il “Fascio dei Combattenti Universitari”, che svolsero un’attività saltuaria fino all’aprile del 1920, quando fu organizzato il primo Fascio su iniziativa di Salvatore Guglielmo.
    Alla vigilia della marcia su Roma, esistevano a Catania le squadre “Enrico Toti”, “Disperata” e “Impavida, che il 2 novembre 1922 modificò il proprio nome con quello di “Carlo Amato”, il giovane ucciso durante uno scontro con i militanti del neonato Partito comunista d’ispirazione bolscevica. Accanto a questi quattro gruppi, fedeli al programma enunciato da Benito Mussolini su “Il Popolo d’Italia”, esisteva l’organizzazione nazionalista “Sempre Pronti” guidata da Santi Naselli.
    Le prime esperienze del fascismo cittadino si ebbero nelle elezioni politiche del maggio 1921, che determinarono la vittoria dei popolari e dei socialisti, il discreto successo dei fascisti con 35 e i nazionalisti con 10 seggi. I fascisti catanesi non furono accolti nella lista ministeriale formata dai radicali, socialriformisti e demoliberali guidati dai fratelli Carnazza. Sembra secondo Annibale Bianco che il motivo fosse imputabile alla loro sete di potere che nella città etnea si traduceva in “calcoli elettorali, convenienza e tornaconto” (si veda il suo libro “Il fascismo in Sicilia", Catania 1923, pp. 53-54). Dello stesso parere era Gabriello Carnazza, che in un discorso dell’8 maggio critica i fascisti locali di perseguire “stupide manovre per turbare la libera volontà del corpo elettorale”. Così i fascisti appoggiarono la lista dell’Unione nazionale, più affine al messaggio politico degli ex combattenti e dei radicali di Colonna di Cesarò.
    Fu dopo la conclusione delle elezioni che i fratelli Carnazza cominciarono a cambiare opinione sul fascismo, considerato come un partito disciplinato e in grado di fermare il “sovversivismo” bolscevico. Solo dopo la marcia su Roma la loro adesione fu completa con l’ingresso di Gabriello come ministro dei Lavori Pubblici nel primo Ministero Mussolini. Altri tre ministri siciliani fecero parte della compagine governativa: Giovanni Gentile alla “Istruzione Pubblica”, Giovanni Antonio Colonna di Cesarò alle “Poste e Comunicazioni” e Mario Orso Corbino “Economia Nazionale”.
    Il 29 ottobre 1922, il giorno successivo alla marcia su Roma, il quotidiano “Corriere di Sicilia” lamentò l’occupazione degli “edifici pubblici del Comune, della Provincia, della Camera di Commercio”, mentre il sindaco Carlo Ardizzone denunciò gli atti vandalici al prefetto poiché “in mattinata si erano presentati al Municipio i dirigenti del locale Fascio di combattimento seguiti da molti gregari inquadrati e armati”. Tramontata ben presto l’ipotesi insurrezionale e raggiunta la meta del potere, i fascisti catanesi cambiarono linea politica e si impegnarono a seguire le direttive del capo del governo. La marcia su Roma e la politica di Mussolini consolidò la presenza del fascismo a Catania e nella Sicilia intera, dove nelle elezioni politiche del 1924 si ebbe il più alto consenso d’Italia con il 70,4% dei voti.

     

     

  • LA MARCIA SU ROMA
    CENTENARIO CONTESO

    data: 28/10/2022 11:34

    La marcia su Roma, di cui oggi cade il centenario, sta riscuotendo una particolare attenzione con una messe imponente di libri, di testi storici, di raccolte antologiche e persino di produzioni teatrali, trasmissioni televisive e radiofoniche. Sembra che questi contributi, alcuni innovativi e altri ripetitivi, stiano scuotendo il tradizionale torpore degli Italiani e stimolarli alla riflessione storica. Accanto al vecchio e sempre interessante volume «La marcia su Roma» (Rizzoli, Milano 1972, pp. 1113) si ha ora la ristampa del volume «La marcia su Roma. 1922. Mussolini, il bluff, il mito» (2021) nella «Biblioteca storica Il Giornale» e la pubblicazione a puntate sul giornale «il Fatto quotidiano»: libro quest’ultimo non esente da errori e debito per la maggior parte delle pagine al volume di Antonio Répaci (1910-2005)
    Comunemente il 1922 viene ricordato come anno emblematico della marcia su Roma, ma poca attenzione è dedicata al clima di violenza che imperversò in Italia. Colmano questa lacuna due interessanti volumi; «Il fascismo giorno per giorno. Alle origini della marcia su Roma nelle parole dei contemporanei» (Feltrinelli, Milano 2022, pp. 341) a cura di Giovanni Scirocco e «1922» (Mind, Milano 2022, pp. 360) di Francesco Bogliari. Essi ripercorrono i 365 dell’anno, raccontando episodi di violenza avvenuti durante gli scontri tra fascisti e comunisti. Dal 1° gennaio fino all’ultimo dell’anno non c’è giorno che non sia avvenuto un omicidio o un ferimento.
    Grazie alla stampa del tempo, Bogliari e Scirocco raccolgono con scrupolo i fatti accaduti nel corso del 1922, addirittura Scirocco comincia la sua ricerca con il famoso articolo «Trincerocrazia» che Mussolini pubblicò il 15 dicembre 1937 su «Il Popolo d’Italia» e conclude con l’articolo «Una pagina di storia italiana» scritto da Luigi Salvatorelli e uscito su «La Stampa» del 1° novembre 1922.
    In questo lungo excursus temporale si rimane stupiti di quante azioni delittuose si verificarono nel nostro Paese, dove si ebbe una progressiva assenza dello Stato nella gestione dell’ordine pubblico.
    Gli episodi di violenza, quasi sempre ricondotti alle diatribe tra bolscevichi e fascisti, segnarono l’ascesa al potere di Mussolini e si conclusero nella marcia su Roma del 28 ottobre 1922. Il 10 agosto dello stesso anno, all’insediamento del suo secondo governo, Luigi Facta presentò il ministero in nome della pacificazione generale per restaurare l’ordine pubblico. Ma il debole uomo politico non riuscì nel suo scopo di ristabilire la legalità. Il voto contrario dei fascisti, che nelle elezioni del 1921 avevano ottenuto 35 deputati, rese evidente che era impossibile la formazione di un governo senza la loro partecipazione. Dall’imponente manifestazione di Napoli del 24 ottobre 1922, a cui parteciparono quarantamila camicie nere, fino al giorno precedente la marcia, le milizie fasciste contrastarono le azioni dei loro avversari nelle piazze, assunsero il controllo di molte città e sostennero il piano perfezionato da Mussolini. Così la tenacia del loro leader, che godeva di larghe simpatie nell’apparato burocratico e militare dello Stato, trovò nella marcia su Roma la via maestra per soddisfare le sue ambizioni politiche e conquistare il potere. Fu impossibile per il re e il ceto politico liberale riassorbire la sua azione politica nella normalità costituzionale.
    Il 5 novembre 1922 la stampa italiana dava la notizia che le alte autorità dello Stato avevano il giorno prima celebrato l’anniversario della vittoria. Nella prima pagina di tutti i quotidiani fu messa in risalto la cerimonia che si era svolta a Roma nella chiesa di Santa Maria degli Angeli per rendere omaggio al soldato senza nome. Protagonisti del rito religioso furono Vittorio Emanuele III e Benito Mussolini, l’uno sovrano del Regno d’Italia e il secondo presidente del Consiglio. Al termine della cerimonia entrambi si recano all’Altare della Patria per onorare il simbolo della gloria di Vittorio Veneto. La presenza del nuovo premier si distinse per la posa compunta e per la riverenza davanti al sacello dove giace il Milite ignoto. Con questo ricordo si apre e si conclude il libro “Roma 1922. Il fascismo e la guerra mai finita” (il Mulino, Bologna 2022, pp. 287) di Marco Mondini, che ripercorre l’evento più dibattuto della storia d’Italia, quella marcia sulla capitale che permise al futuro duce di conquistare il potere e detenerlo per venti anni. Con una ricca documentazione storica Mondini dà un ampio quadro dell’avvenimento, di cui quest’anno si ricorda il centenario, offrendo una interpretazione per molti aspetti nuova e volta a coniugare “la storia corale e implacabile di un’Italia in cui la lotta politica si trasforma in guerra civile e che scivola via via verso il lungo ventennio della dittatura fascista”.
    Periodo centrale della guerra civile furono gli anni 1919-20, denominati da molti storici “biennio rosso” per definire il clima di violenze che si creò in Italia negli anni successivi al Primo conflitto mondiale. L’evento più significativo può essere considerato il sistema proporzionale del 1919, che penalizzò la vecchia classe liberale e favorì il sorgere di nuove forze politiche come il Partito popolare e il Partito nazionale fascista, l’uno riunito intorno a Luigi Sturzo e l’altro a Benito Mussolini. Fu proprio il partito costituito tra il 7 e l’11 novembre 1921 su iniziativa del futuro duce che fu possibile realizzare la marcia su Roma.
    Per Mondini la scelta di una spedizione armata nella capitale fu dettata dal fallimento del cosiddetto “sciopero legalitario” (cominciò il 31 luglio 1922) e dagli incontri che Mussolini ebbe nei mesi precedenti la marcia. Il sostegno della monarchia e di altri organi come il governo, l’esercito, la burocrazia statale e la stampa spinse Mussolini a portare a termine il suo piano. Solo nella compagine governativa erano presenti filofascisti come il ministro degli Esteri Carlo Schanzer o quello dei lavori pubblici Vincenzo Riccio favorevoli alle dimissioni di Facta e alla formazione di un nuovo governo. A questo proposito Mondini cita un discorso pronunciato a Udine il 20 settembre 1922, con cui pose con vigore la “necessità storica” di marciare sulla capitale al grido di “Roma o morte” per “depurare e disinfettare” la città dalla corruzione e “fare così di Roma il cuore pulsante, lo spirito alacre dell’Italia imperiale”.
    Così, a partire dal 26 ottobre, le operazioni per la conquista della capitale ebbero inizio con l’occupazione di molte città e la marcia di gruppi fascisti verso Roma. Due giorni dopo essa si concluse e il 29 il re affidò a Mussolini l’incarico di formare il nuovo governo. Rimane il dubbio se il duce abbia pronunciato la frase “Sire, porto a Vostra maestà l’Italia di Vittorio Veneto”, su cui l’autore scrive pagine di un certo rilievo, non sempre obiettive sul piano storico.
     

  • MATTEOTTI
    E L'AFFARE-SINCLAIR:
    CONFUSA RICOSTRUZIONE
    DI RIZZO E CAMPI

    data: 05/10/2022 13:14

    È ormai consuetudine nell’editoria italiana pubblicare libri su argomenti e personaggi senza indicazioni bibliografiche. La scusa è quella di «non appesantire la lettura», come se il lettore fosse obbligato a leggere le note e non potesse trarre valido ausilio per approfondire i temi presentati. È la scusa che viene avanzata a pagina 408 nel libro «L’ombra lunga del fascismo. Perché l’Italia è ancora ferma a Mussolini» (Solferino, Milano 2022, pp. 414) di Sergio Rizzo e Alessandro Campi. Titolo specioso se si tiene presente la varietà di argomentazioni e di ricerche storiche compiute negli anni che ci separano dalla caduta del fascismo. Dalla frequentazione dell’Università di Torino e della sua scuola storica ho appreso da seri studiosi, che avvertivano sempre un certo fastidio a leggere libri senza note (Norberto Bobbio) oppure senza indice dei nomi (Luigi Firpo).

    Prendiamo ad esempio un argomenti trattato nel libro per renderci conto della necessità delle note: il delitto Matteotti. Nelle pagine su Giacomo Matteotti (pp. 288-294) si coglie tanta superficialità da lasciare basito persino uno studente di un corso iniziale di storia. Sul deputato socialista, ucciso dagli scherani fascisti il 10 giugno 1924, gli autori danno un quadro semplicistico della ragione del suo assassino che «per decenni […] viene attribuita al discorso con cui il 30 maggio (egli) denuncia alla Camera brogli e violenze dei fascisti alle elezioni» che in quell’anno «consegnano il Paese alla dittatura» (p. 291). La confusa ricostruzione di Rizzo e Campi, entrambi poco conoscitori della bibliografia sul delitto Matteotti, ruota intorno alla ordine impartito «dall’alto» ad Amerigo Dumini di uccidere Matteotti e alla «lettera dello stesso autore del delitto», «ritrovata dallo storico Paolo Paoletti nell’archivio nazionale di Washington» (p. 291). Dalla vaga citazione si ricava che i due autori non abbiano mai letto il «Il memoriale Dumini», pubblicato a cura dello storico fiorentino sulla rivista «Il Ponte» (1986, fasc. 2, pp. 76-93) per dare un «Contributo alla storia del fascismo». Il memoriale segreto fu trasmesso a uno studio legale texano per denunciare le responsabilità dirette di alcune alte personalità del regime nel delitto Mussolini.

    Conclusione del nuovo scenario enunciato dagli autori: «Il deputato socialista verrebbe ucciso perché in procinto di svelare un torbido affare di tangenti che potrebbe scuotere i vertici dello Stato fascista. La compagnia petrolifera statunitense Sinclair Oil avrebbe ottenuto qualche settimana prima la concessione esclusiva cinquantennale per le ricerche di idrocarburi in Sicilia, Valle Padana e Libia corrompendo il governo» (p. 291).

    In questa direzione Rizzo e Campi impostano il percorso storico della cosiddetta pista affaristica con notizie frammentarie, peraltro tratte in modo frettoloso dalla famosa intervista concessa da Matteo Matteotti a Marcello Staglieno per «Storia illustrata» (novembre 1985, pp. 54-61). Così essi sovrappongono date e attribuiscono in modo erroneo alcune notizie al martire socialista. Pubblicata con il titolo «Delitto Matteotti. Parla il figlio: “Dietro la morte di mio padre c’era il re. Fu uno sporco affare di petrolio», l’intervista fu ripresa sull’«Umanità» (4 novembre 1985, n. 336, p. 3) con il titolo «Matteotti, un’unica certezza. Un mandante, Mussolini. Un connivente, V. Emanuele», Se avessero letto con attenzione l’intervista, non avrebbero attribuito a Matteotti junior la seguente frase, peraltro tagliuzzata e pubblicata senza parentesi: «Nell’autunno del 1942 Aimone di Savoia duca d’Aosta raccontò a un gruppo di ufficiali che nel 1924 Matteotti su recò in Inghilterra dove fu ricevuto, come massone d’alto grado, dalla Loggia “The Unicorn and the Lion”, E venne casualmente a sapere che in un certo uffizio della Sinclair esistevano due scritture private. Dalla prima risultava che Vittorio Emanuele III, dal 1921, era entrato nel “register” degli azionisti senza sborsare nemmeno una lira; dalla seconda risultava l’impegno del re a mantenere i più possibili ignorati (“covered”) i giacimenti nel Fezzan tripolino e in altre zone dell’entroterra libico» (p. 292).
    La frase originale precisa è: «Nell’autunno del 1942 Aimone di Savoia duca d’Aosta, SCRIVEVA FUSCO, raccontò a un gruppo di ufficiali che nel 1924 Matteotti si recò in Inghilterra dove fu ricevuto, come massone d’alto grado, dalla Loggia “The Unicorn and the Lion”, E venne casualmente a sapere che in un certo ufficio della Sinclair, DITTA AMERICANA ASSOCIATA ALL’ANGLO PERSIAN OIL, LA FUTURA BP, esistevano due scritture private. Dalla prima risultava che Vittorio Emanuele III, dal 1921, era entrato nel “register” degli azionisti senza sborsare nemmeno una lira; dalla seconda risultava l’impegno del re a mantenere i più possibili ignorati (“covered”) i giacimenti nel Fezzan tripolino e in altre zone dell’entroterra libico» (intervista di M. Matteotti cit. p. 3). Questa tesi, di cui sono omesse le frasi scritte con la maiuscola, non può essere «attribuita» a Matteotti Junior, ma a Giancarlo Fusco, che il 2 gennaio 1978 la propose su «Stampa sera» con scarsa eco sulla stampa nazionale.
    Nel 1985 l’intervista di Matteo Matteotti fu ripresa da Alberto Stabile su “la Repubblica” (27 ottobre), che sottolineò come la collusione tra monarchia e Sinclair debba essere considerata «solo un’ipotesi, sia pure suffragata da una ricostruzione inedita del contesto in cui maturò il delitto». Da un’attenta lettura dell’articolo di Alberto Stabile si deduce che Rizzo e Campi non hanno mai letto l’intervista pubblicata su «Storia illustrata» e che il brano riportato sopra nelle due versioni sia tratto da esso. Bisogna dare merito al giornalista de «la Repubblica» la perspicacia con cui sottolinea un aspetto che è stato trascurato persino dalle biografie più accreditate su Giacomo Matteotti (si veda M. Canali, Il delitto Matteotti. Affarismo e politica nl primo governo Mussolini, il Mulino, Bologna 1978): «il 5 giugno (cinque giorni di scomparire) pubblicava sulla rivista “Echi e commenti” un articolo anonimo, con alcuni riferimenti allo scandalo». Se storici e giornalisti avessero indagato in questa direzione, avremmo oggi un quadro chiaro della ragione per cui Matteotti sia stato eliminato. Ho altri articoli che confermano il valore etico del suo direttore, Achille Loria (1857-1945) e le critiche compiute al governo in questa direzione sulla «denuncia dei petroli» (sic!): personaggio meritevole di essere riabilitato dopo le dure e insulse critiche di Antonio Gramsci (cfr. «Quaderni del carcere», a cura di V. Gerratana, Einaudi, Torino 1975, pp. 2321-2327, ma per un primo approccio al personaggio rinvio a N. Dell’Erba, Il socialismo riformista tra politica e cultura, Franco Angeli, Milano 1990, pp. 61-76).
    Di questi aspetti non c’è traccia alcuna nel libro di Rizzo e Campi, che scrivono su un personaggio che conoscono poco e male solo per confezionare un libro da consegnare all’editore e proprietario del «Corriere della Sera». Essi ignorano l’antefatto dell’affare e non spiegano quale ruolo ebbe l’ingegnere minerario e ambasciatore Gelasio Caetani (7 marzo 1877-1934) nella conclusione dell’accordo tra il governo fascista e la Sinclair. Per quale motivo Mussolini, che si riempiva la bocca di «sovranità» e di «italianità», abbia calpestato le richieste delle società minerarie italiane? Come mai il duce non era al corrente delle tangenti versate dalla Sinclair a membri del governo americano per sfruttare i giacimenti petroliferi del loro Paese? Rizzo e Campi si limitano a sottolineare la storia dell’Azienda generale petroli italiani, tenuta battesimo da Mussolini nel 1926 e «conosciuta come Agip» quale «germe dell’Eni» (p. 291) per attribuire all’omicidio di Giacomo Matteotti la nascita dell’industria italiana (p. 294).
    Per i due autori l’affare fruttò ai committenti una tangente pari a «30 milioni di lire, somma corrispondente a 28 milioni di euro nel 2022» (p. 292), ma sembra che essa sia stata molto più elevata. Tuttavia esso coinvolse altri membri dell’apparato governativo fascista nel losco e torbido giro di tangenti. Si tratta di alcuni gerarchi invischiati in sporchi affari di speculazioni borsistiche e di case da gioco (si vedano F. Scalzo, Matteotti. L’altra verità, Savelli, Roma s.d. e R. Mandelli, Decreti sporchi. La lobby del gioco d’azzardo e il delitto Matteotti, Pozzi, Ravenna 2015). Sarebbe auspicabile che storici e politici seri riprendano l’affare Siclair, denunciandone le collusioni con le autorità fasciste («Nella vicenda sarebbe coinvolto anche il fratello minore di Mussolini, Arnaldo», scrivono Rizzo e Campi a p. 293), e traendo ispirazione dalla lezione di Giacomo Matteotti per costituire un genuino partito democratico.

     

  • MUSSOLINI E MATTEOTTI:
    LA SCONNESSA RICOSTRUZIONE
    DI ALDO CAZZULLO

    data: 22/09/2022 19:53

    Nel nuovo libro «Mussolini il capobanda. Perché dovremmo vergognarci del fascismo» (Mondadori, Milano 2022, pp. 350) di Aldo Cazzullo c’è un capitolo intitolato «Vittime» e dedicato alla «storia di Giacomo Matteotti, don Giovanni Minzoni, Giovanni Amendola, Antonio Gramsci, Carlo e Nello Rosselli» (p. 117). Per la sua compilazione Cazzullo dice di avere consultato 11 libri, una voce biografica (quella su don Minzoni) e un articolo reperibile nel sito «The Vision» del 19 febbraio 2019 sulla fuga di Filippo Turati (pp. 346-347). Da un’attenta lettura del capitolo si deduce che egli non ha letto per nulla i libri citati: non lo si deduce dall’assenza del nome dell’editore, dell’indicazione della città, dell’anno di pubblicazione oppure delle pagine, peraltro considerate superflue e inutili. Fonte d’ispirazione privilegiata se non unica è Internet, da cui l’autore trae a piene mani la maggior parte delle notizie utili per confezionare un libro disordinato, confuso, farraginoso e zeppo di notizie spesso erronee.
    Nel ritratto di Giacomo Matteotti (pp. 117-133) si colgono così tante inesattezze da lasciare basito persino uno studente di un corso iniziale di storia. Che senso ha dire di avere tenuto presente «per quanto riguarda la pista affaristica dell’assassinio... il classico “Il delitto Matteotti” di Mauro Canali (il Mulino)» (pp. 346-347), quando dello stesso autore si ha la voce biografica pubblicata nel «Dizionario biografico degli Italiani» (2009, vol. 72, pp. 252-259)? Che senso ha dire di avere «consultato Stefani Caretti “Il delitto Matteotti” (Lacaita editore)» (p. 347), quando del medesimo autore si ha il saggio biografico uscito nel volume collettaneo «I luoghi della memoria» (1997, pp. 187-205) a cura di Mario Isnenghi? Se avesse letto con attenzione i volumi di Canali e di Caretti, Cazzullo non avrebbe commesso diversi strafalcioni storici.
    A proposito del Congresso provinciale del partito di Rovigo, tenuto il 15 marzo 1914, Cazzullo scrive che esso «lo vince Mussolini: 309 voti contro 198» (p. 119) contro la tesi opposta di Matteotti. Si tratta di una notizia falsa, perché – come scrisse Matteotti in un articolo pubblicato su «La Lotta» del 18 aprile 1914 – «a Rovigo infatti la grande maggioranza ha votato l’ordine del giorno Accardi-Ballotta», mentre - come precisa S. Caretti - egli aveva aderito «alla proposta Pavan perché “più rispondente alle sue convinzioni”» (cfr. l’articolo nell’antologia su G. Matteotti, «Sul riformismo», a cura di S. Caretti, Nistri-Lischi, Pisa 1992, pp. 128-129). Sull’«Avanti!» del 16 marzo 1914 (a. XVIII, n. 75, p. 1), diretto da Mussolini, compare una corrispondenza, in cui non c’è alcun cenno sulla diatriba con Matteotti, laddove si legge che viene deliberato «di partecipare con intransigenza assoluta alle elezioni comunali e provinciali, riservando di decidere sull’affermazione di maggioranza o di minoranza per promuovere un’agitazione immediata simultanea nei comuni socialisti per la riforma dei tributi locali e per l’autonomia comunale». Nella medesima corrispondenza si precisa solo che Mussolini tenne nel pomeriggio del 15 marzo a Rovigo una conferenza sul tema «Dal capitalismo al socialismo» (cfr. «Avanti!» del 16 marzo 1914 (a. XVIII, n. 75, p. 1 e R. De Felice, «Mussolini il rivoluzionario 1883-1920», Einaudi, Torino, p. 185).
    Il vero incontro tra Mussolini e Matteotti si ebbe invece al XIV Congresso Nazionale del Psi ad Ancona (26-28 aprile 1914), ignorato completamente da Cazzullo e sottolineato con grande risalto da Mario Canali, laddove coglie la loro coincidenza di vedute sul rapporto tra la massoneria e il partito socialista e le varie distinzioni finali sulla doppia iscrizione nelle due organizzazioni (cfr. M. Canali, Il delitto Matteotti, cit., p. 30). Nel prosieguo del suo ritratto Cazzullo dà notizie vaghe sulle posizioni neutraliste di Matteotti e non chiarisce il motivo per cui egli fu costretto a ricorrere alla Cassazione di fronte alle accuse di disfattismo (p. 119). La questione è chiarita dallo stesso Matteotti nell’«Almanacco socialista» del 1924 (p. 185), quando scrive che il ricorso alla Cassazione fu dettato dalla «sentenza di condanna per i discorsi politici pronunciati al Consiglio provinciale di Rovigo» e dalla «decisa affermazione» della libertà di parola. La medesima trasandatezza espositiva si ritrova nell’esposizione dei rapporti tra Matteotti e la fidanzata di Velia Titta, «conosciuta in una vacanza all’Abetone» (p. 119), per la precisione nella frazione del comune toscano di Boscolungo. Un aspetto che è ignorato da Cazzullo, che non conosce la produzione lirica della futura moglie, dei suoi interessi poetici e delle pagine diaristiche intitolate proprio «Veglie di Boscolungo». Nessuna meraviglia se il giornalista albese avverta la necessità di riprendere un brano di una sua lettera reperibile su Internet: «Vieni, saremo felici lo stesso, tu continuerai la tua vita, e io non posso in questo giorno mentire e dirti cosa non vera o nascondere il mio cuore. Sarò religiosa lo stesso, ci vorremo bene lo stesso, vivendo uniti in qualsiasi lotta. Sii tranquillo, nulla potrebbe mai separarmi da te» (cit. in internet da A. Aghemo, Velia Titta Matteotti: uniti in qualsiasi lotta, «Tempo Presente» (Roma, ottobre- dicembre 2000, n. 478-480, pp. 73-84).
    La lettera appare così comprensibile solo in parte, se non sia conosciuta la risposta di Matteotti che il 28 dicembre 1915 le risponde: «Vengano, vengano presto i giorni felici, che non hanno fine, che non hanno distacco né il freddo della lontananza né il tremito della separazione» (cfr. La lettera, in G. Matteotti, Lettere a Velia, a cura di Stefano Caretti, Nistri-Lischi, Pisa 1986, p. 131). Il matrimonio, celebrato con rito civile l’8 gennaio 1916, corrobora il sodalizio amoroso tra Velia e Matteotti e non lo scoraggia a proseguire la lotta contro il fascismo. Negli anni compresi tra la conclusione del Primo conflitto mondiale e l’ascesa al potere di Mussolini, il pensiero di Matteotti è affidato si discorsi pronunciati alla Camera, dove entrerà in seguito alle elezioni del 16 novembre 1919, ai libri «Un anno di dominazione fascista» (1924), «Il Fascismo della prima ora» (1924) e ai numerosi articoli disseminati su una miriade di periodici e di quotidiani.
    Possibile che Cazzullo non abbia mai letto il discorso pronunciato il 16 dicembre 1921 alla Camera e durato due ore e un quarto, volto a confutare la relazione del ministro del tesoro Giuseppe De Nava e a denunciare le falsità di bilancio? (cfr. «Discorsi parlamentari» di Giacomo Matteotti, vol. II, Roma MCMLXX, pp. 551-576). Possibile che Cazzullo non abbia mai consultato i volumi di Matteotti contro il Fascismo e si limiti a riproporre notizie frammentarie reperite su Internet? Tra le spese destinate all’incremento dell’esercito, dei carabinieri e delle guardie regie c’è un nesso con le violenze fasciste denunciate da Matteotti con dovizia di particolari?
    Critico implacabile dello squadrismo fascista, Matteotti denuncia le loro nefaste azioni, mettendo a rischio la sua incolumità e quella della propria famiglia, di cui Cazzullo trascrive frasi che non corrispondono a quelle riportate da Caretti, certamente il maggiore studioso del socialista riformista. Il rifugio della moglie e dei figli a Varazze non è sicuro se Cazzullo scrive, omettendo «in casa»: «Sono venuti a dirci che se ritorni non garantiscono neanche le famiglie più» (p. 121 e Caretti, Matteotti cit. p. 192).
    Il clima di intimidazione nei confronti di Matteotti si esaurisce in un collage di frasi sconnesse, senza un filo logico e senza alcun legame storico con gli episodi che culmineranno nell’assassinio del deputato socialista (10 giugno 1924). Sul mussoliniano «Popolo d’Italia» del 3 maggio 1923 c’era stato un duro attacco al leader riformista, segretario del Partito Socialista Unitario, definito «volgare mistificatore, notissimo vigliacco e spregevolissimo ruffiano» e avvisato di stare attento, perché prima o poi si ritroverà «con la testa rotta, ma proprio rotta». Sul medesimo organo il 1° giugno del 1924 Mussolini reagisce all’intervento che Matteotti pronuncia il giorno prima sulla «verifica dei poteri e convalidazione degli eletti» (cfr. «Discorsi parlamentari» di Giacomo Matteotti, vol. II, cit., pp. 873-892), definendolo «mostruosamente provocatorio» (p. 122). Il discorso di Matteotti, ripreso da Wikipedia, porta Cazzullo a citare la famosa frase: «Io ho fatto il mio discorso. Voi ora preparate il mio discorso funebre» (p. 122).
    Su questa frase pronunciata al termine del suo discorso (30 maggio 1924), Cazzullo non si preoccupa di constatare se essa risponda a quella realmente detta. Eppure essa si ritrova in molte biografie di Matteotti. Secondo Alessandro Schiavi la frase precisa fu detta a Giovanni Cosattini, che lo avvicinò per congratularsi del suo coraggio: «Però voi adesso preparatevi a fare la mia commemorazione pubblica» (cfr. A. Schiavi, La vita e l’opera di Giacomo Matteotti, Opere Nuove, Roma 1957, p. 150).
    La denuncia delle tangenti pagate dalla Sinclair Oil alla monarchia e alla casta politica fascista è all’origine del suo assassinio, ma non per «le forniture di petrolio» (p. 121) come sostiene Cazzullo, ma per l’accordo stipulato tra il governo fascista e la compagnia petrolifera americana, a cui veniva concesso il monopolio della ricerca del petrolio nel sottosuolo italiano. I corposi capitoli del libro citato di Mauro Canali sulla «politica petrolifera italiana» (pp. 145-184) e su «La finanza americana in Italia agli inizi degli anni Venti» non sono noti a Cazzullo, che dà un quadro superficiale delle vicende connesse a quella che Matteotti definiva la «banda romana» e Mussolini la «Ceka fascista», capeggiata da Amerigo Dumini e incaricata di sopprimere il deputato socialista, il coraggioso militante della causa antifascista e «l’oppositore più intelligente e irriducibile», come venne definito da Piero Gobetti nel suo volumetto biografico su «Matteotti» (Torino 1924).
     

  • SULLE ORME DI GARIBALDI
    RIFACENDONE IL CAMMINO
    DA MARSALA A PALERMO

    data: 17/06/2022 13:12

    La storiografia su Giuseppe Garibaldi e la spedizione dei Mille è vasta. La loro epopea è raccontata in molti libri di storia e viene ricordata con strade, piazze e monumenti. Generazioni di studenti conoscono le gesta dell’Eroe barbuto, che dopo la sua morte raccoglie una larga messe di consensi con la formazione di liste elettorali, di società sportive e associazioni di ogni tipo. Si hanno polemiche e beghe nazionali per il ruolo che egli assume nella guida dei mille patrioti (in realtà la cifra varia da 1162 a 1089) durante lo sbarco in Sicilia per guidare il «moto insurrezionale a nome dell’Unità italiana».
    Rovesciando questa consueta immagine storica, Stefano Cascavilla rende attuale l’evento nel suo volume «Essere Mille. Guida allo sbarco in Sicilia per aspiranti garibaldini» (prefazione di Stefano Ardito, Exorma, Roma 2022, pp. 213) per rifare il medesimo cammino dei Mille. L’uso dei diari e dei resoconti garibaldini, tra i quali quelli di Abba, Bandi, Nievo e Guerzoni, permette all’autore di rivisitare i luoghi che essi percorrono da Marsala a Palermo tra l’11 e il 30 maggio 1860. Ne scaturisce un avvincente racconto che alterna le impressioni dei protagonisti con quelle proprie dell’autore, che veste i panni del turista per confezionare una guida pratica, suddivisa in dieci tappe e corredata di una cartografia.
    La descrizione del percorso dei Mille comincia da Marsala, dove Garibaldi e i volontari sbarcano l’11 maggio 1860, mentre per Cascavilla si ha la prima tappa, quella che va dalla cittadina siciliana a Matarocco. Sull’esempio dei Mille egli inizia il cammino dal centro di Marsala, attraversa in rettifilo la città per poi dirigersi verso est e inoltrarsi in una vasta pianura piena di vigneti. L’autore prosegue così verso l’interno e si dirige verso Salemi, dove si ferma in una trattoria per consumare «pane cunzatu con la cipolla e il pomodoro». Forse nella medesima trattoria Garibaldi sosta per un pasto frugale a base di pane, formaggio e fave.
    Come i Mille, che giungono la domenica del 13 maggio con l’accoglienza entusiastica degli abitanti, l’autore si ferma un una casa vacanza per intraprendere il giorno successivo il cammino per Calatafimi. Nella cittadina, diventata famosa per lo scontro fra i garibaldini e le truppe borboniche, l’autore percorre corso Garibaldi poi diventato via dei Mille. Da Calatafimi scende per un lungo sentiero, tra vasti campi silenziosi fino alla barriera formata dal fiume che potrebbe essere lo stesso percorso dei Mille. La direzione è verso Alcamo, abitata durante il soggiorno dei garibaldini da circa 20 mila persone e nota per avere dato i natali a Ciullo, il più antico dei poeti italiani e l’iniziatore della tradizione giullaresca della poesia siciliana.
    L’autore non ha però prove che quello da lui intrapreso sia il medesimo percorso dei Mille, ma la vasta campagna presenta un fascino suggestivo per le discese e salite, per le sue greggi che invitano alla meditazione e sprofondano l’essere umano in un mondo idilliaco e silenzioso ormai devastato dal rumore. Partinico, Passo di Renda, Pioppo, Altofonte e Piana degli Albanesi sono le successive tappe dell’autore, simili alle vie che i garibaldini percorrono dal 18 al 21 maggio. La meta finale è la città di Palermo, popolata da 190 mila abitanti e raggiunta sei giorni dopo dai Mille, che fanno affidamento sulla sua popolazione decisa a ribellarsi per «assecondare le armi dei volontari contro le truppe borboniche».
    Nella fase che porta Garibaldi e i suoi patrioti alla conquista del capoluogo siciliano si susseguono molti episodi come l’uccisione di Rosolino Pilo del 21 maggio, su cui compone l’epigrafe Mario Rapisardi con l’elogio della «generosa anima siciliana all’unità e alla gloria della religione»; l’aiuto che gli abitanti del Parco prestano il 22 maggio ai volontari «laceri, bagnati e infangati» oppure l’accoglienza che essi ricevono la sera del 25 maggio da parte della popolazione di Misilmeri, che li accolgono nelle loro case. Così l’autore segue le vicissitudini dei Mille, che ormai ridotti a 750 sconfiggono le truppe borboniche grazie all’intuito militaresco di Garibaldi. Il 30 maggio egli riesce a conquistare Palermo con l’aiuto della sua popolazione, insediandosi saldamente il 21 giugno nella capitale dell’Isola. Dal tempo dei Mille sono trascorse cinque generazioni, ma la voce del loro transito rimane nei luoghi, nei paesi e nella città come viva testimonianza di una fervida memoria storica.


     

  • UCRAINA, REBUS STORICO
    E NAZIONE CONTESA

    data: 01/06/2022 18:58

    Forse nessun Paese al mondo come l’Ucraina investe un territorio più conteso e rappresenta un popolo che sta vivendo una delle esperienze più tragiche della storia umana. Essa, che per quasi tutto il XX secolo è parte integrante dell’Unione Sovietica, raggiunge l’indipendenza nazionale solo nel 1991, sempre alla ricerca di una propria identità. Dall’inizio della guerra il 24 febbraio scorso sono stati pubblicati numerosi libri, alcuni veri e propri «instant book» e altri utili per comprendere un evento così doloroso.
    Prima ancora che le truppe russe invadessero l’Ucraina, un excursus storico di questo Paese martoriato si ritrova nel volume «Storia dell’Ucraina. Dai tempi più antichi ad oggi» (Mimesis, Milano 2020, pp. 658) di Massimo Vassallo, seguito da «Storia e geopolitica della crisi ucraina. Dalla Rus’ di Kiev a oggi» (Carocci, Roma 2021, pp. 349) di Giorgio Cella e da «Ucraina tra Russia e Occidente. Un’identità contesa» (Edilibri, Milano 2014 e 2022, pp. 160) di Gaetano Colonna. Si tratta di tre volumi con un impianto metodologico diverso, che offrono un quadro pressoché esaustivo della storia dell’Ucraina, ancora in attesa di altre ricerche sui suoi esponenti più autorevoli del mondo politico e letterario.
    Storicamente il regno medievale della Rus′ di Kiev (in ucraino Kýjiv) è il più antico Stato cristiano, che corrisponde all’incirca al territorio attuale dell’Ucraina, Bielorussia, Polonia e Russia occidentale. Culla di civiltà di questi Paesi, la Rus′ di Kiev estende intorno all’anno 1000 il suo dominio fino al Baltico, finché essa perde il suo ruolo dominante nei tre secoli successivi a causa di vicende intricate e complesse. A usufruire di questa centralità politica e amministrativa è Mosca che diverrà la capitale del futuro Stato russo. La letteratura russa dell’epoca ruota intorno alla kiovia, termine gradualmente scomparso a favore di Moscovia.
    Lungo il periodo che corre tra il XV e il XVII secolo, il nome di Moscovia è riproposto come espressione culturale e, sebbene sia diverso nella gerarchia ecclesiastica, diventa l’unico referente dei valori dell’Ortodossia dopo la caduta di Costantinopoli. I moscoviti cominciano a chiamare l’Ucraina «Russia meridionale» o «piccola Russia» per differenziarla dalla loro patria settentrionale. Nel XVIII secolo l’Ucraina è considerata un territorio idilliaco e primitivo, ma in grado di suscitare più emozioni della Russia. Ciò, in una scansione temporale di lunga durata, favorisce il sorgere e lo sviluppo di una letteratura ucraina diretta a coniugare le istanze della vecchia tradizione con le nuove tendenze culturali. In questo complesso processo che accompagna la storia dell’Ucraina per la conservazione della propria identità, la letteratura svolge una funzione fondamentale e favorisce la sua centralità nel contesto europeo. Essa contribuisce infatti a tener vivo un humus culturale, che pone le basi per un’autonomia della lingua, della religione e delle arti figurative.
    Nel corso del XIX secolo la cultura ucraina vive una stagione feconda di creatività ed elabora espressive risorse, che perfezionano il codice linguistico, superano le forme dialettali e definiscono nuovi generi letterari. Al tempo della prima Duma (1906) cinquanta deputati presentano un’istanza allo zar per valorizzare la lingua ucraina, mentre nel 1917 una Rada (assemblea) autonoma si rivolge ai governi provvisori del principe L’vov e poi di Alexandr F. Kérenskij per introdurre il termine Ucraina nella possibilità che sia costituita un’entità statale autonoma. Dopo la fuga di Kérenskij e il successo della rivoluzione d’ottobre, i bolscevichi russi costituiscono a Char’kov un governo sovietico ucraino.
    L’invasione dell’Armata Rossa e l’occupazione il 22 gennaio 1919 di Kiev portano al potere Rakòvs’kyj, che il 14 marzo costituisce la Repubblica Socialista Sovietica d’Ucraina. I nazionalisti ucraini, guidati da Sýmon Petljúra, si oppongono e cercano di fronteggiare anche la Guardia Bianca del generale Deníkin contraria all’Ucraina indipendente. La Repubblica Popolare Ucraina, riconosciuta già dalla Russia, dalla Francia e dall’Inghilterra, ha una vita breve, e dal 1922 diviene una repubblica satellite dell’Urss sotto il suo controllo diretto. Condizionata dalle vicende che si susseguono al suo accorpamento, e dalla politica di Lenin, di Stalin e degli altri governanti fino a quella di Putin (1999). l’Ucraina intraprende un aspro cammino verso un’indipendenza politica, che transita attraverso due guerre mondiali. La devastazione di Stalin con la carestia del 1932-33 («holodomor») e la soppressione nei mesi di aprile-maggio 1940 di 22 mila persone - delle quali 7300 nelle prigioni del Nkvd (Servizi di sicurezza sovietici) e il resto nelle prigioni in Bielorussia e in Ucraina - sono gli aspetti più eclatanti del dominio sovietico. L’«holodomor», come afferma l’Autore, diventa il simbolo dell’oppressione sovietica e la manifestazione di una vera e propria volontà di annientamento del popolo ucraino.
    La disgregazione dell’URSS e la soppressione del legame storico con la Russia, che pesano come un marchio, favoriscono il suo status politico, ma impedisce un distacco definitivo da quella che lo scrittore ucraino Vynnyčénko chiama «la prigione dei popoli». La linea politica di Putin, come sottolinea Vittorio Strada nel volume «Lenin, Stalin, Putin» (Rubbettino, Soveria Mannelli 2011, p. 176), si propone di «riallacciare passato remoto presovietico, passato prossimo sovietico e presente postsovietico … su una base storica nazionale o nazionalistica». Il suo obiettivo è quello di uscire da «una sorta di “epoca dei torbidi”» e di realizzare una situazione in cui lo Stato russo si erga al di sopra delle ex nazionalità sovietiche, ora distaccatesi dalla Federazione russa.
    In questo contesto deve essere inquadrata l’indipendenza dell’Ucraina, che ripropone nuove questioni tra le due entità politiche come la divisione della flotta navale, le contese territoriali sulla Crimea e sul Donbass. L’aspirazione a trasformare il Paese in un territorio neutrale rimane un proposito che scompare nel 1997, quando l’Ucraina firma un trattato di partenariato con la NATO e poi con la Russia.
    Con una superficie di 603.700 kmq - senza tener conto dell’annessione russa della Crimea nel 2014 - l’Ucraina impone sulla scena internazionale una nuova immagine e un ruolo rilevante nel contesto europeo. Il 20 febbraio di quell’anno è una pietra miliare, perché la guerra civile nel Donbass solleva altre questioni, che si aggravano per l’atteggiamento dell’Ucraina verso la NATO. Nel 2019 l’approvazione di alcuni emendamenti alla Costituzione ucraina, che prevedono l’adesione all’Unione europea e alla NATO, innesca una miscela esplosiva e determina l’invasione russa del 24 febbraio 2022.
    Sulla «Guerra in Ucraina, 2022» Colonna scrive pagine documentate e ripercorre le tappe fondamentali che portano all’invasione russa. I discorsi di Putin del 21 febbraio e di Biden del giorno dopo sembrano emblematici all’Autore per comprendere la logica che domina il sistema internazionale. Ne consegue il ruolo della Nato, la funzione dell’Unione europea e le difficili relazioni tra i Paesi membri dell’Onu. Il sostegno militare dell’Usa all’Ucraina è dettato dall’occupazione della Crimea e dal conflitto secessionista del Donbass. Tuttavia la parte avversa denuncia il dispiegamento di forze della Nato, pienamente operativo dal 2017, lungo il perimetro europeo della Russia da Nord al Sud. La Nato, che da marzo a giugno 2021 dà vita alla più grande esercitazione militare («Defender Europe»), partecipa con almeno 28 mila uomini in diverse aree dell’Europa Orientale, comprese quelle contigue all’Ucraina.
    Sugli eventi più recenti un contributo rilevante apportano Marco Bertolini e Giuseppe Ghini nel loro volume «Guerra e pace al tempo di Putin. Genesi del conflitto ucraino e nuovi equilibri internazionali» (Cantagalli, Siena 2022, pp. 277). Gli autori analizzano il «nuovo ruolo della Nato», le scelte di carattere strategico da parte di Biden, la volontà di potenza di Putin e gli eventi connessi ai dissidi interni all’Ucraina, coinvolta in una guerra assurda, che ha ridotto la sua popolazione per le morti sopraggiunte durante una drammatica mattanza e l’uccisione di molte vittime innocenti.
     

  • "L'EREDITA' DEI GIUSTI":
    ENTRANO IN SCENA
    FALCONE E BORSELLINO

    data: 25/05/2022 17:26

    L’anniversario della strage di Capaci è stato ricordato con particolare interesse sulla stampa italiana. La solenne commemorazione, tenuta a Palermo dal presidente della Repubblica, ha accompagnato il triste episodio che il 23 maggio 1992 portò alla morte di Giovanni Falcone, la moglie Francesca Morvillo e gli agenti della scorta Rocco Dicillo, Antonio Montinaro e Vito Schifani. A pochi giorni dall’anniversario sarà dedicato al magistrato palermitano e al giudice Paolo Borsellino, ucciso nella strage di via D’Amelio il 19 luglio dello stesso anno, lo spettacolo “L’eredità dei giusti”, un racconto in musica scritto da Emanuela Giordano con le partiture del maestro Marco Tutino.
    La nuova scrittura scenica, che ripropone ed amplia il testo già dato vent’anni fa al Teatro San Carlo di Napoli, sarà presentata venerdì 27 e sabato 28 al Teatro Regio di Torino come coproduzione della Fondazione della cultura della città subalpina e del Teatro Massimo di Palermo. Lo spettacolo, che comprende tre parti, presenta un impianto compositivo, di cui musica e immagini si intrecciano per ricordare quei giorni di dolore. La prima parte rievoca il senso di dolore e di sconforto provocato dalla stragi, mentre la seconda racconta la reazione della gente che scende nelle piazze di Palermo per reagire alla follia omicida della mafia. La terza si propone di cogliere il legame con la situazione odierna che per l’autore si presenta in modo “liquido” ed incerto, ma ancora in grado di riavviare il discorso di Falcone e Borsellino.
    Come ricorda la regista in una recente intervista, la lezione dei due giudici è un’eredità soprattutto per i giovani, il cui impegno deve ispirarsi al coraggio che ha caratterizzato la vita di Falcone e Borsellino. La sconfitta delle mafie investe la società civile e passa attraverso la valorizzazione della cultura e la possibilità di lavoro per tutti i giovani. Nella parte finale la regista anticipa il suo discorso, aggiungendo che “solo se impareremo a sentirci parte di un unico processo di crescita democratica, ripartendo da concetti come onestà, ascolto e rispetto dell’altro, solo imparando a pensare come collettività sconfiggeremo le mafie. Insegnare nelle scuole che la criminalità organizzata distrugge la bellezza, la dignità, il libero mercato, la cultura e l’identità di un popolo è il primo impegno che dovremmo prendere tutti, come cittadini e come politici”.
    L’evento celebrativo non deve sfociare nella retorica e nelle frasi fatte, ma deve presentarsi come momento di riscatto finalizzato all’impegno e al senso di responsabilità per raccogliere l’eredità dei due giudici. Una lezione che è stata richiamata dal presidente Mattarella nel suo discorso palermitano quando ha sottolineato che “la mafia temeva Falcone e Borsellino perché hanno dimostrato che non è imbattibile”.

     


     

  • PREVENIRE LA GUERRA?
    UNO SGUARDO AI CLASSICI
    DELLA STORIA UCRAINA

    data: 08/04/2022 18:53

    La guerra in corso tra Russia e Ucraina ha distrutto la vita di molte persone. Eppure, dall’inizio del conflitto il 24 febbraio scorso, non si intravedono segnali di pace, per cui assistiamo impotenti al fallimento di ogni trattativa diplomatica e restiamo esterrefatti di fronte all’assenza quasi completa dell’Onu. Quando il 2 marzo scorso l’Assemblea generale di questo organismo internazionale, sorto sulle ceneri della Società delle Nazioni per risolvere le controversie internazionali fra gli Stati, ha votato per condannare l’invasione russa dell’Ucraina, solo la Bielorussia, la Corea del Nord, l’Eritrea e la Siria hanno espresso la loro solidarietà alla Russia.
    La situazione odierna presenta molte incognite e non sembra aprire nuove basi diplomatiche per avviare la soluzione del conflitto ed instaurare un clima di fiducia tra la Russia di Putin e l’Occidente. Per il momento l’attenzione è rivolta all’Ucraina, di cui tutti - scopertisi grandi conoscitori della sua storia e della sua letteratura - avanzano le proposte più disparate per trarre questo Paese da una situazione disperata a causa di una guerra che sta causando danni immensi.
    Uno sguardo alla storia e letteratura ucraina ci porta a riflessioni pacate sulle atrocità delle guerre e al loro superamento. Basta leggere il “Diario” di Isaac Babel’ (1894-1940) per comprendere l’orrore della guerra: «Odio la guerra – annota lo scrittore di Odessa – la crudeltà degli uomini è indistruttibile». Per prevenire la guerra, la grande poetessa Larysa Pretivna Kosač-Kvitka (1871-1913) auspica l’indipendenza politica dell’Ucraina che considera l’unica soluzione per scongiurare la guerra e liberare il popolo dal “giogo moscovita”. E un altro scrittore ucraino, Mikola Chvyl’ový (1893-1933), considera la guerra come un prodotto del bolscevismo sovietico, presentando l’utopia comunista come un alibi per consegnare la Russia «ai padroni di sempre, ai burocrati, ai carrieristi e agli affaristi di tutti i tipi». Per prevenire la guerra, il grande scrittore Volodymyr Vynnyčénko (1880-1951) di Kirovograd propone un programma volto ad una futura composizione politica dell’Ucraina. E, fermamente convinto che essa sia rinchiusa in quella “prigione dei popoli” che si chiama Russia, Vynnyčénko auspica la formazione di uno “Stato ucraino reale”, che conquisti la propria indipendenza nazionale, senza che nessuna “forza esterna” intervenga per porre le basi di una democrazia.
     

  • QUANTE INVASIONI
    NELLA STORIA MILLENARIA
    DELL'UCRAINA

    data: 07/03/2022 17:35

    La storia dell’Ucraina affonda le sue radici nella notte dei tempi. I territori, denominati con quel nome, sono abitati da popolazioni vissute nelle cosiddette “zemljannki”, scavate a rettangolo nel terreno e dotate di focolare domestico. La cultura neolitica, che si sviluppa nella zona Dniepr-Dniestr, è caratterizzata dalla lotta tra contadini sedentari e nomadi invasori. Cimmeri, Sciti, sarmati, goti, unni, avari dominano per periodi più o meno lunghi quella zona fino alla comparsa delle tribù slave. Notizie documentate si hanno a partire dai secoli VI-VII secolo d.C. con l’insediamento delle prime tribù slave.
    Nella seconda metà del IX secolo le varie tribù sono sottomesse da quella denominata rus´, che riesce ad organizzare un sistema politico con centro a Kiev. Il termine è ancora oggi oggetto di dispute storiche. Una fonte occidentale (gli “Annales bertiniani”) indica l’839 d.C. come data di questa entità politica, che invia i propri ambasciatori a Ingelheim via Costantinopoli. Essa è guidata dal principe Olg, che è in lotta perpetua contro le invasioni dei drevliani e le loro mire di conquista. Alla sua morte, avvenuta nel 945 in uno scontro militare, il potere viene assunto dalla moglie Olga, che vendica il marito e riesce a tenere unito il regno per passarlo al figlio Igor
    Nel 1237 Bātū, nipote di Gengis Khan, invade il territorio russo e sottomette tutti i principati, distruggendo tre anni dopo la città di Kiev. Quel centro urbano, dotato di un non comune livello di organizzazione politica, è raso al suolo e attende molti anni prima di essere ricostruito. Sporadici resoconti relativi a scuole e a monasteri, veri centri di irradiazione culturale e di promozione artistica, danno un quadro significativo della barbarie compiuta ai danni di una civiltà formatasi nel crocevia di influssi sciti, bizantini e islamici. La dominazione mongola, che dura dal 1240 al 1380 e anche oltre se si include il periodo di un dominio più o meno nominale, non spegne il sentimento di una “comune terra russa”, che continua a sussistere per molto tempo tramite l’esaltazione di un legame storico tra Mosca e Kiev.
    Con la riconquista dell’indipendenza sotto la guida di Ivan III il Grande (1462-1505) riprende lo sviluppo economico e un lento progresso culturale, che si intreccia a vicende storiche intricate, caratterizzate da periodici tentativi di invasione. Il più famoso rimane quello del re di Svezia Carlo XII, che invade l’Ucraina per impadronirsi delle sue ricchezze, ma dopo un dominio temporaneo subisce il 7 luglio 1709 una sconfitta per l’invio di un forte esercito di 40 mila uomini. Di questa invasione rimane famoso l’intervento dell’atamano Ivan Mazepa, che nel sostegno agli svedesi subisce una sonora sconfitta da parte di Pietro il Grande.
    La vicenda - ora ricostruita con dovizia di particolari nel libro “Come Pietro il Grande, Alessandro I e Stalin hanno sconfitto gli invasori” (Carocci, Roma 2022, pp. 288) di Andrea Santangelo - apre un periodo nuovo per il territorio ucraino. La serie di riforme (coscrizione obbligatoria per i nobili ammodernamento dell’esercito, creazione della marina ecc.), avviate da Pietro il Grande durante il suo governo assoluto, avvicina l’Ucraina ad un modello di vita europeo, nonostante il persistere di un diffuso analfabetismo, la presenza di sacche di povertà nei villaggi contadini e le saltuarie invasioni.
    La suddivisione in “gubernii” (governatorati), ognuno dei quali diretto da un voevoda, favorisce uno sviluppo sociale e imprime un impulso ad altre riforme come quella ecclesiastica. Il nuovo regolamento istituisce una nuova organizzazione della chiesa con la costituzione di un santo sinodo, presieduto da un funzionario laico allo scopo di contrastare un’attività illegale. Ciò favorisce nuovi rapporti tra stato e chiesa in un rapporto politico che supera la scomparsa di Pietro il Grande (8 febbraio 1725) e si protrae fino alla Rivoluzione russa del 1917.
    Nel XIX secolo l’Ucraina subisce la dura politica dello zarismo con la compressione dell’identità nazionale, che è però riconosciuta dal nuovo governo bolscevico: il 22 gennaio 1918 è proclamata la “libera e sovrana” Repubblica ucraina e il 9 febbraio le Potenze centrali firmano a Brest-Litovsk una pace separata con essa. L’invasione del 22 gennaio 1919 da parte dell’esercito russo porta alla Repubblica socialista d’Ucraina (14 marzo), che dopo effimeri tentativi entra definitivamente nella Repubblica sovietica. Nel 1929 Stalin avvia in Ucraina un processo di collettivizzazione agricola forzata, che impoverisce milioni di contadini per l’imposizione a consegnare allo Stato attrezzi agricoli, bestiame e scorte alimentari. Nei quattro anni successivi ciò determina una carestia che provoca la morte 5 milioni di persone in gran parte nella Repubblica sovietica dell’Ucraina, quasi l’equivalente delle vittime della Shoah nei lager nazisti.
    L’Ucraina rimane così condizionata dalla politica di Stalin, che con il suo ingresso nello scenario bellico del Secondo conflitto mondiale provoca tragiche conseguenze in tutto il Paese. L’episodio più grave è sicuramente l’invasione nazista del suo territorio, dove nel 1941 provoca immani disastri con la decimazione della sua popolazione durante gli scontri militari: una pagina buia che non può essere dimenticata, neppure dopo la proclamazione dell’indipendenza ucraina ottenuta il 24 agosto 1991.

     

     

     

     

  • QUEL RITRATTO DI VERGA
    USATO PER IL FRANCOBOLLO
    DEI 100 ANNI DALLA MORTE

    data: 31/01/2022 16:00

    Il francobollo commemorativo di Giovanni Verga, realizzato dall’Istituto Poligrafico dello Stato nel centenario della morte, è un evento eccezionale per la Sicilia e i cultori della sua opera. Emesso dal ministero dello sviluppo economico, esso si propone di celebrare il grande scrittore catanese scomparso il 27 gennaio del 1922. La sua riproduzione, delimitata in basso dalla stilizzazione di un libro aperto, espone il ritratto di Verga – ora esposto nel Casa Museo Verga - confezionato dal pittore Amedeo Bianchi intorno al 1913.
    Era questi nato a Badia Polesine (Rovigo) nel 1882 e morto a Venezia nel 1949, quindi quasi trentenne eseguì il ritratto del celebre romanziere durante il suo soggiorno a Catania, dove ebbe modo di conoscerlo. La data è tratta da un articolo che il giornalista e scrittore Saverio Fiducia (1878-1970) pubblicò nel fascicolo V della “Rivista del Comune di Catania” (settembre-ottobre 1931). Essa può considerarsi attendibile per la fervida memoria del bibliofilo catanese e per la precisione con cui seguiva eventi e personaggi della città etnea, considerata quella in cui «fa vetta per la capacità di tramutare la storia in leggenda e la leggenda in storia».
    Riguardo a Verga, Saverio Fiducia precisò che egli non aveva mai posato per ritratti, ad eccezione che davanti all’obiettivo fotografico: «È tale parve anche al Bianchi, talché quando meravigliato il pittore gliene chiese la ragione, Verga rispose: “Già... ma non lo so neppure io. Vincendo il suo riserbo, Verga accettò di posare per lui un giorno del 1913”». Sulla scelta di Verga di farsi ritrarre da Amedeo Bianchi ci fu con ogni probabilità l’intervento di Silvia Reitano, sua amica e autrice di raccolte con dedica allo scrittore.
    Giovanni Garra Agosta, cultore di studi verghiani e scopritore delle foto e dei negativi impressionati dello scrittore, colloca invece il ritratto nel 1912, ma al di là della data è interessante ricordare il Verga dallo sguardo severo e fiero, rigoroso nell’abbligliamento, «in un sapiente gioco di luci e ombre che fa emergere financo la fossetta nel mento». Un immagine che emerge anche nei ritratti di Roberto Rimini e Antonino Gandolfo, l’uno a penna e l’altro ad acquarello. Il ritratto di Gandolfo, collocato intorno al 1888, è considerato da Fiducia il più espressivo per «i lineamenti spirituali, al quale un nervoso ma sicuro virgolato dà, ora un risalto scultoreo ora una vellutata delicatezza di mezze tinte». Esso è «il più somigliante» all’immagine di Verga, che proprio l’anno successivo diede alle stampe una delle sue opere più famose, il «Mastro-don Gesualdo», che insieme a «I Malavoglia» (1881) costituisce l’architrave della sua opera narrativa.

     

  • INDOVINA CHI FECE
    LO STRAFALCIONE IN PRIMA
    PAGINA A PROPOSITO
    DI SIDNEY POITIER...

    data: 11/01/2022 18:03

    Il 7 gennaio scorso è scomparso Sidney Poitier, celebre per l’interpretazione nel film Indovina chi viene a cena? di Stanley Kramer. Il ruolo del giovane medico nero John, in procinto di sposare Joey, figlia di un ricco editore, produsse lacerazioni nel suo ambiente familiare. Il padre liberal, interpretato da Spencer Tracy, si trovò in imbarazzo durante l’incontro con il fidanzato della figlia, ma analogo comportamento assunsero i genitori neri di John, stupiti per l’annuncio del matrimonio.
    Il film, uscito nelle sale cinematografiche nel 1967, seguì di tre anni il Civil Rights Act, che garantì il diritto di voto agli afroamericani e considerò illegali le disparità nelle scuole e nei posti di lavoro. La sua introduzione scosse la società americana, dove il pregiudizio razziale era ancora diffuso persino negli ambienti democratici. Tuttavia la questione del razzismo quotidiano fu superato nella commedia grazie alle battute brillanti e alle trovate umoristiche dei protagonisti.
    Memorabile il monologo finale di Tracy, che morirà 17 giorni dopo la conclusione delle riprese, là dove condannò “i pregiudizi e la bigotteria” dei critici alle unioni miste e all’integrazione dei neri. L’atteggiamento moderato di Poitier fu criticato però dalla comunità nera, a cui rispose nella sua autobiografia La misura di un uomo, precisando che il suo ruolo non era quello di seminare l’odio, ma quello di diffondere “le speranze e le aspirazioni di un intero popolo”.
    L’intera esistenza di Poitier, dalla nascita il 20 febbraio 1927 a Miami fino alla sua morte a Los Angeles all’età di 94 anni, testimonia la difficile fatica d’integrazione. Essa cominciò con il Premio Oscar ottenuto nel 1964 per il film “I gigli del campo” e si concluse nel 2009 con la medaglia presidenziale della Libertà concessa da Barack Obama. La vittoria dell’Oscar è proprio del 1964 e non del 1967, come indica in prima pagina il “Corriere della Sera” all’indomani della sua scomparsa. Sotto la foto di Poitier, che regge la mitica statuetta assegnata dall’Accademia americana delle arti e delle scienze cinematografiche, l’attore è considerato “il primo afroamentricano a vincere l’Oscar nel 1967” (si legga la notizia riportata sotto la foto, in “Corriere della Sera”, 8 gennaio 2022, n. 6, p. 1).

     


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  • BERBEROVA, LA SCRITTRICE
    CHE RACCONTO' LA VITA
    DEGLI EMIGRES RUSSI

    data: 26/10/2021 16:47

    Il nome di Nina Berberova è comunemente legato al processo che l’ex diplomatico sovietico Viktor Kravčenko richiede contro la rivista comunista “Les Lettres françaises” per l’accusa di aver inventato l’esistenza del gulag in Urss. Il processo nasce dagli articoli che il suo direttore pubblica “in data 1, 22 e 28 aprile 1948” su Kravčenko, dopo l’edizione francese del libro autobiografico Ho scelto la libertà, edito in America nel 1947 e subito tradotto in numerosi Paesi. In Italia si ha, su iniziativa del Partito liberale, una prima parziale traduzione e poi nel 1948 quella definitiva dell’editore Longanesi.
    Il processo, che si svolge a Parigi dal 24 gennaio al 4 aprile 1949, ha però una risonanza mondiale grazie alle cronache minuziose che Nina Berberova (era nata a San Pietroburgo l’8 agosto 1901) pubblica sul giornale dell’emigrazione russa Russkaja Mysil’ (“Il Pensiero Russo”). Così la scrittrice e poetessa, non più giovane, si trova accanto ai corrispondenti dei quotidiani Times o Izvestija, i quali riprendono dai suoi resoconti notizie sulle fasi del dibattimento e sui testimoni.
    La chiave di volta riguarda la domanda di giustizia per Kravčenko, che nel suo volume porta alla notorietà gli orrori dei gulag sovietici. Berberova non rileva che cosa sia accaduto in Urss e come la Rivoluzione d’Ottobre si sia trasformata in una sanguinaria dittatura, ma racconta il processo con obiettività, esponendo fedelmente le tesi di Sartre e di altri intellettuali comunisti come Aragon, Garaudy, Mauriac e Joliot-Curie, chiamati a pronunciarsi in difesa dell’Urss contro Kravčenko.
    Berberova non conosce l’universo concentrazionario dei gulag, ma dai racconti dei testimoni trae la convinzione che neppure le condizioni atmosferiche siberiane possano impedire la ricerca della libertà, come conferma il caso del detenuto Krevsun accusato di complotto contro Stalin e condannato ai lavori forzati a sessantacinque gradi sotto zero.
    I frequenti incontri con gli esuli permettono a Berberova di avere un’ampia conoscenza del loro dramma e della persecuzione che si abbatte sulla vita degli scrittori russi. La maggior parte, costretta ad abbandonare il Paese, si sottrae alle purghe staliniane, senza porsi l’interrogativo se sia “meglio la Russia senza libertà o la libertà senza la Russia”. Nella sua autobiografia Il corsivo è mio, pubblicata nel 1969, Berberova confessa di preferire la seconda soluzione e spiega il motivo per cui nel 1922 decide di stabilirsi a Berlino e tre anni dopo a Parigi. Nella capitale tedesca pubblica un libro su Pëtr I. Cajkovskij, delineando i tratti psicologici del compositore e rivelando per la prima volta la sua omosessualità. A Parigi scrive le biografie del compositore Alexsandr P. Borodin e del poeta Alexsandr A. Blok; pubblica il racconto “Le feste di Billancourt” (1930-40), in cui descrive la vita degli émigrés russi e la nostalgia densa di angoscia e malinconia (“toska”).
    È il libro su Kravčenko, derivato dalla raccolta dei suoi articoli, a dare alla Berberova una certa notorietà che le apre la via dell’insegnamento. Nel 1950 si trasferisce negli Stati Uniti, dove insegna all’università di Yale e pubblica i libri “Il giunco mormorante” (1958) e “Il male nero” (1959). Nel 1963 Berberova, dopo avere ottenuto la cittadinanza americana, si trasferisce alla Princeton University, dove rimane fino al 1971. È un periodo ricco di pubblicazioni come “La scomparsa della biblioteca Turgenev” (1969) in cui racconta la storia della donazione che lo scrittore compie a favore della comunità russa e il successivo trasporto in Germania; oppure la “Storia della baronessa Budberg” (1981), in cui narra la vicenda di una figura leggendaria, che - posta a metà fra Mata Hari e Lou Salomè - le permette di esprimere con rara finezza psicologica la storia dell’horror comunista nel XX secolo.

     

     

     

     

     

  • ARRESTI A HONG KONG
    PER LE PECORE A FUMETTI:
    TROPPO DEMOCRATICHE

    data: 15/09/2021 19:45

    Come disciplina medica l’ortofonia applica tecniche rieducative per i difetti di pronuncia. Un gruppo di logopedisti, che utilizzava questo metodo di apprendimento, è stata denunciato a Hong Kong e alcuni suoi membri sono stati arrestati per avere pubblicato tre libri di fumetti per l’infanzia. Secondo la polizia essi svolgevano azioni contro il governo e «incitavano la gente, soprattutto i più piccoli all’insurrezione e alla violenza». I testi erano infatti considerati uno strumento per diffondere l’odio contro le autorità cinesi e presentare i funzionari come persone sporche e cattive.
    All’équipe medica è stata rivolta così l’accusa di abuso della professione per l’accento posto su nozioni come «vendetta e resistenza» e sull’esplicito richiamo a metafore contro i funzionari governativi. «Guardiani del villaggio di pecore», «Bidelli del villaggio delle pecore» e «I 12 coraggiosi del villaggio di pecore» erano i titoli dei tre fumetti che i cinque logopedisti proponevano per raccontare ai bambini le peripezie di un gruppo di pecore che si ribella all’oppressione di un branco di lupi in un villaggio.
    Nel primo racconto le pecorelle bianche sono un’allegoria dei cittadini democratici, in opposizione ai lupi grigi che assediano i loro villaggi (la polizia di Hong Kong). Nel secondo si narra la presenza delle pecore, che scendono in sciopero per protestare contro i lupi e il loro tentativo di riempire le vie di spazzatura: palese riferimento al personale sanitario della città che nel gennaio del 2020 protesta contro l’epidemia e chiede la chiusura delle frontiere con la Cina. Il terzo fumetto racconta le vicissitudini di un gruppo di pecore, costrette a fuggire in esilio per continuare la lotta contro il regime comunista.
    L’episodio si inserisce così in un movimento di protesta inaugurato due anni fa a Hong Kong, dove la città è stata scossa dagli scontri tra polizia e movimento democratico anticomunista. Le organizzazioni sindacali cittadine hanno condannato la misure liberticide governative, volte a reprimere ogni manifestazione favorevole alla libertà di espressione. In quest’ambito si inserisce la chiusura del giornale «Apple Daily» con l’arresto di sette suoi giornalisti – sono in carcere anche il direttore e l’editore – accusati di cospirazione e di collusione con le potenze straniere per avere richiesto sanzioni con la Cina.
    Il tribunale di Hong Kong ha rifiutato la libertà su cauzione al direttore del quotidiano Ryan Law Wai-Kwong e all’amministratore delegato Cheung Kim. Essi rischiano pene severe a causa della legge sulla sicurezza nazionale imposta l’anno scorso nella città. Dopo il clamore mediatico estivo, sull’episodio è sceso il silenzio e non si sa nulla dei logopedisti arrestati e non si conosce il futuro del quotidiano di opposizione, che ha svolto un’opera encomiabile sul fronte dell’«informazione democratica» e della difesa dei diritti civili.
    Nei primi giorni di settembre quattro attivisti di un’associazione pro-democrazia, che organizza ogni anno una veglia commemorativa della strage di piazza Tienanmen un Cina, sono stati arrestati per la violazione della legge di sicurezza nazionale. La veglia è stata vietata con la scusa della pandemia, ma in realtà il vero motivo riguarda la volontà governativa di togliere ogni autonomia amministrativa a Hong Kong.

     

  • CHE FLAGELLO GLI INCENDI:
    IN 15 ANNI SCOMPARSI
    500MILA ETTARI DI BOSCO

    data: 12/08/2021 20:34

    Una leggenda narra che nell’antichità l’uomo imparò ad accendere il fuoco per procurarsi nuovi spazi e trasformarli in terreni fertili. L’idea gli venne forse dall’effetto del fulmine sulle foreste, ma non comprese che il disboscamento e l’acquisto di nuove terre si ritorceva contro sé stesso e alterava l’ecosistema. Se facciamo un salto temporale ai nostri giorni sembra che i responsabili degli incendi estivi siano rimasti fermi all’età del neolitico. Essi provocano infatti un disastro ambientale che deriva da cause di origine umana e poche altre ascrivibili all’ordine naturale.
    Prima che gli incendi flagellassero l’Italia si erano verificati numerosi incendi in Canada, dove ci sono stati numerosi morti e persino la scomparsa dell’intero villaggio di Lytton. Ad aggravare la situazione c’erano stati terribili fulmini nella British Columbia, dove 177 incendi erano favoriti dalle alte temperature. Accanto ai dissesti idrogeologici, alle alluvioni e ad altri problemi, gli incendi rappresentano il più grave pericolo che minaccia il territorio e la vita dell’uomo durante l’estate.
    In Italia, a causa degli incendi, sono scomparsi negli ultimi quindici anni circa 500 mila ettari di bosco, che costituiscono un ingente danno economico e un autentico impatto per l’equilibrio ecologico della nostra Penisola. Certamente gli incendi sono favoriti dalle condizioni climatiche, ma raramente sono provocati dai fulmini. Essi provocano danni come il dissesto idrogeologico e la distruzione degli alberi, deleteri per la conservazione della natura e la produzione dell’ossigeno.
    L’opera di spegnimento riesce a limitare questi danni, che penalizzano intere categorie di lavoratori, comprese quelle connesse all’afflusso dei turisti. Eppure, il loro richiamo rientra tra le cause degli incendi per colpa di irresponsabili che utilizzano le campagne abbandonate per destinare terreni per finalità poco lecite. Altre cause possono essere imputate a vendette personali per azioni di esproprio, a speculazioni edilizie e persino al rapporto tra numero di autovetture e incendi boschivi, provocati al bordo di strade e autostrade per la crescita progressiva della circolazione.
    Il periodo più esposto agli incendi riguarda quello estivo e colpisce soprattutto l’Italia meridionale e alcune regioni del Nord come la Liguria. Dalla Sicilia alla Calabria gli incendi hanno provocato diversi morti e minacciano di travolgere boschi millenari e posti incantevoli. Nella prima decade di agosto le fiamme assediano le abitazioni nelle province calabresi che vanno da Cosenza a Catanzaro fino a Reggio Calabria. Nella mattinata del 12 agosto – come è stato riportato dai telegiornali - sono stati effettuali 528 interventi, 230 in Sicilia e 100 un Calabria, le due regioni con il più alto tasso di criticità. A Grottera (Reggio Calabria) un uomo è morto per mettere al sicuro i suoi animali a causa di un tetto carbonizzato che gli è caduto addosso, mentre in alti paesi come Mammola, Gioiosa Ionica e Martone sono attivi molti roghi contrastati dal supporto di Canadair. Attualmente decine di persone sono state allontanate dalle loro abitazioni, minacciate dal fuoco. Medesima situazione si sta verificando nella provincia di Catania, dove a Paternò un giovane contadino è morto durante lo spegnimento di un rogo. Qualche settimana addietro grossi incendi hanno messo in pericolo un intero quartiere nella zona di Fossa Creta, della Plaia e di tutta l’area Sud della città etnea. Il fuoco ha distrutto aziende, case e auto, costringendo diversi nuclei familiari ad abbandonare le abitazioni. Danni devastanti si sono abbattuti anche nelle aree protette dell’Oasi del Simeto.
    Il Corpo forestale dello Stato attribuisce le cause dell’incendio alle opportunità che si possono ricavare dalla creazione di terreni coltivabili o adibiti a pascolo. Ma altre cause degli incendi possono dipendere dalla bruciatura di stoppie e cespugli per la preparazione della semina, ma anche da azioni compiute per negligenza e imprudenza da parte di persone che provocano incendi. Ma la maggior parte degli incendi è di origine dolosa, senza che i responsabili abbiano timore d’incorrere in reati gravi e in pene severe.

     

  • L'INQUINAMENTO ATMOSFERICO COSI'
    MAPPATO DALL'AGENZIA
    EUROPEA PER L'AMBIENTE

    data: 04/08/2021 20:04

    Il 17 giugno scorso l’Agenzia Europea per l’Ambiente (EEA) ha presentato una mappa dell’inquinamento atmosferico esistente in 323 città dei Paesi aderenti a questo organismo. Sulla base delle direttive dell’Unione Europea sulla qualità dell’aria, i dati comunicati dai Paesi membri hanno evidenziato i livelli di particolato, le misurazioni a terra del PM2,5 e una vasta gamma di inquinanti atmosferici come il biossido di azoto, l’anidride solforosa e l’ozono nelle aree urbane e suburbane. Tra le città più inquinate sono risultate quelle dell’Europa orientale, mentre le più pulite si trovano in Finlandia, in Svezia e in Portogallo.
    Come qualità dell’aria, il più alto tasso di inquinamento è presente in città come Nowy Sącz in Polonia, Skopje in Macedonia o Slavonski Brod in Croazia, dove la fonte energetica più diffusa è il carbone. Gli alti livelli di particolato derivano dal riscaldamento domestico, dagli impianti industriali e dalla circolazione di autovetture vecchie e con motore a diesel. Una situazione che è aggravata dalle misere condizioni della popolazione che riscalda la propria casa con la legna e persino con la plastica.
    Delle 323 città analizzate nella mappa, 127 hanno una qualità dell’aria buona e si trovano nella situazione fissata dall’Organizzazione mondiale della sanità (OMS) e pari a 10 microgrammi per metro cubo d’aria (10 μg/m3). Il particolato rimane l’inquinante atmosferico più diffuso, che determina gravi malattie cardiovascolari e respiratorie e causa morti premature per la lunga esposizione al PM2,5. Si calcola che negli ultimi dieci anni l’esposizione al particolato ha causato circa 417 mila morti in 41 Paesi europei.
    La mappa visuale della qualità dell’aria permette ai cittadini di controllare la situazione dell’inquinamento atmosferico nel loro territorio, indicando come modello la situazione esistente in città come Umeå (Svezia), Tampere (Finlandia) e Funchal (Portogallo). Ciò potrebbe aiutare i cittadini a raggiungere gli obiettivi dell’Unione Europea in materia di “Zero Pollution” per abbassare le sostanze nocive circolanti nell’aria.
     

  • DANTE, IDENTITA'
    NAZIONALE E FORTUNA
    DELLA SUA OPERA

    data: 10/07/2021 17:57

    Il settecentesimo anniversario della morte di Dante ha avviato una serie di eventi, che si concluderanno il 2 ottobre a Torino con il convegno internazionale Tra “Monarchia” e “Commedia”: filosofia e poesia della giustizia e il 5-6 dello stesso mese a Lucca e Sarzana con quello su Dante nella Toscana occidentale. Nel frattempo sono state condotte ricerche sui monumenti, lapidi e ceppi eretti in suo onore. Una di esse ha rilevato che negli 8.100 comuni italiani “Dante Alighieri” figura al quinto posto con 3.793 strade e piazze a lui dedicate, vicino a “Giuseppe Mazzini” (3.994) e distante da “Giuseppe Garibaldi” (5.472).
    Il nome di Dante è rievocato sul piano scultoreo, ma è richiamato anche per quello cinematografico, musicale, teatrale e persino per fumetti e videogiochi. La sua vicenda poetica rimane collegata alla Divina Commedia, che ha ispirato letterati e poeti nel lungo percorso che ci separa dalla morte avvenuta nella notte tra il 13 e il 14 settembre 1321. La vasta opera del sommo poeta toscano deve essere ricondotta al Medioevo, ma ancora oggi può offrire spunti interessanti per la formazione di una coscienza civile ed elementi di straordinaria attualità per la lezione umana ancora utile alle nuove generazioni. La ricchezza delle fonti spazia tra le culture del suo tempo, ma confluisce in una filosofia propria, da cui si propagano molteplici elementi che caratterizzano la Divina Commedia.
    In due libri, il primo su Dante a cura di Emiliano Bertin (Mondadori, Milano 2020, pp. 166) e il secondo intitolato Il Sommo italiano. Dante e l’identità della nazione (Carocci, Roma 2021, pp. 242) di Fulvio Conti - quest’ultimo recensito egregiamente da Cesira Fenu si “Infodem” - viene ripercorsa la fortuna del poeta, a cui si intreccia la storia della critica, in una forma sintetica e meritevole di essere ripresa. Per Bertin l’etichetta di «divina» fu suggerita da Giovanni Boccaccio, al quale spetta il merito di avere inaugurato a Firenze nel 1373 una pubblica lettura della Commedia. L’iniziativa segna l’incipit delle numerose manifestazioni che si sono susseguite nel corso dei secoli. Boccaccio compose anche la prima biografia di Dante, preceduta soltanto da veloci annotazioni della Cronica di Giovanni Villani e dalla parafrasi in terzine compiuta da Antonio Pucci nel suo Centiloquio.
    Le notizie biografiche del Boccaccio, sistemate in modo definitivo nel Trattatello in laude di Dante, inaugurano la critica dell’opera dantesca, ripresa nel secolo XV in modo saltuario, ma vivificata e tenuta in grande considerazione da Lorenzo il Magnifico e da Poliziano. Con il secolo successivo emerse il carattere che anticipò la nazione italiana come idea-forza allo stesso modo che il suo poema fu considerato come un libro sacro e una nuova Bibbia del popolo italiano. Lo intuì Giuseppe Mazzini nel suo saggio Dell’amor patrio di Dante (1837), con cui elevò il poeta fiorentino a profeta della patria italiana, quasi a conferma delle sue posizioni politiche.
    Durante l’epopea del Risorgimento egli fu proclamato il poeta per eccellenza della nazione o, per dirla con Cesare Balbo, definito «l’italiano più italiano che sia stato mai». Persino Giacomo Leopardi, più attento alle terzine e alla poetica dantesca, inserì l’Alighieri in un’ideale storia letteraria dell’Italia sorta e svoltasi sotto i segni del dolore, collocandolo in un ambito politico caro agli uomini del Risorgimento. Una lezione che sarà ripresa da Francesco De Sanctis, che considerò il poema come la più alta sintesi della storia politica e sociale della nuova Italia.
    Con la raggiunta Unità nazionale si trascurò la lezione di questi grandi interpreti e si ritornò alla ricerca minuziosa delle fonti, alla verifica delle notizie storico-biografiche e allo studio linguistico filologico. Il sesto centenario della morte di Dante (1921) confermò questo indirizzo negli studi danteschi con l’accento posto sul carattere del poema come «romanzo teologico». La molteplicità degli studi, seguiti nel secolo successivo, ha seguito diversi indirizzi di ricerca intesi a collocare la complessa opera poetica di Dante in una trama unitaria, che si snodò dal fascismo all’età repubblicana.

     

  • I 200 ANNI DEL FUMETTO
    FRA CULTURA
    E COMUNICAZIONE

    data: 01/07/2021 17:01

    Come fenomeno culturale, il fumetto gode di un’attenzione piuttosto diffusa nella società contemporanea. Esso interessa i giovani, stimola la loro fantasia e potrebbe essere un prezioso strumento per avvicinarli alla carta stampata. Difatti se leggiamo il volume Che cos’è un fumetto (Carocci, Roma 2021, p. 144) di Valerio Bindi e Luca Raffaelli, ci rendiamo conto dell’importanza che esso ha nella formazione delle nuove generazioni. Le caratteristiche dei personaggi, la narrazione, lo studio del linguaggio e le tecniche grafiche concorrono a definire il fumetto. Ci possono essere visioni diverse, perché per alcuni “è un linguaggio” e per altri una rappresentazione in sequenza volta a creare sistemi narrativi.
    Fra i vari livelli comunicativi le immagini possono diventare un approccio critico al codice visivo, che se legato ad una forma specifica diventa la storia del fumetto, ossia di una cultura materiale. La produzione dell’oggetto finale dipende dal confronto con i processi creativi e dal rischio che l’autore corre per confezionarlo. Un meccanismo composto da immagini, ma anche da parole messe in pagina e in serie, articolate in un percorso cronologico dei formati e dei modi produttivi del fumetto. L’unità di personaggi, generi e temi condizionano così l’immaginario popolare che ci conduce dalla striscia al graphic novel, dall’autoproduzione alla produzione industriale.
    Sulla base degli studi di semiologia il fumetto è considerato dunque uno strumento narrativo, che seppure nato tardi ha potuto usufruire delle esperienze di altri media. Esso affonda le sue radici nelle illustrazioni dei libri per l’infanzia, nella vignetta divertente o addirittura può farsi risalire alla fine del XIX secolo, quando i giornali cominciarono a pubblicare pagine di comicità per incrementare le vendite. Il “balloon”, ovvero il fiato che esce dalla bocca dei personaggi come nuvoletta e che contiene le loro frasi, è solo uno dei possibili strumenti narrativi disegnati. I segni di movimento, che permettono ad una sola immagine di offrirci una situazione temporale, rientrano nelle cosiddette linee cinetiche, affiancate da quelle onomatopeiche come Bang, Gulp, Zap, Crash. Le onomatopee sono inserite così sul piano grafico all’interno delle vignette, mediante le quali è possibile immaginare gli effetti sonori scaturiti dall’immagine. Il ricorso visuale alle metafore scandisce il percorso narrativo, che è valorizzato per esempio dalla lampadina accesa come fonte di un’idea oppure dal ramo segato come indicatore del sonoro russare di un personaggio.
    Negli ultimi anni la complessità del racconto e la simbologia delle vignette hanno privato il fumetto delle didascalie, utili come ausilio alla comprensione dell’episodio narrato. Così le immagini possono assumere significati diversi, lasciando il lettore ad una discrezione interpretativa e ad una vaghezza dei messaggi. La vasta gamma di tipologie contiene fumetti comici, avventurosi oppure a colori, in bianco e nero, fantastici e persino collegati alla attualità. Nei suoi quasi duecento anni di vita il fumetto ha reinventato nuove tecniche di riproduzione ed ha manifestato vari volti, presentando un sistema autonomo oppure derivando strumenti da altre forme comunicative come la letteratura, la fotografia, la pittura, la scultura o il cinema di animazione.


     

  • UNA CONFUSA RECENSIONE
    DEL ROMANZO "SPIRDU"

    data: 01/06/2021 23:48

    Sul supplemento culturale «la Lettura del Corriere della Sera» (30 maggio 2021, a. XI, n. 22, p. 28) è uscita una recensione dell’ultimo libro di Orazio Labbate: «Spirdu» (Italo Svevo, Roma-Trieste 2021, pp. 171). L’autrice, Ida Bozzi, è la più prolifica giornalista del quotidiano milanese: nulla da eccepire se non fosse che il suo articolo si distingue per inesattezze, confronti incongrui e superficialità espositiva. Ella indica come luogo di nascita dello scrittore Butera, ma sembra che sia nato a Mazzarino (www.dudemag.it), il paese famoso per i frati dediti più alla pratica estorsiva che alle preghiere e alla penitenza.
    Nondimeno i romanzi precedenti dello scrittore siciliano, «Scuru» (2014) e «Suttaterra» (2017), sono ambientati nel paesino buterese dove i suoi racconti – incentrati sui demoni – dipingono un quadro misterioso con il ricorso ad un dialetto siciliano impregnato di un linguaggio orrido e primitivo. Proprio nell’incipit l’autrice, che colloca giustamente e superficialmente la trama a Falconara, crede che il titolo derivi da «Spettri»: «Spettri, appunto, il vocabolo che dà il titolo al romanzo, Spirdu, in siciliano significa spettro e insieme terrore: i personaggi sono spiritati, terrorizzati, ma anche in qualche modo spiritati da potenze che soffiano loro intorno come il vento». Eppure i siti web abbondano di dizionari siciliani, che alla parola «spirdu» riportano questo significato: «demonio» (G. Biundi, Vocabolario manuale completo siciliano-italiano, Palermo 1851, p. 311). Medesimo singificato si ritrova in un altro dizionario del termine «spirdu»: «demonio» (V. Mortillaro, Nuovo dizionario siciliano-italiano, Palermo 1876, p. 1049).
    Sembra che la giornalista abbia appena sfogliato il libro e non sia andato oltre alle pagine 12 e 13, ove sono presentati i nomi dei personaggi: «Jedediah Faluci, esorcista buterese», «Peep Faustino Faluci, ex macellaio di Butera», «Kathrine Pancamo, dective del Dipartimento di Polizia di Milton». Personaggi che sembrano muoversi in «una lotta impari contro i demoni ormai in agguato ovunque» e lontani dai raggi del sole, che «è bandito» (Bozzi) «dall’orrore del cielo» privo di stelle, perché «funìvunu depresse nel mondo più scovolgente della vigilia di Natale». Ora nel dialetto siciliano si scrive «funnìvunu» dall’infinito «funniri», che indica la liquifazione dei metalli mediante il fuoco oppure di ogni altra cosa materiale che viene sciolta con il calore.
    In questo romanzo «gotico» – «Libera nos domine» dalle astruserie letterarie per usare il brano di una canzone di Francesco Guccini – non entra in gioco una concezione del mondo, come vuol far credere la presentatrice, ma la rappresentazione spirituale di un’immagine «muzzicata» e fossilizzata di una Sicilia oberata da riti religiosi come processioni e superstizioni. Piuttosto che privilegiare la trama del romanzo, la Bozzi va alla ricerca di paragoni con autori come Howard Phillips Lovecraft (1890-1937), Anna Maria Ortese (1914-1998) oppure Stefano D’Arrigo (1919-1992), che non aiutano a spiegare fenomeni della realtà siciliana sopravvissuti alla modernità.
    Dello scrittore statunitense la Bozzi ricorda «l’horror pessimistico» del racconto «la cosa sulla soglia» (1933), mentre della narratrice romana cita il «fantastico flosofico» del «monaciello» (1940), ma non riesce a spiegare quali siano le affinità letterarie, collocando il romanzo «Spirdu» in un territorio lontano dal realismo magico, così conclamato nelle discussioni sul Sud, sui riti religosi e sulle processioni di «madonne e cristi alle colonna». Nel racconto di Lovecraft le storie del macabro cosmico sono dettate da una vena decisamente personale, mentre in quello della Ortese emergono sentimenti quasi infantili misti ad una esistenza malinconica provocati dalle sue vicissitudini personali.
    Il romanzo di Labbate si colloca invece in una «horror story» in cui si ricercano percorsi esistenziali collettivi con l’ausilio di descrizioni di esorcisti e becchini e di altri protagonisti «separati dall’oceano» e presi a prestito da realtà lontane come quelle di Butera e di Milton. Una ripetizione quella dell’oceano (?), a cui ricorre la Bozzi per contrapporre la detective oriunda Kathrine Pancamo e Jedediah Faluci, entambi vittime di incubi persecutori. La frase iniziale dello scrittore William T. Vollmann (1959, vivente) denota l’abisso in cui sprofondano i due protagonisti di «Spirdu»: «Posto che i morti continuino a vivere, i vivi devono assomigliargli. Ammettendo tale somiglianza, non dovremmo escludere la possibilità di essere, già ora, defunti».
    I due protagonisti, pur vivendo infatti così lontani, si incontreranno fatalmente in una Sicilia dove la ritualità assume una narrazione piena di valenze dialettali e di significato orroroso, a volte imprevedibile e a volte sorprendente sulla scia di quella «letteratura del disgusto» presente nell’opera di Thomas Bernhard (1931-1989). Altri personaggi si incontrano nel percorso narrativo del romanzo e nella descrizione di una Sicilia afflitta da nere realtà dove l’eterna lotta tra il bene e il male si conclude a favore dell’ingratitudine e della malvagità umana. Sulla musicalità dialettale, colta dalla Bozzi per le immagini fugaci presentate nella descrizione di strade o di colline viste dal finestrino, si nota una sua scarsa dimestichezza con la frequentazione dell’idioma siciliano.

  • ALDO FORBICE, FUORI
    DAL CORO, IN DIFESA
    DEI DIRITTI UMANI

    data: 24/05/2021 18:15

    Il giornalista e popolare conduttore radiofonico Aldo Forbice - scomparso oggi, all'età di 81 anni - è noto in particolare per aver condotto il programma Zapping di Radio1Rai, ma anche per aver scritto molti saggi di interesse umanitario e di denuncia sociale. Come autore egli ha uno stile inconfondibile, che «lascia sempre nei suoi testi tracce anche profonde delle proprie esperienze personali e professionali»: è questo un leitmotiv che bisogna tenere presente nella lettura del suo romanzo Fuori dal coro. Uno strano suicidio, un giornalista catapultato nell’indagine e una domanda: “Cos’è la libertà”, (Dario Flaccovio editore, Palermo 2016, pp. 319). Un romanzo anomalo non autobiografico, in cui si fonde però con sagacia un vissuto quotidiano misto a vicende fantasiose, che confluiscono in una trama avvincente, quasi in un thriller con «alcuni inquietanti suggestioni ultraterrene» (p. 7).
    Il protagonista, Max Ferrari, è un conduttore radiofonico, che un giorno resta colpito dallo strano suicidio della giovane Sofia Chiti, moglie di un noto architetto. Egli dà la notizia nella propria trasmissione La Ribalta, sollevando molti interrogativi, che ingombreranno per parecchio tempo la sua mente su quella morte misteriosa avvenuta nel quartiere dei Parioli. Spinto da curiosità e da un profondo senso di giustizia, egli si reca nella zona dove conosce la sorella Giulia, che lo coinvolge in un groviglio di relazioni, di bugie e di segreti atti a suscitare maggiore curiosità per un caso chiuso in modo frettoloso dalla polizia.
    Senza ricavare una risposta soddisfacente, Max si dedica nel frattempo alla propria trasmissione radiofonica, coadiuvato da un gruppo composito di collaboratori, non sempre animati da passione professionale per la scarsa gratificazione economica e l’eccessiva invasività degli ascoltatori. Nonostante il clima non sempre idoneo a rendere più viva la trasmissione, egli promuove campagne umanitarie contro la pena di morte, la tortura, la violenza sulle donne e sui bambini in vari Paesi del mondo. Riguardo a quest’ultima iniziativa pensa così di lanciare una campagna umanitaria (oltre che professionale), che punti sulla denuncia del turismo sessuale, dei bambini-soldato e delle mutilazioni sessuali. La violenza su questi piccoli esseri umani è connessa al «traffico di organi», ossia – come gli riferisce in una telefonata un’anonima infermiera – ad «un fenomeno criminale poco conosciuto», in cui sono coinvolti chirurghi senza scrupoli, mediatori e procacciatori delle vittime innocenti. Il «turpe traffico» si inserisce in un «commercio clandestino e illegale di organi», che ha un tariffario ben preciso: «rene 200 milioni, fegato 300, cornea 170, midollo osseo 320, cuore 300, pancreas 280, arterie 20 milioni...» (p. 83).
    La denuncia dell’autore, già compiuta nel suo pionieristico libro Orrori. I crimini sui bambini del mondo (Milano 2004) arricchisce quella dell’Unicef, organizzata per contrastare le diverse forme di schiavitù dell’infanzia. Un traffico criminale, oggi presente anche su Internet, che dà la possibilità ad organizzazioni malavitose di gestirlo in «catene dell’espianto» con sedi in India, Messico, Pakistan, Romania e Turchia. Uno spaventoso uso del traffico di organi, che si aggiunge a quello del mercato sessuale, di cui in Occidente si continua a sottovalutare la natura devastante del fenomeno e «a fingere che non accade nulla» (p. 84).
    Nel prosieguo del racconto Max descrive l’incontro con il sindaco capitolino, la presenza delle varie organizzazioni umanitarie e il ruolo svolto dalla trasmissione nel salvare la vita di Safiya dalla lapidazione. L’iniziativa passa inosservata nello staff redazionale, assorto nell’indifferenza o rinchiuso nel proprio tornaconto personale, mentre Max cerca di convincerlo a svolgere le funzioni assegnate dalla Grande Azienda e a proseguire la lotta a favore delle donne oppresse in Nigeria. Per il conduttore radiofonico la tutela dei diritti umani deve assumere una valenza nuova nella trasmissione, al di fuori delle pressioni politiche e dei gruppi economici. La sua visione professionale si scontra con la mentalità burocratica dei funzionari, sottoposti a ricatto di ogni sorta nell’assunzione di nuovi giovani e intenti a trascurare il merito a favore della «segnalazione».
    Nel frattempo l’inchiesta del suicidio di Sofia rimane sempre aperta (seppure catalogata come suicidio), mentre la scomparsa della sorella apre scenari nuovi con la sua fuga prima in Costarica e poi in Argentina, dove dà alla luce una bimba di nome Benedetta Sofia (p. 136). Un’intensa e inquietante narrazione che si arricchisce con l’atteggiamento equivoco del marito architetto e della sua collaboratrice Alessia, entrambi conoscitori di molti misteri ma restii a rivelarli per il timore di essere invischiati nel suicidio della povera Sofia. Una trama che lascia però in una situazione vaga il rapporto del protagonista con la figlia «volatilizzata, senza che lui potesse più incontrarla e neppure sentire la sua voce al telefono» (p. 189). La sua insonnia, causata dalla lontananza della figlia, lo martella di tristi pensieri per colpa della madre, la cui cattiveria si manifesta con il ricorso ai numerosi ostacoli di carattere giudiziario e di condizionamento psicologico della comune figlia, «sino al vero e proprio plagio, una sorta di ostruzionismo di ogni tipo» (p. 233): un’amore filiare travolto da situazioni incresciose che si ripercuotono sulla salute di Max a causa di un tradimento muliebre, di una vendetta inspiegabile e di una partenza dai Castelli romani per Torino, la città subalpina simbolo della doppiezza umana.
    La campagna sui costi della politica riscuote grande successo tra gli ascoltatori e gli intellettuali più o meno noti. Essa verte sull’urgenza di eliminare indennità e vitalizi, oltre che sulla riduzione del numero dei parlamentari e sul taglio di privilegi e diritti acquisiti. Su questa situazione viene promossa una raccolta di firme, che suscita reazioni contrarie del ceto politico e della Grande Azienda, l’uno intento a salvaguardare interessi corporativi e l’altra asservita al potente di turno. Il suo direttore si oppone alla raccolta per il timore di perdere la poltrona e per il rischio di dispiacere agli ambienti filogovernativi. La cospicua raccolta di firme (527.037) e la loro consegna ai Presidenti delle due Camere vanificano la frenetica attività del conduttore, che vede l’iniziativa ritorcersi come un «boomerang» sulla trasmissione. Essa viene infatti presa di mira dal ceto politico con alcune interrogazioni parlamentari, mentre il conduttore è tacciato di ledere le istituzioni e il prestigo del servizio pubblico.
    La Grande Azienda, ignara del successo straordinario della trasmissione, decide di chiuderla e di non rinnovare più il contratto al conduttore. Il licenziamento e l’abbandono della redazione, la fine del programma e l’assenza di solidarietà gli provocano una grande sofferenza per l’ingiusta uscita di scena e l’estromissione «da un copione in cui era entrato con forza da protagonista e dal quale era uscito come un figurante, cioè un personaggio non essenziale, neppure come testimone» (p. 289).
    Rimane la soddisfazione dell’insegnamento, la solidarietà dei suoi allievi e soprattutto il loro interesse verso i diritti umani, la cui tutela è costellata da innumerevoli successi, ma anche da ostacoli insormontabili. La sistematica e quotidiana violazione dei diritti umani è diffusa in tutto il mondo, dove bambini e donne sono le principali vittime in India con le vedove che «ancora oggi finiscono sul rogo insieme al corpo del marito» (p. 294), in Pakistan con le donne devastate dall’acido oppure in Cina con le donne vittime della secolare schiavitù degli uomini. Di queste inaudite violenze Max ofre un quadro minuzioso e realistico del Rwanda, della Siria, del Pakistan o di altri Paesi come l’Afghanistan o il Bangladesh, dove i talibani cacciano le bambine dalle aule scolastiche con il gas asfissiante oppure i lenoni ricorrono alla droga per costringere le bambine a prostituirsi. A Tangail, una cittadina situata nel centro del Bangladesh, la prostituzione minorile ha una dimensione macroscopica per l’elevato numero di bordelli, dove bambine di dodici-tredici anni sono costrette a ingoiare pillole per le mucche con lo scopo di farle ingrassare e renderle più appetibili.
    Sulla base di questa diffusa violenza, l’Autore apporta un interessante contributo al dibattito sui diritti umani, che non possono prescindere da quelli relativi all’alimentazione, all’assistenza, all’istruzione ed anche all’altro più recente di vivere in un ambiente meno inquinato. Egli propone così una rimeditazione della letteratura sull’argomento, il cui contributo essenziale va da John Locke a Cesare Beccaria, entrambi difensori della sacralità della vita umana, fino alle formulazioni espresse nella Dichiarazione universale dei diritti dell’uomo (1948), nella Carta europea dei diritti dell’uomo (1950) e in quella più ricca del 2000, laddove si pone l’accento sulla definizione di valori umani come uguaglianza, libertà, dignità, soldarietà e cittadinanza: principi, che stanno alla base delle costituzioni democratiche moderne e che andrebbero meglio tutelati per la salvaguardia della pace e della convivenza civile.

     

  • COME E PERCHE' IL DUCE
    COLLEZIONO' TANTE
    CITTADINANZE ONORARIE

    data: 23/05/2021 18:05

    La memoria storica degli italiani si nutre di ricordi politici e si alimenta di miti più o meno veri. Tra essi il più discusso è quello che ruota intorno a Benito Mussolini, personaggio centrale del fascismo. La sua immagine, prima di assumere carattere mitologico, fu propagandata durante il Regime con una frequenza inaudita, quasi morbosa volta ad un’esaltazione della sua biografia, che si proponeva di presentarlo come un politico equilibrato e saggio.
    In questo àmbito ricorrente è la polemica connessa alla querelle della cittadinanza onoraria, che ricorre nel dibattito politico. Sugli organi di stampa, puntualmente si danno notizie su iniziative di consigli comunali divisi sulla revoca o sul mantenimento della cittadinanza a Mussolini. Per alcuni è giusto che essa sia cancellata per le nefaste azioni politiche commesse dal duce, per altri deve essere mantenuta in quanto la storia deve essere conosciuta per come si è svolta nella realtà.
    Il caso più recente è quello avvenuto nel Consiglio comunale di Asti, dove i partiti hanno discusso sulla revoca o meno della cittadinanza onoraria a Benito Mussolini. Così il 17 maggio i politici astigiani si sono scontrati in una triste bagarre storica che ha visto contrapposti i due schieramenti di maggioranza e opposizione, divisi sulla revoca e sul testo finale, che contempla la condanna di «tutti i totalitarismi compreso il comunismo». Nella presentazione della notizia, alcuni organi di stampa hanno collegato la concessione della cittadinanza alla visita effettuata dal duce il 16 maggio 1939, mentre essa risale al 24 maggio 1924, quando Mussolini fu insignito «a titolo di devoto omaggio e di imperitura riconoscenza per i grandi servizi da Lui resi alla Patria».
    Una lettera del 15 maggio 1924, scritta dal Segretario Federale Ettore Francheo della Federazione provinciale degli Enti Autarchici Locali di Alessandria (da cui dipendeva Asti), contiene la proposta del «Conferimento cittadinanza onoraria S. E. Benito Mussolini Capo del Governo e Duce del Fascismo»: «Per tale data (24 maggio 1924) – scrive l’avvocato alessandrino – è stato proposto con l’accordo di alte autorità politiche, che in tutta Italia venga conferito a S. E. Benito Mussolini la Cittadinanza Onoraria di tutti i Comuni Fascisti a conferma dei sentimenti di riconoscenza e fedeltà già manifestati con la splendida votazione nelle recenti elezioni politiche. Prego la S.V. Ill.ma pertanto entro il 20 corrente di radunare il Consiglio comunale per deliberare ed approvare l’ordine del giorno che qui sopra è riportato come oggetto. Appena avvenuta l’approvazione voglia la S. V. Ill.ma darne comunicazione telegrafica all’Ill.mo Signor Prefetto di Alessandria e a questa Segreteria Federale».
    Precisato ciò, bisogna sottolineare che sul piano storico il conferimento della cittadinanza a Mussolini non fu un episodio estemporaneo, ma il risultato di un progetto politico ben orchestrato. Subito dopo la sua ascesa al potere, egli fu insegnito di questa onorificenza in diverse città italiane come Bergamo, Bologna, Firenze, Mantova, Napoli, Ravenna. L’operazione celebrativa fu assunta da Giacomo Acerbo, il cui nome è legato alla famosa e famigerata legge elettorale (n. 2444 del 19 novembre 1923, rifusa poi nel Testo unico 13 dicembre 1923), che permise nell’aprile 1924 al duce di acquisire il controllo della Camera dei deputati.
    Come sottosegretario alla presidenza del Consiglio, Giacomo Acerbo inviò il 7 maggio 1924 una lettera-telegramma ai prefetti, affinché intervenissero presso le autorità comunali e imponessero ai sindaci il conferimento dell’onorificenza a Mussolini. Come si legge nella lettera del segretario federale di Alessandria, lo scopo era quello di esprimergli «sentimenti di riconoscenza e fedeltà» per «la splendida votazione nelle recenti elezioni politiche» e per l’opera svolta nel consolidare la coscienza nazionale.
    Il riferimento era rivolto alle elezioni del 6 aprile 1924, in cui la Lista Nazionale aveva ottenuto il 60% dei consensi. Si trattava di elezioni truccate, denunciate da Giacomo Matteotti all’apertura della nuova legislatura, con un coraggioso discorso pronunciato alla Camera dei deputati. Il socialista riformista chiese infatti l’annullamento delle elezioni del 6 aprile per il clima intimidatorio e per il numero di brogli in cui esse si erano svolte.
    La revoca della cittadinanza si deve pertanto inquadrare in un contesto storico e deve essere letta come una prima tappa verso l’instaurazione di una dittatura che, sulla base delle cosiddette «Legge fascistissime», abolì la libertà di stampa e di associazione sindacale e politica.


     

  • IL DIPLOMATICO FRANCESE
    CHE AMAVA TORINO
    MA CRITICAVA TUTTI

    data: 15/05/2021 17:37

    Nel settembre 1859 un giovane di nome Henry-Amédée d’Ideville si stabilì a Torino come segretario presso la sede della Legazione diplomatica francese. Egli aveva ventotto anni e da pochi mesi era entrato nella carriera del Quai d’Orsay grazie alle amicizie altolocate della sua famiglia. Nella capitale del Regno sabaudo rimase due anni e quattro mesi, frequentò la corte torinese e strinse amicizia con la marchesa Alfieri di Sostegno, nipote prediletta del conte di Cavour. Il diplomatico francese, che fu anche uno scrittore prolifico, tenne un diario in cui mostrò una grande simpatia per Torino che considerò «la sua buona città».
    Lasciata Torino nel gennaio 1862, d’Ideville diede dieci anni dopo alle stampe il suo diario con il titolo «Journal d’un diplomate en Italie», edito a Parigi e arricchito con le illustrazioni del famoso vignettista Casimiro Teja. Il testo, che precedette uno studio su «I Piemontesi a Roma» (1874), fu inviso alla monarchia sabauda per i giudizi aspri sul re «Galantuomo» e su altri personaggi politici come Cavour, Urbano Rattazzi e Bettino Ricasoli. La sua veemente critica è rivolta al sovrano per la relazione amorosa con la «Bella Rosina», al conte Cavour impeccabile nella vita politica ma frivolo e gaudente in quella privata, a Ricasoli definito un «barone feudale» o a Rattazzi «l’avvocato democratico»: un quadro acrimonioso, ma assai diverso dalle oleografie tradizionali.
    In quest’àmbito d’Ideville ironizzò persino sull’intero corpo diplomatico e sui politici più in vista della società torinese, proni più alla volontà della «Bella Rosina» che a quella del sovrano. Non risparmiò Mazzini e Garibaldi, l’uno definito un «anarchico dinamitardo» e l’altro un eroe popolare lontano dalle regole della buona educazione. Al centro della narrazione storica si ritrova però la città di Torino dove tra il 1859 e il 1860 «sotto i portici di via Po, al caffè Fiorio, e nel gabinetto di Cavour, si gettavano liberamente le trame della cospirazione che doveva condurre all’unità dell’Italia». La società torinese è descritta in un nitido ritratto che coglie con affetto bonario gli aspetti peculiari nell’esercito stretto intorno al re, nella diplomazia e nella politica unitaria rappresentata dal conte di Cavour. Durante la sua attività diplomatica, d’Ideville – una volta lasciata Torino per il suo soggiorno a Roma – difese la politica pontificia e il potere temporale dei papi. Così condannò l’entrata delle truppe italiane nella «città eterna», definita come la «criminale impresa del 20 settembre» e il preludio di una rivoluzione estremista. Un quadro della politica interna italiana spesso schematica, ma improntata ad una vasta conoscenza di segreti e di alcune profezie come quella auspicata sul rientro dei cattolici nella vita politica italiana come unica garanzia di stabilità statale.
    P.s. L’articolo, scritto per il «Corriere Torino», è stato «cestinato» dal suo direttore.

     

  • PRIMO MAGGIO, UNA STORIA
    LUNGA 132 ANNI

    data: 30/04/2021 18:58

    Quest’anno il 1° Maggio compie 132 anni da quando fu scelto come Festa dei lavoratori nel Congresso costitutivo della II Internazionale (1889). Su questa ricorrenza si è scritto molto in versi e in prosa per ricordare la lunga storia che accompagnò le vicende del movimento operaio. La data fu proposta dal socialista belga Èdouard Anseele (1856-1938), che la scelse come momento di aggregazione dei lavoratori intorno a precise finalità di miglioramento materiale. Così dal 1890 il 1° Maggio fu celebrato come rituale periodico che unì la richiesta per le otto ore ad una legislazione sociale più avanzata.
    In un numero unico intitolato «La Festa del lavoro», diffuso il 1° Maggio 1890 si indicarono come obiettivi primari la legislazione del lavoro, la riduzione della giornata lavorativa e la garanzia di un adeguato salario. In un altro numero unico del 1891, firmato «I socialisti operai», si proclamò quella ricorrenza come la più importante «festa cosmopolita». Così essa si inserisce storicamente nelle complesse vicende della società nazionale ed internazionale, caratterizzate da una forte carica rappresentativa di valori, di aspirazioni e di lotte per la libertà e la giustizia.
    Con il passare degli anni il 1° Maggio, soprattutto dopo la costituzione del Partito socialista (agosto 1892), divenne il luogo simbolico dell’emancipazione umana. Esso fu oggetto di propaganda politica, come si ricava dalla messe cospicua di opuscoli e di numeri unici che furono pubblicati per l’occasione su tutto il territorio nazionale. Dal paese più sperduto del Piemonte a quello della Sicilia si ebbe un susseguirsi di edizioni che celebravano il Primo Maggio come la «Pasqua del lavoratore». Forse per questo motivo cominciò a preoccupare le autorità governative, che considerarono la ricorrenza come foriera di disordini sociali. Esse infatti proibirono il 1° Maggio 1898 un varie città italiane quella ricorrenza con il pretesto che essa potesse tradursi in un’agitazione contro il carovita. Gli incidenti più gravi si ebbero a Milano, dove la repressione raggiunse il culmine con la morte di cento operai e più di cinquecento feriti. Contro le misure liberticide, rivolte ad impedire l’organizzazione sindacale, la mobilitazione dei socialisti fu particolarmente forte alla fine del XIX secolo per assumere un atteggiamento intransigente con il loro successo elettorale del giugno 1900. Dietro il grande successo del Psi, che triplicò la propria rappresentanza politica, si aprì in Italia una nuova fase politica, durante la quale il movimento socialista saprà imporre il 1° Maggio come riferimento generale per tutto il Paese.
    Proprio in occasione del 1° Maggio del 1900 i socialisti di Torino pubblicavano un significativo opuscolo, intitolato «Buon primo maggio, fratelli!», con il quale rivolgevano un affettuoso saluto ai partecipanti e li chiamavano a raccolta in nome dell’unità di tutti i lavoratori. Per la medesima ricorrenza furono pubblicati altri opuscoli in varie città italiane: a Milano Eugenio Ciacchi (1868-1929) collegò la Festa del 1° Maggio alla lotta «contro l’imposta sui salari», mentre sull’organo abruzzese «L’Avvenire» essa veniva salutata come un evento salutare per il lavoro operaio: «Torna, o bel mese, sulle plebi oppresse, il raggio a folgorar e i germi schiudi: fiori a le tombe ed alle plebi il pane».
    Così nella cosiddetta «età giolittiana» la ricorrenza non assunse più le sembianze di una sterile protesta, ma divenne ferma consapevolezza di una scelta riformista diretta ad elevare la coscienza operaia ed indicata come tappa per trasformare gradualmente i gangli vitali dello Stato. Con l’azione politica di Filippo Turati (1857-1932) i lavoratori ebbero una rappresentanza politica in grado di contrastare il rivoluzionarismo verbale e inconcludente, contrapponendo ad esso un metodo riformista, che – seppure espresso parecchie volte con un linguaggio aulico – intraprese il lento cammino per l’erosione della «roccia» su cui poggiava il «domino borghese» attraverso la riappropriazione di quanto il capitalismo sottraeva ai lavoratori «in termini di libertà e di benessere» (F. Turati, «I tre otto», in «Critica Sociale», 1° maggio 1904).
    Con la nascita della Confederazione Generale del Lavoro (1906) il 1° Maggio assunse piena legittimità nella vita dei lavoratori, che rivendicarono aumenti salariali e richiesero il suffragio universale. Questo diffuso senso di riscatto riecheggiò nell’iconografia socialista con il ricorso alla simbologia floreale o solare per indicare il riscatto dei lavoratori. L’attaccamento ad una Festa, che diffondeva la speranza in un avvenire migliore, fu espresso con il ricorso al sole (luce, calore) e fu ricondotto a simboli della società da costruire, su cui si ergeva la fiaccola intesa come allegoria della conoscenza e della verità. Nei disegni posti nelle copertine degli opuscoli comparve anche il garofano come a significare il risveglio della natura e la speranza in un avvenire migliore.
    Uno studio degli articoli usciti sulla stampa periodica e sulle copertine degli opuscoli sembra evidenziare un’immagine diversa del 1° Maggio: mentre nelle città si assiste ad un’esaltazione del lavoro manuale operaio, nelle campagne esso mutuò modelli della pietà religiosa popolare con il ricorso spesso a miti derivati da festività precristiane, seppure collegate ai cicli della natura. I cortei rappresentavano la traduzione laica delle processioni religiose, mentre le bandiere rosse sostituivano i vessilli religiosi. In alcune regioni del Meridione come la Puglia o la Basilicata il 1° Maggio riecheggia forme proprie delle feste religiose popolari. Un aspetto questo che, seppure indagato dalla storiografia sul 1° Maggio, attende studi più attenti riguardo alla realtà dei centri minori e della zone agricole.
    Con la guerra di Libia il 1° Maggio indirizzò i suoi obiettivi verso la difesa dei valori pacifisti e la lotta per il suffragio universale, introdotta nel 1912 ed estesa solo ai cittadini di sesso maschile. Un diffuso neutralismo accompagnò le manifestazioni durante il Primo conflitto mondiale, che sebbene negli anni 1916-17 fossero proibite dalle autorità, si svolsero nelle sezioni politiche e sindacali in un susseguirsi di proteste contro la guerra. Per il 1° Maggio del 1916 il socialista Giovanni Zibordi (1870-1943) pubblicò sull’«Avanti!» un articolo intitolato «Alla terra madre» con cui esaltava la simbologia tradizionale che lega la donna alla natura e alla sua funzione materna. Per il 1° maggio del 1918 egli invitò i socialisti a tradurre la festa in una lotta per l’emancipazione femminile, criticando molti suoi compagni che «vorrebbero la donna limitata alla casa, al lavoro, al focolare e al talamo» (si veda l’articolo uscito in «La Difesa delle Lavoratrici», 1° maggio 1918, a. VII, n. 8).
    Lo scoppio della Rivoluzione russa offrì alle autorità il pretesto di vietare l’anno successivo la Festa del 1° Maggio, ma contro i provvedimenti governativi furono pubblicati numeri unici e diffusi volantini per la smobilitazione generale e la piena libertà nell’uso dei diritti politici e sociali. Per il 1° Maggio del 1919 il socialista novarese Abigaille Zanetta (1875-1945) riconduce le posizioni maschiliste di molti militanti del suo partito ad un’organizzazione sociale, che affonda le sue radici nella società capitalistica (si veda A. Zanetta, «Ordine borghese e disordine socialista?», in «Avanti!», 1° maggio 1919, a. XXIII, p. 4).
    Con l’avvento e il consolidamento del regime fascista le autorità stravolsero il carattere della Festa con il preciso scopo di sottomettere i lavoratori alle direttive del governo. Il 1° Maggio del 1923 fu celebrato nell’illegalità, mentre quello dell’anno successivo fu ricordato alla Camera da Giacomo Matteotti prima di essere ucciso il 10 giugno da una squadra fascista capeggiata da Amerigo Dùmini. Negli anni 1925-26 fu diffuso tuttavia un numero imponente di volantini con la condanna delle misure repressive attuate dal regime fascista. Le manifestazioni del 1° Maggio, sebbene vietate dalle autorità governative, furono celebrate in forma clandestina fino alla caduta di Mussolini. Solo con la proclamazione della Repubblica esse furono riprese e divennero un momento di aggregazione sociale.

     

     

     

  • DAVID LAZZARETTI
    FRA COMUNISMO
    E MESSIANESIMO

    data: 24/04/2021 17:52

    In molteplici pagine dei Quaderni del carcere (Torino 1975) Antonio Gramsci dedicò particolare attenzione alla figura di David Lazzaretti (1834-1878). L’intellettuale marxista fornì notizie preziose sulla sua vita e sull’attività politica che egli svolse come animatore di un nuovo movimento millenaristico comunista repubblicano. L’invito alla volontaria comunione dei beni suscitò l’interesse del periodico «La Plebe», che tenne a distinguere il movimento a «tinta religiosa» con il riscatto socialista fondato sulla scienza e sul lavoro. Nei suoi quindici anni di vita l’organo socialista, apparso dal 1868 al 1883, commentò più volte il moto egualitario promosso da Lazzaretti, precisando che esso poteva dar vita solo a «un aborto di dogmatismo e di comunismo».

    Di quest’uomo, portavoce di un «cristianesimo impregnato di comunismo», si è scritto molto per il misticismo collettivo con cui riuscì a coinvolgere numerosi diseredati in cerca di giustizia. Il personaggio e la sua visione religiosa attrasse Gramsci, che nel I Quaderno (1930, pp. 297-298) prese spunto da un articolo di Domenico Bulferetti («David Lazzaretti e due milanesi», «La Fiera Letteraria», 26 agosto 1928) per analizzare la sua figura tramite la lettura dei libri messi a disposizione dal regime carcerario.

    In una minuziosa e documentata ricerca, pubblicata nel volume David Lazzaretti uno della mia terra: il santo e il profeta del Monte Amiata (Innocenti editore, Grosseto 2020), già apparsa cinque anni fa, ma ora rivista e ampliata con l’aggiunta di una Postfazione di Corrado Cipolla, Paolo Lorenzoni ci dà ora un ritratto esaustivo di un uomo considerato da alcuni santo e da altri affetto da una malattia mentale. Nonostante il titolo, dettato da un naturale amore per la propria terra, l’autore travalica i confini della storia locale e presenta David Lazzaretti (per alcuni Lazzeretti) come un personaggio complesso, che dopo la sua conversione avvenuta nel 1868 stringe relazioni con il mondo cattolico e con quello politico in un susseguirsi di eventi interessanti la zona dell’Arcidosso, ma anche di arresti, processi e saccheggi al Monte Labbro. Proprio quell’anno, dopo una giovinezza trascorsa nel lavoro di barrocciaio e nell’aiuto della famiglia, Lazzaretti ebbe un violento accesso di febbre e una visione mistica in cui una voce gli affidò un compito di palingenesi sociale e lo incitò a recarsi dal pontefice per comunicargli la sua missione di novello «salvatore dei popoli e della Chiesa». Dopo un vano tentativo di essere ricevuto dal papa e un sofferente peregrinare, Lazzaretti – come si legge in un manoscritto del 1915 e citato dall’autore – «fu preso da matto e da imbecille», a differenza del suo paese nativo dove fu accolto con grande tripudio come un santo per avere ricevuto sulla fronte un segno delle due C rovesciate con la croce nel mezzo.

    In un racconto biografico, unito a considerazioni storiografiche di vario genere, l’autore riporta aneddoti popolari, dimostrando una vasta conoscenza della cospicua letteratura sul personaggio, sottoposto a continue visioni mistiche e, per questo, volto ad esercitare un ampio prestigio sociale sui contadini della zona. La sua predicazione fece ben presto numerosi fedeli, che si raccolsero in un movimento religioso, strutturato tra il 1870 e il 1872 in una Fratellanza cristiana e nel Pio istituto degli eremiti penitenzieri, l’una a carattere sociale e l’altro più elitario volto a divulgare i princìpi del nuovo messia. Le regole religiose, stampate nel 1871 a Montefalcone, sembravano tratte da un sodalizio collettivista e ispirate al comunismo primitivo di matrice cristiana per la comunità dei beni e la divisione dei proventi tratti dal lavoro dei campi. Grande attenzione Lazzaretti prestò alla morale femminile e alla riforma dei costumi, di cui egli si fece portavoce in molteplici prediche con toni apocalittici e profezie, delle quali quella nuova era la «Terza Legge del Diritto», dopo quella della Giustizia e della Grazia, l’una rappresentata dalle dodici tavole di Mosè e l’altra dal messaggio evangelico di Gesù Cristo. Proprio all’enunciazione di una nuova èra giuridica, richiesta dall’impellente questione sociale, Lazzaretti unì un ingenuo misticismo, di cui l’apparizione della Vergine era la rivelazione più eclatante nella sua scelta a nuovo messia e nell’annuncio di un rinnovato messaggio cristiano.

    Grazie al sostegno dei contadini assetati di giustizia, Lazzaretti fece costruire sul Monte Labbro (denominato da lui Labaro) una torre, simbolo dell’«Arca della Nuova Alleanza» e della novella Chiesa riformata. La torre, sopravvissuta fino ai nostri giorni, fu completata nell’agosto 1870 con un’altezza di metri 17,40 e una circonferenza di metri 23,14. Si trattava di un’opera imponente, che recava una bandiera rossa con la scritta «La Repubblica è il Regno di Dio», issata alla vigilia della processione del 18 agosto 1878. Su quella convulsa vicenda, che costò la vita al «profeta del Monte Amiata», l’autore fornisce una versione minuziosa fino alla sepoltura nel cimitero di Santa Fiora (ad Arcidosso gli fu negata la tumulazione) e all’autopsia eseguita il giorno successivo con la deposizione rilasciata dal medico condotto che si trattava di un uomo dotato di «una massa cerebrale perfetta, regolare, armonico il contenuto con il contenente».

    Eppure le autorità governative lo trattarono «alla stregua di un delinquente comune e peggio di un furbastro che, celandosi dietro moventi religiosi, operava al soldo del partito clericale e antiunitario italiano» (p. 188). Lo stesso ispettore del ministero dell’Interno appurò che la Società delle famiglie cristiane era costituita da sovversivi e che essa apparteneva alla «reazione clericale». La sua deposizione al processo di Siena contro alcuni suoi adepti non ebbe alcun peso, mentre quella del medico condotto condizionò il giudizio della giuria, che si espresse con favore sugli imputati, assolti dall’accusa di aver turbato l’ordine pubblico e di avere attentato alla proprietà. Tuttavia, la caccia ai «lazzarettisti» continuò negli anni successivi, avvolgendo «il profeta del Monte Amiata» in un alone leggendario e permettendo ai suoi seguaci di organizzarsi nella chiesa giurisdavidica.
     

  • ALLE ORIGINI DELL'UNITA' D'ITALIA IL TRASFERIMENTO
    DELLA CAPITALE A FIRENZE
    E LA STRAGE DI TORINO

    data: 11/04/2021 19:08

    Nella miriade di libri usciti per il centosessantesimo anniversario dell’Unità d’Italia c’è stato un disinteresse quasi totale sul trasferimento della capitale da Torino a Firenze e sulla conseguente «strage» che provocò, nei giorni 21 e 22 settembre del 1864, 52 morti e 187 feriti. A trarre dall’oblio l’episodio è intervenuto il veterano del giornalismo italiano, Eugenio Scalfari con un editoriale intitolato «Mario Draghi e la lezione di Cavour» pubblicato su «la Repubblica» dell’11 aprile 2021, solo che attribuisce allo statista torinese il ruolo di avere traghettato la capitale da Torino a Firenze, incorrendo così in uno strafalcione storico per la sua scomparsa avvenuta il 6 giugno 1861.
    La decisione di trasferire la capitale da Torino a Firenze fu il risultato dei colloqui tra Napoleone III e Gioacchino N. Pepoli. Quello finale ebbe un’importanza decisiva nelle trattative che portarono alla Convenzione di settembre e al trasferimento della capitale da Torino a Firenze. In un incontro avvenuto a Fontainebleau il 22 giugno 1864 Pepoli sollevò la questione del trasporto della capitale da Torino in altra città. La proposta piacque a Napoleone III, che pose le basi per un nuovo trattato, a cui si pervenne dopo il parere positivo di altri autorevoli liberali coma Costantino Nigra ed Emilio Visconti Venosta, vicini al presidente del Consiglio Marco Minghetti.
    Dopo aver valutato la proposta di trasferire la capitale italiana in altra città, le trattative furono praticamente concluse agli inizi di agosto del 1864 con la firma della Convezione di settembre che all’articolo 5 vincolava l’intero trattato al trasporto della capitale. Il 18 settembre una Commissione di guerra stabilì che la città più adatta era in quel momento Firenze per ragioni strategiche. L’episodio segnò una svolta nella costruzione dello Stato unitario e nel complesso epilogo della vicenda risorgimentale. Esso, piuttosto che avvicinare quelle che Giustino Fortunato chiamava «le due Italie», passò inosservato nell’ex Regno delle Due Sicilie, ormai parte integrante della nuova identità nazionale. Le illusioni delle classi dirigenti meridionali erano svanite di fronte alle assicurazioni che il nuovo Stato avrebbe portato la capitale a Roma.
    Nel suo ultimo discorso, pronunciato il 27 marzo 1861, Cavour affermò il principio «Libera Chiesa in libero Stato», ma rassicurò il pontefice che la capitale sarebbe stata presto trasferita a Roma. E rivolgendosi ai deputati disse: «Ora, signori, in Roma concorrono tutte le circostanze storiche, intellettuali, morali che devono determinare le condizioni della capitale di un grande Stato. Roma è la sola città d’Italia [...] destinata» a diventare tale. E più avanti del suo discorso aggiunse: «Io proclamo che Torino è pronta a sottomettersi a questo gran sacrificio nell’interesse dell’Italia» (C. di Cavour, Discorsi parlamentari, Roma MDCCCLXXII, pp. 318 e 319).
    La volontà di Cavour, volta a spostare la capitale a Roma, era però una questione che riguardava più la politica estera che quella interna e si univa al tentativo di sollecitare la Francia ad un riconoscimento del nuovo Regno. Egli era consapevole che Napoleone III non sarebbe intervenuto se non quando la questione di Roma non avesse ricevuto almeno un avvio di soluzione. Proiettata in un imprecisato futuro, Cavour sfruttava i margini concretamente praticabili per un negoziato con Napoleone III, interessato alla possibilità di liberare le truppe francesi dall’incomoda pretesa dello Stato vaticano. Ma la sua scomparsa rappresentò un colpo assai grave per l’unificazione italiana di fronte all’Europa, ritardando lo spostamento della capitale e il pieno controllo del dominio sabaudo sulla penisola.
    Il grande statista piemontese presagì il trasferimento della capitale a Roma, ma sottovalutò lo stretto legame dei Torinesi al ruolo della città subalpina come capitale. Eppure già nel 1843 Vincenzo Gioberti aveva scelto Roma come città destinata ad incarnare la funzione «Del primato morale e civile degli italiani» (vol. I, Allegranza, Milano 1944, p. 82), mentre Mazzini aveva considerato la città un riferimento essenziale nell’Europa delle nazioni affatellate (G. Mazzini, Note autobiografiche, Rizzoli, Milano 1986, p. 382). Una tesi opposta a quella sostenuta invece da Silvio Spaventa che, sebbene non negasse l’importanza di Roma come centro dell’Impero nel mondo, limitava le sue funzioni in quanto essa «non deve né deve infondere negli animi nostri alcuna arroganza o pretensione di dominio fuori di casa nostra» (cit. in F. Chabod, Storia della politica estera italiana dal 1870 al 1896, Laterza, Bari 1951, p. 200).
    Proprio a Silvio Spaventa, segretario generale del ministero dell’Interno del governo presieduto da Marco Minghetti, è connessa la cosiddetta «strage di Torino» e una vicenda poco nota, strettamente connessa al triste episodio. Alcuni mesi dopo l’eccidio, il napoletano Francesco Calicchio aggredì Silvio Spaventa, reo di aver ordinato la dura repressione. Sembra che l’ordine non sia stato mai impartito, ma – considerato il suo giudizio negativo verso i torinesi – venne considerato responsabile di quell’eccidio. Fatto sta che il periodico umoristico «Il Diavolo» promosse il 14 giugno 1865 una sottoscrizione per regalare un bastone a Francesco Calicchio. Questi ricevette largo plauso dalla stampa subalpina, se il 3 agosto dello stesso anno il giornale umoristico «La Caricatura» diede ampio spazio al gesto, pubblicando persino una lettera del «vendicatore» partenopeo: «Sono lieto di quanto mi avete significato, e son grato ... ai Torinesi per le manifestazioni di simpatia ... Era difficile che il macello fatto ai Torinesi nelle giornate di settembre non mi avesse commosso. Quando la legge non viene osservata pei facinorosi potenti, la stampa ha il debito di alzar la voce, e il popolo di protestare come sente e come può...». La sottoscrizione raggiunse una cospicua somma, che permise al direttore del «Diavolo» Leone Tesio di acquistare il bastone con il pomo in argento raffigurante la testa di Gianduja. Esso fu esposto nella vetrina di un ottico in piazza Castello, luogo principale dell’eccidio.
    Lo spostamento della capitale da Torino a Firenze, l’eccidio torinese e il gesto vendicatore del popolano napoletano devono però essere inseriti in un contesto più ampio. Ma, al di là di questo episodio contingente, bisogna sottolineare che la Convenzione di settembre accelerò la soluzione della questione romana. Una linea che concordava pienamente con quella di Cavour, che - seppure scomparso da tre anni - aveva tracciato la via per la sua soluzione in un quadro internazionale reso possibile solo con l’accordo della Francia e possibilmente con il papato.
     

  • RIPULIRE L'OPERA
    DI MOZART DA RAZZISMO,
    SESSISMO E MISOGINISMO?

    data: 08/04/2021 11:48

    Il 25 marzo scorso è uscito un articolo di Camilla Turner sulla richiesta avanzata da alcuni docenti per modificare i corsi musicali dell’Università di Oxford. Esso, pubblicato sul quotidiano inglese «The Telegraph», ha rivelato che è in atto una riforma per inserire le musiche «diasporiche africane», ridimensionando quelle di Wolfang Amadeus Mozart (1756-1791), impregnate di frasi misogine, sessiste e razziste. La notizia ha suscitato l’interesse di diversi quotidiani italiani: sul «Corriere della Sera» del 1° aprile Massimo Gramellini ha deplorato l’iniziativa volta ad abolire il compositore austriaco dal nuovo programma di educazione musicale. Su «Il Riformista» dello stesso giorno (?) Carmine Di Niro critica l’articolo del vicedirettore del «Corriere», considerando la notizia una vera «bufala sul compositore censurato ad Oxford». Così afferma: «Peccato che già il 30 marzo scorso, quindi due giorni prima della pubblicazione della rubrica di Gramellini, la Associated Press aveva già chiarito come la notizia fosse falsa. A chiarirlo è stato Stephen Rouse, portavoce dell’Università di Oxford, che lo ha precisato ad Ap: “Nessuna proposta o suggerimento del genere su spartiti o notazioni musicali occidentali è stato fatto, nessun tentativo di far smettere ai docenti di insegnare la notazione musicale e agli studenti di leggere gli spartiti”». Rouse critica l’articolo del «The Telegraph», fonte di Gramellini, perchè in esso non si ritrovano i nomi dei docenti, per cui la loro opinione non può essere attribuita all’Università nel suo complesso.
    All’autore dell’articolo si unisce un anonimo (forse Luca Sofri), il quale su «il Post» sottolinea la smentita dell’Università nel cambiamento del programma «per eliminare alcuni compositori della tradizione musicale europea». Così viene evidenziato: «Da diversi anni gruppi e movimenti di studenti universitari, soprattutto americani, stanno mettendo in discussione i programmi di insegnamento di molte facoltà, individuando e criticando approcci ed elementi considerati problematici, superati oppure offensivi nei confronti delle minoranze etniche, culturali, di genere o di orientamento sessuale. È una manifestazione del grande dibattito contemporaneo sulla necessità di cambiare alcuni aspetti della società e della cultura che risultano discriminatori verso determinate categorie di persone che nel tempo hanno subìto ingiustizie. A seconda del caso specifico, si può trattare di donne, afroamericani, persone transgender e molte altre».
    Eppure la notizia non è nuova, se già due anni fa la regista Lotte de Beer ha proposto di modificare alcuni passaggi del libretto «Il flauto magico» (Vienna 1791) per la frase oltraggiosa al «Negro brutto» o alla donna poco attiva e ciarliera. Tempo prima un’altra opera di Mozart, «Idomeneo» (Monaco 1781), venne boicottata per la decapitazione di Maometto e per lo scrupolo che potesse urtare la sensibilità dei musulmani presenti in Europa. Seconda la regista olandese la necessità d’intervenire sul testo è dettata anche da motivazioni etiche e dal mutamento dei costumi, che stanno modificando le caratteristiche peculiari di molti capolavori.
    Un precedente si ritrova negli anni foschi del nazismo, quando si introdusse l’obbligatorietà di cancellare ogni traccia musicale riferita agli ebrei. Per esempio il concerto per violino del musicista ebreo Jakob L. F. Mendelssohn (1809-1847), apprezzato anche in Germania, fu sostituito dal meno noto e amato del «razzialmente puro» Robert Schumann (1810-1856). Anche per l’«ariano» Mozart successe che la composizione «La Betulia Liberata» (1771), tratto dal libro di Pietro Metastasio (1698-1782) e ispirato al libro biblico di Giuditta, venne integrata da un nuovo libretto tedesco, in cui emergevano Attila e Crimilde, eroi della saga tedesca.
    In realtà, si tratta di operazioni erronee, perché essi non possono essere riadattati a quello che in un determinato periodo è considerato politicamente corretto. Modificare «Il flauto magico» per salvare la musica di Mozart significa ignorare le scaturigini storiche e la sua struttura tematica, preparata da Emanuele Schikaneder (1751-1812), ossia da quel singolare autore e direttore teatrale che si ispirò alla raccolta di fiabe elaborate sul piano letterario da Christoph M. Wieland (1733-1813). Un aspetto, che oltre a travolgere la cultura musicale di un’epoca, deturpa la commistione sacro/profano e non tiene presente il gusto del pubblico accorso a frequentare i teatri di Vienna.



     

  • CELESTE NEGARVILLE
    DIARIO INEDITO
    DI UN COMUNISTA

    data: 27/03/2021 19:19

    Celeste Negarville (Avigliana, 17 giugno 1905 - Torino, 18 luglio 1959) è stato il primo direttore del quotidiano «l’Unità» e sottosegretario nei governi Parri e De Gasperi. La sua biografia si intreccia strettamente alle vicende del movimento socialista di Torino, dove si stabilisce ragazzo al seguito del padre assunto come operaio alla Fiat. È proprio nel quartiere popolare di Borgo San Paolo che il giovane «Nega» compie le sue prime esperienze politiche, maturando una coscienza socialista che lo vede protagonista nelle lotte contro la guerra. Iscrittosi nel 1919 alla Federazione giovanile socialista, egli presta servizio di vigilanza come «guardia rossa» davanti all’edificio in cui si confeziona «L’Ordine Nuovo» di cui il primo numero esce il 1° maggio 1919.
    Alla nascita del Partito comunista d’Italia (Pcd’I), costituito nel gennaio 1921, Negarville aderisce al nuovo partito e diventa segretario del Circolo giovanile di Borgo San Paolo, subendo l’influenza di Antonio Gramsci tramite la lettura dei suoi articoli. Qualche giorno dopo la strage fascista di Torino del 18 dicembre, egli è arrestato, ma rimesso in libertà espatria a Parigi dove è assunto come operaio alla Renault. Da quella esperienza trae una lezione profonda che lo segna per tutta la vita, se ancora nel 1952 ricorda che la situazione di trent’anni presenta analogie con quella odierna: «Per noi il ritorno del fascismo in Italia dipende, come nel 1922, dall’atteggiamento della grossa borghesia, degli industriali e degli agrari. Gli industriali torinesi sentano il monito che si leva dalla cittadinanza: impedire il ritorno del fascismo è per noi non solo un dovere, ma un imperativo categorico: dobbiamo ubbidire alla voce di coloro che il fascismo ha massacrato» (G. Carcano, «Strage a Torino. Una storia italiana dal 1922 al 1971», Milano 1973, p. 330).
    Assolto per insufficienza di prove al termine del processo a suo carico, Negarville ritorna in Italia e riprende l’attività politica. Ma, arrestato nuovamente nel giugno 1927, egli è condannato a 12 anni di carcere dal Tribunale speciale, di cui ne sconta sette in diversi carceri. Uscito di prigione nel 1934 egli si stabilisce per breve tempo a Torino per poi espatriare nuovamente in Francia, dove riprende l’impegno politico clandestino nelle organizzazioni comuniste. Dopo un breve soggiorno a Mosca come membro del Presidium dell’Internazionale giovanile comunista, egli vive una vita da clandestino che racconta in un diario ora edito con il titolo «Clandestino a Parigi» e il sottotitolo «Diario di un comunista italiano nella Francia in guerra (1940-1943)» (a cura e con introduzione di Aldo Agosti, Donzelli, Roma 2021, pp. XVIII-164).
    Dal 24 giugno 1940 al 27 gennaio 1943 Negarville scrive questo diario in cui annota riflessioni personali pervase da un profondo senso di nostalgia per la lontananza della moglie Nora (Eleonora Rosenberg) e della piccola figlia Lucetta (Lučika), lasciate nel 1938 a Mosca: le rivedrà sette anni dopo, nel gennaio 1946. Più che un diario politico si tratta un «journal intime», lontano dalle dispute ideologiche e distante dalle diatribe politiche. Come si legge nell’introduzione, il diario è «dominato dalla struggente nostalgia delle due persone care e dal timore angoscioso di non rivederle più».
    In questo àmbito Negarville rivela dubbi sulla sua scelta di militante politico ed esprime pensieri dolorosi in una descrizione minuziosa del suo travaglio interiore, quasi un incubo impellente che si riversa nel suo organismo con terribili mal di stomaco, causato dalla lontananza di Nora e Lučika. Spera così un una vittoria delle potenze dell’Asse e in una sconfitta della «xenofobia paranoica del regime staliniano», consapevole che esso «non risparmiava i militanti comunisti degli altri paesi e che poteva travolgere le loro stesse famiglie».
    In un senso di impotenza, caratterizzato da una grave stanchezza, Negarville cerca di sfuggire al peso della «solitudine del rivoluzionario di professione», che viene così commentata dal curatore nell’introduzione: «Durante la giornata Celeste lavora per ore e ore consecutive […]. È un uomo intellettualmente vivace e curioso della vita e cerca un qualche modo di combattere l’opprimente isolamento senza infrangere le regole della clandistinità […]. Legge molto – come aveva fatto dietro le sbarre, quando si era dotato di un’ampia cultura letteraria che ora sembra quasi assaporare costantemente richiamandola alla memoria – ma indulge a un’abitudine che era propria dei carcerati, e per la quale, ricorda, era stato coniato un verbo: quella di “castellare”, cioè di lasciar vagare la mente rievocando i ricordi e abbandonandosi alle rêveries» (pp. XIV-XVI).
    In questo modo trova un refrigerio interiore solo nella musica e nella lettura dei classici come Dante, annotando le sue impressioni sulla vita quotidiana dei parigini oppure - come scrive Aldo Agosti - «riportando con il gusto del bozzettista conversazioni ascoltate per strada o in metro». C’è un passaggio molto significativo, là dove Negarville scrive: ««Essere tutti tesi, colla volontà e coll’intelligenza, nello spazio della nostra lotta, non significa non aver cuore. Mi pare anzi che la nostra lotta acquisti una luce ancor più pura, un valore ancora più grande se si è capaci di sentire di quanti sacrifizi, di quanti dolori, di quante esistenze spezzate essa si nutre».
    In questo brano del Diario si può cogliere la dimensione intima di un militante politico, di un clandestino antifascista nella capitale francese occupata dai tedeschi. E via via che le sorti della guerra sembrano avere un conclusione, si nutrono nuove speranze che essa possa permettere una vita nuova con il ritorno in Italia e l’abbraccio dei propri familiari. L’abbandono di sentimenti più cupi e il ritorno sempre più lacerante a frequenti riflessioni familiari e umane superano l’idea che l’impegno politico possa e debba esaurire la vita di un uomo, dotato anche di una dimensione personale e di uno spazio privato interiore.
    Eppure, con la fine della guerra e il ritorno in Italia, Negarville riprende l’attività politica e, dopo l’8 settembre, quella militare del Comitato di liberazione nazionale. Si allinea alla politica di Palmiro Togliatti con il suo ritorno in Italia dall’Unione sovietica, sostiene la «via italiana al socialismo» e la enuncia sulle pagine de «l’Unità» di cui diventa direttore. Nel novembre 1946 diventa sindaco di Torino, senatore dal 1948, poi segretario della Federazione comunista torinese, sempre membro nel Comitato centrale fino alla morte avvenuta il 18 luglio 1959.

     

  • SFOGLIANDO IL CORRIERE
    ARGOMENTI E FIRME

    data: 16/03/2021 19:49

    Per capire che cosa sia diventato oggi il «Corriere della Sera», bisogna leggere l’edizione di questo 16 marzo. Essa si apre con due editoriali di stridente disparità: uno di Sabino Cassese e l’altro di Paolo Giordano. Nel primo l’illustre giurista interviene su una decisione della Corte Costituzionale per ricordare che «tutte le misure dirette a contrastare la pandemia ricadono nella competenza esclusiva dello Stato» (p. 1), unica istituzione a possedere il «potere esclusivo di dettar norme». Il discorso sulla «vexata quaestio» «della concorrenza tra Stato e regioni in materia sanitaria» si riproporrà al termine del «periodo eccezionale della pandemia» (p. 28). Per confermare la sua tesi, diretta a ristabilire «l’equilibio Stato-Regioni» sulla sanità, Cassese cita un libro appena edito e intitolato «Effetto Draghi. La metamorfosi di una Repubblica» (Lucca, La Vela) di Paolo Armaroli.
    Sulla pandemia in corso interviene Paolo Giordano, che lamenta l’assenza di tutele «per i bambini più piccoli non ancora sufficienti nella dad». Conclusione: «Trattare, dopo un anno, tutti i cicli scolastici allo stesso modo è la dimostrazione del contrario, il sintomo della nostra immaturità protratta» (p. 11). Magari dell’immaturità del ceto politico e del comitato tecnico deputato ad esprimere pareri e consigli!
    Nella sua rubrica quotidiana Massimo Gamellini trova «semplicemente gigantesca Simona Riussi, la moglie dell’insegnante di clarinetto morto a Biella quattordici ore dopo la sommnistazione del vaccino» (p. 1). Encomiabile il suo comportamento, dettato da «tanta sapienza, di libri e di vita, per mantenere la testa fredda dietro una tragedia»: niente proteste e reclami dunque, ma accettazione passiva della disgrazia coniugale.
    Due notizie annunciate in prima pagina, quella della Chiesa che «non può benedire le unioni omosessuali» (pp. 1 e 21) e l’altra che riguarda il gommista «non punibile» per avere ucciso un ladro dopo la riforma della legittima difesa (pp. 1 e 20). Elogio al leader leghista Matteo Salvini, da cui il gommista aretino prende le distanze per il suo disinteresse verso la politica.
    Le pagine 2 e 3 danno grande rilievo al divieto di utlizzo del vaccino AstraZeneca, su cui concordano il presidente del Consiglio Mario Draghi e il ministro della Salute Roberto Speranza, entrambi impegnati a studiare «una campagna di comunicazione a tamburo battente per riconciliare i cittadini con i vaccini». Figuriamoci se il tamburo non fosse battente! Segue un’intervista al professore Giorgio Palù, presidente dell’Aifa (Agenzia italiana del Farmaco), che considera «improbabile un nesso causale diretto tra vaccinazione e decessi», (p. 4), con «la gente in attesa di vaccinarsi», «il blocco delle vaccinazioni» (p. 5), le «mille disdette» (p. 6), le lamentele degli infermieri (p. 8) e il bilancio dei morti a causa del terribile morbo (p. 10).
    Nelle pagine successive (pp. 12 e 13) si ha il quotidiano commento di Maria Teresa Mieli sulla notizia più eclatante dello scenario politico, che riguarda l’elezione «quasi unanime... per evitare l’effetto Bulgaria» (sic!) di Enrico Letta a neo segretario del Pd; il commento di Massimo Franco sui suoi rapporti con il governo Draghi e «la galassia dem» costituita almeno da sette correnti. Pubblicità a piena pagina della Porsche (p. 14) e ritorno alle notizie politiche su esponenti del M5S e di «+Europa» (p. 15), poi la notizia concernente la «violenza sulle donne» nell’«altro capo del mondo, in Australia» (p. 16), «l’arte di arrangiarsi» in Indonesia durante la pandemia (p. 17), l’annuncio della nuova edizione della «Divina Commedia» di Dante, le cui «pagine straordinarie […] hanno definito i valori cardine della nostra civiltà» (p. 18): la pubblicità è l’anima del commercio!
    Notizia sportiva (p. 19) e poi ritorno a quella di cronaca ricordata in prima pagina sul gommista aretino e all’altra sulle unioni omosessuali (p. 21) con il confronto delle posizioni antitetiche di Marcello Semeraro e di James Martin, l’uno contrario alla loro benedizione da parte della Chiesa e l’altro favorevole ad un intervento dell’Istituzione ecclesiastica in nome del messaggio evangelico basato sul «rispetto, compassione e sensibilità». Notizie di cronaca sul «giallo della morte di Losito» (p. 22) e su «Pechino oscurata da sabba e smog» (p. 23) per passare all’annuncio del nuovo numero di «Cook» (p. 24) e alla scelta vegetariana della cantante Donatella Rettore (p. 25). Nuovo annuncio pubblicitario di un libro edito dal quotidiano meneghino, che - in collaborazione con Mondadori - pubblica una biografia di Einstein (p. 26), e dei libri sui «cammini, itinerari e luoghi d’arte» (p. 27) in diverse località italiane.
    Alla pagina 28 ritorna in campo Michele Salvati con un commento specioso sull’elezione del nuovo segretario del Pd e sulle posizioni espresse da Fabio Mussi sul Manifesto del 7 marzo. Colpisce il finale del commento, là dove richiama la «sindrome dell’Angelus Novus di Benjamin/Klee: il partito è travolto da una tempesta che lo sospinge in avanti, ma una parte di coloro che pretendono di dirigerlo ha il viso rivolto all’indietro, e molti, non solo i pochi che la pensano come Mussi, avrebbero bisogno di una pausa di riflessioni per girare la testa verso il futuro» (p. 28): tutto un giro di parole per ribadire la necessità della convocazione di un congresso.
    Tralasciamo la risposta di Aldo Cazzullo alla domanda di un lettore, il criterio incomprensibile di scegliere le lettere da pubblicare nella rubrica diretta dal giornalista albese, il noioso intervento di Dacia Maraini (p. 19). Tralasciamo le notizie di carattere economico (pp. 30-37) per saltare alle pagine 38 e 39, dove troviamo l’«articolone» settimanale di Paolo Mieli, che in due cartelle pretende di sintetizzare un libro di 595 pagine: quello di Raffaella Baritono su «Eleanor Roosvelt. Una biografia politica» (il Mulino). Un argomento su cui l’illustre storico è intervenuto più volte nei suoi programmi televisivi di «Raistoria».
    Ciliegina sulla torta: l’articolo quotidiano di Ida Bozzi, che colloca la data della morte di Andrea Zanzotto nel 1911: una ripresa fedele del programma «Zanzotto 100» presentato il 15 marzo su iniziativa del Comune di Pieve di Soligo, paese natale del poeta. Non sarebbe stato meglio pubblicare il programma?

     

  • CHE STRANA QUELLA
    NOTA DELL'ESPRESSO
    SULL'"EMERGENZA"

    data: 11/03/2021 17:26

    Sul periodico «L’ Espresso» del 7 marzo (a. LXVII, n. 11, p. 7) è uscito un editoriale a firma di Laura Pugno con un reboante titolo: «emergenza». Mi chiedo che senso abbia pubblicare un articolo sibillino e poco chiaro anche per i lettori più accorti. Nulla da eccepire se non fosse che i concetti chiave siano tratti in modo farraginoso da un articolo intitolato «La ricerca della complessità» e uscito nel 2013 su «Scienza in rete». L'autore, Pietro Greco, è scomparso l'anno scorso, per cui non ha più possibilità di replica. Tuttavia credo che ricollegarsi al suo articolo, senza citare la fonte, non è corretto sul piano deontologico e professionale.

    Premesso ciò, si può sottolineare che persino il titolo «emergenza» si ritrova nell’articolo con la precisione che essa «è uno dei grandi temi intorno a cui ruota la discussione nel più generale e controverso dibattito sulla complessità». L’incipit interrogativo che «il tutto è più della somma delle sue parti» è ripreso dalle prime righe dell’articolo di Pietro Greco, che lo attribuisce a Philip Warren Anderson, premio Nobel per la fisica. Il passaggio successivo, secondo cui «Vita, mente e coscienza, democrazia - esempi di qualcosa in più della somma delle parti?», si ritrova nell’articolo di Greco in modo più chiaro, laddove dice: «La vita, il cervello, la coscienza. La mente capace di assumere decisioni coscienti e (forse) libere. Spesso, nel corso della storia cosmica, sono apparse nuove organizzazioni della materia con proprietà difficili da spiegare sulla base delle sole proprietà dei loro costituenti. Queste nuove proprietà della materia sono state chiamate, appunto, proprietà emergenti».

    Nell'editoriale della collaboratrice del periodico, «l’essere acqua dell'acqua» e il riferimento alle proprietà emergenti, quello che «nel 1868 Thomas H. Huxley, il biologo amico di Charles Darwin» (sic! in entrambi gli scritti) presenta come «acquosità», si ritrova nell'articolo citato ed è meglio spiegato, laddove si afferma che «le sue proprietà ... sono ben difficili da spiegare sulla base delle proprietà chimiche e fisiche dei suoi elementi costituenti, l'idrogeno e l'ossigeno». L’autrice riferisce a Huxley quello che nell’articolo viene attribuito ad Andersen, che «propone l’esempio dell’acqua», laddove dice: «Prendete una molecola di questo comunissimo liquido. In essa, rileva Andersen, non c’è nulla di particolarmente complicato. C’è un grosso atomo, l’ossigeno, legato a due piccoli atomi di idrogeno […] Ma mettiamo insieme miliardi e miliardi di molecole di acqua in un recipiente, a temperatura e pressione ambiente. Vedremo questo collettivo di molecole che inizia a gorgogliare, a gocciolare, a luccicare». L’autrice, nel suo frettoloso passaggio attribuito a Huxley, afferma che lo stato liquido dell’acqua «gorgoglia e luccica» per poi aggiungere che essa, se «messa sul fuoco bolle, risente del tempo atmosferico e diventa ghiaccio o vapore»: un brano ripreso dall’articolo, laddove si dice: «mettete l’acqua sul fuoco, e a 100 °C la vedrete bollire e diventare vapore».

    Quale sia l’originalità dell’editoriale rimane un mistero, insieme alla scelta dello staff redazionale di aprire un periodico con un editoriale ripreso da un vecchio articolo. Resta il giudizio frettoloso della Pugno che considera la questione della «ricerca della complessità» come una «domanda filosofica» assertiva.

     


     

  • LEONETTI, IL PUGLIESE
    CHE DIFESE TROTSKY

    data: 28/02/2021 20:01

    La figura di Alfonso Leonetti è nota in Italia solo a pochi storici del movimento comunista. Eppure si tratta di un personaggio tra i più interessanti e anche tra quelli meno conosciuti, il cui impegno politico merita di essere rivisitato per il saldo legame con l’emigrazione meridionale a Torino, l’amicizia con Antonio Gramsci, il ruolo assunto nella redazione del periodico «l’Ordine Nuovo» e nel Partito comunista.
    Originario di Andria (Bari), dove era nato il 13 settembre 1895, Leonetti crebbe in un ambiente di gravi ristrettezze economiche e di sofferenze personali: perse entrambi i genitori per la turbercolosi che infierì in Puglia nei primi lustri del XX secolo. Diventato socialista verso il 1913, egli svolse un’intensa attività politica nella sua regione per trasferirsi prima a Milano e poi a Torino, dove frequentò l’ambiente rivoluzionario della città subalpina, appassionandosi alla lettura dei classici del marxismo e dedicandosi al lavoro giornalistico.
    Nel suo volume autobiografico «Un comunista 1895/1930» (Feltrinelli, Milano 1977), Leonetti raccontò il suo «praticantato giornalistico» al’Avanti!, il suo esordio «di resocontista delle sedute al consiglio comunale», la sua amicizia con Antonio Gramsci, il ruolo alla fondazione del Partito comunista italiano, quello di delegato al V Congresso dell’Internazionale (1924), direttore de «l’Unità» fino alla vicenda che portò alla sua espulsione per l’opposizione alla linea adottata al X Plenum del’Internazionale. Con Pietro Tresso (1893-1943) e Paolo Ravazzoli (1894-1940), Leonetti costituì il gruppo dei «tre», critico verso la direzione staliniana del Komintern e vicino alle posizioni di Trotskij.
    Su questa vicenza ritornano ora Valeria Checconi e Ferruccio Fabilli che hanno curato un ponderoso volume «Alfonso Leonetti. Lev Trotsky. Carteggio 1930-1937. Alle origini del trotskismo italiano e internazionale» (Intermedia Edizioni, Attigliano-Tr 2020, pp. 667). Nella sua introduzione Fabilli ripercorre le esperienze politiche di Leonetti e di Lev Trotsky (1879-1940), e il loro incontro politico testimoniato dal fitto carteggio che si colloca in questi anni di grave crisi del movimento comunista a causa della dittatura personale di Stalin. Quella di Leonetti fu un’esperienza emblematica di un uomo libero, che seppe reagire alle scelte del Partito comunista condizionate dallo stalinismo, senza rinnegare l’impegno politico a fianco diun grande rivoluzinario come Trotsky.
    Il carteggio, che fa parte del « Fondo Alfonso Leonetti», è depositato nella biblioteca comunale e dell’Accademia Etrusca di Cortona, dove giunse per l’amicizia che legava il comunista pugliese con Umberto Morra di Lavriano (1897-1981), mecenate e biografo di Piero Gobetti. L’amicizia tra Morra e Giustino Gabrelli, capogruppo del Partito comunista in consiglio comunale, fu il tramite con Leonetti, che donò il prezioso carteggio, di cui il nucleo principale è la corrispondenza con Trotsky. Sembra che il carteggio fosse più ricco e che molte lettere siano andate disperse dalla coppia Alfonso Leonetti e Pia Carena durante i traslochi e la loro movimentata vita di «tivoluzionari di professione».
    Le vicissitudini sono narrate dalla Carena nel suo libro autobiografico «La vita e gli scritti della collaboratrice di Gramsci attraverso mezzo secolo di lotte operaie» (La Nuova Italia, Firenze 1969). Perseguitati dal regime fascista, clandestini in Francia - si rifugiarono a Puy – Leonetti e la moglie vissero anni di sofferenze fra incomprensioni dei comunisti e ristrettezze economiche fino alla conclusione del Secondo conflitto mondiale. Testimonianze che si ritrovano anche nel carteggio dove tribolazioni di vita si intrecciano con riflessioni e ricordi politici.
    Il carteggio offre un quadro esaustivo dei rapporti tra Leonetti e Trotsky, come pure del movimento che si richiamava all’esule russo. Notizie interessanti si ricavano sul trotskismo, francese e internazionale, e dell’attività svolta da Leonetti come membro del Segretariato internazionale delle opposizioni. A Parigi operava infatti il figlio di Trotsky, Leon Sedov (1906-1938), dissidente sovietico e critico della politica dispotica di Stalin, che anche in terra di Francia controllava i suoi movimenti. Una famiglia, quella di Trotsky, avvolta negli orrori staliniani, dai quali non scamparono l’altro figlio Segej Sedov (1908-1937) e la figlia suicida nel 1933 a Berlino, vittima degli scompensi emotivi a causa delle persecuzioni e dell’esilio.
    La morte di Stalin permise a Leonetti di ritornare in Italia, dove riprese l’attività politica e l’impegno giornalistico. Nel 1962 egli - riammesso nel Pci – si stabilì a Roma, dove dedicò gli ultimi anni della sua vita alla formazione culturale delle nuove generazioni: io stesso lo frequentai nei primi anni Ottanta con una simpatizzante trotskista francese, allieva di Pierre Brouè (1926-2005). Scrisse una molteplicità di articoli sulla sua vita di emigrato politico a Torino, sull’amicizia con Antonio Gramsci, sull’esperienza a «l’Ordine Nuovo» e sulle peripezie esistenziali di perseguitato politico (morì il 26 dicembre 1984): esperienze che raccontò nel 1974 in un significativo volume dal titolo emblematico «Da Andria contadina a Torino operaia».

     

  • QUELLA LETTERA CESTINATA
    RIGUARDA LE ORIGINI
    DEI FINANZIAMENTI AL PCD'I

    data: 11/02/2021 19:42

    «Nel libro di M. Flores e G. Gozzini su “La nascita del Partito comunista”, presentato sul “Corriere” l’8 febbraio da Maurizio Caprara, non c’è alcun riferimento ad Aron Wizner, amico di Gramsci. Eppure senza quel “compagno polacco”, come lo chiama il giornalista sardo in un articolo del 22 settembre 1917, la storia dei comunisti sarebbe stata diversa. Egli, prima di scomparire nelle purghe staliniane, collaborò alla stampa socialista e aderì al Pcd’I sin dalla sua costituzione (1921). Come membro del nuovo partito, Wizner non limitò la sua opera a diffondere il mito di Lenin, ma organizzò il sostegno economico proveniente da Mosca per la pubblicazione dell’Ordine Nuovo e degli opuscoli comunisti. Dall’aprile 1922 al 1924 lavorò infatti presso la delegazione commerciale sovietica di Roma, da dove partivano le erogazioni».
    Questa lettera, inviata ad Aldo Cazzulo e per conoscenza al direttore del “Corriere della Sera” (Luciano Fontana) e a Massimo Gramellini, è stata cestinata per motivi incomprensibili. Eppure essa solleva una questione di grande rilievo storico e rende noto un personaggio che non può essere dimenticato, come fanno Marcello Flores e Giovanni Gozzini nel loro libro «Il vento della rivoluzione. La nascita del Partito comunista» (Bari-Roma, Laterza, 2021, pp. 251). Aron Wizner è infatti il personaggio chiave che permette di comprendere le vicende più spinose che ruotano intorno alla nascita del Pcd’I. Non si trova alcuna traccia nei libri «Quando c’erano i comunisti. I cento anni del Pci tra cronaca e storia», Marsilio, Venezia 2020, pp. 383) di Mario Pendinelli e Marcello Sorgi e «La dannazione 1921. La sinistra divisa all’alba del fascismo» (Feltrinelli, Milano 2020, pp. 191) di Ezio Mauro.
    In una delle prime biografie di «Antonio Gramsci» (Utet, Torino 1965, pp. 231-232 e pp. 592-593), Salvatore Francesco Romano confonde il «compagno polacco» con «quel Chiarini, studente bolscevico in Italia, e primo fra gli agenti di collegamento con i bolscevichi, di cui ha riferito Togliatti che era già in Italia, un contatto con i giovani socialisti rivoluzionari, durante la guerra» (p. 232). Il primo cenno di Gramsci a Wizner si trova in un suo corsivo premesso ad un articolo di Nicolaj V. Krylenko uscito sul «Grido del Popolo» (22 settembre 1917) con il titolo «I bolscevichi e la “disorganizzazione” dell’esercito». La notizia sul «compagno polacco» è di grande interesse storico per comprendere il clima imperante in Italia sulla rivoluzione russa, sulle posizioni dei bolscevichi e di Lenin.
    In questo àmbito Wizner assume un ruolo determinate come traduttore degli articoli della «Pravda» e della censura che si ripercuoteva nella pubblicazione delle sue traduzioni volte a far conoscere la vita russa, il dibattito tra bolscevichi e menscevichi, argomenti molto cari a Gramsci. Non a caso egli dà largo spazio ad articoli firmati «Es-Dek» e «Murzyn», che informano sulla lotta della classe operaia polacca. Tra i numerosi articoli si possono ricordare «La politica degli Imperi centrali nella quistione polacca», «Il proletariato polacco e la guerra», entrambi usciti su «Il Grido del Popolo», l’uno il 31 agosto 1918 e l’altro 31 gennaio 1919.
    Secondo Caprioglio dietro lo pseudonimo di «Es-Dek» si cela Wizner che pubblica altri articoli con la sigla fonetizzata di «social-democratico». Alcuni articoli, attribuiti a Gramsci, sono ripresi da altri periodici socialisti come «Compagni» del 16 febbraio 1919, la cui consultazione è utile per ricostruire le parti censurate sul «Grido del Popolo» dalle autorità governative ed estrapolare dagli scritti gramscinai quelli apocrifi. L’articolo «Gli emigrati di Parigi» di Wizner apparso sull’organo socialista il 29 giugno 1918, è ripreso da Gramsci nel suo «Stato e sovranità» e poi nei «Qaderni», laddove dice: «Il trasformismo “classico” fu il fenomeno per cui si unificarono i partiti del Risorgimento, questo trasformismo mette in chiaro il contrasto tra civiltà, ideologia ecc. E la forza di classe. La borghesia non riesce a educare i nostri giovani (lotta di generazione): i giovani si lasciano attrarre culturalmente dagli operai e addirittura se ne fanno [o cercano di farsene] i capi (“inconscio” desiderio di realizzare essi l’egemonia della propria classe sul popolo), ma nelle crisi storiche ritornano all’ovile. Questo fenomeno di “gruppi” non si sarà certo verificato solo in Italia: anche nei paesi dove la situazione è analoga, si sono avuti fenomeni analoghi, i socialismi nazionali dei paesi slavi (o socialrivoluzionari o narodniki)» (cfr. A. Gramsci, Quaderni del carcere, vol. I, inaudi, Torino 1975, pp. 396-97). La biografia di Arn Wizner è esemplare per comprendere le sue esperienze politiche, che sono lo specchio della sua prolifica attività giornalistica.
    Figlio di un sarto, Aron Wizner nacque a Lodz nel 1883, militò giovanissimo nel partito socialista clandestino, fondato da Ludwig Warynski (1856-1889), e frequentò gli ambienti rivoluzionari della socialdemocrazia polacca e belga. Nel 1905 partecipò alla insurrezione operaia di Lodz, dove fu arrestato come sovversivo. Tre anni dopo si rifugiò in Germania per poi ritornare a Varsavia come organizzatore degli scioperi operai. Nel 1914 si stabilì in Italia ed entrò nel Psi, svolgendo un’intensa attività poltica prima a Genova e poi a Torino.
    In una scheda biografica, resa nota da Sergio Caprioglio nell’articolo «Aron Wizner, un collaboratore di Gramsci al “Grido del Popolo”» («Mezzosecolo», 1975, n. 1, pp. 103-114), il socialista polacco scrive: «Cercai con i mezzi a mia disposizione di far conoscere ai lettori dei giornali socialisti le posizioni dei bolscevichi. Dopo la rivoluzione d’ottobre pubblicai nell’Avanti! e nel Grido del Popolo notizie e articoli sulla Russia sovietica».
    Per Luigi Nieddu (nato il 6 iugno 1924), uno dei più originali biografi di Gramsci scomparso il 18 gennaio scorso, gli articoli di Wizner sono l’espressione più eclatante dell’esaltazione di Lenin e sembra che egli abbia suggerito a Gramsci il grido «Viva Lenin, Viva i bolscevichi» durante il comizio della delegazione russa. Il comunista sardo attribuisce a lui il merito di tenere in Italia un congresso delle commissioni interne, sottolineando con fervore quella proposta quasi inattesa. Per questo motivo bisogna attribuire a Wizner la paternità del saggio «L’opera di Lenin», articolo uscito su «Il Grido del Popolo» (14 settembre 1918) e incluso nelle raccolte antologiche di Gramsci (si veda per esempio «L’opera di Lenin», in A. Gramsci, Scritti politici, a cura di P. Spriano, Editori Riuniti, Roma 1973, pp. 209-214).
    Un altro articolo significativo è quello relativo a «La Costituzione sovietista» che Wizner pubblica su «L’Ordine Nuovo» (19 maggio 1919) con lo pseudonimo «Murzyn». L’articolo è un’esaltazione di Lenin e del suo mito, che coincide con quello della rivoluzione russa. Esso si inserice nell’ampia propaganda che Lenin svolge negli ultimi anni della sua vita (morirà il 21 gennaio 1924). Ma Wizner, come membro della frazione bolscevica, partecipa al congresso costitutivo del Partico comunista d’Italia (21 gennaio 1921) come sezione dell’Internazionale. E proprio negli anni 1921-24, su incarico del Comintern, organizza e finanzia le numerose pubblicazioni comuniste, delle quali è stato sottovalutato il contributo ideologico dalla storiografia contemporanea.
    Tra esse un ruolo fondamentale assume il periodico «L’Ordine Nuovo» che, uscito dal 1° maggio 1919 al 1° aprile 1925, riceve finanziamenti dalla Delegazione commerciale sovietica di cui Wizner è uno degli organizzatori nella sede romana. Durante l’arresto di Amadeo Bordiga, avvenuto il 3 febbraio 1923, gli fu sequestrata una somma ingente e nella sua abitazione sette buste che conteneva una somma di denaro pari a «lire 36.742». Scopo precipuo è quello di contrastare il periodico «Critica Sociale» e di contrapporre alla lezione politica di Filippo Turati quella di Lenin e dei suoi seguaci italiani. Attraverso la Delegazione sovietica, il nuovo partito comunista italiano riceve cospicue somme, che vengono erogate tramite Wizner con l’ausilio di Daniel Riedel e Vladimir A. Degot’. Di tutto questo non c’è traccia nei libri citati e usciti nel centenario della costituzione del Pcd’I.

     

  • GRAMSCI: RADICALITA'
    E CONTRADDIZIONI
    VERSO LA SCUOLA
    DEI SUOI TEMPI

    data: 30/01/2021 18:45

    La posizione di Antonio Gramsci sulla scuola può essere racchiusa in un atteggiamento ostile verso le istituzioni scolastiche del suo tempo. Essa è contenuta negli scritti giovanili, ma una rielaborazione definitiva si ha nei «Quaderni del carcere», dove approfondisce il suo progetto pedagogico. Gli aspetti essenziali concernono la creazione di un «ordine nuovo» sociale mediante la definizione di una cultura innovativa e l’organizzazione della scuola. Cultura comunemente collegata dai gramsciologhi al concetto di egemonia come ipotesi di ricerca e finalità politica da attuare attraverso il dominio degli intellettuali e un rapporto esteso a tutta la società.
    Le radici dell’atteggiamento di Gramsci possono essere colte nel ricordo del maestro che gli chiede con aria burbera: «Conosci per esempio gli 84 articoli dello Statuto?» (Alfa Gamma [Antonio Gramsci], La luce che si è spenta, in «Il Grido del Popolo», 20 novembre 1915, n. 591). L’episodio autobiografico è rievocato da Gramsci in una lettera del 2 gennaio 1928 alla cognata, laddove ricorda le traversie scolastiche, il suo desiderio «di fare ... gli esami di proscioglimento, per passare alla quarta saltando la terza classe» e la domanda del direttore didattico: “Ma conosce gli 84 articoli dello Statuto?”».
    In realtà, l’episodio risale al termine della terza elementare e al tentativo incompiuto di accedere alla quinta classe, essendosi nel 1901 celebrata la Festa nazionale dell’Unità e dello Statuto, ricordata da Gramsci con il riferimento ai due eroi del Risorgimento Giuseppe Mazzini e Giuseppe Garibaldi, l’uno sepolto nel cimitero di Staglieno e l’altro nell’isola di Caprera.
    Da un’attenta lettura delle lettere si deduce che Gramsci nutre un odio non verso la scuola che desidera frequentare, ma verso la società dei benestanti, formata dai figli del farmacista, del notaio o del macellaio. L’origine della sua acrimonia è così ricondotta ad una sperequazione sociale, che gli inocula un «istinto di ribellione», via ampliatosi verso gli oppressori dei contadini (cfr. Lettera del 6 marzo 1924, in «2000 pagine di Gramsci, vol. II: Lettere edite e inedite (1912-1937)», a cura di G. Ferrata e N. Gallo, Il Saggiatore, Milano 1964, p. 33). In un saggio scolastico, probabilmente del novembre 1910 e collocabile nell’ultimo anno del Liceo Dettori di Cagliari, Gramsci condanna «i privilegi e le differenza sociali» dei «dominanti», responsabili d’aver lasciato le folle in uno stato di ignoranza e di ferocia» (cfr. A. Gramsci, Oppressi ed oppressori, in Id., Scritti politici, a cura di P. Spriano, Editori Riuniti, Roma 1973, p. 55).
    Così l’«istinto di ribellione» si unisce al disprezzo per i professori, «che prendono per arte ciò che era pura e semplice tappezzeria» e considerano «la parola» solo come «elemento grammaticale da casellare in regole e ischemi libreschi» (Alfa Gamma, La luce si è spenta, cit.). Gli insegnanti del liceo sono dipinti come incapaci, inetti e come tali «non valevano un fico secco» e nella scuola solo «tre sedicenti professori sbrigavano con molta faccia tosta tutto l’insegnamento delle 5 classi» (A. Gramsci, Lettere dal carcere, Einaudi, Torino 2020, p. 864). Giammai gli balena in testa l’idea che che le responsabilità possano essere attribuite non ai tre insegnanti, ma alle autorità scolastiche come il Provveditorato o il Ministero della Pubblica Istruzione.
    Dalla critica ai professori, considerati «canagliuzze, insaccatori di leggiadra pula e di perle», passa ad una devastante critica della scuola, che per il suo carattere borghese impedisce ai figli dei proletari di proseguire negli studi e di coltivare le loro doti: «La cultura è un privilegio. La scuola è un privilegio. E non vogliamo che tale essa sia. Tutti i giovani dovrebbero essere uguali dinanzi alla cultura. Lo Stato non deve pagare con i denari di tutti la scuola anche per i mediocri e deficienti, figli di benestanti, mentre ne esclude gli intelligenti e i capaci, figli di proletari. La scuola media e superiore deve essere fatta solo per quelli che sanno dimostrare di esserne degni» (Articolo non firmato, ma attribuibile a Gramsci; cfr. Uomini o macchine?, in «Avanti!» (ed. Piemontese, 24 dicembre 1916).
    Di fronte ad articoli simili non si può sottolineare una evidente generalizzazione, che non tiene presente la sua esperienza di studente sardo giunto a Torino con una borsa di studi, con cui poteva benissimo laurearsi se non avesse avuto smanie demagogiche di redenzione del proletariato e non avesse nutrito velleità politiche di palingenesi sociale. In un articolo uscito su «l’Ordine Nuovo» (20 dicembre 1919) Gramsci condanna la scuola borghese, «la tediosa esperienza di allievi, l’esperienza dura di insegnanti [...] quei giovani uniti in quelle aule non dal desiderio di migliorarsi e di capire, ma dallo scopo, forse non detto eppure chiaro e unico in tutti, di farsi avanti, di conquistare un “titolo”, di collocare la propria vanità e la propria pigrizia, di ingannar oggi se stessi e gli altri domani» (cfr. A. Gramsci, 20 dicembre 1920, I, n. 30, L’Ordine Nuovo 1919-1920, Einaudi, Torino 1975, p. 466).
    In questa situazione che senso hanno allora gli aspri giudizi sui suoi professori d’università? Luigi Einaudi, Achille Loria o Francesco Ruffini sono tacciati di essere professori mediocri, adusi all’erudizione più che ad una cultura autentica, Vittorio Cian è addirittura considerato «un uccellatore di parole» (A. Gramsci, Disagio, in «Avanti!», 21 luglio 1918, a. XXII, n. 200). Alla scuola universitaria di questi insigni maestri, Gramsci vuole addirittura contrapporre una «diversa», radicalmente alternativa a quella ufficiale, tanto da dar vita a un «Club di vita morale» in cui adotta il metodo del «seminario» e dei «gruppi di studio», che tanti danni ha apportato nella scuola post-sessantottesca (si leggano le pagine acute di N. Bobbio, Autobiografia. Laterza, Roma-Bari 1997, pp. 159 e ss.).
    In una lettera inviata nel marzo 1918 al pedagogista Giuseppe Lombardo Radice, Gramsci esalta in questo modo questo metodo: con il Club di vita morale «abbiamo cercato di organizzare questa predicazione: di dare esempi nuovi (per l’Italia) di associazionismo. [...] Con esso ci proponiamo di abituare i giovani ... alla discussione disinteressata dei problemi etici e sociali. Vogliamo abituarli alla ricerca, alla lettura fatta con disciplina e metodo, all’esposizione semplice e serena delle loro convinzioni. I lavori si svolgono così: io, che ho dovuto accettare il compito di excubitor, perché iniziatore dell’associazione, assegno a un giovane un compito: il suo opuscolo sull’educazione, un capitolo di “Cultura e vita morale” di Croce, dei “Problemi educativi e sociali” del Salvemini [...]. Il giovane legge, fa uno schema, e poi in una seduta espone ai presenti i risultati delle sue ricerche e delle sue riflessioni. [...] Si apre così una discussione, che si cerca di non chiudere finché tutti i presenti siano stati messi in grado di comprendere e di far propri i risultati più importanti del lavoro comune» (cfr. la lettera a Lombardo Radice, in A. Gramsci, Epistolario, I° gennaio 1906-dicembre 1922, Istituto della Enciclopedia Treccani, Roma 2009, pp. 176-177 (citaz. a p. 176).
    A questo punto sorge spontanea una domanda: come fosse possibile una «discussione disinteressata e serena» se lo stesso Gramsci si sia autonominato excubitor (nella lingua latina sentinella, guardiano)? Fatto sta che il grande pedagogista sembra essersi opposto con un netto rifiuto e una ferma opposizione per motivi facilmente intuibili. Eppure lo stesso Gramsci riprende e consiglia il metodo seminariale nei «Quaderni del carcere», dove sciaguratamente consiglia nelle università «il principio del ”seminario”», proponendo un deleterio indirizzo pedagogico (A. Gramsci, Quaderni del carcere, vol. I, Einaudi, Torino 1975, p. 486).
     

  • GRAMSCI E TURATI
    DUE VISIONI POLITICHE
    INCONCILIABILI

    data: 23/01/2021 14:12

    Il centenario della nascita del Partito comunista d’Italia, costituito a Livorno il 21 gennaio 1921, ha riportato all’attenzione il ruolo di Turati e l’azione che egli svolse prima di quell’assise congressuale. Il suo pensiero è stato richiamato su vari organi di stampa come «la Repubblica», «la Stampa» e persino su «il Manifesto». Bisogna purtroppo riconoscere che il ruolo di Turati non ha ricevuto un’adeguata sistemazione culturale sul piano politico e storico.
    Su «la Repubblica» Ezio Mauro pubblica un’intervista a Massimo D’Alema, che considera Turati e Gramsci «le due figure piu grandi che restano sullo sfondo», mentre i veri protagonisti del congresso furono a Livorno i massimalisti di Giacinto Menotti Serrati e Amadeo Bordiga (cfr. l’intervista di E. Mauro a M. D’Alema: “Il Pci è stato sempre riformista”, in «la Repubblica», 20 gennaio 2021, a. 46, n. 16, p. 30). Giudizi validi per Bordiga e Serrati, ma non per Turati che a Livorno pronunciò un discorso con cui rivendicò «solennemente [...] il diritto di cittadinanza nel socialismo» e denunciò aspramente il ricorso alla violenza, ribadendo la validità insostituibile del riformismo, da attuare con l’ausilio dei sindacati, dei Comuni, delle cooperative e la crescita culturale dei lavoratori (cfr. Socialismo e comunismo. Discorso di Filippo Turati al Congresso di Livorno, 19 gennaio 1921, in «Critica Sociale», 1-15 febbraio 1921, n. 3, pp. 37-39).
    Al giudizio fuorviante di D’Alema si aggiunge il giorno successivo quello di Fausto Bertinotti, che in un’intervista a Ezio Mauro dà una visione completamente distorta del pensiero di Turati, a cui rimprovera di essere «rimasto nell’Ottocento, quando il movimento operaio nascente costituisce la coppia lavoro-socialismo, con le Società di mutuo soccorso, le Case del popolo, le Camere del lavoro, le cooperative. Ma non si accorge che questa storia finsce agli albori del Novecento, quando si impone la coppia Marx-rivoluzione. Turati ragiona come si potesse dimenticare l’Ottobre, l’evento che cambia il Novecento» (cfr. L’intervista di F. Bertinotti a E. Mauro: “Ma la sinistra di domani è socialista”, in «la Repubblica», 21 gennaio 2021», n. 17, p. 37).
    Sul quotidiano «Domani» Gianni Cuperlo, poco esperto della storia del socialismo italiano, cita la profezia di Turati agli scissionisti che un giorno sarebbero costretti «a ripercorrere la nostra via, la via dei social-traditori di una volta; e dovrete farlo perché è la via del socialismo, che è il solo immortale, il solo nucleo che rimane dopo queste nostre diatribe». In questa citazione Cuperlo non riesce a cogliere il monito rivolto ai comunisti, che si piegano alle direttive dell’Internazione Comunista, aprendo le porte alla marea montante del Fascismo e provocando la divisione nel movimento operaio italiano. Tuttavia considera le Tesi di Lione (20-26 gennaio 1926) la pietra miliare del partito comunista, attribuendo al «piccolo gigante sardo» come suo redattore principale il merito di avere fissato «le coordinate sulle quali nel dopoguerra Togliatti e il gruppo dirigente avrebbero costruito il partito nuovo» (cfr. G. Cuperlo, Il Pci era come una giraffa col cuore lontano dei pensieri, in «Domani», 20 gennaio 2021, a. II, n. 19, p. 13).
    Un confronto tra la cultura politica di Filippo Turati (1857-1932) e quella di Antonio Gramsci (1891-1937), porta invece alla conclusione che tra loro non c’è alcuna affinità culturale e politica. Essi possono essere considerati come rappresentanti di «due sinistre» per la proposta di due modelli politici, che si identificano l’uno nel comunismo rivoluzionario e l’altro nel socialismo riformista. L’analisi dei loro scritti, per lo più articoli e discorsi congressuali, concepisce in modo diverso la conflittualità sociale, il rapporto con gli avversari politici e l’aspirazione ad un’emancipazione della classe lavoratrice.
    La cultura politica di Filippo Turati dimostra una consapevolezza e pone un argine pedagogico all’«ascesa dei totalitarismi di destra e di sinistra» grazie alla sua difesa del diritto all’eresia, al rifiuto del fanatismo, al ripudio della violenza e alla promozione delle associazioni sindacali. Ma nell’attività politica, quale si dispiega nelle sale dei congressi e nelle aule parlamentari, la concezione di Turati sul partito politico è diametralmente opposta a quella del pamphlet Che fare? (1903) di Lenin o a quella del libro Riforme e rivoluzione sociale (1904) di Arturo Labriola, l’uno promotore di una organizzazione politica guidata da avanguardie rivoluzionarie e l’altro di un struttura sindacale basata sullo sciopero generale. Le enunciazioni rivoluzionarie, seppure nella loro diversità, trovavano un cemento ideale nella dottrina marxista, ma erano volte all’incitamento all’odio di classe, al disprezzo della borghesia e della cultura liberale. Considerazioni che sulla scia delle proposte labriolane possono essere attribuite anche ad Enrico Leone, fautore di una guerra senza tregua contro la borghesia e di una lotta esasperata come motore della rivoluzione proletaria.
    Antitetica a quella di Turati si presenta la visione politica di Antonio Gramsci, la cui azione politica si basa sulla ricerca di una teoria rivoluzionaria, che attinge molto dalla dottrina di Lenin e dalle elaborazioni proposte da Georges Sorel. Così una comparazione dei loro scritti permette di stabilire alcuni aspetti, che discendono essenzialmente dalla visione antitetica del Partito, che nel programma politico di Turati si configura come una struttura aperta, mentre in quello di Gramsci si presenta come un organismo chiuso e volto a plasmare la vita degli individui nelle loro manifestazioni personali.
    Negli scritti di Gramsci, collocabili del periodo 1916-26, si possono cogliere alcuni elementi fondamentali della sua visione politica. La concezione monolitica del Partito, l’indottrinamento ideologico, l’intolleranza, la negazione dell’eresia, il disprezzo degli avversari e l’elogio della violenza fisica come premessa per rovesciare la società borghese. Da un «abito mentale» siffatto, basato sull’esaltazione del pensiero gerarchico e forgiato da Gramsci all’indomani della Rivoluzione russa, si coglie uno diverso atteggiamento da quello di Turati, sia sull’esperimento dei Soviet che sul principio della dittatura del proletariato.
    L’opzione pedagogica di Gramsci è racchiusa nell’esaltazione della «dittatura democratica» e nella celebrazione della dottrina rivoluzionaria di Lenin, la cui opera è considerata il risultato dell’unità tra il pensiero e l’azione «secondo i dettami della concezione marxista». Anzi il partito bolscevico è additato da Gramsci come unico modello, che deve essere esportato anche in Italia per provocare l’abolizione delle classi sociali, l’eliminazione della «diversità culturale» e del libero pensiero, oltre che degli avversari politici.
    A differenza delle proposta di Gramsci, Turati condanna il modello leninista e avanza un’opzione pedagogica con la quale contrappone il dialogo allo scontro con gli altri, il rispetto degli avversari al loro disprezzo, la condanna dell’insulto al suo elogio, il ripudio della violenza alla sua esaltazione, la tolleranza all’intolleranza, il rifiuto dell’attacco alla persona al suo dileggio, la libertà di critica al principio dell’autorità, il diritto all’eresia al monopolio ideologico del Partito, il pluralismo politico alla dittatura del Partito unico. Una lettura sinottica del progetto educativo di Turati e di Gramsci, seguendo il loro percorso politico fino alle ultime posizioni, permette di ritrovare una lunghezza d’onda diametralmente opposta riguardo alla concezione marxista, alla visione del Partito politico e al modo di costruire una società socialista.
    Su questo aspetto Turati rivolge aspre critiche all’esperimento dei Soviet e alla dittatura del proletariato, l’uno paragonato a un’«orda barbarica» e l’altra considerata la negazione del socialismo. Una critica che Turati rivolge a Gramsci per il suo progetto politico intriso di odio verso l’avversario e per la sua visione del Partito come «fonte di verità assoluta». La teoria sovversiva di Gramsci «fu quella di imporre la sua verità», che – oltre a coincidere con quella del marxismo-leninismo – doveva essere imposta con la coercizione.
    A differenza di Turati e di Claudio Treves, favorevoli al metodo democratico e ad un programma di riforme, Gramsci ravvisa nella loro azione parlamentare un intreccio perverso «dei riformisti con la plutocrazia» (cfr. A. Gramsci, Quaderni del carcere, Einaudi, Torino 1975, p. 321). Il riferimento è rivolto al discorso parlamentare di Turati, pronunciato il 26 giugno 1920 e pubblicato come opuscolo lo stesso anno con il titolo «Rifare l’Italia!» (Lega Nazionale delle Cooperative, Milano 1920, pp. 87). L’ingresso di Angelo Omodeo «nel Circolo Turati» e l’uso di dati economici da parte sua rappresenta per Gramsci «un episodio piuttosto oscuro, per non dire losco» (ivi, p. 321).
    Persino Claudio Teves, esponente riformista di spicco con Turati, è deriso dal comunista sardo che lo considera il prototipo della «confusione politica» e del «dilettantismo polemico» (ivi, p. 319). Nella loro azione parlamentare Gramsci denuncia il «nullismo politico», dietro al quale si nasconde «la paura delle responsabilità concrete», ossia l’inesistenza dell’«unione con la classe rappresentata, la nessuna comprensione dei bisogni fondamentali, delle sue aspirazioni, delle sue energie latenti: partito paternalistico di piccoli borghesi che fanno le mosche cocchiere». (ivi, p. 319). Le note di Gramsci, collocabili nel 1930, si riferiscono ad un discorso di Treves pronunciato il 30 marzo 1920 alla Camera dei Deputati e sembrano dettate da astio e da pregiudizi politici. Lo dimostra il fatto che ancora il Partito socialista unitario era da costituire. Esso sarà infatti costituito nell’ottobre 1922, ma riceve critiche insulse da parte del bolscevico sardo: significativo un confronto del luglio 1925 fra Treves e Gramsci, l’uno critico verso la soppressione della libertà di stampa in Russia e l’altro favorevole all’eliminazione delle voci non condivise dal Partito.
    Verso la corrente riformista il leader comunista espresse un giudizio sprezzante, definendo Turati «un semifascista», Treves «un povero imbroglione» e Giacomo Matteotti un «pellegrino del nulla» poche settimane dopo la sua morte (10 giugno 1924). In un articolo apparso su «l’Unità» (20 ottobre 1925, a. II, n. 244) e intitolato «Gli amici di Treves», Gramsci difende la «diplomazia soviettista» «composta interamente da uomini provati per il loro passato rivoluzionario e conduce una guerra ad oltranza contro la diplomazia imperialista borghese». La difesa di Gramsci prende spunto da un articolo uscito su «La Giustizia», che aveva mosso alcune critiche al nuovo Stato sovietico e ai «calcoli politici del Governo di Mosca»: tesi che erano respinte da Gramsci, immemore dell’inazione che lo avrebbe atteso durante la sua carcerazione.
    Su questo scenario storico, non equamente valutato sul piano storiografico dagli studiosi, poca attenzione è stata rivolta al rapporto di Gramsci con la Gpu e con la terribile situazione venutasi a determinare dopo la rivoluzione bolscevica nella società sovietica. Il leader comunista durante il suo soggiorno a Mosca non si accorse che questa era vittima di un «terrore di massa» mediante l’istituzione prima della Ceka e poi della Gpu, che aveva stabilito l’invio degli oppositori al partito bolscevico nei campi di concentramento. Eppure, nonostante la loro deportazione, Gramsci non levò mai una critica ai metodi repressivi vigenti in Unione sovietica per la sua cultura intrisa di violenza e per la sua fedeltà al comunismo. Persino nei Quaderni del carcere, egli continuò a considerare il Partito comunista una «divinità» infallibile, formulando la cosiddetta teoria dell’egemonia, secondo cui esso «avrebbe dovuto conquistare la società civile» e rendere vana ogni forma di cultura diversa dall’ideologia comunista.

     

  • IL FRATELLO DI GRAMSCI
    FASCISTA POI PENTITO

    data: 17/01/2021 12:27

    Da diversi anni circola sulla stampa del nostro Paese la voce che Mario Gramsci, fratello del più famoso Antonio, fosse un autorevole esponente della Repubblica Sociale Italiana e che «fu fascista, dall’inizio e fino alla fine» (cfr. M. Veneziani, Antonio Gramsci e i suoi tre fratelli, in «Panorama», 28 ottobre 2020, n. 44). La tesi è ripetuta da diversi lustri dal giornalista pugliese, che dal 1995 diffonde sempre le medesime notizie», sostenendo che Mario Gramsci «diventò fascista e fu il primo segretario federale di Varese. Non lo dissuase né suo fratello maggiore né le bastonate dei “compagni” di suo fratello. Mario Gramsci fu fascista in disparte e non in carriera. A Varese, dove risiedeva, sposò una donna dell’aristocrazia lombarda. E una volta, nel 1921, l’anno della scissione di Livorno e della nascita del Partito comunista, Antonio andò a trovare suo fratello, stette da lui a Varese per una ventina di giorni. Mario partecipò alla Marcia su Roma. Cercò di aiutare suo fratello Antonio durante il regime, gli scrisse lettere premurose quando era in carcere. Partì volontario per la guerra d’Abissinia e combatté nel ’41 in Africa settentrionale. Rimase fascista durante il regime, aderì poi alla Repubblica sociale, fu fatto prigioniero, cercarono vanamente di fargli abiurare la sua fede fascista. Venne deportato in un campo di concentramento in Australia. Rientrò nel ’45 con la morte nel petto e morì poco dopo il rientro per le malattie contratte durante la prigionia. Morì in un ospedale di terz’ordine dimenticato da tutti, assistito dai suoi famigliari” (si vedano M. Veneziani, Il Gramsci in camicia nera che fu imprigionato dai comunisti, in «il Giornale», 27 aprile 1995 e Id., art. cit di Panorama).
    Il discorso di Veneziani, che contiene anche notizie precise, è stato ripreso con il classico «copia e incolla» su molti siti, dove viene considerato veritiero in tutta la sua ampiezza. A dicembre dell’anno scorso è stata però pubblicata una ricerca su «Gramsci il fascista. Storia di Mario, il fratello di Antonio» (Tra le righelibri, Lucca 2020, pp. 183) di Massimo Lunardelli, che ha colmato non poche lacune sul Personaggio. Avvalendosi di una ricca documentazione difficilmente reperibile, l’autore - grazie alle sue conoscenze di bibliotecario e alla sua abilità di archivista - ha ripercorso la vita di Mario Gramsci (Sòrgono, 9 febbraio 1893 - Varese 25 novembre 1945) e lo ha tratto così dall’oblio, dimostrando che il fastidioso silenzio fosse in grado di macchiare la memoria storica del famoso fratello Antonio, martire del regime fascista e padre del comunismo italiano.
    Più giovane di due anni di Antonio (nato ad Ales il 22 gennaio 1891), il fratello Mario ha un carattere diverso, allegro ed espansivo e sempre alla ricerca di nuove esperienze. Ben presto, costretto soprattutto dalle condizioni economiche, egli decide di abbandonare la Sardegna per stabilirsi a Varese. L’occasione gli viene offerta dal servizio militare, che svolge proprio nella cittadina lombarda, dove conosce una giovane che sposa il 27 novembre 1920. Si chiama Anita Emilia Maffei (Palin/Guatemala, 30 luglio 1895 - 28 novembre 1982): nella biografia di Mario Gramsci ella diventa «Anna Maffei Paravicini, di origine milanese ma cresciuta in Guatemala» (cfr. A. Gramsci, Lettere dal carcere, Einaudi, Torino 2020, p. 115, p. C).
    Dal matrimonio tra Mario Gramsci e Anita (o Anna) Maffei nascono due figli, Cesarina (morta nel 2005) e Giovanni Francesco (morto nel 1993), l’una insegnante di scienze e di chimica all’Itis di Varese e l’altro impiegato all’Enel di Novara. Nella sua ricca e documentata ricerca, l’autore riprende un’intervista di Cesarina, rilasciata due anni dopo l’articolo di Marcello Veneziani e pubblicata su «l’Espresso» (15 maggio 1997), in cui nega che il padre abbia aderito alla Repubblica Sociale Italiana e che sia stato torturato dai comunisti, perché in quel periodo si trovava prigioniero in Australia. E più avanti considera veritiera l’adesione del padre al fascismo, ma «farne un paladino del regime» è un’esagerazione. Ora la ricerca di Lunardelli ridimensiona l’adesione di Mario Gamsci al fascismo e sulla base di una minuziosa e vasta documentazione dimostra poco attendibile l’affermazione di Veneziani, secondo cui egli «rimase fascista durante il regime, aderì poi alla Repubblica sociale, fu fatto prigioniero, cercarono vanamente di fargli abiurare la sua fede fascista».
    L’iniziale adesione di Mario Gramsci al fascismo è vera, addirittura sembra risalire al suo ritorno in Sardegna, dove nel 1919 diventa Segretario del Fascio di Ghilarza, del quale la sorella Teresina è Segretaria del Fascio femminile. Tuttavia Lunardelli esclude che sia stato il primo federale del Fascio di combattimento di Varese. Dalla costituzione (20 aprile 1919) fino alla Marcia di Roma dell’ottobre 1922, il suo nome compare solo in un articolo dell’11 maggio 1921, ove è ricordato come cerimoniere durante lo scoprimento del gagliardetto fascista. L’articolo, pubblicato con il titolo pomposo «I nostri gagliadetti al vento», ricorda «il signor Gramsci del nostro fascio» e il suo intervento volto ad illustrare «con poche parole di fede gli scopi della lotta» (cfr. l’articolo de «La Cronaca Prealpina», in M. Lunardelli, Gramsci il fascista, cit. p. 142).
    Antonio Gramsci viene a conoscenza di questa solerte adesione al Fascio varesino durante il suo soggiorno nell’abitazione del fratello, e forse a questa scelta si riferisce l’interruzione dei loro rapporti. In una lettera del 23 maggio 1927, inviata alla madre dal carcere di Milano, egli le chiede «l’indirizzo preciso di Mario», perché «dal 1921 non ho avuto più rapporti con lui, ma ora ho saputo che si è occupato di me e perciò vorrei scrivergli per ringraziarlo» (cfr. A. Gramsci, Lettere dal carcere, cit., p. 115).
    Nell’introduzione e nelle note alla nuova edizione delle «Lettere dal carcere» non è approfondita la ripresa dei loro rapporti, che certamente sono ripresi da Mario su sollecitudine della madre. In una lettera dimenticata dai curatori e pubblicata da Santucci, egli scrive il 17 maggio 1927 al fratello Antonio, quindi tre mesi prima di fargli visita in carcere, dimostrandogli che l’affetto fraterno sono un prius rispetto alle idealità politiche: così si interessa della sua cagionevole salute, si presta a inviargli un sonnifero di nome Sedobrol e persino procurargli delle uova fresche del proprio allevamento di galline (cfr. Antonio A. Santucci, Nuove lettere di Antonio Gramsci, Editori Riuniti, Roma 1986).
    Di questa visita Gramsci parla alla madre in una lettera citata dall’autore (p. 19) e datata 29 agosto 1927, informandola che quattro giorni prima «è venuto Mario» e che egli «milita nel campo opposto al mio»: «quando io sono stato a visitarlo, qualche anno fa, un casa sua, credo di essermi fatta un’opinione esatta su tutto l’ambiente di cui egli è una specie di eroe. Ma sono cose che è meglio non scrivere e d’altronde Mario è mio fratello e gli voglio bene nononostante tutto». Nella lettera Antonio Gramsci rivela il suo carattere spigoloso, muovendo critiche alla cognata e allo stesso fratello: l’una «che non è certo una donna come te, e che si affloscerebbe come uno straccio se dovesse lottare con una difficoltà appena appena seria», mentre il fratello farebbe meglio ad occuparsi «più delle sue faccende e che metta la testa a posto» (la lettera è pubblicata anche in A. Gramsci, Lettera dal carcere, cit., p. 144, già con qualche variante, in Id. Lettere dal carcere, a cura di Antonio A. Santucci, Sellerio, Palermo 1996, p. 108).
    Le critiche di Gramsci alla cognata erano forse dettate da dissapori come la mancata carriera del marito imputata all’ex deputato comunista oppure a vicende intercorse su matrimoni combinati richiesti come forma di intervento e non ottemperati. Ma l’autore non si avventura in queste notizie apparentemente secondarie, preferendo seguire la vita professionale di Mario Gramsci, di cui commenta con precisione la sua carriera militare dal 1911 come volontario fino alle esperienze compiute durante la Prima guerra mondiale fino alla partenza il 3 aprile 1935 per l’Eritrea con lo stipendio annuo di 15 mila lire. Della sua partecipazione all’«impresa etiopica», l’autore racconta fatti poco noti fino al rientro in Italia il 3 febbraio 1939, alla partenza come militare a Tripoli allo scoppio del secondo conflitto mondiale. Rimasto prigioniero ad opera degli inglesi, è condotto in Egitto e poi internato in un campo di concentramento in Australia dove rimane per cinque anni. Rimpatriato in Italia, muore il 25 novembre 1945 dopo qualche settimana il suo rientro. Ma l’ultima documentazione reperita dall’autore gli dà la possibilità di sviluppare un capitolo sul suo «antifascismo», a cui aderisce per le sofferenze patite durante la guerra.
     

  • GRAMSCI E LO SPORT,
    I GIORNALI SPORTIVI
    E LO SCOPONE...

    data: 06/01/2021 15:26

    L’interesse di Antonio Gramsci per lo sport non ha ricevuto una sistemazione adeguata nella storiografia contemporanea. Eppure lo scrittore comunista rivolse particolare attenzione all’attività sportiva sin dai cosiddetti «anni torinesi». Il primo articolo uscì infatti nell’edizione torinese dell’«Avanti!» (26 agosto 1918) e si intitolava «Il ”foot-ball” e lo scopone», considerati gli svaghi prediletti degli italiani. Era un articolo in cui il giovane Gramsci non brilla per oculatezza di giudizi e avvedutezza di analisi, forse mosso solo dai ricordi della natìa Sardegna.

    Nel confronto dei due giochi, Gramsci critica il gioco dello scopone che costringe i giocatori a rifugiarsi in luoghi chiusi e a preferire «la clausura in una bettola-caffè… all’aria aperta, al movimento la quiete intorno al tavolo». Egli non tiene presente però il clima rigido invernale e la scarsa diffusione del «foot-ball» nella società del suo tempo. La sospensione del campionato di calcio, a causa delle vicende belliche, incoraggiava il gioco dello scopone nei bar e nelle bettole, dove operai e artigiani erano soliti riunirsi dopo una faticosa giornata lavorativa.
    Il calcio sembrava addirittura a Gramsci «un modello della società individualistica» per le sue regole e la presenza di un arbitro, connesso com’era al regime capitalistico e alla «struttura economico-politica degli Stati». Lo scopone era invece considerato «la forma di sport delle società arretrate economicamente, politicamente e spiritualmente, dove la la forma di convivenza civile è caratterizzata dal confidente di polizia, dal questurino in borghese, dalla lettera anonima, dal culto dell’incompetenza, dal carrierismo (con relativi e grazie del deputato».
    Nei giorni di confino, trascorsi ad Ustica dal 7 dicembre 1926 al 20 gennaio dell’anno successivo, Gramsci dimentica le sue osservazioni giovanili sullo scopone, considerato addirittura fonte del «lavoro perverso del cervello (se non di litigi spesso sfociati nel crimine)» e riabilita quel gioco, sicuramene influenzato dal suo compagno di confino Amadeo Bordiga (1889-1970). Di questo mutamento di giudizio si ha anche un accenno in una lettera di Oreste Acquisti (1894-1961) - anch’egli confinato politico - che il 18 marzo 1927 scriverà a Gramsci: «Lo scopone è stato definitivamente abolito per volere di Amedeo (recte: Amadeo) in quanto asserisce che dopo la tua partenza nessuno in questa casa è capace di giocare a scopone». Circa un mese dopo (13 aprile 1927) lo stesso Bordiga ricorderà: «Lo scopone non solo anche ma anche il tressette sono non solo decaduti ma andati in disuso quasi completo» (entrambe le lettere, in A. Gramsci, «Lettere dal carcere», a cura di F. Giasi, Einaudi, Torino 2020, p. 51).
    In una lettera del 9 dicembre 1926 a Tatiana, spedita dal confino di Ustica, Gramsci confessa alla cognata di leggere «sempre, o quasi riviste illustrate e giornali sportivi» (ibid., p. 15). Dieci giorni dopo, sempre dall’isola siciliana, egli le descrive la giornata dei confinati, che - «rinchiusi in speciali cameroni alle 5 del pomeriggio […] giocano alle carte, perdono qualche volta la mazzetta di parecchi giorni e si trovano così presi in un girone infernale che dura all’infinito» (Lettera a Tatiana Schucht, [Ustica], 19.XII.1926, ibid., p. 21). La informa anche che «non mi è stato possibile avere qualcosa da leggere, neanche la “Gazzetta dello Sport”, perché non ancora prenotata» (ibid., p. 21).
    Sul quotidiano sportivo Gramsci ritorna nel 1929 e scrive sul «I Quaderno» come nel carcere milanese di San Vittore «era permesso “Il Sole”; tuttavia un certo numero, anche di politici, leggeva piuttosto la “Gazzetta dello Sport”; tra 2500 inquisiti, si vendevano al massimo 80 copie del “Sole”; più letti la “Gazzetta dello Sport”, la “Domenica del Corriere”, il “Corriere dei Piccoli”» (cfr. A. Gramsci, Quaderni del carcere (Q), Einaudi, Torino 1975, p. 113). Il giornalismo sportivo rientrava così nell’«esame di tutta la stampa periodica» per definire «le tendenze ideologiche che operano quotidianamente e simultaneamente sulla popolazione» (Q 16, 4, p. 1846): un motivo che Gramsci ricollega alla funzione del «partito politico», che può essere studiata «dal punto di vista che un giornale (o di un gruppo di giornali), una rivista (o un gruppo di riviste), sono anch’essi “partiti” o “frazioni di partito”», ossia come organizzazioni politiche (Q 17, 37, p. 1939). Nell’ambito di queste considerazioni Gramsci si riferisce ad alcuni organi di stampa come il «Times» in Inghilterra o il «Corriere della Sera» in Italia (Q 17, 37, p. 1939), già ricordato il 16 maggio 1925 nel suo discorso pronunciato alla Camera dei deputati.
    In quel discorso Gramsci deplora lo scioglimento della massoneria, condanna la borghesia incapace «di infrenare il movimento operaio», critica «il collaborazionismo del socialismo italiano con il giolittismo» e sottolinea la funzione svolta dal «Corriere della Sera» come organo di difesa delle classi possidenti e del ceto politico: «Il “Corriere della sera” – scrive egli – ha sostenuto sistematicamente tutti gli uomini politici del Mezzogiorno, da Salandra ad Orlando a Nitti, a Amendola; di fronte alla soluzione giolittiana, oppressiva non solo di classi, ma addirittura di interi territori, come il Mezzogiorno e le isole, e perciò altrettanto pericolosa che l’attuale fascismo per la sua stessa unità materiale dello Stato italiano, il “Corriere della Sera” ha sostenuto sempre un’alleanza tra gli industriali del Nord e una certa vaga democrazia rurale prevalentemente meridionale sul terreno del libero scambio. L’una e l’altra soluzione tendevano essenzialmente a dare allo Stato italiano una più larga base di quella originaria, tendevano a sviluppare le “conquiste” del Risorgimento» (cr. A. Gramsci, Origini e scopi della legge delle società segrete. Discorso primunciato alla Camera il 16 maggio 1925, in Id., La costruzione del partito comunista 1923-1926, Einaudi, Torino 1974, p. 79).
    Negli anni 1931-32 Gramsci, ormai rinchiuso in carcere da diversi lustri, si propone di studiare il Touring Club e la «connessione del turismo con le società sportive, con l’alpinismo, canottaggio ecc., escursionismo in generale» (Q 8, 188, p. 1055). Come associazione che incorpora determinate attività sportive, il Touring Club dovrebbe essere connesso con gli istituti di geografia e con le società geografiche. Lo scopo è quello di sviluppare la passione per la geografia e per altre scienze affini come geologia, mineralogia, botanica, speleologia, cristallografia, nonché quello di incoraggiare le attività sportive, praticate in misura maggiore durante le ferie. Nel 1932 Gramsci analizza l’«apoliticismo del popolo» come manifestazione primitiva, che «è stato superato dai progressi della civiltà» grazie al «diffondersi di una certa vita politica di partito». Essa ha ampliato gli interessi culturali del popolo, ma la sua mancanza ha alimentato «i campanilismi […] attraverso lo sport e le gare sportive, in forme spesso selvagge e sanguinose», determinando accanto al «tifo sportivo» quello che Gramsci definisce «tifo campanilistico sportivo» (Q 9, 36, p. 1117).
    Il tema è ripreso negli anni successivi, laddove nel «Quaderno 21» Gramsci analizza il romanzo poliziesco, formulando l’ipotesi che il suo successo debba essere ricondotto «anche a spiegare il tifo sportivo» sulla scia di alcune indicazioni di Aldo Sorani e di Filippo Burzio. Temi complessi che egli non potè sviluppare per la morte prematura avvenuta il 27 aprile 1937.

  • MA CON LA INVERNIZIO
    GRAMSCI FU SCIOCCO
    E ANTIFEMMINISTA

    data: 31/12/2020 12:37

    La lettura delle «Lettere dal carcere» (Einaudi, Torino 2020, pp. 1257) nella nuova edizione a cura di Francesco Giasi non lascia di stupire. Un confronto con la prima edizione del 1947 sorprende per i mumerosi tagli che sono stati compiuti nell’epistolarto di Antonio Gramsci. In una lettera inviata il 25 aprile 1927 alla madre egli – ormai detenuto da circa sette mesi – ricorda un divertente episodio sulle galline della casa materna, che «non facevano mai l’uovo» e gli avevano «rovinato tre o quattro romanzi di Carolina Invernizio (meno male!)» (p. 102).
    La madre Giuseppina Marcias era ormai scomparsa da quindici anni, eppure quella lettera inviata dal carcere di Milano venne soppressa nella prima edizione per volontà di Palmiro Togliatti e Felice Platone. Essi, convinti che la lettera potesse nuocere alla costruzione del «mito Gramsci», non compresero la sua importanza, senza rendersi conto di quanto stesse a cuore al pensatore sardo l’argomento della «letteratura nazionale-popolare» e di una protagonista come la scrittrice lombarda (si vedano le pagine dei «Quaderni dal carcere» (d’ora un poi Q, Einaudi, Torino 1975, vol. I, p. 344; vol. II, p. 1023; vol. III, p. 2118).
    Di Carolina Invernizio (Voghera, 28 marzo 1851 - Cuneo, 27 novembre 1916), Gramsci si interessa più volte, esprimendo giudizi negativi e definendo i suoi romanzi «illogici, complicati, tenebrosi», nonostante la loro diffusione «tra il popolo» (Q 8, p. 1024). Egli affianca la sua produzione letteraria ai romanzi di Francesco Mastriani (Napoli, 23 novembre 1819 - Napoli 6 gennaio 1891), la cui inesauribile creatività è connessa ad una prolifica narrativa, che – seppure consolatoria e di intonazione pittoresca – presenta un afflato religioso verso i poveri e gli indigenti della città partenopea. Il suo umanitarismo assume così tratti interclassisti, che manifestano un rifiuto della lotta di classe, si ispirano a reali casi giudiziari e preludono alle trame complesse del romanzo d’appendice.
    Queste caratteristiche, per Gramsci, si ritrovano anche nella narrativa di Carolina Invernizio, la cui produzione è connessa alla storia del romanzo d’appendice, più limitato rispetto ad altri Paesi come la Francia, dove sono più diffusi «tipi come Béranger e tutti i chansonniers popolari francesi»(Q 3, p. 344). Prosegue poi Gramsci con la citazione di un articolo di Giovanni Papini (1881-1956) «sulla Invernizio pubblicato nel “Resto del Carlino” durante la guerra [...] verso il 1916» (Q 3, 1930, p. 344). Stranamente egli, sempre critico verso lo scrittore toscano, ritorna alcuni anni dopo su quell’articolo (Q 21, 1934-35, p. 2118), ma non si capisce se mediante una copiatura del suo brano oppure un richiamo mnemonico.
    Fatto sta che Gramsci considera lo scritto di Papini di grande importanza se promette di ritornarvi e di consultare il volume «Bibliografia (1902-1927), a cura del dottor Tito Casini, Vallecchi, Firenze s. d. (ma 1927)» (Note al Q 3, 2600), dove «si potrà trovare la data di questo articolo e altre indicazioni» (Q 21, p. 2118). Strano che Gramsci ricordi l’articolo e non l’occasione in cui è scritto, ossia la scomparsa della scrittrice avvenuta una settimana dopo alla pubblicazione dell’articolo di Papini (4 dicembre 1916). Il famoso giudizio sulla Invernizio prende avvio proprio dal richiamo all’articolo di Papini, che «scrisse qualcosa di interessante su questa onesta gallina della letteratura popolare, appunto notando come essa si facesse leggere dal popolino» (Q 21, p. 2118).
    Il giudizio di Gramsci è sciocco e dimostra un certo antifemminismo, dettato dalle vicende personali e dalla sua visione classista della società. Eppure è un leitmotiv noioso e ricorrente in ogni articolo sulla Invernizio. Basta leggere gli articoli usciti nel corso del 2020 per rendersi conto della superficialità e sciatteria con cui sono affrontati certi temi e ripresi alcuni accostamenti diventati veri e propri «luoghi comuni» sulla scia delle indicazioni di Ivan S. Turgenev nel romanzo «Padri e figli» (1862). Dall’articolo di A. Gazzola («Gramsci la considerava una gallina ma l’Invernizio inventò il giallo al femminile», in «La Stampa», 6 giugno 2020) a quello di G. Ciarapica («Gramsci s’era forse sbagliato su madama Carolina Invernizio, «Il Foglio», 2 agosto 2020) è un riconcorrersi del giudizio stampalato di Gramsci, che la considera «un’onesta gallina della nostra letteratura popolare». Ella deve essere invece considerata la «prima giallista italiana» e la «madrina del thriller italiano» (si veda la postfazione di Silvio Raffo alla ristampa del romanzo «Nina la poliziotta dilettante», Rina edizioni, Roma 2020).
    Nell’articolo più volte richiamato da Gramsci, che altro non era che un necrologio e un ricordo della scrittrice appena scomparsa, Papini eleva un elogio alla sua narrativa, la cui prodigiosa fecondità non «deve sparire dal pubblico teatro della letteratura» e smettere di «glorificare la copiosa, industriosa romanziera che la polmonite ha rapito all’affetto della famiglia, alla curiosità de’ cinematografi, all’ammirazione fedele delle moltitudini». La narrativa di Carolina Invernizio, prosegue Papini, non deve soggiacere all’«ingiusto slenzio», perché «di spose ottime e costumate donne l’Italia rigurgita e troppo si vorrebbe a registrarne i trapassi, ma quante ne trovi, tra cotestoro, che abbiano saputo conquistare i cuori di tutta l’Italia e di metà dell’America, e siano stati capaci di creare tanti angioli di bianca perfezione e tanti macrocosmi di nera malvagità?» (cfr. G. Papini, Carolina Invernizio, in «Il Resto del Carlino», 4 dicembre 1916, poi in Id., Stroncature, Firenze 1942, pp. 245-257).
    A differenza di Gramsci, che aveva leggiucchiato qualche romanzo della Invernizio, Papini conosceva la sua produzione letteraria per la contrapposizione che egli rileva tra l’eterna lotta del male e il bene. La visione manichea è attribuita infatti alla distinzione tra vizio e virtù, tra figure diaboliche e creature angeliche. Tra le prime la Invernizio pone il seduttore che inganna la fanciulla ingenua del popolo, lasciando in balia della società le sventure dei figli abbandonati. Nel suo lungo e minuzioso articolo Papini, quasi preveggendo la critica di Gramsci afferma: «Chi non ha divorato gli Amori maledetti, chi non ha inorridito delle Anime di Fango, chi non s’è commosso con Birichina, chi non ha palpitato con Catena Eterna, chi non ha meditato su Cuore di Donna, chi non ha pianto su Cuore d’Operaio, chi non tremato per Dora, la figlia dell’Assassino, chi non ha rabbrividito coi Drammi dell’Adulterio, chi non impallidì sui Ladri dell’Onore [...] non ha diritto di giudicare Carolina Invernizio» (p. 242).
    Al centro della sua narrativa c’è la famiglia, cellula primaria della società, che deve essere difesa con l’istituto matrimoniale, la giusta mercede e la formazione della proprietà per la tutela dei figli e del loro avvenire. Tema presente anche nell’opera di Gramsci, laddove egli – superati gli steccati ideologici e le deformazioni marxiste – considera la famiglia «primo nucleo familiare», il cui compito deve svolgersi nella «preparazione umana» e nell’«educazione civile» della prole. Compiti che, per Gramsci, possono essere assolti solo con «l’abolizione della proprietà privata e la sua conversione in proprietà collettiva» (cfr. A. Gramsci, La famiglia, 9 febbraio 1918, in « La città futura 1917-1918», a cura di Sergio Caprioglio, Torino 1982, pp. 647-649).

  • L'USO DEI TERMINI
    "ZINGARO" E "ZINGARESCO"
    IN ANTONIO GRAMSCI

    data: 21/12/2020 15:17

    Nell’«Indice degli argomenti» dei «Quaderni del carcere» (Torino 1975, pp. 3161-3270) di Antonio Gramsci manca ogni riferimento ai termini «zingari», «zingaresco» e ad altri derivati semantici. Eppure essi, utilizzati come sostantivo, aggettivo o metafora, si ritrovano spesso nella sua analisi critica, spesso documentata e altre volte dettata da motivi contingenti di lotta politica oppure di relazioni familiari. Nel percorso di scrittura dell’intellettuale sardo (era nato ad Ales-Cagliari il 22 gennaio 1891 e morto a Roma il 27 aprile 1937) i termini sono usati costantemente come critica a personaggi coevi o richiamati nella denuncia di incresciose situazioni politiche.
    Sembra che il sostantivo «zingaro» si ritrovi per la prima volta nell’articolo su «Achille Loria» che Gramsci pubblicò il 19 gennaio 1918 sull’organo «Il Grido del Popolo». Già da anni vituperato e deriso per la sua lettura di Karl Marx, Achille Loria (1857-1943) è uno dei bersagli prediletti da Gramsci, che conia la categoria cuturale di «lorianesimo» per indicare l’assenza di serietà nell’analisi sociale e la mancanza di rigore scientifico negli studi economici. Si tratta di una vera e propria ossessione che comincia con l’articolo «Pietà per la scienza del prof. Loria» («Avanti!», 16 dicembre 1915) e prosegue nella pubblicistica fino ai «Quaderni del carcere», dove Loria e i  «loriani» occupano nell’«Indice per argomenti» (pp. 3218-3219) due fitte colonne.

    Nell’analisi economica di Achille Loria, Gramsci denuncia la sua «scienza pidocchiosa» (articolo citato del 16 dicembre 1915) e coglie nel suo autore un «aspetto zingaresco» (19 gennaio 1918), attribuendogli la patente di «re degli zingari della scienza» per le sue veementi critiche a Marx: un giudizio che è ripreso pari pari in un articolo successivo (cfr. «Classicismo, romanticismo Baratono», in «L’Ordine Nuovo», 17 gennaio 1922). Giudizi stroncatori iniqui che non sono stati analizzati dagli studiosi, i quali si sono adagiati in formule ripetitive senza raccogliere l’invito a suo tempo espresso da Luigi Bulferetti, che colloca l’opera di Achille Loria nell’ambito di un «progressismo socialistico» per la capacità di stabilire un nesso tra densità della popolazione e spontaneità della «terra libera» (cfr. L. Bulferetti, Le ideologie socialistiche in Italia nell’età del positivismo evoluzionistico (1870-1892), Le Monnier, Firenze 1951, p. 127 e N. Dell’Erba, Il socialismo riformista tra politica e cultura, Franco Angeli, Milano 1990, p. 63).
    In un articolo intitolato «L’intransigenza di classe e la storia italiana», apparso il 18 maggio 1918 sull’organo «Il Grido del Popolo», Gramsci enfatizza le posizioni del gruppo intransigente del Partito socialista e muove una critica aspra a quello moderato, che nella sua attività politica si piega allo Stato borghese, considerato «un carro zingaresco, che si regge a furia di tasselli e chiavi, ed è mastodontico si quattro piccole rotelline». La locuzione «vita zingaresca» si ritrova anche in una lettera che Gramsci invia da Vienna il 13 gennaio 1924 alla moglie Giulia Schucht, laddove confessa di essere rimasto «un po’ turbato» nella lettura della sua missiva: «Non riesco completamente a comprendere il tuo stato d’animo: mi pare che tu sia un po’ turbata e disorientata. Dipende ciò solo dal non avere ancora una casa, dall’essere costretta alla vita zingaresca, dalla stanchezza del lavoro senza riposo?».
    La lettera è scritta nel periodo in cui Gramsci si trova a Vienna, dove non sembra gradire la decisione del Partito e del Comintern. Giunto nella capitale austriaca il 4 dicembre 1923, egli vive «isolatissimo», come scrive ancora alla moglie, solo assorbito dal lavoro giornalistico per l’Internazionale Presse-Korrespondenz e dall’analisi del fascismo e della situazione politica italiana. Oltre alla frase ricorrente della «vita zingaresca», Gramsci usa spesso un’altra frase a cui sembra affezionato per denunciare quel «mondo grande e terribile» sulla base dei ricordi delle novelle di Rudyard Kipling. Con la cognata Tatiana Schucht, conosciuta a Roma verso la fine di gennaio 1925, dividerà sentimenti e confidenze, nonostante che ancora egli sia assorbito dal lavoro politico nelle continue riunioni di partito. Il 2-3 agosto dell’anno successivo Gramsci tiene al Comitato centrale una relazione sulla situazione economica e il 17-18 settembre redarguisce aspramente i redattori de «l’Unità» per un suo articolo pieno di refusi e con il titolo inadeguato «I contadini e la dittatura del proletariato» (si veda l’errata-corrige su «l’Unità» del 19 settembre 1926). Proprio in quell’occasione Gramsci utilizza l’espressione «zingari della politica» per definire il ruolo dei redattori e il loro comportamento irresponsabile: «Così era assurdo mutare il titolo modesto ma adeguato all’argomento, col titolo roboante che è stato escogitato e che non corrispondeva al contenuto. Questo non è giornalismo rivoluzionario: è irresponsabilità, avventurierismo da zingari della politica».
    In una lettera alla cognata del 17 ottobre 1927, Gramsci – rinchiuso nel carcere di Milano – ricorre per la prima volta alla merafora degli «accampamenti zingareschi» per rilevare la divisione della classe operaia milanese: «Il suo nucleo sociale più consistente è l’aristocrazia, che ha saputo conservare una omogeneità e una compagine unica in Italia, mentre gli altri gruppi, compresi gli operai, sono, su per giù accampamenti zingareschi senza stabilità e ossatura, striati di tutte le varietà regionali». (Lettera a Tatiana Schucht, [Milano] 17 ottobre 1927, in A. Gramsci, Lettere dal carcere, a cura di Francesco Giasi, Einaudi Torino 2020, p. 164).
    L’utilizzo del termine «zingaro» e dei suoi derivati si ritrova anche nei «Quaderni del carcere», dove Gramsci ricorre ad esso in varie annotazioni e «analisi storico-politica». Nel «Quaderno 8» (p. 1092) si ritrova un intero brano di Gramsci, che è utile per comprendere i temi specifici analizzati negli anni 1931-32, là dove scrive: «Contro, naturalmente, se vuole perpetuare se stesso come forma organica di attività storico-politica, non come momento iniziale di un periodo organico. Così contro le “avanguardie” senza esercito dietro, contro gli arditi senza fantera e artiglieria, ma non contro avanguardie e arditi se funzioni di organismo complesso e regolare, così contro intellettuali senza massa, ma non contro intellettuali di una massa. Per formazioni omogenee, formate di blocchi sociali compatti, e per intellettuali, avanguardia, arditi che a suscitare tali blocchi lavorano e non a perpetuare il loro dominio zingaresco».
    Su questo argomento Gramsci ritorna nel «Quaderno 9» per svolgere un’analisi storica sulla costruzione dello Stato unitario: la cosiddetta «destra storica» d’impronta cavourriana presenta una «superiorità organica e permanente sul Partito d’Azione mazziniano e garibaldino, che è stato il prototipo di tutti i partiti di “massa”, che non erano in realtà tali (cioè non contenevano blocchi sociali) ma attendamenti zingareschi e nomadi della politica» (pp. 1202-1203).
    Nel «Quaderno 14» (pp. 1675-76), dove discute il modo di intendere il «volontarismo o garibaldinismo», Gramsci commenta il blocco sociale e propone la lotta che bisogna intraprendere contro le false aristocrazie di intellettuali e il «loro dominio zingaresco» contro quelle genuinamente volte a rinsaldare un legame organico con la «massa nazionale-popolare» (p. 1676). Se questi riferimenti appaiono utili nel dibattito politico odierno, oscure sembrano le pagine che Gramsci scrive sul programma di Mazzini, verso cui dimostra una scarsa dimestichezza per l’attribuzione erronea che nel suo programma fosse assente la concezione del partito. Scrive infatti Gramsci che «l’assenza di programma concreto, con tendenza generale, è una forma di “mercenarismo” fluido, i cui elementi finiscono collo schierarsi col più forte, con chi paga meglio ecc. L’esempio del dopo-guerra, invece che ragione, dà torto all’Omodeo: 1) perché programmi concreti in realtà non esistettero mai in quegli anni, ma appunto solo tendenze generali più o meno vaghe e fluttuanti; 2) perché appunto in quel periodo non esistettero partiti selezionati e omogenei ma solo bande zingaresche fluttuanti e incerte, che erano appunto simbolo dell’indeterminatezza dei programmi e non viceversa» (p. 1932). E più avanti scrive che nella visione ideale di Mazzini era assente una concezione politica e che «la predicazione genericamente unitaria del Mazzini è il nucleo solido del mazzinianesimo, il suo contributo reale al Risorgimento» (p. 1933).
    Le conoscenze di Gramsci erano indirette e sembra che non avesse letto nulla degli scritti di Mazzini, ma che avesse avuta una conoscenza del suo pensiero tramite alcuni scritti di Omodeo e di Salvemini e non di quelli editi da Cantimori, curatore di una ampia raccolta antologica (Vallardi), comprensivo del saggio «I sistemi e la democrazia» (pp. 282-338), poi riproposto dal compianto Salvo Mastellone con il titolo «Pensieri sulla democrazia in Europa» (Feltrinelli, Milano 2005, prima edizione 1997). Persino il libro «Mazzini e Bakounine. 12 anni di movimento operaio in Italia (1860-1872)» (Fratelli Bocca editori, Torino 1927) di Nello Rosselli non era conosciuto da Gramsci nella sua interezza, se nella lettera a Giuseppe Berti dell’8 agosto 1927 gli chiede «di far(gli) avere i fogli mancanti» al suo «esemplare del libro del Rosselli», accusato di «acrimonia» a cui quest’ultimo reagisce con garbo e l’invio di una bibliografia sul Risorgimento (cfr. A. Gramsci, Lettere dal carcere, cit., pp. 135 e 136).
    Su questo impianto storico Gramsci inserisce l’uso dei termini «zingaro» e «zingaresco», presentati in una fitta gamma di significati e in una complessa trama di variazioni a seconda l’esigenza politica e il contesto discorsivo del momento. Chiaramente altri riferimenti si trovano nella vasta scrittura letteraria, epistolare e politica di Gramsci, che usa i termini nelle critiche teatrali e persino nelle sue traduzioni come quella di una fiaba dei fratelli Grimm.

     

  • SOFRI, GRAMSCI, KIPLING
    E IL MISTERO
    DELLA CITAZIONE

    data: 05/12/2020 16:25

    Sul quotidiano «Il Foglio» del 3 dicembre Adriano Sofri scrive un articolo su «Gramsci, Kipling e il mistero della citazione del “mondo grande e terribile”». L’articolo esce nella sua rubrica per segnalare «una piccola scoperta», rivelatasi poi vana e tramutatasi in una grave «cilecca», come afferma egli stesso nell’incipit. Meraviglia che Sofri affronti il tema della complessa relazione culturale tra Antonio Gramsci (Ales-Cagliari, 22 gennaio 1891 – Roma, 27 aprile 1937) e Joseph Rudyard Kipling (Mumbai, 30 dicembre 1865 - Londra, 18 gennaio 1936) con riferimenti secondari e qualche tratto di ingenuità. 

    Sofri dice che sta «rileggendo Gramsci» ed afferma che «c’è un’espressione cui ricorre più volte nella corrispondenza con Julka, la sua sposa, e Tania, sua cognata, e anche altrove»: «il mondo grande e terribile». Egli cita in modo vago un articolo di Gramsci per l’organo socialista «Avanti!» (1917), e una corrispondenza per «L’Unione Sarda» (1910) per rintracciare l’espressione. Così ricorre all’ausilio di Google, ma esso «tarda a rispondere» e allora telefona ad «Alfonso Musci», che gli indica un saggio uscito su «Studi Storici». Non è che bisogna essere esperti informatici per reperire su Internet quel saggio facilmente reperibile e leggibile solo nella prima pagina: Alessandro Carlucci, «“Essere superiori all’ambiente un cui si vive, senza perciò disprezzarlo”. Sull’interesse di Gramsci per Kipling», in «Studi Storici» (ottobre-dicembre 2013, a. 54, n. 4, pp. 897-914).
    La vaghezza dei riferimenti e qualche imprecisione nelle citazioni dimostrano la scarsa dimestichezza di Sofri nella conoscenza di Gramsci e nel debito culturale che egli contrasse con Rudyard Kipling. Così si imbarca in vaghe considerazioni e in fuorvianti osservazioni come la prima corrispondenza (non un «articolo») che il giovane Gramsci, allora diciannovenne, invia al quotidiano «L’Unione Sarda». La corrispondenza di Gramsci, che esce con il titolo «A proposito d’una rivoluzione» e con la sigla «Gi.», è questa: «Nei paesi circonvicini si era sparsa la voce che ad Aidomaggiore per le elezioni dovessero succedere fatti grandi e terribili. La popolazione voleva introdurre tutto d’un tratto, il suffragio universale, cioè eleggere consiglieri e sindaco plebiscitariamente e sembrava pronta ad ogni eccesso. Il tenente dei carabinieri di Ghilarza, cav. Lay, seriamente preoccupato per questi sintomi, fece arrivare un intero corpo d'esercito, 40 carabinieri, e 40 soldati di fanteria, meno male senza cannoni, e un delegato di p. s. (sarebbe bastato da solo). All’apertura delle urne, il paese era deserto; elettori e non elettori, per il timore dell'arresto, si erano squagliati e bisognò che le autorità andassero di casa in casa a stanare i restii. Insomma, la più graziosa burletta del mondo, dovuta certo all’esperienza del giovanissimo tenente, non ancora ben pratico del carattere di queste popolazioni. Poveri mandorleti di Aidomaggiore! Altre che filossera sono i soldati di fanteria!».
    Dall’incipit della corrispondenza Sofri trae il dubbio convincimento che l’espressione «fatti grandi e terribili» sia tratto dal romanzo «Kim», ma poi si ricrede, perché il volume in lingua italiana apparve tre anni dopo (cfr. R. Kipling, Kim, traduzione di Paolo Silenziario, Vallardi, Milano 1913, pp. 542). Il gestore della rubrica «Piccola posta» non può attribuire l’interesse di Gramsci alla considerazione di una «Sardegna coloniale con la vicenda di Kim», perchè non è sicuro che il giovane abbia letto nel 1910 il romanzo. Tuttavia, ammesso che l’abbia consultato nell’edizione francese (Mercure de France, Paris 1902), l’isola non può essere presentata come una colonia, considerata la borsa studio che nell’ottobre dell’anno successivo gli sarebbe stata concessa dal Collegio Carlo Alberto di Torino.
    In questo àmbito Sofri cita la biografia su «Gramsci» di Giuseppe Fiori, considerato un «prezioso biografo» che informa i suoi lettori dell’interesse del giovane sardo verso «le riviste del continente, e specialmente de La Voce», che «proprio nel 1910» aveva pubblicato « il “Quaderno della Voce”, nella collana di Prezzolini, dedicato da Emilio Cecchi a “Rudyard Kipling”» (Casa Editrice Italiana, Firenze 1910, pp. 75). E subito dopo manifesta un altro dubbio e aggiunge: «Era improbabile, certo, e sembrava anzi impossibile dal momento che il Quaderno porta la data del 30 novembre e l’articoletto di Gramsci era del luglio». Ho controllato l’indicazione di Adriano Sofri ed essa corrisponde ad una precisione certosina, seppure con l’omissione che si tratti del IV «Quaderno» della collana diretta da Giuseppe Prezzolini. La conclusione di Sofri è che nel volume edito da Vallardi non si ritrova «la citazione sul mondo grande e terribile».
    Sull’articolo di Sofri interviene Maria Luisa Righi, curatrice dell’«Epistolario 1, gennaio 1906-dicembre 1922» (Istituto della Enciclopedia Treccani, Roma 2009, pp. 547), che sottolinea come «La piccola posta ha fatto più di “una cilecca”» e con sicumèra gli rimprovera che «non arriverà a nessuna nuova scoperta. Per risparmiarsi tanti rovelli bastava consultare il 1° volume degli Scritti 1910-1916 (Edizione nazionale degli scritti di Antonio Gramsci, 2019» dove è raccolto l’articolo di Gramsci oggetto di tante (sic) pensamenti. La questione riguarda il primo articolo di Antonio Gramsci, “A proposito d’una rivoluzione” (e non “di una”), che fu pubblicato sull’Unione sarda, il 26 luglio 1910, ma recante la data del 24 giugno. Nel volume del 2019 la derivazione kiplinghiana dell’endiadi “grande e terribile” è stata già evidenziata (quindi nessuna “scoperta”), e se ne sono anche vagliate le possibili fonti».
    Che cosa dire del giudizio farraginoso della Righi, che - oltre ad essere curatrice di un «Epistolario» zeppo di imprecisioni -, non ha letto bene l’articolo di Sofri, il quale parla di una questione irrisolta (e non di «scoperta», come aveva fatto inizialmente). Così prendiamo il primo volume dell’«Epistolario», non avendo a disposizione il volume degli scritti gramsciani menzionati dalla Righi, e troviamo alla pagina 46 (nota 1) il medesimo titolo che Sofri ha dato all’articolo di Gramsci: «“A proposito di una rivoluzione”, 26 luglio 1910» con l’indicazione precisa del titolo del giornale «L’Unione Sarda», e diverso da quello citato dalla Righi. Resta la vexata quaestio della relazione culturale di Gramsci verso Kipling, il cui pensiero viene utilizzato in altri contesti ed episodi storici come la spiegazione della genesi del fascismo inteso come «la proiezione nella realtà di una novella della giungla del Kipling: la novella del Bandar-Log, del popolo delle scimmie» (Non firmato, Il popolo delle scimmie, in «L’Ordine Nuovo», 2 gennaio 1921, I, 2, ora in A. Gramsci, «Nel mondo grande e terribile, Antologia degli scritti 1914-1935», Einaudi, Torino 2007, pp. 84-88.


     

  • ANCORA MASCHERONI
    FRA STRONCATURE
    E SCOPIAZZATURE

    data: 29/11/2020 16:26

    Il 23 novembre scorso è uscito su questa bacheca diretta da Beppe Lopez con acribìa giornalistica la prima parte di un discorso critico sulla stroncatura. Essa traeva spunto dagli articoli pubblicati il giorno prima nell’inserto «Controcultura» del quotidiano «il Giornale». Tra essi il meno convincente era quello di Luigi Mascheroni, che aveva propinato ai lettori una congerie di nomi senza alcun criterio razionale. Parlava di Giovanni Papini (1881-1956), autore del libro «Stoncature» (Firenze 1916), ma appioppava giudizi drastici quanto ingiusti allo scrittore toscano considerato «furente eccessivo, a volte inutilmente astioso, altre volte sgraziato».
    Una congerie di giudizi superficiali per la segnalazione di un libro «Stroncature. Il peggio della letteratura italiana o (quasi)» di Davide Brullo e di un editore che riprendono titolo e nome dal famoso volume di Papini: «Gog», pubblicato dall’editore fiorentino Vallecchi nel 1931. La trama si concentra su un povero uomo di nome Gog, diminutivo di Goggins, che riesce a diventare miliardario e ad appagare il suo desiderio di girare il mondo. La sua personalità è però priva di ogni ancoraggio etico, sempre alla ricerca di risposte esistenziali che non riescono ad appagare il suo carattere cinico, pur nei contatti con personaggi famosi come Marx, Lenin, Freud, Edison ed Einstein. E, seppure privo di ogni struttura morale, riesce a trovare una soluzione nell’incontro con una bambina molto povera, che dà la soluzione alle sue questioni esistenziali, offrendogli un pezzo di pane nero e iniettandogli un dubbio: «Che sia questo il vero cibo dell’uomo? e questa la vera vita?»
    Nel suo articolo Mascheroni ignora queste tematiche e l’estrosa satira di costume che Papini rivolge alla critica della modernità, simile alla condanna della cosiddetta civiltà globalizzata contemporanea. Così procede nel suo racconto farraginoso con richiami a scrittori come Guido Piovene (1907-1974), Giorgio Saviane (1916-2000), Giovanni Arpino (1927-1987), Giorgio Manganelli (1922-1990) e Giovanni Raboni (1932-2004), senza definire senso e contenuto delle stroncature. Di Piovene e di Raboni, l’uno promotore di «una crociata contro Italo Svevo» e l’altro stroncatore di «classici moderni» come Italo Calvino (1923-1985), Umberto Eco (1932-2016), Dario Fo (1926-2016) e Susanna Tamaro (nata nel 1957), Mascheroni non aggiunge nulla di nuovo e riprende osservazioni reperibili nella rivista online «Pangea» (5 marzo 2020), che a sua volta riprende un articolo di Cesare Cavalleri, pubblicato su «Studi Cattolici» (febbraio 2020, n. 708) con il titolo «Giovanni Raboni: non solo stroncature». Qui fuoriusciamo dall’àmbito delle stroncature per entrare in quello insulso e dilagante della scopiazzatura, ossia della copiatura degli scritti altrui.
    Riguardo alle stroncature di Raboni, Mascheroni cita una sua frase che dice: «Una stroncatura, pur che abbia un minimo di fondamento, serve alla buona salute della letteratura cento volte di più, non solo del silenzio, ma anche di un elogio infondato». La frase, riportata a casaccio nell’articolo di Mascheroni, è copiata dall’annotazione che precede uno scritto di Cesare Cavalleri, pubblicato da Davide Brullo, che indica come fonte un articolo apparso il 25 luglio 1998 sul «Corriere della Sera». Ora a quella data non si ritrova la frase copiata da Mascheroni, riportata in modo erroneo da Brullo e forse ripresa da un articolo di Cavalleri, direttore di «Studi Cattolici» che permette la lettura solo agli abbonati: pecunia non olet!
    Nell’articolo di Raboni la frase non si ritrova: sbaglia Luigi Mascheroni a copiarla, sbaglia Davide Brullo a indicare come data il 25 luglio e a rinviare al volume antologico di Giovanni Raboni: «Meglio star zitti? Scritti militanti su letteratura cinema teatro (1964-2004» (Mondadori, Milano 2019). Per il direttore di «Pangea» le pagine sono inutili e superflue, basta indicare la data anche se sbagliata. Ora dal volume apprendiamo che alle pagine 379-380 c’è un articolo di Giovanni Raboni, intitolato «Segal, Mussolini e Joyce... Ecco i cento peggiori romanzi», in «Corriere della Sera», 25 luglio 1998, p. 29)..
    Mascheroni considera l’articolo un’intervista e la frase diventa utile solo a riempire il suo farraginoso «pezzullo». Così i due giornalisti, e collaboratori del quotidiano «il Giornale», non avvertono minimamente la necessità di controllare il drastico giudizio di colui che è considerato da Brullo «un grande e talora grandissimo poeta» e «sommo traduttore dell’intera “Recherche” proustiana», ossia «un esemplare forse irripetibile di critico militante» (cfr. D. Brullo, «Pangea», 5 marzo 2020). L’articolo di Raboni è invece interessante per l’indicazione dei cosiddetti «libri-spazzatura» come «Love story di Erick Segal», «L’amante del cardinale di Benito Mussolini», «i romanzi di Ian Fleming o di Mario Puzo o di Françoise Sagan», ossia di quei «libri puramente commerciali che a nessuno è mai venuto un mente di prendere sul serio».
    Tra i migliori romanzi Raboni indica invece «Arcipelago Gulag di Solženicyn», «Ulisse di Joyce o [...] Ricerca del tempo perduto di Proust». L’interessante conclusione di Raboni, anche per comprendere la salute della letteratura odierna, è questa: «Dobbiano ridere? Dobbiamo arrabbiarci. Né una cosa né l’altra, secondo me; l’unico modo per reagire allo snobismo è affettare la più assoluta imperturbabilità. Ma un consiglio, ai colleghi dell’Indipendent, verrebbe pur voglia di darlo: attenzione, per amor di battuta, a non fornire alibi agli analfabeti» (G. Raboni, «Un gioco del quotidiano inglese “Indipendent” che sa troppo di snobismo. Segal, Mussolini e Joyce... Ecco i cento peggiori romanzi», in «Corriere della Sera», 25 luglio 1998, a. 123, n. 175, p. 29).
    E allora dove si trova la tanto decantata frase del duo Mascheroni e Brullo? E allora dove è reperibile la frase che allieta l’articolo di Mascheroni e soddisfa la stizza recondita di Brullo? Dopo varie ricerche siamo riusciti a trovarla. Essa si trova un un articolo di Giovanni Raboni, intitolato «Caro Veltroni, anche le stroncature fanno bene alla letteratura. Discussioni. Risposta al ministro dei Beni culturali che ha parlato di “genocidio” dei giovani narratori a opera di critici troppo severi» e pubblicato sul «Corriere della Sera» (4 settembre 1998, a. 123, n. 209, p. 33). Articolo profetico di sorprendente attualità, là dove Raboni impartisce al vicepresidente del Consiglio e prossimo Ministro per i beni culturali una lezione di grande significato: «La questione che mi sta a cuore – dice Raboni – non è di merito ma di principio, e si può riassumere in un paio di domande. La critica – anche severa, anche radicale, anche stroncatoria – è davvero, come sembra pensare l’onorevole Veltroni, un elemento negativo, anzi distruttivo, che dovrebbe dunque essere limitato o addirittura evitato se si vuole che i pochi lettori italiani crescano e si moltiplichino? O non sarà invece vero i contrario, e cioè che proprio la quasi assoluta mancanza negli ultimi anni e decenni, di una critica indipendente, severa, limpidamente distante dal proprio oggetto, insomma non arresa o asservita all’industria culturale, ha nuociuto alla qualità di ciò che le nuove generazioni andavano scrivendo e ha contribuito così, in modo forse non marginale, a scoraggiare la lettura?»; (G. Raboni, «Caro Veltroni, anche le stroncature fanno bene alla letteratura..., in «Corriere della Sera», 4 settembre 1998,a. 123, n. 209, p. 33).
    Dopo il riferimento a Raboni, Mascheroni cita il caso di Enzo Golino e riprende notizie già date da Francesco Erbani su «la Repubblica» («Com’erano spietate le stroncature di una volta», 11 giugno 1986): «Critico militante ai tempi in cui la definizione aveva un senso, negli anni ’80 e ’90 su “Millelibri” mise Sottotiro Tabucchi e Pontiggia, Bufalino e Ceronetti, Cordelli e Vassalli. Quando raccolse in un libro le sue stroncature [...] fu così gentiluomo da chiedere ai bocciati una replica. Tutti accettarono, stando al gioco, altri, offesi, non risposero» (L. Mascheroni, «La feroce arte della stroncatura..., cit., p. 24». Nell’articolo de «La Repubblica» si legge che «tra la fine degli anni Ottanta e i primi Novanta sul mensile Millelibri Enzo Golino tenne una rubrica intitolata “Sottotiro”... con stroncature distese su due pagine», interpellando alcuni scrittori stroncati, i quali «alcuni, sollecitati, non rispondono. Bufalino, Manganelli, Giorgio Saviane, Spinella e Tomizza perché scomparsi. Altri, come Pietro Citati e Antonio Tabucchi, non si sa perché. Pontiggia e Bettin ringraziano sentitamente e anzi dichiarano di aver corretto il testo seguendo proprio le indicazioni delle stroncature» (cfr. Francesco Erbani, «Com’erano spietate le stroncature di una volta», in «la Repubblica» online, 16 giugno 1986).
    Nel gruppo dei critici Mascheroni colloca anche Cesare Cavalleri, considerato «un martire» per avere letto i romanzi degli scrittori stroncati. Dove non lo dice, ma si comprende come egli non si documenta e affastella notizie prive di senso logico e di un minimo di letture utili solo per confezionare un articolo. I rilievi critici di Cavalleri (nato nel 1936), direttore di «Studi Cattolici», si ritrovano nel suo libro intitolato «Letture (1967-1997)» (Ares, Milano 1998, pp. 620). Tuttavia Mascheroni che cosa fa? Riporta un lungo brano, là dove elogia il critico letterario dell’Opus Dei per aver «scomunicato» i giganti (Brullo parla di «titani») e dice: «Arbasino e i suoi libri di “panna montata”, Nanni Balestrini e la neoavanguardia, Bassani e Ceronetti e poi i romanzi “inutili, kitsch, pretestuosi e presuntuosi” di Eco, i libri di Giorgio Bocca “stucchevole moralista” e lo “gnosticismo di hard discount” Eugenio Scalfari» (p. 24). Così ignora che questi giudizi si ritrovano nel libro citato del direttore di «Studi Cattolici» e riprende il tutto da un articolo dell’agenzia Adnkronos del 2 ottobbre 1998, là dove si legge che «Arbasino è un autore che “scodinzola” e i suoi libri sono di “panna montata”. Nanni Balestrini, uno dei capofila della neoavanguardia del Gruppo 63 è “privo di pudore”. Giorgio Bassani sarebbe il primo ad accorgersi della “sciocchezza” dei propri giudizi. Bevilacqua è un epigono, mentre Ceronetti è un anticlericale che sa essere “uno squisito grillo parlante”. Bocciatura senza pietà per Eco, i cui romanzi sono “inutili, kitsch, pretestuosi e presuntuosi”. Se Saviane è “noioso”, Giorgio Bocca è uno “stucchevole moralista”».
    Il brano copiato si conclude con il riferimento critico ad Eugenio Scalfari che è tratto però dall’articolo «Cesare Cavalleri e la fede nella critica» di Davide Brullo apparso su «il Giornale» del 2 marzo 2018. Bisogna riconoscere il merito a Mascheroni che ogni tanto legge anche il giornale su cui scrive e affligge i lettori con le sue uscite letterarie. Nel caso del romanzo «Adelmo, torna da me» (Einaudi, Torino 2002) di Teresa Ciabatti, Mascheroni ignora gli articoli del quotidiano «il Giornale» e cita un articolo di Paolo Di Stefano che, uscito sul «Corriere della Sera» (15 settembre 2002, a. 127, n. 219, p. 31) con il titolo «Stroncature. Alla scoperta del romanzo più brutto», viene segnalato per essersi rivelato «una inaspettata pubblicità».
    Chissà se Mascheroni abbia mai letto l’articolo del critico letterario del «Corriere della Sera» e almeno convincersi che il giudizio di valore fuoriesce dall’àmbito della «nobile arte della stroncatura», come aveva esordito nell’incipit del suo prolisso e farraginoso «pezzullo». Egli, invece di dire qualcosa sulla stroncatura, si sofferma sulla futura collaborazione dell’autrice al «Corriere della Sera» e sul probabile rapporto amicale con questo micidiale passaggio: «si rituittano lei, lui, la Terranova, la Valerio: “Amore”. “Gioia”. “Spettacolo!”. “Non vedo l’ora che esca il tuo libro”. Ma anche no».
    Nonostante che l’articolo di Paolo Di Stefano abbia una largo eco, non sembra un modello di stroncatura, sia perché infarcito di ovvietà sia perché impregnato di giudizi di valore: « “Buffo e crudele” lo è sul serio questo libro: non certo per una consapevole scelta espressiva. Involontariamente buffo, all’inizio, perché il lettore sin dalla prima pagina non crederà ai propri occhi: per lo stile ora finto ora trasandato ora finto ironico ora finto lirico ora finto sentimentale ora finto cinico, ma sempre rigorosamente finto senza però il coraggio di fingere sul serio». Dalla finzione alla crudeltà seppure involontaria il passo è breve, «perché alla lunga (ma non troppo: dopo 5 o 6 pagine) finisce per infliggere al lettore una storia senza senso che forse vorrebbe prendere in giro il mondo aristocratico e superficiale dei giovani romani in vacanza all’Argentario e invece vi aderisce con irritanti e stupidi ammiccamenti e luoghi comuni e cliché di ogni tipo» (P. Di Stefano, «Stroncature. Alla scoperta del romanzo più brutto» cit.).
    Quasi un anno dopo, l’autrice è intervistata sul quotidiano «il Giornale» da Stefano Lorenzetto, che trae spunto dall’articolo stroncatorio di Paolo Di Stefano per tracciare un suo profilo e chiederle l’esposizone della trama del romanzo. Con la sua immagine, messa in evidenza in entrambe le pagine della lunga intervista, Lorenzetto colloca la scrittrice tra «i tipi italiani», presentandola come una vittima sacrificale, che «per colpa del suo scorticatore, cade in depressione, smette di scrivere, si taglia i capelli a sforbiciate, s’ingozza in camera di Pringles o marshmallow e altre porcherie comprate a peso nella gelateria Della Palma sotto casa», finché avviene il miracolo: le appare in sogno Maria De Filippi in Tv che la incita a non arrendersi e di procedere per la sua strada. Così «si converte alla dieta del minestrone, butta giù dieci chili, si fa ricrescere la chioma e soprattutto torna a ridere» (S. Lorenzetto, «Tipi nitaliani. “Son diventata famosa con il romanzo pù brutto dell’anno” », in «il Giornale», 17 agosto 2003, a. XXX, n. 194, pp. 1 e 4).
    Su una linea diversa si pone Mascheroni, che addirittura invoca in modo sadico «una sterilizzazione alla nascita» degli esordienti, ma solo «ogni tanto», dimostrando scarsa serietà giornalistica nell’affrontare un tema così complesso come quello della stroncatura. Così egli cita il caso di Michele Mari, che stroncato da Antonio D’Orrico lo schiaffeggia; oppure quello di Antonio Moresco, che reagì alla stroncatura di Nico Orengo «con un’articolessa più bella, molto più bella della bocciatura».

    Per i lettori più curiosi l’invito ad informarsi su altri organi di stampa, perché «il Giornale» è scritto con la «i» minuscola.

     

     

     

     

     

     

     

     

  • STRONCATORE STRONCATO
    E IL MASCHERONI
    E' SMASCHERATO

    data: 23/11/2020 19:26

    Il libro «Stroncature. Il peggio della letteratura italiana (o quasi)» (GOG Edizioni, pp. 202)» di Davide Brullo ha dato adito al quotidiano «il Giornale» di dedicare l’inserto «Controcultura» allo stroncatura. Esso è pubblicato con grande rilievo il 23 novembre scorso, ma anticipa la chiusura del libro, peraltro costituito da articoli già editi su varie testate, la maggior parte dei quali su «Linkiesta» online. Nella conclusione l’autore si autostronca per elogiarsi ed elogiare i suoi libri di poesia «Annali. Lustro» (2006), «Gries» (2019), i suoi romanzi «Il lupo» (2009), «S» (2010), «Ingmar Bergman: la vita sessuale di Franz Kafka» (2015), «Un alfabeto nella neve» (2018) e «Pseudo-Paolo. Lettera di San Paolo Apostolo a San Pietro» (2019).
    Nulla da eccepire sulla scelta di Brullo, incomprensibile a noi comuni mortali, ma la pratica dell’autoflagellazione e la stroncatura dei propri libri non interessano un serio recensore e non rientrano nei suoi compiti. Un aspetto sottolineato invece da Luigi Mascheroni, che considera l’autore una «firma ispida del Domenicale, di Libero, del Giornale e de Linkiesta», ossia della stampa più retrograda del nostro scombinato Paese per usare un aggettivo caro al grande Salvemini.
    Il discorso critico di Brullo - già noto e reperibile su «Linkiesta» online dal 29 dicembre 2015 con la critica alla traduzione di Moby Dick al 7 ottobre 2019 con l’indicazione dei tre libri «da non perdere» - dà adito a Mascheroni di definire il significato della recensione e di precisare il significato della stroncatura. Per il critico letterario del giornale milanese «recensire è un mestiere di alto artigianato. Ma stroncare è un’arte», le cui scaturigini sono dettate dal desiderio che i lettori («non gli stroncati») «parlino bene di noi». Crediamo invece che la recensione non sia un’arte, ma un’espressione culturale che nasce dallo studio, dalla ricerca e dal lavoro intellettuale: già Niccolò Tommaseo parlava del libro o dell’opuscolo come «opera dell’ingegno» (Id., «Dizionario dei sinonimi della lingua italiana», Presso la libreria Editrice Bideri, Napoli 1898, p. 582).
    Nel suo articolo farraginoso Mascheroni cita un brano (“«Bene o male, purché se ne parli», si dice per difendere un genere giornalistico ormai residuale. Se già la critica è agonizzante, la stroncatura è moribonda. Ma ogni tanto riemerge improvvisa e carsicamente si inabissa, lungo il corso frastagliato del giornalismo cutlurale”). Ora il brano, virgolettato solo nella parte iniziale e con quelle strane parentesi rotonde, è d’una confusione inaudita e non si comprende dove l’abbia tratto e a chi debba essere attribuito. Subito dopo cita il libro «Stroncature» (Firenze 1916) di Giovanni Papini, a cui attribuisce il merito (anzi: il demerito) di avere introdotto «per il ’900» la fase inaugurale della stroncatura con attacchi virulenti a Benedetto Croce e ad altri «autori dimenticati» come Guido Mazzoni e Mario Calderoni, Renato Serra e Ardengo Soffici, Alfredo Panzini ed Emilio Cecchi.
    Credo che Mascheroni non abbia mai letto il libro «Stroncature» di Papini (e forse neppure sfogliato), le quali nelle sue molteplici edizioni presentano una miriade di autori, alcuni dei quali sono stati poi tolti perché – come dice lo scrittore fiorentino – «risentivano troppo dell’occasione o dell’epoca in cui furono composti, o potevano sembrare troppo personali, o si riferivano a soggetti poco importanti, li ho delibertamente esclusi. Quello su Emilio Cecchi lo tolsi fin dalla terza edizione di Stroncature» (si veda l’edizione del luglio 1942, Vallecchi, Firenze, p. 363). È vero che esse sono «citatissime», ma sarebbe interessante conoscere il criterio della scelta degli autori menzionati e stroncati: perché cita Benedetto Croce e non Giovanni Gentile, perché ricorda Aldo Palazzeschi e non Carolina Invernizio, perché cita Alfredo Panzini e non Enrico Ferri?
    Premesso ciò, Mascheroni sottolinea una frase attribuita ad Emilio Cecchi (Firenze, 14 luglio 1884 – Roma, 5 settembre 1966), secondo cui il mite e famoso critico letterario si sarebbe vendicato, «firmando sul Corriere della sera (sic) nel luglio 1956, un necrologio apparentemente obiettivo, in realtà sottilmente velenoso del suo stroncatore». Solo questo passaggio dimostra la faciloneria dell’articolista, che si impadronisce di un giudizio riportato in un saggio di Enrico Falqui, edito su «La Fiera Letteraria» (12 gennaio 1967, n. 2) e ripubblicato nel sito di Bartolomeo Di Monaco. Un dibattito interessante da approfondire, svoltosi tra critici come Giancarlo Vigorelli, Giorgio Savioli e Mario Graziano Parri alla morte del critico fiorentino sul periodico «Totalità».
    È vero che Mascheroni cita Enrico Falqui (ma a casaccio) e ricorda un suo giudizio («Lo stroncatore si spinge più avanti dello stroncato: si mette in mostra, fa il pavone, dà spettacolo, se ne compiace dichiaratamente»); ma legge con superficialità l’articolo del critico campano, che cita un articolo di Alfredo Todisco, dissentendo da lui per il suo invito a riprendere la «stroncatura» come rimedio equilibratore tra la malevolenza orale e la compiacenza scritta. Tema di grande attualità se si tiene presente il solidarismo amicale che intercorre tra gli autori e si manifesta sempre più con maggiore frequenza su giornali a tiratura nazionale. Alcuni mesi doppo la morte di Cecchi, il giornalista calabrese invita i colleghi del «Corriere della Sera» a non scrivere recensioni compiacenti, quasi un monito profetico, disatteso completamente dall’organo milanese: «Sparita da gran tempo, la demolizione crudele, e perfino festosamente crudele, dei libri di narrativa, di saggistica, di poesia che alluvionano il mercato è ormai evento rarissimo e comunque, anche nei casi più arrischiati, sempre parecchio edulcorato. Eppure le occasioni, con tutto quel che esce nell’era del rapido consumo, non mancherebbero!» (cfr. A. Todisco, «Ecco la sorte degli scrittori italiani. Lapidati a parole elogiati per iscritto», in «Corriere della Sera», 12 novembre 1966, a. 91, n. 256, p. 3).
    In realtà, l’articolo di Emilio Cecchi come necrologio di Giovanni Papini apparve il 10 luglio 1956 sul «Corriere della Sera» (a. 81, n. 161, p. 3) con il titolo «La scomparsa di Giovanni Papini. Le spavalde audacie e la cristiana rassegnazione dell’“uomo finito”» : alcuni giorni prima ne era uscito uno di Eugenio Montale. L’articolo non presenta quel giudizio drastico espresso da Mario Graziano Parri e «scopiazzato» da Mascheroni. Il suo discorso sibillino poteva essere chiaro per i lettori se avesse meglio chiarito il giudizio di Cecchi su Papini e ricordata quell’astiosa stroncatura pubblicata il 28 febbraio 1915 con il titolo «La sor’ Emilia» nella rivista «La Voce». A quella stroncatura, Papini fu spinto dal tentativo che Cecchi fece presso Prezzolini di modificare l’indirizzo culturale del periodico fiorentino (si veda la prima edizione del 1916, pp. 127-129).
    Emblematico il giudizio di Cecchi su Papini, laddove afferma: «Aggiungo che fra i molteplici tratti di questa complessa ed inquieta personalità, uno, meno palese, merita di venire particolarmente sottolineato. Soltanto dalle opere a stampa del Papini non si potrebbe dedurre; né gli dettero il dovuto risalto i biografi che spessero scrissero dell’uomo. Papini troppo sommariamente, per sentito dire, senza una conoscenza diretta. La stessa violenza e bizzaria di quel carattere portò, in qualche modo, alla esagerazione e alla cristallizzazione di taluni lineamente vissuti. E di Papini, forse non senza sua colpa, si diffuse, s’è detto, una immagine piuttosto convenzionale di uomo tremendo, di giustiziere ed orco letterario: immagine infinitamente meno sincera e meno ricca del vero» (art. cit.).
    Ora il giudizio dell’articolista, secondo cui «Papini era furente, eccessivo, a volte inutilmente astioso, altre volte sgraziato», è di un semplicismo commovente e pecca di una diretta conoscenza della sua opera. Il giudizio sullo scrittore fiorentino deve essere inquadrato in una luce più equa, senza collegare la sua vasta opera all’esclusiva ed irruente personalità di uno scrittore, su cui si può ripetere quanto Giovanni Pascoli disse per Giosue Carducci: «Sol quelli che gli vissero..., da presso ... sanno che egli è anche più buono che grande». Un giudizio che avrebbe condiviso lo stesso Papini, che nel 1917 scrisse di Carducci che le sue «Stroncature son le figliole – sia pur meticce o bastarde delle Confessioni e battaglie», quasi in una vagheggiata bramosia di solitudine invocata nell’agosto del 1906: «Carducci è solo. Carducci non ha avuto discepoli e non ne ha. Egli è uno dei più celebri uomini d’Italia e uno de’ più soli» (Cit. da Aldo A. Mola, «Giosue Carducci. Scrittore, politico, massone», Bompiani, Milano 2006, p. 59). Dietro al solitario «stroncatore» si nascondeva forse l’ultimo discepolo di Carducci e si celavano schietti e alti ideali umani (Prima parte).
     

  • LA RIDICOLA STORIA
    DELL'ITALIA COMUNISTA
    FIRMATA DA CAZZULLO

    data: 10/11/2020 15:01

    Sul «Corriere della Sera» del 9 novembre 2020 (a. 59, n. 44, p. 35) è uscito un articolo di Aldo Cazzullo, con cui presenta il libro di M. Pendinelli e M. Sorgi: «Quando c’erano i comunisti. I cento anni del Pci tra cronica e storia con una testimonianza di Umberto Terracini» (Marsilio, Venezia 2020, pp. 383 e non pp. 240). L’articolo è intitolato «La rivoluzione e altri sogni. Una storia (comunista) d’Italia» ed ha come sottotitolo «Percorsi. Mario Pendinelli e Marcello Sorgi ricostruiscono un secolo di vicende. Fino ai nostri giorni (Marsilio)».
    Si tratta di un articolo che promette di presentare un secolo di storia del Partito comunista italiano, senza dire «nihil nullius» di interessante sulle vicende politiche che caratterizzano la sua organizzazione dalla nascita (1921) fino alla scomparsa. Nella didascalia, posta accanto all’articolo, è pubblicata la foto della copertina, tratta da un disegno di Huang Rui (1991), ma è unita ad un’immagine di Enzo Mari (Novara, 27 aprile 1932 – Milano, 19 ottobre 2020), che si ritrova nel catalogo della mostra «Falce e martello. Tre dei modi con cui un artista può contribuire alla lotta di classe».
    Sulla base del principo classista, l’articolo non presenta alcun interesse e dà un quadro ridicolo delle vicenda storica del Pci. A parte il tono smaccatamente elogiativo del libro, esso – un vero «pezzullo», si direbbero a Sud della terra tartufata dell’albese – deve essere segnalato per alcuni giudizi erronei e per la superficialità con cui presenta una storia meritevole di un ampio dibattito nell’approssimarsi del centenario del Pci. L’articolo si compone di quattro colonne scarse, accanto alle quali primeggiano la copertina del libro e le foto dei due autori, considerati a sproposito «due scienziati della politica ed esploratori del potere italiano».
    L’incipit dell’articolo riporta una frase di Gramsci che rimprovera i giornalisti dell’organo «L’Ordine Nuovo»: «Questo non è un giornale - gridava. È un sacco di patate! Domani Agnelli può chiamare gli operai e dire: vedete, non sanno fare un giornale e pretendono di dirigere lo Stato!». La frase è tratta dal libro ed è attribuita dagli autori al comunista pugliese Alfonso Leonetti, mentre dall’articolo si arguisce che essa è tratta da una reazione di Gramsci ad un articolo di Felice Platone (cfr. M. Mammucari e A. Miserocchi, «Gramsci a Roma», Fondazione Cesira Fiori, Roma 1949, p. 55, cit. in M. Pendinelli e M. Sorgi, «Quando c’erano i comunisti» cit., p. 50).
    Premesso che i «due scienziati della politica», come sono definiti da Cazzullo, devono essere iscritti nel Guinness dei primati: commettono nella sola nota 6 di pagina 50 ben quattro errori – primo, il libro non è uscito nel 1949 ma nel 1979; secondo, la citazione non si ritrova nella pagina indicata, p. 55; terzo, il titolo completo è «Gramsci a Roma (1924-1926)»; quarto, il volume è pubblicato dall’editore La Pietra di Milano su iniziativa della «Fondazione Cesira Fiori» – la frase attribuita a Gramsci è ricordata da Leonetti in un suo ricordo reperibile nel volume. Citata da Cazzullo più come elemento riempitivo dell’articolo, essa non contiene il punto esclamativo e copre ben 8 righe della prima colonna.
    La prima colonna, che si sviluppa per altre 79 righe righe, contiene un’altra lunga citazione, sempre tratta dalla medesima pagina 50: «Tu, giornalista, non hai il diritto di dare un giudizio, facendo il quadro che hai fatto, e facendo credere a tutti che hai assistito alla tragedia. Nessuno, accusato, è dichiarato colpevole finché non è condannato» (A. Cazzullo, «La rivoluzione ed altri sogni...», p. 35; M. Pendinelli e M. Sorgi, «Quando c’erano i comunisti...», cit. p. 50). Il brano, citato dai «due scienziati della politica», non si ritrova nella pagina del libro menzionato di Camilla Ravera: «Diario di trent’anni 1913-1943» (Editori Riuniti, Roma 1973, p. 101) e neppure nelle pagine successive. Resta il mistero del brano citato, ma anche dell’intera ricostruzione di un fatto delittuoso descritto in modo diverso dalla comunista acquese (pp. 101-103).
    Nella prima colonna Cazzullo esprime sui due autori eccessivi giudizi di valori non degni di essere pubblicati in un giornale serio. E che certamente non rendono loro onore, là dove afferma che si tratta di un «libro che fin dalle prime pagine avvolge il lettore, gli racconta una storia e lo accompagna sino alla lunga appendice (la storica intervista di Pendinelli a Umberto Terracini) senza lasciargli prendere fiato» (p. 35, righe 30-41). Certamente il fiato lo ha trattenuto il giornalista di Alba che, se avesse letto il libro, avrebbe appreso che l’appendice è stata pubblicata in un volume curato dallo stesso Pendinelli ed intitolato «Quando diventammo comunisti. Conversazione con Umberro Terracini tra cronaca e storia» (Rizzoli, Milano 1981, pp. 160). Se avesse letto l’appendice avrebbe conosciuto il monito dell’«onorevole Roberto di Cuneo, comunista, rivolto a vecchi compagni del Psi: “Tra noi, lasciandoci, non ci siano parole amare o cattive. Separiamoci con umanità, con il proposito di lavorare tutti per la causa del proletariato” » (p. 274).
    Eppure il deputato Riccardo Roberto, nato e morto ad Alba (5 maggio 1879 - 28 settembre 1958), non è degno di menzione, pur avendo presenziato l’ultima giornata dei lavori congressuali. Egli, come il Nostro ha respirato l’aria pulita della cittadina piemontese, ma con esiti culturali diversi, come si ricava dal vivido monito che lancia il 21 gennaio 1921 dalla tribuna livornese del Congresso socialista prima della scissione con i comunisti, decisi a dar vita ad una nuova organizzazione politica. Una «vicenda» (riga 48) che è collocata in modo erroneo da Cazzullo «nella Torino giolittiana, prima della Grande Guerra» con il diverbio tra Antonio Gramsci e Palmiro Togliatti «sull’autenticità delle XII tavole dells Roma antica».
    Da quella «pedante discussione», come viene chiamata da Cazzullo, i due futuri comunisti non nutrono alcun progetto diretto a fondare un nuovo partito e il mito di Lenin non è ancora apparso all’orizzonte con il suo invito ad organizzare un partito rivoluzionario, costituito solo il 21 gennaio 1921. Per il giornalista albese le date sono un optional e possono essere «stiracchiate» qua e là, travolte e vilipese, pur di comporre il suo confuso e lauto «pezzullo». Così afferma che “nella città in riva al Po Gramsci si è formato, ha fondato l’«Ordine Nuovo», ha conosciuto l’amore, ha affascinato una generazione, nonostante la sua deformità fisica, resa luminosa dal cespuglio di capelli e dagli occhi celesti che si indovinano dietro le lenti spesse” (p. 35, righe 84-93).
    È vero che Gramsci si è formato nella città subalpina, essendo giunto a Torino nell’ottobre 1911, ma l’impatto è traumatico, se a distanza di molti anni ricorderà con grande tristezza quel periodo terribile, in cui «gravemente ammalato» fantasticava «sempre di un immenso ragno che la notte stesse in agguato e scendesse per succhiarmi il celervello». Dalle prime lettere al padre fino a quella spedita il 29 marzo 1924 alla moglie, egli avverte infatti un forte disagio e prova un vero “ribrezzo a fare delle camminate”. È vero che ha fondato il quindicinale “L’Ordine Nuovo” (questo il titolo vero), ma che abbia “affascinato una generazione” è discubile, essendo Antonio Gramsci eletto il 6 aprile 1924 in un collegio veneto. Che poi a Torino abbia trovato l’amore non risponde a verità, in quanto la relazione con Pia Carena, seppure piena di affetto, è un semplice legame di lavoro. Gramsci conosce il vero amore nel 1922 con l’incontro della giovane Jiulia durante la sua permanenza a Mosca nel sanatorio di Serebrjanyi, vicino a Mosca.
    Precisato il legame certamente non idilliaco con Torino, verso cui Gramsci è legato solo per la presenza massiccia della classe operaia, Cazzullo dà un quadro semplicistico della sua biografia e della storia del Pci. Egli dice che essa contiene «in nuce la vicenda intera del Pci», senza specificare quali siano gli aspetti fondamentali della sua analisi politica. Così sorvola sul rapporto tra il Pci e la centrale sovietica, parlando vagamente di una «lunga ombra di Mosca, in particolare il fantasma di Stalin che osserva e talora perseguita il partito comunista da vivo e anche da morto». Frasi senza senso, se è vero che il 16 settembre 1925 Togliatti pubblica in prima pagina su «l’Unità» l’articolo «L’oro bolscevico» per replicare alla questione sollevata dai socialisti sui finanziamenti della centrale moscovita al giornale (si veda l’articolo in P. Togliatti, «Opere», a cura di E. Ragionieri, I 1917-1926, Editori Riuniti, Roma 1967, pp. 642-646). Senza il contributo sovietico, il Pci presenta una fisionomia assai debole, che costringe i suoi dirigenti ad operare in clandestinità dopo l’arresto di Gramsci (8 novembre 1926) e i provvedimenti liberticidi del regime di Mussolini.
    Piuttosto che presentare questi aspetti fondamentali della storia comunista, Cazzullo mette in rilievo elementi ridicoli come l’imposizione dei nomi di battaglia da parte dei dirigenti comunisti: nella terza colonna parla «di Aldo, figlio di Togliatti, che si chiama Ercoli; e Luigi, primogenito di Longo che si chiama Gallo». Storie di una tristezza impressionante che meritano di essere meglio conosciute per la scarsa dedizione che Togliatti e Longo hanno verso i figli, l’uno avuto dalla relazione con Rita Montagnana e l’altro da quella con Teresa Noce.
    Nella quarta colonna Cazzullo ritorna su altri elementi, presentando il ruolo avuto da Longo nella guerra civile spagnola e «la vita sfortunata di sua moglie Teresa Noce» con altre due lunghe citazioni, peraltro scopiazzate e riempitive (si veda M. Pendinelli e M. Sorgi, «Quando c’erano i comunisti....» cit., p. 171). Oppure presenta le posizioni di Lenin sull’emancipazione femminile, il ruolo politico della moglie Nadežda Krupskaja e quello di Alexsandra Kollontaj, prima donna a diventare ministro (citata nel libro solo una volta a p. 75) e su cui riporta una lunga citazione di Lenin in modo confuso: «Questa nuova vita sessuale della gioventù, e spesso anche degli adulti, mi appare del tutto borghese, come uno dei molteplici del lupanare borghese» (cit. in M. Pendinelli e M. Sorgi, «Quando c’erano i comunisti» cit., p. 75, che riprendono da A. Kollontaj, «Comunismo, famiglia, morale sessuale», Savelli, Milano 1976, p. 21).
    Il semplicismo dell’articolo raggiunge l’apice, quando Cazzullo parla della consegna a Togliatti dei «Quaderni di Gramsci mentre è a Parigi, di ritorno dalla Spagna, diretto a Mosca» (terza colonna): una notizia non conforme a quella data da una studiosa che parla invece di una consegna all’ambasciata sovietica di Roma, al suo invio a Mosca e poi a Togliatti (C. Daniele, a cura di, «Togliatti editore di Gramsci», introduzione di G. Vacca, Carocci, Roma 2005, pp 14-29). La loro curatela sarà affidata dal leader comunista a Felice Platone, «che Gramsci aveva rimproverato per la sua cronaca infedele di un delitto»: una falsità attribuita ad un giovane cronista, che descrive invece il delitto di una donna con dovizia di particolari, specificando la causa legata all’eredità e fornendo i nomi degli autori, i fratelli Cogo, con «particolari emozionanti e persino illustrate con disegni raffiguranti la casa della vittima, il cammino seguito dagli assassini, i momenti dell’aggressione e delle successive simulazioni difensive» (si veda C. Ravera, «Diario di trent’anni 1913-1943», cit., p. 102).
    L’ultima parte dell’articolo informa sic et simpliciter che il libro contiene le testimonianze di Massimo D’Alema, Walter Veltroni, Piero Fassino (citato quattro volte), Cesare Salvi (tre volte), Nicola Zingaretti (quattro volte), senza dire quale sia il loro contributo per concludere con una notizia su Togliatti, ricavata dall’intervista di Terracini che per l’insigne giornalista albese deve essere segnalata per aver demolito il mito di Togliatti interventista durante la Grande guerra.


     

  • STORIA DI BALBO
    GOVERNATORE DELLA LIBIA
    SUO MALGRADO

    data: 19/10/2020 23:05

    Su Italo Balbo, l’uomo che il 1° gennaio 1934 succede a Pietro Badoglio come governatore della Libia, sono stati scritti libri e saggi, alcuni attendibili e altri agiografici volutamente diretti ad esaltare colui che è considerato uno dei massimi esponenti del fascismo più intransigente. Per quasi sette anni Balbo governa la Libia, che diviene nel dicembre dello stesso anno una colonia unica. Fino ad allora essa, divisa nei territori di Cirenaica e Tripolitania, è sempre dipendente da Roma, ma mantiene la fisionomia di due colonie distinte. Il suo desiderio di unificare le due realtà territoriali fu comunicato a Mussolini il 15 gennaio, cioè lo stesso giorno di arrivo a Tripoli, quando con enfasi gli comunica di aver dato «inizio al suo nuovo lavoro al grido di Viva il Duce» (2, p. 293) 

    Il servile atto di devozione può essere considerato una palese manifestazione di ipocrisia, che nasconde sentimenti di ostilità verso Mussolini, responsabile di averlo destituito da ministro dell’Aeronautica per inviarlo nelle lontane terre dell’Africa. Le confidenze telefoniche a Emilio De Bono e a Renzo Chierici, regolarmente stenografate dal Servizio intercettazioni, rivelano un Balbo pieno di «collera e di dolore» per la decisione del duce di «levarselo dai piedi» (2, pp. 287 e 289).
    Come è confermato dagli spostamenti compiuti da Balbo nel corso del 1934 e ricavati dal «Notiziario Informazioni» della Colonia, Balbo non gradisce il nuovo incarico e rimpiange le vivaci feste con i suoi ufficiali nel castelletto di Punta Ala nel Grossetano, di proprietà dell’aeronautica. Eppure egli gode di lauti emolumenti e di uno ricco stipendio, la cui entità si aggirava oltre a 600 mila lire annue, assommando quello di comandante della milizia generale, di maresciallo dell’aria e del nuovo incarico come governatore dell’Africa.
    Una volta assunto il ruolo di governatore, Balbo riorganizza l’amministrazione libica e si oppone alle ingerenze della burocrazia ministeriale, che su invito di Emilio De Bono cerca di limitare il suo potere. Così egli suddivide la colonia in quattro province (Bengasi, Derna, Misurata e Tripoli), affidate ai prefetti diretti personalmente da Balbo, senza possibilità alcuna di appellarsi al ministero. Nella medesima situazione si trovano le altre cariche della colonia come il segretario generale, il comandante delle truppe coloniali e il comandante del territorio militare del sud libico. Solo nel gennaio 1935, quando il piano militare per la guerra d’Etiopia era stato già definito, diminuiscono gli attriti tra De Bono e Balbo, che scompariranno nel 1938 con l’introduzione delle leggi razziali (1, p. 242).
    Negli anni del suo governatorato Balbo si circonda di una corte di amici fedeli, che sono convinti a stabilirsi in Libia. Si trasferiscono a Tripoli fascisti come Renzo Chierici ed Enrico Caretti, ex federali di Ferrara; amici delle trasvolate come Stefano Cagna, Gino Cappannini e Giuseppe Berti; Corso Rino Faugier e Ivo Levi. A questi ultimi affida cariche prestigiose: a Faugier l’aeronautica libica e a Levi l’arma dei carabinieri. In questa intensa ricerca di amici, Balbo svolge una frenetica attività, ispirata ad un paternalismo venato spesso da reazioni razziste. Tuttavia accoglie le proposte amministrative dei funzionari Maurizio Rava e Giuseppe Daodiace, entrambi conoscitori della complessa realtà libica. Su consiglio dei due funzionari egli istituisce due organismi denominati Gal (Gioventù araba del Littorio) e i «Campi ragazzi» sul modello delle associazioni giovanili fasciste italiane. Essi si ispirano alla dottrina fascista, proponendosi come funzione quella di impartire ai giovani nozioni militari per prepararli alle future guerre coloniali, ossia all’arruolamento nei battaglioni di ascari libici. Tuttavia entrambi gli organismi si rivelano ben presto un semplice espediente diretto a perpetrare la netta separazione tra arabi e italiani. Secondo le autorità fasciste essi, che entrano in funzione il 1° novembre del 1936 nelle località di Ghat, Murzuk e Hon, hanno un’istruzione militare, ricevono un sostegno alimentare e vestiario per i più bisognosi.
    Accanto a questa attività filolibica, Balbo istituisce anche l’ETAL con lo scopo di costruire nuovi alberghi in grado di incrementare il turismo in Libia, di promuovere fiere commerciali e manifestazioni sportive. Il flusso turistico, che passa dai 7209 visitatori del 1929 ai 43.674 del 1938, ha un carattere elitario e una varietà sociale di personalità, composta da ricercatori, da archeologi e da ingegneri. L’ex ministro si impegna a trasferire sulla «quarta sponda» migliaia di coloni, senza ottenere risultati positivi se si considera che nel 1937 insedia solo 1299 famiglie. Il sistema di colonizzazione, a cui ispira la sua attività, intende promuovere la piccola proprietà contadina e la diretta coltivazione dei campi da parte degli agricoltori. Sulla base della legislazione vigente, che prende avvio con l’istituzione dell’Ente per la colonizzazione della Cirenaica-EcC (RDL, 11 giugno 1932/n. 696), Balbo utilizza una quantità enorme di denaro per attuare progetti di trasformazione agricola, che si riveleranno un completo fallimento. Alla somma contemplata nel regio decreto si aggiunge nel 1935 un fondo di 75 milioni, che gli permette di ampliare le funzioni dell’EcC, trasformato al suo insediamento in Ente per la colonizzazione della Libia (EcL), e di richiamare nuove famiglie con lo scopo di equilibrare la popolazione italiana con quella araba.
    Il viaggio di Mussolini in Libia, compiuto dal 12 al 19 marzo 1937, convince il duce che il Gebel cirenaico sia un territorio fertile, su cui bisogna investire per la possibilità che esso presenta nell’offrire nuove prospettive di lavoro agli Italiani; per questo motivo avvia una nuova legislazione, che con l’entrata in vigore del RDL (17 maggio 1938/n. 701) riconosca «l’urgente e assoluta necessità di adottare misure straordinarie per sostenere la colonizzazione demografica». Alcuni giorni dopo Balbo annuncia il progetto e dà l’incarico di costruire decine di villaggi e centinaia di case coloniche, mentre l’Ente colonizzatore provvede a concedere 1800 nuovi appezzamenti di terreni.
    Queste iniziative, trasformate in un imponente spettacolo dell’immigrazione italiana verso la «quarta sponda», offrono la possibilità a Balbo di porre in evidenza il suo nome nelle campagne pubblicitarie dirette ad esaltare l’Impero e il lavoro italiano nel mondo. Il legame personale con Mussolini comincia ad affievolirsi per diventare un vero e proprio contrasto nell’annuncio dell’Italia in guerra, avversata da Balbo per le potenzialità statunitensi e per la sua realistica visione dei rapporti di forza italo-tedeschi con i nemici del regime mussoliniano. Ciò non gli impedisce di partecipare al conflitto e alla cattura di un aereo inglese che gli provoca la morte il 28 giugno del 1940 nel cielo di Tobruk: il suo aereo (un S. 79) viene abbattuto per errore dal fuoco italiano.

    Bibliografia
    1. A. Del Boca, Gli Italiani in Libia dal fascismo a Gheddafi, Laterza, Roma-Bari 1988.
    2. G. Bruno Guerri, Italo Balbo, Mondadori, Milano 1998.
    3. G. Rochat, Italo Balbo. Lo squadrista, l’aviatore, il gerarca, Utet, Torino 2003.
    4. Claudio G. Segrè, Italo Balbo, il Mulino, Bologna 2000.

     

     

     

  • LA MOSTRA SU BALBO
    E GLI INTERVENTI IMPROPRI
    DI SGARBI E COMPAGNI

    data: 06/10/2020 13:54

    L’Italia attraversa una grave crisi culturale, basti leggere gli articoli storici pubblicati quotidianamente dai giornali per rendersi conto della decadenza generale che caratterizza ogni settore dello scibile umano. Quello più bistrattato riguarda la storia del Fascismo e dei suoi personaggi, asservita ancora ad usi ideologici e piegata ad interessi politici. Su «Libero», quotidiano diretto da Vittorio Feltri, è uscito un «pezzullo» – così è chiamato nell’Italia meridionale un articolo di scarso valore culturale – con il pomposo titolo «Contestato nella sua Ferrara. Celebrato da eroe in America» (29 settembre 2020). L’autore, Gianluca Veneziani, trae spunto dall’articolo di Daniele Dell’Orco: «Se Balbo fa ancora paura. Vittorio Sgarbi annuncia una mostra sull’aviatore italiano. Ma c’è chi insorge (non conoscendo la vera storia di Italo Balbo»), in «il Giornale», 28 settembre 2020.

    Nel «pezzullo» di Dell’Orco si rimane sbigottiti per l’affermazione contenuta nel titolo, secondo cui i contrari alla mostra sono tacciati di ignoranza, mentre l’articolista non dimostra di conoscere la vicenda politica di Italo Balbo, riducendola solo alla sua passione per il volo. Egli dà la notizia di una mostra dedicata a Balbo su iniziativa di Vittorio Sgarbi «in collaborazione con la direttrice dell’Istituto di Storia contemporanea, Anna Maria Quarzi»: notizia poi ripresa da Veneziani nel suo «pezzullo» e smentita da Sgarbi in un articolo uscito il 4 ottobre 2020 sul medesimo quotidiano, là dove afferma: «Né avrei mai pensato di collaborare con lei, come non ho fatto in tanti anni» (V. Sgarbi, «La mostra contestata. Sorvoliamo le polemiche e ricordiamo Italo Balbo», in «il Giornale», p. 29). Il critico d’arte si contrappone così alla direttrice dell’Istituto di Storia contemporanea di Ferrara, precisando che la mostra su Balbo è stata «affidata alla cura del massimo studioso del personaggio Giordano Bruno Guerri» per il ruolo che egli ricopre come presidente dell’istituzione Ferrara Arte.
    A questo punto sorgono spontanee due domande: «perché Sgarbi e i due giornalisti invadono un territorio – quello storico – che non rientra nella sfera delle loro competenze?». È vero che Bruno Guerri è autore di una biografia su «Italo Balbo» (Milano 1984; II ed. 1998, pp. 458), ma attribuirgli la patente di «massimo storico del personaggio» è una palese forzatura per la notevole quantità di omissioni in cui incorre più volte nella presentazione dello squadrista emiliano. Giordano Bruno Guerri omette di approfondire le scaturigini del suo potere a Ferrara e non apporta alcun contributo alla conoscenza dei rapporti tra Balbo e Mussolini, sbagliando persino nomi, date ed incarichi del personaggio. Piuttosto che un vero storico, Bruno Guerri può essere considerato un pubblicista che svolge il mestiere di scrivere la storia in un’ottica divulgativa, agiografica e spesso frettolosa e fuorviante.
    Negli articoli di Dell’Orco e di Veneziani, ripetitivi e semplicistici, emerge un’immagine falsa di Balbo, che viene definito un «italiano positivo» sulla scia di un giudizio frettoloso di Sgarbi. Essi si improvvisano storici e danno un’immagine distorta di Italo Balbo, che cozza persino con quella rievocata dallo stesso Mussolini. In un discorso commemorativo di Italo Balbo, pronunciato il 28 giugno 1941, il duce ricordò: «Per ventisei anni egli è stato, in un primo tempo il mio discepolo, in un secondo tempo il mio seguace, e, in un terzo tempo il mio intimo collaboratore- Era appena un ragazzo quando, nel tempestoso inverno del 1914-1915, si presentò a Milano, alla redazione del “covo”. Il “covo” era effettivamente un covo, dove i giovani lupi della nuova Italia si preparavano ad eliminare le pecore pacifondaie che volevano ancorarsi all’onta e al disonore del “parecchio” di giolittiana memoria. Scoppiata la guerra, Italo Balbo partì volontario e fece tutta la guerra da alpino; alpino era sempre un poco rimasto per il suo desiderio delle altitudini eccelse. Finita la guerra, si trattava di rivendicare la vittoria e sorse il fascismo: due anni, tre anni di dure battaglie, di scontri sanguinosi, durante i quali migliaia di martiri fascisti caddero sulle strade e sulle piazze d’Italia. Italo Balbo fu lo squadrista-capo della Valle Padana».
    Così negli articoli di Dell’Orco e di Veneziani viene taciuto il ruolo che egli svolse al servizio degli agrari per usufruire di uno stipendio sovvenzionato dai proprietari terrieri con lo scopo ben preciso di reprimere le lotte contadine. Viene taciuto il motivo per cui Balbo sostenne il fascismo, la cui adesione fu dettata da questo interesse mercenario, che dispiegò nel Ferrarese con modi rozzi e violenti. Viene taciuto il suo ruolo durante la marcia su Roma (ottobre 1922) e la sua rapida carriera politica: segretario dei Fasci dal 14 febbraio 1921, segretario provinciale a luglio, organizzatore di una spettacolare marcia su Ravenna a settembre, comandante della Milizia nel gennaio 1922, membro della direzione del Partito nazional-fascista a maggio dello stesso anno, membro del Gran Consiglio (gennaio 1923) e deputato (aprile 1924).
    Come capo dello squadrismo, Balbo rimase coinvolto nelle violenze come l’aggressione contro Alfredo Misuri (1886-1951) o quella perpetrata contro don Giovanni Minzoni (1885-1923), le cui vicende sono state ricostruite in modo sommario da Giordano Bruno Guerri («Italo Balbo», Milano 1998, pp. 160-171). Attraverso la ferrea amicizia con l’ebreo Renzo Ravenna (1893-1961), ricordato da Veneziani per scagionare Balbo da ogni forma di antisemitismo, egli consolidò il suo potere, favorendone l’ascesa politica sino a farlo nominare podestà nella città estense. Con l’ausilio dell’amico israelita e quello di Nello Quilici (1890-1940) avviò una serie di iniziative per corroborare la vita culturale e artistica di Ferrara: organizzò le celebrazioni ariostesche del 1933 e fece conoscere la pittura cittadina fuori dagli angusti spazi cittadini.
    Dalla passione verso la pittura nasce l’interesse di Sgarbi, che nell’articolo citato ricorda l’amicizia con entrambi, ma precisa che la mostra è stata «programmata da Ferrara Arte» e il suo ruolo si è svolto contro ogni manipolazione del personaggio con la massima obiettività storica e «nel rigore di una ricerca storica documentata e corretta, senza pretese agiografiche o celebrative». Rimane però la presentazione di Balbo come grande aviatore che per Sgarbi raggiunge le vette più elevate «nelle imprese aeronautiche, culminate nella Trasvolata dell’Atlantico, proiettata in una dimensione mitologica». Le lodi di Sgarbi verso Balbo come politico e ministro sono evidenziate nella prima del suo articolo, laddove mette in risalto la sua attività come sottosegretario al ministero dell’Aeronautica (1926), il suo «compito di creare una vera forza aerea militare» e il «riconoscimento … nel 1928 con la promozione a generale di squadra aerea, seguita qualche mese dopo dalla nomina a ministro dell’Aviazione».
    Circoscritta la presentazione in un’immagine agiografica del personaggio, Sgarbi mette in rilievo come negli anni 1930-1933 Balbo si misurò «vittoriosamente come trasvolatore, guidando dapprima una squadra di idrovolanti da Orbetello a Rio de Janeiro e, successivamente, un’altra squadra dall’Italia al Canada e poi negli Stati Uniti, dove è accolto trionfalmente». Così il critico ferrarese dimentica di dire che Balbo strumentalizzò i suoi meriti – fu nominato maresciallo dell’Aria – e dileggiò i suoi avversari e derise persino il duce, che si sbarazzò di lui e lo inviò a Tripoli come governatore della Libia. Nel gennaio 1934 Mussolini lo nominò governatore di Tripolitania e Cirenaica non per invidia o timore, ma per mancanza di fiducia verso un uomo portato al pettegolezzo, spinto alla bramosia di potere e alla sua aspirazione di «diventare il numero due del regime con la nomina di stato maggiore generale» (G. Rochat, «Italo Balbo. Lo squadrista, l’aviatore, il gerarca», Torino 2003, p. 235).
    Negli anni trascorsi in Libia, Balbo trascorse un dolce esilio, organizzando partite di caccia, giochi mondani, lussuosi festini e sfarzosi banchetti con la presenza di belle donne. Il suo paternalismo lo portò a governare come un viceré in una frenetica attività non esente da intuizioni felici come le trivellazioni del terreno per la ricerca del petrolio, gli scavi archeologici, le posizioni antirazziste e la sua avversione per l’alleanza tedesca. Forse per questo motivo il duce lo fregiò del curioso epiteto di «porco democratico», ricambiando le maldicenze di Balbo volte a screditare le scelte belliciste dell’Italia fascista. Nondimeno, il 28 giugno 1940, di ritorno da un volo solitario, fu preso di mira dalle batterie controaeree che lo abbatterono a cannonate. Con lui, nel rogo di Tobruck, morirono otto persone tra equipaggio, parenti e collaboratori. Forse per questo vale la pena concedere ai suoi nostalgici e ammiratori il permesso di organizzare una mostra che possa essere di insegnamento alle nuove generazioni.



     

  • QUANTI FILM ISPIRATI
    ALLA "COMMEDIA" DI DANTE
    DAL 1907 AD OGGI

    data: 29/09/2020 18:02

    Nell’ultimo mese la figura di Dante Alighieri (1265-1321) è tornata alla ribalta per il settecentesimo anniversario della sua morte. Essa è stata ricordata il 5 settembre a Ravenna dal presidente della Repubblica con la sua visita alla tomba del sommo poeta e con un concerto musicale per l’apertura dell’anno celebrativo. Eventi musicali, riedizioni delle sue opere, articoli di giornali, letture pubbliche dei canti si sono susseguiti in un vortice di iniziative che ha coinvolto anche il mondo del cinema.
    L’ultimo «docufilm» è quello di Louis Nero (pseudonimo di Luigi Bianconi), il regista torinese che ha riproposto la «Divina Commedia» con i premi Oscar F. Murray Abraham e Taylor Hackford, in un’ottica esoterica sulla scia di alcune opere come «L’esoterismo di Dante» (edizione francese 1925) di René Guénon e «Il linguaggio segreto di Dante e dei “Fedeli dell’Amore”» (1928) di Luigi Valli. L’interpretazione allegorica di Dante è così ricollocata da Louis Nero in una lunga tradizione, dove suggestioni e contenuti della «Commedia» viaggiano sullo schermo sin dagli albori della storia del cinema.
    Tuttavia la «Commedia» attrasse già il cinema americano nel 1907 con un corto metraggio di 10 minuti a soggetto dantesco «Francesca da Rimini» («The Two Brothers» di William V. Ranous, cui seguirono quelli di Mario Marais, Ugo Folena e Stuart Blackton. Nel 1908 Marais riprende il personaggio Francesca da Rimini, che riscuote largo successo di pubblico, mentre l’anno successivo Ugo Folena affida il ruolo a Francesca Bertini, grande attrice italiana. Nel 1910 segue la versione di James Stuart Blackton, remake interpretato da Florence Turner, sulla scia della tragedia di Gabriele d’Annunzio. Ma la fonte rimane il V Canto dell’Inferno, là dove Dante dedica a Francesca pagine insuperabili sulle «anime dei dannati per lussuria», portati da una «bufera infernale», suscitatrice di una immediata pietà.
    Nel 1911 si ebbero ben due produzioni dedicate all’Inferno: quello prodotto dalla Milano Films e l’altro della Helios Film. «L’Inferno» dell’azienda milanese, diretto da Francesco Bertolini e da Adolfo Padovan, fu il primo cortometraggio uscito in Italia (65 minuti di durata), mentre quello della Helios Film di Velletri si pose come antagonista in un versione più attrattiva per la scena di Francesca a seno nudo. L’anno successivo uscì anche il «Purgatorio», mentre Giovanni Pettine realizzò un «Paradiso» per la casa di produzione Psiche.
    Nel 1921 esce «La mirabile visione» di Luigi Sapelli, che ricostruisce in modo suggestivo luoghi e personaggi del poema dantesco. Altro film è «Dante nella vita dei tempi suoi» (1922) del regista torinese Domenico Gaido, che fonde riferimenti storici con la vita del poeta e la tragedia di Piccarda Donati. L’uscita di entrambi i film coincisero con la sesto centenario della morte di Dante, la cui celebrazione fu avviata durante il regime con il beneplacito di Giovanni Gentile. Il filosofo siciliano rese obbligatoria la lettura di Dante, imponendo agli studenti le sue tre cantiche come materia d’esame al termine della scuola secondaria. Una scelta ideologica e politica, che – enfatizzata nei licei del Ventennio fascista – condizionò l’immagine del sommo poeta nel cinema. La lettura dantesca fu così improntata al nazionalismo corradiniano e riattualizzata nella versione idealistica di Gentile.
    Del 1926 è «Maciste all’inferno» di Guido Brignone, uno dei film più interessanti girato durante il regime fascista, la cui trama si muove tra superomismo e futurismo, quasi ad incarnare il nuovo uomo virile fascista. Essa, tratta da un episodio dell’Inferno di Dante, ebbe largo successo per l’audacia nella realizzazione e per la capacità a presentare un evento mitologico con enfasi spettacolare. Per Massimiliano Chiamenti, interprete fine e grande studioso di Dante suicidatosi il 3 settembre 2011, il film presenta una serie di reminiscenze dantesche: «il nome Barbiccia, i diavoli crocefissi al terreno come Caifas o con la testa staccata come Bertarn de Born ecc.), ma si tratta di un Inferno di soli eserciti di diavoli senza dannati, ibridato con l’Ade classico, e contrapposto di invenzioni della modernità, quali grattacieli, aeroplani e perfino una sorta di telivisore».
    Durante il secondo conflitto mondiale furono prodotte diverse pellicole sui personaggi danteschi come Pia de’ Tolomei (1941) e, alla conclusione, Il Conte Ugolino (1949) e Paolo e Francesco (1950). Dal dopoguerra fino ai nostri giorni, il cinema ha sempre guardato con interesse al poema dantesco, alcune volte con usi ad effetto come nel film di John Guillermin «L’inferno di cristallo» (1974), dove il grattacielo in fiamme sembra presagire l’11 settembre; oppure con aderenza al testo come nello sceneggiato televisivo «Vita di Dante» (1965), con Giorgio Albertazzi nella persona di Dante oppure nel film «Dante» (2014) di Luca Lussoso, che ripropone il poema in chiave moderna per riflettere sul vissuto quotidiano, intriso di cattive e buone azioni.

     

     

     

     

  • CENTOCINQUANT'ANNI FA
    LA BRECCIA DI PORTA PIA

    data: 17/09/2020 18:18

    Il 20 settembre 1870 è la data della presa di Roma da parte delle truppe italiane. Esso segna la fine del potere temporale dei papi e il passaggio della città al ruolo di capitale. Su questo evento storico sono usciti i libri di Carlo Fracassi («La Breccia di Porta Pia. 1870: le passioni, gli inganni, il papa, il re», Milano 2020, pp. 300) e di Vittorio Vidotto («20 settembre 1870», Roma-Bari 2020, pp. 224), entrambi interessanti per comprendere lo svolgimento di un’azione definita da Hubert Heyriès una vera e propria «ossessione» nel suo libro «La breccia di Porta Pia» (Bologna 2020, pp. 224).

    Per secoli gli italiani avevano guardato a Roma come centro del cattolicesimo. Da Petrarca a Machiavelli e a Mazzini il potere temporale della Chiesa era visto come il maggiore ostacolo dell’unità nazionale. Per questo motivo il rilievo di Roma come cuore dell’Italia aveva spinto in questa direzione, ma la decisione di occupare Roma fu assunto dal ministro degli Esteri Emilio Visconti Venosta nel gabinetto guidato da Giovanni Lanza. Egli, ormai convinto dell’inutilità dei mezzi pacifici, approfittò dell’isolamento del pontefice per impedire un intervento delle potenze europee e procedere così all’occupazione italiana di Roma.

    Di fronte all’assoluta intransigenza di Pio IX, deciso a non cedere il potere temporale, concorsero varie circostanze per rendere Roma capitale di un nuovo Stato moderno. L’atteggiamento neutrale dell’Italia nel conflitto franco-prussiano, la proclamazione della Repubblica francese e i timori suscitati dai tentativi insurrezionali di Giuseppe Mazzini spianarono la strada verso Roma. Il rifiuto pontificio di consegnare le chiavi del Quirinale e il successivo anatema contro il sovrano come «nuovo Attila» provocarono una battaglia, che portò alla morte di 48 italiani e 19 soldati difensori del futuro stato vaticano. Nello scontro tra le truppe italiane e quelle papaline, le une comandate da Raffaele Cadorna e le altre da Hermann Kanzler, vi furono anche molti feriti in entrambi gli schieramenti. Il barone Kanzler, entusiasta sostenitore di Pio IX, proveniva dal Buden e aveva sposato Laura Vannutelli, discendente di una antica e influente famiglia nobiliare.

    L’ordine di aprire il fuoco fu dato da Giacomo Segre (1839-1894), un capitano chierese di origine ebraica che comandava la V batteria pesante del IX reggimento di artiglieria. Alle 5,20 del 20 settembre ordinò di sparare per primo contro il centro della cristianità, cui seguirono subito dopo gli spari del VII reggimento comandato dai capitani Buttafuochi e Malpassuti. Più che agli 888 colpi sparati per aprire la breccia di Porta Pia e dare avvio al processo che trasformò Roma da capitale dei papi a quella dell’Italia unita, Vidotto sottolinea come l’iniziativa dell’israelita sia stata considerata in seguito «come un espediente per evitare i fulmini della scomunica del Papa sugli ufficiali cattolici». Lo storico milanese apre un capitolo nuovo nella conoscenza di quell’evento storico per comprendere il comportamento militare di Cadorna, i suoi contrasti con Nino Bixio e la difesa dell’assetto proprietario delle ville sparse nel territorio papalino.

    Nella parte relativa a questi episodi, Fracassi espone i diverbi tra Luigi Cadorna (1815-1897) e Nino Bixio (1821-1873) e gli strascichi successivi che ebbero una larga eco nei gli anni successivi alla presa di Roma. Proprio alla morte di Bixio, Giuseppe Guerzoni diede alle stampe un volume sulla sua vita per difenderlo dalle accuse che circolavano sul suo comportamento militare (G. Guerzoni, «La vita di Nino Bixio», Firenze 1875), mentre Cadorna pubblicò le proprie memorie, accusando il «suo odiato rivale» di avere provocato «incendi e danni» nelle più lontane zone di Trastevere, anche dopo la cessazione degli scontri (C. Fracassi, «La breccia di Porta Pia» cit., che rinvia a R. Cadorna «La liberazione di Roma nel 1870…», Torino-Roma-Napoli 1889).
    Sulle critiche di Cadorna all’operato di Bixio intervenne Cesare F. Ricotti Magnani (1822-1917), ministro della guerra durante la presa di Roma, che in un libretto difese il suo amico appena scomparso. Fatto sta che anche dopo la morte di Bixio avvenuta in Indonesia a causa della febbre gialla (dicembre 1873), Cadorna ritornava costantemente nelle sue critiche aspre all’ex garibaldino genovese. Una critica che influenzò la nomenclatura politica del tempo, come si evince dal necrologio che Domenico Farini (1834-1900) come presidente del Senato dedicò a Raffele Cadorna:
    «Il saggio consiglio, gli opportuni avvedimenti di che aveva ripetutamente fatto così buona prova gli procurarono il sommo onore, la fortuna di comandare le cinque divisioni che nel 1870 liberarono Roma. Missione più politica che militare, una gran mostra di forze ne risparmierebbe l'uso. Le operazioni di guerra non dovevano in ogni caso addensare nembi che, a cose quiete, si muterebbero in procella. Alla peggio lo scoppio delle armi sarebbe colpa dell'accozzaglia cosmopolita che, sotto colore di religione si era attribuita una iniqua inframettenza. Più che abbattere le mura e sgominare i papalini che in armi le guarnivano bisognava vincere i pregiudizi, rassicurare gl'interessi all'ombra dei quali la temporale signoria dei chierici, all'Italia infesta, aduggiava la chiesa, accorava i sudditi. Merito del Cadorna se il fragore della grande caduta fu salutato come esplosione liberante l'Europa dagli allarmi e dai rischi d'un permanente pericolo: merito di lui i primi passi alla soluzione del pauroso problema, il fondamento delle provvisioni per le quali la città eterna fu alla nazione restituita».

    Conquistata la città con la famosa Breccia di Porta Pia, i governi cercarono di risolvere la «questione romana» prima con la legge delle guarentigie (1871) e poi con i Patti Lateranensi (1929) per chiudere il conflitto con il papato. L’evento fu sempre ricordato da sparute minoranze, che rimasero fedeli al messaggio cavouriano della «libera Chiesa in libero Stato» e ad una concezione laica dello Stato. Il quarantesimo anniversario di Porta Pia sarà celebrato nel 1910 dal sindaco di Roma Ernesto Nathan (1845-1921), discepolo di Giuseppe Mazzini ed esponente della Sinistra repubblicana. Nel suo discorso del 20 settembre egli si rivolge al nuovo pontefice Pio X e denuncia il «fortilizio del dogma» e il «regno dell’ignoranza», preannunciando il cinquantenario dell’Unità d’Italia e rivolgendosi così ai cittadini romani: «E se di nuovo io m’indirizzo a Voi da questo storico luogo è per volontà vostra, da poco manifestata col vostro suffragio; voleste che la Voce dell’Amministrazione popolare risonasse di nuovo qui, e questa rappresentanza voleste nell’anno quando da ogni lato d’Italia e da fuori, dai due emisferi, connazionali e stranieri si recheranno qui in pellegrinaggio per rammemorare il giorno in cui, mezzo secolo fa, il Parlamento subalpino, nella certa visione dei destini nazionali, Roma rivendicò Capitale dell’Italia nuova».

    Nei diciannove anni successivi, caratterizzati da due conflitti (quello libico e la Grande guerra) e dall’ascesa al potere del fascismo, spetterà a Benedetto Croce (1866-1952) tenere alto il valore della data del XX settembre: si oppose infatti ai disegni di legge riguardanti l’esecuzione del Trattato e del Concordato fra la Santa sede e l’Italia. Tuttavia, nei cento cinquant’anni che ci separano da quell’evento storico, sembra che la memoria collettiva si sia stemperata per essere ripresa negli ultimi lustri grazie al lavoro di storici come Stefano Tomassini, Claudio Pavone, Hubert Heyriès, Antonio Di Pierro e Vittorio Vidotto.

     

  • IL TRAFORO DEL FREJUS:
    ALCUNI ERRORI STORICI

    data: 20/08/2020 18:44

    Sul «Corriere Torino», inserto quotidiano del «Corriere della Sera», del 13 agosto 2020 (p. 8) è uscito un articolo sul traforo del Fréjus. Esso deve essere segnalato per gli errori storici in esso contenuti. L’autrice Giorgia Mecca riporta un brano del discorso di Camillo Benso di Cavour, considerato «presidente del consiglio del Regno d’Italia»: «Io nutro ferma fiducia che voi coronerete la vostra opera con la più grande di tutte le imprese moderne col deliberare il perforamento (del Moncenisio)».

    In realtà il discorso fu pronunciato il 27 giugno 1857, quando Cavour ricopriva la carica di presidente del governo subalpino. Scrive poi l’autrice che si trattava di «una grande opera che venne paragonata dai giornali al Canale di Suez inaugurato qualche anno prima». Il Canale fu invece inaugurato a Porto Said il 17 novembre 1869 con una cerimona sfarzosa per la quale Johann Strauss compose la «Marcia Egizia». Il progetto di un traforo ferroviario fu ideato da Giuseppe Francesco Médail (Bardonecchia, 24 settembre 1784 – Susa, 6 novembre 1844) già nel 1832 (e non nel 1839), anche se esso fu presentato al re Carlo Alberto nel 1840: esiste una sua edizione in francese con il titolo Projet de percement des Alpes entre Bardonnèche et Modane, Lyon 1841.

    Tredici anni dopo la morte di Mèdail, gli ingegneri Sebatiano Grandis, Severino Grattoni e Germano Sommeiller ripresero il progetto che fu approvato definitivamente il 5 luglio 1857 dopo il famoso discorso di Cavour: nulla di tutto ciò, nonostante che esista il libro Tre ingegneri per un traforo. La storia della ferrovia del Fréjus (Melli, Borgone Susa 1998) di Corrado Lesca. 

  • EMINESCU, IL PIU' GRANDE
    POETA ROMENO
    CHE IN POCHI
    CONOSCONO IN ITALIA

    data: 03/08/2020 15:21

    Considerato il più grande poeta romeno del secolo XIX, Mihai Eminescu è poco conosciuto in Italia. Sul personaggio e sulla sua poetica esistono infatti pochi studi, tra i quali meritano di essere segnalati quelli di Carlo Tagliavini e di altri come Mario Ruffini, Rosa Del Conte, Giuseppe Manitta e di Elio M. Salti, che ha riproposto di recente le sue «Poesie» (Maria Pacini Fazzi, Lucca 2019, pp. 91).
    Mihai Eminescu (Eminovici il suo vero cognome), assurto post mortem a simbolo della poesia romena, nacque il 15 gennaio 1850 a Ipoteşti (Moldavia) e morì il 15 giugno 1889 dopo una vita piena di dolori e di sofferenze. Nato in una famiglia numerosa: fu il settimo di undici fratelli spentisi quasi tutti di tubercolosi. Questa malattia, che colpì anche il poeta in tarda età, spiega in parte il suo offuscamento mentale negli ultimi anni di vita.
    La ferrea disciplina scolastica, a cui venne sottoposto sin dalle elementari nella scuola tedesca di Cernăuţi - una cittadina della Bucovina allora sotto il dominio austriaco - farà di Eminescu un ribelle, contrario a ogni forma disciplina. La sua prima evasione scolastica risale al 1860, quando egli frequentò il ginnasio tedesco: fu infatti sempre considerato un allievo difficile per la sua vivacità e irrequietezza. Neppure la conoscenza del filologo Aron Pumnul, a cui si sentì legato da un forte legame affettivo, riuscì a inculcargli l’amore per una vita ordinata. Abituato alla libera vita dei campi e insofferente alla disciplina collegiale, Eminescu compì una seconda fuga nel 1863 al seguito di una compagnia teatrale, che seguì in Transilvania divenendo persino il suggeritore di questa troupe. Attratto più dallo spettacolo che dalla scuola, il giovane Eminescu visse alcuni anni di vagabondaggio, le cui tappe furono Sibiu, Blaj e Giurgiu, dove fece i lavori più disparati per sopperire alle necessità più elementari.
    Nell’autunno 1865 il giovane ritornò con il proposito di continuare gli studi ginnasiali a Cernăuti, dove venne accolto in casa da Aron Pumnul, ben noto per il suo patriottismo a favore dell’annessione della Transilvania e della Bucovina alla Romania. Ma, per disgrazia del giovanetto, Aron Pumnul morì il 24 gennaio 1866: alla sua memoria il grande poeta romeno dedicò la prima poesia pubblicata in un foglio volante commemorativo. Nello stesso periodo inviò alcune sue poesie sulla rivista Familia diretta da Iosif Vulcan, che non contento della terminazione slava del suo cognome (Eminovici) lo trasformò e lo romenizzò in Eminescu: un fatto che non infastidì il poeta, che da allora firmò così i suoi scritti. Imbattutosi in un’altra compagnia teatrale, quella di Jorgu Caragiale, egli fu ingaggiato come suggeritore e copista. Dopo aver girovagato in diversi paesi della Romania sino al 1868, il padre riuscì a rintracciarlo e lo costrinse a riprendere gli studi. Così il 2 ottobre 1869 si recò a Vienna dove frequentò la facoltà di filosofia dell’Università Rudolfina seguendo le lezioni di Herbart, i corsi di diritto romano e quelli di grammatica italiana del Cattaneo. Ma neppure a Vienna Eminescu riuscì a placare la propria irrequietezza: frequentò come uditore diversi corsi e si abbandonò a una serie di letture disordinate e «forsennate» senza un piano armonico e preordinato. Nel 1872 lasciò Vienna per proseguire i corsi a Berlino grazie al sostegno della società letteraria «Junimea». Alcuni soci compresero infatti la genialità del giovane poeta e si offrirono ad aiutarlo negli studi, oltre a pubblicare nella loro rivista Convorbiri literare le sue poesie (Venere şi Madona, Epigonii, Mortua est).
    Nel periodo berlinese Eminescu studiò Kant, di cui tradusse La Critica della ragion pura, e sottopose a una interpretazione personale la filosofia di Schopenhauer e di Hegel. Nonostante una grande passione per la filosofia e un vivo interesse per altre discipline come l’economia e la storia politica, egli non volle conseguire la laurea, forse per non tradire la sua coscienza pervasa da una tensione spirituale e da un afflato etico, alieno ad ogni forma di schematismo culturale e di dogmatismo filosofico.
    Al suo ritorno a Iaşi le necessità economiche spinsero Eminescu ad assumere diversi incarichi grazie al sostegno di Titu Maiorescu: fu bibliotecario all’università, ispettore scolastico e poi redattore del “Curierul de Iaşi”, una specie di gazzetta ufficiale della Corte di Appello, sulla quale pubblicò alcune sue novelle (Cezara, La aniversara). Durante la sua permanenza nella cittadina romena, egli allacciò una relazione con Veronica Micle, giovane poetessa che esercitò un grande influsso sulla sua attività poetica.
    Ma alla fine del 1877 si trasferì a Bucarest presso la redazione del giornale «Timpul», sulle cui colonne intraprese un’opera di moralizzazione contro gli ambienti politici. La sua attività pubblicistica, diretta soprattutto a difendere le tradizioni culturali della Romania, non fu ben accolta dagli intellettuali asserviti agli interessi del partito governativo, con il quale ebbe feroci polemiche, che lo prostrarono nel fisico e nello spirito. A causa della sua malattia e dei suoi molteplici sforzi mentali, Eminescu trascorse il resto della sua vita in diversi ospedali, alternando momenti di ottenebramento mentale a periodi di lucidità.
    Contrario a ogni forma di democrazia liberale, Eminescu fu critico verso la politica di Constantin A. Rosetti, che divenne il suo bersaglio preferito in molteplici attacchi sulla stampa. L’adesione alla teoria organicista dello Stato caratterizzò la sua visione politica, che fu volta ad enfatizzare la ricchezza della nazione come il risultato della civiltà del lavoro, contrapposta a quella della libertà. Anzi il lavoro divenne l’unico veicolo di una cultura pura, capace di far progredire la nazione a condizione che esso fosse il risultato dell’attività dei singoli, distribuita equamente e come tale retribuita.
    Convinto della giustezza di questi principi, Eminescu espresse una fiducia ottimistica nel popolo sano, prolifico e lavoratore e invocò uno Stato oligarchico, costituito sulla base della ricchezza ottenuta con il lavoro e con l’istruzione. Concordemente alle idee politiche di I. Slavici, Eminescu auspicò un sistema federale che riunisse il popolo romeno sotto l’impero austriaco. La monarchia asburgica federalista divenne così l’unica via che potesse conciliare tutti i popoli. Contrario alla missione storica della Russia, Eminescu avversò il panslavismo come risultato di un vuoto spirituale e di un ritorno alla barbarie. La sua xenofobia, da alcuni paragonata a J. De Maistre, fu diretta anche a una critica devastante verso gli stranieri, che con il loro tentativo di diventare un ceto medio aspiravano ad impadronirsi delle ricchezze materiali e contaminare il patrimonio culturale del popolo romeno. Eminescu attribuì così ai romeni una purezza quasi mitologica e una vocazione spirituale contraria a ogni ingerenza straniera e ad ogni forma di contaminazione culturale. Egli, accecato dallo sciovinismo, criticò la cultura magiara sia nella sua espressione linguistica sia nella sua incapacità creativa. Tuttavia, la sua intensa attività letteraria e il suo pensiero più maturo si coglie nella sua opera principale Luceafărul (1883, Lucifero), un poema che dimostra una verve poetica di notevole spessore culturale e presenta aspetti drammatici, elementi fantastici e lirici per la musicalità della forma. 

  • MUSUMECI AGIOGRAFO
    DEL MUSSOLINIANO
    FILIPPO ANFUSO

    data: 30/06/2020 20:47

    Su iniziativa dell’Anpi sono state richieste le dimissioni del presidente della Regione Sicilia Nello Musumeci per il suo saggio «L’ambasciatore Anfuso. “Duce con voi fino alla morte”» (CE.S.PO.S, Catania 1986, pp. 158), un libretto agiografico su un triste personaggio del regime fascista. Il titolo, come è riportato dall’autore, trae spunto dal telegramma di Anfuso a Mussolini, con cui dopo l’8 settembre 1943 annunciava la sua entusiastica adesione alla Repubblica Sociale Italiana. «Duce con voi fino alla morte». Era una testimonianza di fedeltà al duce, alle infami leggi razziali del 1938 contro i cittadini italiani di religione ebraica e all’alleanza con la Germania hitleriana.

    Sul giornale «il Fatto Quotidiano» (28 giugno 2020) la denuncia dell’Anpi è resa nota da Giuseppe Lo Bianco, che ha posto l’accento sulle dichiarazioni dei alcuni suoi dirigenti riguardo ad una «probabile responsabilità» di Anfuso nell’omicidio dei Fratelli Rosselli, avvenuto a Bagnoles-de-l’Orne il 9 giugno 1937. Un articolo, quello di Lo Bianco, di stampo giornalistico, a cui si riferisce con ogni probabilità Giampiero Mughini nel suo «pezzullo» pubblicato su Dagospia.
    Mughini, che si autoproclama dominus della conoscenza storica e del copyright sulla questione Anfuso, copre di veementi contumelie l’autore dell’articolo, definendolo «semianalfabeta» e privo di conoscenza del personaggio. L’omertoso collaboratore di Dagospia, che tace il nome dell’autore e persino quello del quotidiano, lancia un sasso sul capo del giornalista e «si muccia a manu» come dicono nella sua città natale. Non entro in merito alle responsabilità di Anfuso e nel suo ruolo sull’assassinio dei Fratelli Rosselli da parte della organizzazione fascista «Cagoule», su cui esiste una vasta letteratura, e mi soffermo sulla frase di Mughini e sulla sua sciocca dichiarazione: «a suo tempo avevo ricevuto e letto ma di cui non mi ricordo e che non ho trovato sugli scaffali». Mughini deve avere una memoria ferrea per tenere a mente il contenuto di un saggio letto ventiquattro anni fa e ricordarsi che il libro di Musumeci non era «apologetico di un ministro fascista». Esso invece è stato oggetto di una venerazione del personaggio da parte di Musumeci, che a più riprese è ritornato per difendere l’ambasciatore fascista: ha replicato persino ad una mia lettera pubblicata sul “Corriere della Sera” di alcuni anni fa. Basta fare una ricerca su Internet per contare i numerosi interventi in difesa di Anfuso, personaggio intoccabile nella Catania codina e reazionaria della città etnea.
    La «querelle» su Filippo Anfuso, nato il 1° gennaio 1901 a Catania e morto a Roma il 13 dicembre 1963 durante un suo discorso alla Camera, è emblematica invece per comprendere lo squallore con cui alcuni politici rendono onore a personaggi responsabili di aver appoggiato il regime fascista e aver sostenuto posizioni antidemocratiche. Il catanese Anfuso appartenne a quella schiera di fascisti che, sin dalle loro prime manifestazioni politiche, guardarono con simpatia alla dittatura mussoliniana e alle sue scelte di politica estera.
    Dopo un’effimera esperienza letteraria e una breve attività giornalistica - diresse il quotidiano libico «La Nuova Italia» -, Anfuso intraprese la carriera diplomatica, assumendo via gli incarichi di viceconsole a Monaco, di segretario di legazione a Budapest, di segretario d’ambasciata a Berlino fino a diventare capo gabinetto (1936-41) nel ministero degli Esteri retto dal suo intimo amico Galeazzo Ciano. Nell’ufficio di palazzo Chigi apprestò un salottino, dove era solito ricevere «dame romane» e straniere, «molte» delle quali passavano con facilità «dal talamo» di Ciano a quello del suo capo gabinetto, senza fare mai «il percorso inverso» (G. Bruno Guerra). E Anfuso, che a lui dovette «la propria fortuna», si trovò al centro di vicende storiche che videro protagonista il genero di Mussolini e riguardarono la guerra civile spagnola, l’invasione dell’Albania e l’attacco alla Grecia. Il suo fu un ruolo attivo nella conduzione della politica estera e nella preparazione di incontri internazionali come quelli di Ciano a Berlino nel 1936 e di Mussolini con Hitler negli anni 1937-38. Così rimase sempre vicino al «duce» durante la seconda guerra mondiale e lo seguì nella sua scelta forsennata di costituire la Repubblica di Salò durante la fase culminante dell’alleanza con Hitler. Proprio alla fine della dittatura fascista, Mussolini gli assegnò la carica di sottosegretario agli esteri, nel cui ambito svolse per alcuni storici un’intensa attività nella ricostituzione delle strutture consolari e nella gestione degli aiuti agli «immigrati militari italiani» internati dopo l’8 settembre, mentre per altri storici perseguì «affari con Pellegrini-Giampietro per i marchi destinati alla sua ambasciata e per l’aiuto che ne ottiene nel risolvere la questione delle rimesse in Italia dei nostri lavoratori in Germania» (S. Bertoldi).
    Nelle sue memorie, pubblicate prima sul settimanale «L’Europeo» e poi raccolte nel volume Roma Berlino e Salò (1936-1945) (Garzanti, Milano 1950), Anfuso si vantò di aver aiutato gli ebrei perseguitati dai nazisti e di aver prestato soccorsi adeguati ai militari italiani, ma si trattò per altri storici di una perorazione «pro domo sua» se non di un’attività volta più a fini politici e personali che a scopi umanitari. La sua attività nella guerra civile spagnola, le sue «presunte» responsabilità nel delitto Rosselli e il suo ruolo nella legazione italiana a Budapest e a Berlino presentano aspetti oscuri, che attendono di essere chiariti con una ricerca sistematica e documentata.
    Imputato di collaborazionismo, il 12 marzo 1945 Anfuso fu condannato dall’Alta corte di giustizia alla pena di morte, ma riuscì a riparare in Francia, dove venne arrestato nel febbraio 1946 con l’accusa di aver fomentato la guerra civile. Ne fu scagionato il 3 febbraio 1948 con decisione di «non luogo a procedere» dalla Corte di Appello di Parigi e assolto il 14 ottobre 1949 dalla Corte d’Assise di Perugia per la condanna inflittagli quattro anni prima. Poté così rientrare in Italia, dove riprese la sua attività nel Msi, riuscendo ad essere eletto deputato per tre legislature nella circoscrizione della Sicilia orientale. La sua carriera politica si concluse all’età di 62 anni, quando morì per un infarto cardiaco durante un acceso discorso che pronunciò a Montecitorio in occasione del dibattito sulla formazione del primo governo di centro-sinistra.

     

     

     

     

     


     

  • IL MONDO DI PANNUNZIO
    RITORNA A TORINO

    data: 12/06/2020 18:32

    È di questi giorni l’annuncio di ripubblicare «Il Mondo», la famosa testata che Mario Pannunzio diresse dal 1949 al 1966. L’iniziativa, avviata dal Centro a lui intitolato e diretto da Pier Franco Quaglieni, non può essere che accolta con favore in un periodo di crisi della carta stampata. Fra un mese il giornale sarà online con la direzione del giornalista Guido Barosio, che si avvarrà di una équipe redazionale costituita da storici, psicologi e da esperti della comunicazione. Lo scopo è quello di mantenere la grafica il più possibile simile all’edizione originale, che si chiamerà «Il Mondo di Pannunzio». L’esordio sarà inaugurato da un editoriale dello stesso Quaglieni, già curatore di un saggio biografico sul Personaggio (P. F. Quaglieni, Figure dell’Italia civile, golem Edizioni, Reggio Calabria 2016, pp. 157-180).
    Sul piano storico «Il Mondo», che uscì a Roma dal 26 gennaio 1922 al 31 ottobre 1926, sorse su iniziativa di Giovanni Amendola come giornale di opposizione alla marea montante del fascismo e del dominio personale di Benito Mussolini. Il 7 aprile 1926 la morte di Amendola, causata dall’aggressione subìta a Montecatini, segnò il declino del quotidiano, a cui si aggiunsero le intimidazioni, i sequestri e le devastazioni della tipografia. Il richiamo ai valori liberali e la rivendicazione dei principi democratici determinarono la sua comparsa definitiva per l’opposizione del regime mussoliniano.
    Dopo la caduta del fascismo, il quotidiano fu ripubblicato da Alberto Cianca, ma cessò ad uscire con la sua nomina a ministro per le relazioni con la consulta (20 febbraio 1946). Fu Mario Pannunzio (1910-1968) a riesumare la testata che pubblicò dal 19 febbraio 1949 all’8 marzo 1966. Grazie alle sue esperienze giornalistiche, compiute come ex direttore di «Omnibus», ex direttore della prima serie di «Oggi» ed ex direttore di «Risorgimento liberale», «Il Mondo» divenne un periodico di cultura laica alternativo alla Sinistra socialista-comunista e al Partito della Democrazia Cristiana. Nei primi anni di vita, il periodico fu portavoce del gruppo liberale e aderì al «centrismo» su posizioni critiche, che via via assunsero toni accesi contro i tentativi di «clericalizzare l’Italia», contro i rigurgiti fascisti e le nostalgie monarchiche e contro le strumentalizzazioni social-comuniste del proletariato, desideroso per Gaetano Salvemini di «un po’ di bene» e ignaro del pensiero di Marx, di cui conosce «soltanto i ritratti».
    Nella seconda metà degli anni Cinquanta, «Il Mondo» imbocca una via diversa, che si caratterizza per l’apertura ai socialisti e per le inchieste sulla Federconsorzi, sui monopoli chimici, siderurgici e zuccherieri. A queste inchieste aggiunge le violazioni del Concordato e le denunce degli «enti inutili» mantenuti a spese dello Stato per scopi clientelari. Sono inaugurati i convegni degli «Amici del Mondo» con le discussioni dei problemi più spinosi della vita pubblica, le denunce dei privilegi e dei ritardi normativi sulle questioni impellenti come l’università o i beni culturali. Come si ricava dall’«Indice dei primi dieci anni 1949-1958» del periodico «Il Mondo», curato da Aldo Marcovecchio e pubblicato nel 1962, i titoli più frequenti riguardavano la lotta contro i monopoli, la speculazione edilizia, la stampa, le baronie elettriche, il mondo della scuola, la politica del centro-sinistra e l’Europa.
    Si tratta di una miniera inesauribile di analisi e di proposte che il ceto politico ignora con sicumera per motivi che ancora meritano una trattazione esaustiva di temi come il controllo di vigilanza della RAI, l’urbanistica, le società per azioni e all’intreccio tra politica e affari. La chiarezza analitica per la soluzione dei problemi si intreccia con la modernizzazione economica, civile e sociale, invocata da Gaetano Salvemini nel suo volume «Italia scombinata» (1959), che raccoglie gli articoli pubblicati sul periodico di Pannunzio.
    Con la nuova edizione del periodico si spera in una ripresa di dibattito intorno a problematiche, alcune ancora di stridente attualità, e in un richiamo a valori ormai desueti presso le nuove generazioni. Necessitano meetings di studio sui problemi che affliggono la società civile e inviti ai giovani e ai «visi pallidi», come erano definiti i suoi collaboratori, affinché la nuova testata possa trasformarsi in una guida di cultura laica, senza sprofondare nel torpore dei luoghi comuni o peggio ancora accodarsi all’esercizio quotidiano del potere.
     

  • SE LA STATUA S'INCHINA
    AL POTERE DEL BOSS

    data: 06/06/2020 16:00

    L’inchino è una pratica religiosa ormai consolidata in molte zone del Sud ed anche in alcune realtà del Nord. «Piegare una vara» è spesso liquidato come un gesto pagano, mentre esprime invece una realtà evidente nella festa religiosa. Esso è presente da diversi anni, ma solo di recente ha acquisito forme eclatanti di commistione tra criminalità organizzata e riti pubblici della tradizionale devozione cattolica. Lo avevano spiegato Alessandra Dino nel suo libro «La mafia devota. Chiesa, religione, Cosa Nostra» (2008) e Natale Spineto in quello intitolato «La festa» (2015), ai quali si aggiunge ora «Piegare i santi. Inchini rituali e pratiche mafiose» (Marietti 1820, Bologna 2020, pp. 176) di Berardino Palumbo, antropologo sociale dell’Università di Messina.

    Autore di diverse pubblicazioni come «Madre-madrina. Rituale, parentela e identità in un paese del Sannio (San Marco dei Cavoti)» (1991), «L’Unesco e il campanile. Antropologia, politica e beni culturali in Sicilia orientale» (2003), «Politiche dell’inquietudine. Passioni, feste e poteri» (2009), Palumbo riprende ed amplia un saggio, apparso sul periodico «il Mulino», per proporre una rilettura dei «numerosi casi in cui, nel corso di processioni cattoliche, i portatori rendono omaggio, facendo appunto inchinare le statue a esponenti della criminalità organizzata e/o a loro familiari».
    Come forma di rispetto, espresso in vari modi che vanno dall’inginocchiarsi alla genuflessione fino alla prosternazione, l’inchino sembra derivare dal latino «lingere terram» (lambire la terra), che nel dialetto siciliano diventa «lingua a strascicuni», ossia modo di trascinare la lingua sul pavimento dall’ingresso della chiesa sino all’altare. Esso viene fatto con la vara, il carro trionfale sul quale vengono poste le immagini sacre per essere portate in processione.

    Un caso si è verificato alcuni giorni fa Caserta con un inchino della madonna sotto casa del boss, mentre nel libro si ritrovano altri casi come quello della madonna del Ponte, la cui celebrazione era finanziata anche dagli emigrati italo-americani. Scene che sono frequenti con il culto di santi e l’usanza di processioni, spesso gestite da confraternite, che invece di essere dedite a manifestazioni religiose si tramutano in vere e proprie forme di dominio mafioso. Un quadro che si intreccia con aspetti di culto come nelle manifestazioni religiose di Catania o di Palermo, dove in onore di sant’Agata o di Santa Rosalia si celano interessi di potenti famiglie mafiose. Soste delle processioni, tempi e luoghi dei fuochi d’artificio e persino il rientro del Fercolo di sant’Agata sono decisi dalla malavita cittadina, che interviene anche sulla vendita della cera e sui compensi dei portatori delle candelore.
    Per alcuni questi episodi sono forme di superstizione e di camuffamento di un genuino spirito religioso, mentre per altri si tratta di aspetti evidenti di una religiosità scorretta, lontana dalla sensibilità pastorale cattolica, su cui la Chiesa dovrebbe prendere nette posizioni di condanna. Nell’ambito della gerarchia cattolica si ritrovano alcune frange che considerano queste forme di devozione come «residui di paganesimo rimasti impigliati tra le maglie della religiosità popolare». L’imbarazzo è piuttosto dettato dall’intensità dei casi, presenti in uno scenario devozionale non sempre scisso dalla presenza di gruppi criminali. L’intensità è però proporzionale al loro coinvolgimento nella sfera pubblica, che non può essere minimizzato o ridotto a momenti occasionali, senza per questo considerarli emblematici di una situazione generale.
    La ricerca, confluita in questo libro di ampio respiro culturale, cerca di rispondere a simili questioni, attraverso una prospettiva di analisi di taglio antropologico sociale fondata su una lunga ricerca etnografica svolta in Sicilia. Essa espone numerosi esempi di inchini, analizzati con dovizia di particolari via via contestualizzati e diversificati dai riti di origine pagana. Anzi sembra che l’Autore voglia inserire queste pratiche in un processo di modernità come rappresentazione religiosa, che deve essere vista dall’interno per il coinvolgimento di masse popolari di devoti. Resta il fatto che esistano zone grigie, dove si muovono gruppi politici e cosche mafiose con lo scopo ben preciso di manifestare il proprio potere.
    Durante le processioni l’autoflagellazione, la spogliata di neonati sotto le statue di santi patroni e statue di madonne oppure la loro medesima posizione con la cosiddetta «annacata» (ossia «l’andatura oscillante delle vare») non sono considerate vere e proprie pratiche devozionali, bensì manifestazioni di una distorta concezione della fede, facilmente manipolabile da parte di gruppi criminali. I membri di queste cosche – tiene a precisare l’Autore – non sono uomini primitivi, ma fanno parte di una imprenditoria malavitosa, che durante le processioni porta la vara, ma poi nella vita quotidiana «si sposta in Suv, spaccia e consuma cocaina, maneggia armi sofisticate e investe i suoi soldi in complesse operazioni finanziarie». Un intreccio criminoso diretto a ripulire fiumi di denaro di provenienza illecita, espressione di un mondo mafioso che si muove dietro eventi religiosi ufficiali e strumentalizza la devozione popolare.


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  • QUEL VALLETTA COPIATO
    DELLO "STORICO" CAZZULLO

    data: 31/05/2020 15:44

    Sul “Corriere della Sera Torino” (30 maggio 2020) è uscito un articolo su Vittorio Valletta, il valente e solerte amministratore delegato della Fiat. Autore: Aldo Cazzullo; titolo “Valletta, torinese dimenticato” (p. 1), “Quando la memoria è orgoglio. Quel Valletta dimenticato” (p. 5). Poteva un articolo del giornalista albese non essere annunciato in prima pagina? Nulla di strano se la prima parte non fosse stata ripresa con alcune leggere e puerili modifiche da una pagina che si ritrova in un volume biografico su “Vittorio Valletta” (Unione Tipografico-Editrice Torinese, 1983, p. 162) di Piero Bairati.
    Scrive Cazzullo: “Nella primavera del 1946 […] la commissione economica del ministero per la Costituente convocò i capitani d’azienda, per ascoltare la loro visione sullo sviluppo del Paese” (p. 1). L’incipit, l’unico aggiunto dal prolifico giornalista, è poco chiaro per gli storici di professione, figuriamoci per un semplice lettore del “Corriere Torino”. Per la precisione fu nel marzo di quell’anno che Valletta avanzò la richiesta di adottare una politica espansiva (e non deflazionistica) per modernizzare la struttura produttiva dell’industria automobilistica, opponendosi alle posizioni del ministro del Tesoro Epicarmo Corbino. Troppa fatica sviluppare questo argomento e, soprattutto, inquadrare i rapporti (certamente non idilliaci) tra Valletta e gli operai torinesi. Meglio attingere al lavoro degli altri, specialmente se siano storici seri e scrupolosi come il compianto Piero Bairati, scomparso prematuramente dopo la pubblicazione del suo esaustivo volume.
    Così il collaboratore del “Corriere della Sera” elenca le posizioni dei capitani d’azienda convocati dalla Commissione economica del ministero della Costituente, diretto dal socialista Pietro Nenni. Troviamo Angelo Costa, che come presidente di Confindustria “disse che le grandi unità produttive erano «innaturali» per l’Italia” (p. 1). Medesimo riferimento nel volume di Bairati: “Angelo Costa, presidente della Confindustria ed amico intimo di Alcide De Gasperi, affermò che l’espansione industriale avrebbe potuto avvenire semmai a beneficio delle piccole e medie imprese, ma non attraverso «le grandi unità produttive», che erano un aspetto «innaturale» del panorama economico italiano” (p. 163). Soppresso il riferimento al legame tra la Confindustria e la Dc, utile per comprendere gli sviluppi successivi della Fiat verso i lavoratori, l’offensiva antisindacale del padronato e la manovra imprenditoriale nelle fabbriche.
    Subito dopo Cazzullo afferma: “Secondo Pasquale Gallo, commissario dell’Alfa Romeo, l’Italia era «destinata a diventare un Paese artigiano». Gaetano Marzotto valutò che «la nostra industria» si fosse «troppa allargata» ”. (p. 1). Nel libro di Bairati si legge: “Pasquale Gallo, commissario dell’Alfa Romeo, dichiarò che «l’Italia era «destinata a diventare un Paese artigiano». Gaetano Marzotto sottolineò la necessità di fare un passo indietro: «penso che la nostra si sia troppo allargata» ”(p. 163). Soppresso il riferimento all’imprenditore veneto e al ruolo esclusivo dello Stato come istituzione idonea a svolgere funzioni amministrative della giustizia, dell’istruzione e dell’ordine pubblico.
    Nel prosieguo del suo articolo, Cazzullo scrive che davanti alla Commissione Valletta “spiegò che non intendeva limitarsi a «riparare il buco nel tetto e mettere i vetri nuovi alle finestre» (p. 1). Frase ripresa sempre dal medesimo volume biografico e citata alla pagina 162, la cui spiegazione di Bairati è evitata dal giornalista piemontese ex collaboratore de “La Stampa” per non addentrarsi nella vexata quaestio dei legami tra Fiat e Fascismo durante il Ventennio mussoliniano. Per Bairati quella frase significava l’attuazione di un programma preciso di Valletta, che “non intendeva rifare «la Fiat come era», ma superare le anomalie autarchiche del mercato nazionale, avviare un nuovo rapporto con il potere pubblico e “rassicurare l’opinione pubblica sulla consistenza finanziaria della Fiat” (pp. 162 e 163).
    Cazzullo, invece, attinge a piene mani dal libro di Bairati, senza apportare elementi nuovi nel suo articolo, riferendo con semplicismo la posizione di Valletta (“Voleva portare a Mirafiori la tecnologia americana e far sì che ogni italiano potesse comprare un’automobile, a cominciare dagli operai torinesi, «ottimi, magnifici e bravi»”, p. 1). Tutto ripreso dal volume di Bairati, che non contiene però alcun riferimento all’italiano, ma dice testualmente: “In un giro che ho fatto nelle officine ho trovato il nostro lavoratore ottimo, magnifico, bravo. Comprendo benissimo la situazione. Quest’operaio lo conosco bene, dal 1900 in qua: merita tutta la nostra fiducia, il nostro rispetto … gli elementi della ripresa ci sono tutti, persino la volontà degli operai” (p. 163).
    In realtà, Vittorio Valletta – nato il 28 luglio 1883 a Sampierdarena – non era nel 1900 neppure diplomato: conseguirà il diploma di perito commerciale e ragioniere l’anno successivo a Torino, dove il padre era stato trasferito dalla cittadina ligure, lui palermitano e ufficiale dell’esercito. Perché scrivere allora che il padre (nato a Palermo nel 1856) era di origine brindisina? (p. 5 dell’articolo). Perché dire che il padre era un “funzionario delle Ferrovie”? (p. 5), quando lo stesso Cazzullo – nel suo farraginoso volume “I ragazzi di Via Po 1950-1961. Quando e perché Torino ritornò capitale” (Milano 1997, p. 7) – ha scritto che il padre Federico Valletta era “un tenente dell’esercito” ed era di origine palermitana? Che cosa c’entrino le sue fantasiose considerazioni personali sulla città subalpina è inspiegabile, come pure diventa incomprensibile la noiosa riproposizione di Torino come città regia e cavouriana, persino in un articolo che vuole riproporre il personaggio Valletta con lo scopo di “di dedicare una strada al dirigente Fiat”.

     

     

     

     

  • SE UN FASCIO-LEGHISTA
    PUO' TUTELARE L'IDENTITA'
    CULTURALE SICILIANA...

    data: 24/05/2020 15:41

    La scelta di Alberto Samonà come assessore ai Beni culturali da parte del presidente della Regione siciliana ha sollevato un vespaio di polemiche. I critici più accaniti hanno manifestato il loro dissenso con l’intenzione di scendere in piazza il 2 giugno prossimo. Da entrambe le parti sono state addotte spiegazioni opposte: il presidente dell’Ars ha giustificato la nomina come una scelta legittima, dettata dal risultato elettorale del 5 novembre 2017 e dalla maggioranza nell’assise parlamentare, mentre i contrari l’hanno considerata un attentato all’«identità culturale» dei cittadini siciliani.
    Il termine, che riunisce due significati specifici, esprime il concetto di «identità» come aspetto peculiare di una popolazione residente in un determinato territorio, mentre quello di «cultura» denota un patrimonio di conoscenze costituite da eventi storici, convenzioni sociali e modi di comportamento nella vita siciliana. Nel tentativo di definire il concetto di cultura mi vengono in mente alcune riflessioni di Renato Guttuso e di Leonardo Sciascia: il primo definì l’arte come una manifestazione espressiva della vita siciliana; il secondo, che ambientò la sua opera narrativa sempre in Sicilia, espresse la gravità dei suoi problemi, lo scomposto agitarsi della gente e il suo «modo di essere» in un quadro letterario vario di amarezza e comicità, ma anche misto di umanità e solidarietà verso il diverso.
    Ora la scelta del giornalista palermitano come nuovo assessore ai Beni culturali, seppure corretta sul piano giuridico, non aderisce a questo contesto e travolge i principi elementari dell’«identità culturale» siciliana, che si trova impressa nel comune sentire della gente, lontana dalle aspirazioni sovraniste della Lega di Matteo Salvini, ancora fedele al giuramento di Pontida, laddove recita: «I Lombardi / Son concordi, serrati a una Lega / Lo straniero al pennon ch’ella spiega / Col suo sangue la tinta darà». Un aspetto che è sottovalutato dal presidente della Regione siciliana, che giustifica invece la sua scelta con la presentazione della Lega come «partito nazionale» o con la fine della «stagione irripetibile dei tecnici».
    In un’intervista al quotidiano «La Sicilia» del 19 maggio 2020, Samonà (classe 1972) si vanta di essere un militante della Lega, che dalle iniziali posizioni secessioniste è diventato «un grande partito popolare» e nazionale. Per il nuovo assessore l’approdo alla Lega è stata una scelta obbligata per la sua identità sovranista e l’incarnazione varia di «idee ed esigenze», lontane dall’antifascismo, ormai diventata «una categoria stantia». Del suo passato politico si sa (e lo ammette placidamente) che ha militato nell’organizzazione giovanile del Msi Fronte della Gioventù, ha svolto attività solidale per l’ambiente in alcune associazioni come «Fare verde» e «Gruppi di ricerca ecologica», è stato promotore di un Circolo politico-culturale intitolato a Julius Evola, ha collaborato alle riviste massoniche «Hiram» e «Sixtum» ed ha pubblicato diversi libri sull’esoterismo, sulla conoscenza del sé e su altri temi come l’alchimia, la mistica orientale e persino sui riti pasquali.
    Naturalmente si tratta di scelte individuali, che presentano scarsa attinenza con l’identità culturale della Sicilia ed anche con quella della Lega, a cui attribuisce meriti inesistenti per la sua battaglia a favore dei prodotti agricoli e della pesca isolana. Per giustificare la sua appartenenza alla Lega, egli travasa nel suo programma i vecchi stereotipi come «popolo, comunità, patria e famiglia», ma non riesce a spiegare come un partito territoriale sorto nel Nord possa conciliare la tutela dei beni culturali della Sicilia. Tuttavia, al di là della sua scelta politica contingente, bisogna sottolineare alcune amenità e stranezze come le sue considerazioni sul 25 aprile come festa che divide gli italiani, le sue interviste ad ex terroristi di destra come Fioravanti oppure le sue posizioni complottiste sul Covi-19. Ha persino proposto di sostituire la canzone fascista «Giovinezza» all’inno partigiano di «Bella ciao».
    In un momento così difficile per la Sicilia, afflitta anche dai recenti scandali nell’ambito della sanità, la scelta del nuovo assessore imprime un indirizzo negativo alla politica dei beni culturali e della loro salvaguardia con la valorizzazione dei musei, dei parchi archeologici e l’avvio della Sovrintendenza del mare. Così interrompendo quell’opera di rinnovamento avviata dal precedente assessore Sebastiano Tusa, che perse la vita il 10 marzo 2019 in un incidente aereo,

     

     

     


     

  • MA CHE NE SA D'AVENIA
    DELL'ARTE
    DEL NAUFRAGARE...

    data: 19/05/2020 19:54

    Gli articoli settimanali di Alessandro D’Avenia sono commoventi quanto confusi. Essi appaiono ogni lunedì nella rubrica «Ultimo banco» con lo scopo di risvegliare nei lettori «una possibile arte di vivere il quotidiano con nuovo entusiasmo». Nel suo ultimo «pezzullo» («Corriere della Sera», 18 maggio 2020, a. 59, n. 19, pp. 1 e 35), pomposamente intitolato «L’arte del naufragare», egli vuol fare sfoggio di cultura e cita a vanvera il titolo di un film e quello di un libro che hanno poco attinenza con il tema prescelto. Così richiama il romanzo «Uomo vivo» (1912) di Gilbert Keith Chesterton (1874-1936) e il film «Miracolo a Milano» di Vittorio De Sica (1901-1974), l’uno tradotto in lingua italiana per la prima volta nel 1933 (Treves, Milano, pp. 290), l’altro proiettato nel 1951 nelle sale cinematografiche.

    La lettura del farraginoso «pezzullo» ci stimola alla domanda su quale sia il legame letterario tra il romanzo dello scrittore inglese e quello di Cesare Zavattini, edito nel 1943 con il titolo «Totò il buono» (Bompiani, Milano 1943, pp. 96). Quasi tutto l’articolo espone la trama del romanzo, che narra la vita di un uomo con «il potere di risvegliare tutti dai grandi nemici della vita (noia, tristezza, abitudine, pigrizia, paura ecc.), perché sono la morte in vita» (p. 35). Di fronte a questi mali reali, il protagonista vive e gode, recitando il ruolo di naufrago, un’arte che gli permette di «ricevere» tutto come un regalo e come un «presente»: nozione ripresa dalla nonna filosofa dell’articolista, in grado di trasformare magicamente il «presente […] da isola deserta, a luogo delle concrete possibilità date alla vita per rifiorire» (p. 35).
    Su questo schema assurdo, D’Avenia vuol dimostrare che solo il ricorso all’«arte di naufragare» permette agli uomini di assumere un coraggioso «prendo posizione» e di riscoprire le potenzialità delle situazioni, come fa anche il ragazzo del film «Miracolo a Milano». Per lui, anzi, esso si propone di «rendere agli altri la vita migliore o peggiore, con la nostra presenza»: un invito che nei tempi tristi di pandemia «ci sta mostrando ciò che definisce il valore di una vita: la somma di amore che sa ricevere e dare» (p. 1).
    Questo escamotage serve a D’Avenia per confezionare un articolo farraginoso, fatto di pensieri astratti e di proposte confuse, che non hanno alcuna attinenza con la tematiche del film italiano e del romanzo inglese. Nella lunga citazione, che non si capisce da dove sia tratta, egli sovrappone elementi sovrastrutturali come la noia o la pigrizia ai problemi reali della vita: sfruttamento padronale, uso improprio della forza pubblica, mancanza di lavoro e carenza di abitazioni, strutture sanitarie inadeguate e altri mali narrati nel film ed emersi durante l’epidemia.
    L’«uomo vivo» («Manalive») del romanzo non può essere paragonato minimamente al coronavirus, che «sta facendo» la sua parte. Esso ha provocato la morte di tanti vittime innocenti con prepotenza, ha ucciso le relazioni familiari ed ha sconvolto con furore la vita degli uomini, di cui canzoni e musica sono solo la parte esteriore. Che cosa abbia in comune il protagonista, che penetra nella sua abitazione dalla finestra per godere la pace del focolare, con il coronavirus entrato nelle nostre vite per motivi misteriosi, ancora indecifrabili alla scienza? Nel processo intentato al protagonista Innocent Smith per le sue stravaganze, egli viene assolto e riconosciuto innocente di ogni colpa, permettendogli di ritornare ad uno stato puerile di perenne e giocosa innocenza bambinesca.
    Anche il film - capolavoro del cinema neorealista - vuol proporre problematiche più serie di quelle proposte dall’articolista, la cui lettura superficiale si limita alle poche righe della voce reperibile su Wikipedia. La trama del film, tratta dal romanzo «Totò il buono» di Zavattini, è una trasposizione cinematografica, che può essere considerata uno dei grandi successi della stagione neorealistica. Uscito a puntate sul settimanale «Tempo», il libro aveva come titolo originario «I poveri disturbano» e seguiva la raccolta «I poveri sono matti» (1937), in cui Zavattini abbandonava le sue precedenti fumisterie di un gusto vagamente surreale, scoprendo così la miseria dei «déracinés» e la vita grama degli emarginati.
    Il trasferimento di Zavattini nella città di Milano, non ancora assurta a centro privilegiato del triangolo industriale e non invasa dal leghismo politico, gli permise di recepire le storture della società lombarda e di indagare quel mondo sommerso e oscurato negli anni bui del Regime fascista. Così il titolo del film, che forse doveva ricalcare quello originario del libro «I poveri disturbano», venne modificato per le pressioni dei produttori e di alcuni politici, i quali consideravano il neorealismo «un cattivo biglietto da visita per l’Italia all’estero» (la frase tratta da Wikipedia deve trovarsi nel saggio «Vittorio De Sica e Cesare Zavattini», in «Storia del cinema italiano 1949-1953», a cura di Luciano De Giusti, Marsilio, Venezia 2003).
    Sul piano sociale il film comprende infatti un afflato etico originale e rivolge una critica devastante alla borghesia milanese. Rinomati e intelligenti critici cinematografici come Guido Aristarco (1918-1996) e Lorenzo Pellizzari (1938-2016) hanno colto un fervido intreccio di fantasia e umanità, che danno agli episodi un contenuto anticonformista e un tono socialisteggiante. Attraverso la bontà di Totò, che non si esaurisce nel semplice saluto del «bongiorno», il film esprime una forte carica di umanità verso i poveri, vilipesi dal Regime mussoliniano, e riconduce l’autore verso lidi più elevati di coscienza civile e politica, dopo l’esperienza di ex rubrichista al periodico «Primato» di Giuseppe Bottai. Difficilmente l’autore, ammesso che ne avesse le conoscenze, avrebbe mosso qualche critica specifica a quel ceto borghese, considerato «fonte di corruzione» (cfr. G. Spagnoletti, «Storia della letteratura italiana del Novecento», Newton Compton, Milano 1994, p. 464). Per il critico letterario, il film rispecchia inoltre «sentimenti anarcoidi tardo ottocentesco» contro il potere, quasi una ripresa specifici del socialismo utopistico per l’attenzione rivolta ai problemi dei diseredati e all’auspicio di una società dove ognuno soddisfi i propri bisogni, abbia un’attività lavorativa e non si pieghi allo strapotere del padronato.
    Poco esperto dell’opera di Zavattini e digiuno della letteratura critica che ruota intorno alle problematiche sollevate nel film, D’Avenia riduce il suo messaggio alle prime scene del film, quando il protagonista – uscito dall’orfanotrofio - saluta i passanti con rispetto e un sincero «buongiorno». Eppure la sua trama rivela, seppure in modo fiabesco, un preciso conflitto sociale, impregnato di cinismo e furbizia, nonché caratterizzato dalla dicotomia tra miseria e opulenza (si tenga presente la scena dei poveri ammessi nell’abitazione del ricco epulone). Con la rappresentazione dei «tipi umani» raffigurati nel film e con le sue invenzioni estrose, Zavattini dà vita a un gioco umoristico, che diventa gradualmente satira e denuncia sociale.

     

     

     

     

     

  • QUEL CORTEO DI BERGAMO
    SIMBOLO DELL'EPIDEMIA

    data: 15/05/2020 10:29

    Le morti per coronavirus a Bergamo e in Val Seriana sono state rivisitate in un triste documentario nello speciale televisivo condotto da Daria Bignardi. Esso, girato da Valentina Monti e Alessio Valeri, ha come titolo «Così soli» e narra per 25 minuti alcune storie di defunti, che si intrecciano tra strade, visi increduli e cimiteri vuoti. Nella provincia lombarda l’emergenza sanitaria ha travolto molte vite, rendendo gli «addii impossibili» e vanificando ogni forma di lutto a causa della quarantena.
    Come un’ondata impetuosa il coronavirus ha colpito in due mesi molte persone, che sono state trasportate in altre città per essere cremate. Con i funerali aboliti e la divisione delle persone si sono così manifestati situazioni di vuoto e di disperazione, di vivi e di morti. Le dolorose immagini non possono che suscitare sconforto e confermare la carenza di strutture sanitarie, di personale medico e infermieristico. La gravità dell’epidemia, purtroppo, è un triste evento che dovrebbe farci riflettere sulla caducità della vita e sul cambiamento repentino a cui il coronavirus ci ha abituati: il senso della morte, l’impossibilità del lutto, la percezione del tempo, la paura del prossimo così diffusa nella società.
    Alcuni ospiti eccellenti – lo scrittore Sandro Veronesi, la fotoreporter Letizia Battaglia, l’illustratrice e fumettista Zuzu (pseudonimo di Giulia Spagnulo) e Riccardo Zanotti dei Pinguini Tattici – hanno rilasciato interviste ricche di profondi significati, ma in parte staccati dalla realtà come un «corpo estraneo» al racconto dei familiari. Toccante è invece risultata la situazione generale dei familiari coinvolti nel doloroso evento: la disperazione della figlia per non aver stretto la mano del padre al termine della sua vita, la moglie affranta per non essere riuscita a dare l’ultimo saluto al suo diletto sposo, la titolare di un’impresa funebre, che si sposta nella città come Caronte trasportava le anime da una sponda all’altra.
    Le bare dei morti, che nel loro lugubre corteo attraversano le vie di Bergamo nei camion dei soldati, sembrano diventate il simbolo dell’epidemia. Esse richiamano alla mente i versi del poeta John Wilson, che nel volume di poesie La città della peste (1816) descrive il «passaggio trionfale del carro della peste» per le vie di Edimburgo, un tempo ricca e fiorente cittadina ma decaduta per la terribile epidemia. La lezione del poeta scozzese, che dovrebbe indurci a riflettere, deve essere tenuta presente dalle autorità locali e governative, che devono intervenire per ridare vigore ad una città prosperosa e fiorente come era Bergamo prima del coronavirus.
     

  • STRANA RECENSIONE
    DEI "CONSIGLI AI GIOVANI"
    DI LUC DE CLAPIERS

    data: 08/05/2020 20:50

    Su «Libero», quotidiano diretto da Vittorio Feltri, è uscito un «pezzullo», così viene chiamato nell’Italia «inferiore» da Roma in giù un articolo di scarso valore culturale: «Luc de Clapiers. Le regole per farsi uomo non cambiano mai» (28 aprile 2020, n. 117, p. 19). L’autore, Andrea Camprincoli, trae spunto dal libretto «Consigli a un giovane per diventare uomo» (Castelvecchi, Roma 2019, pp. 88) dello scrittore francese, con la curatela e un saggio introduttivo (pp. 5-27) di Marco Lanterna. L’articolo può essere scelto in un corso di «Storia del giornalismo» per insegnare ai giovani come deve essere confezionato un articolo. Esso è distribuito su due colonne di 35 battute, che moltiplicate per 107 righe assommano a 3745 battute (spazi esclusi), cioè oltre due cartelle di 1800 battute.
    Le prime 20 righe contengono un invito ai ragazzi, rivolto da parte di «esperti ed insegnanti» per «placare le loro angosce e paure» e per tenere «in movimento almeno l cervello» durante «l’odierna clausura del lockdown»: linguaggio non distante da quello usato da Vittorio Feltri nei suoi editoriali. Ciò è possibile con la lettura di questo libretto che può farci compagnia «per tenere impegnata la mente per un intero pomeriggio» (prime 20 righe). A dire il vero si tratta di un libretto noioso per persone mature, figuriamoci per un ragazzo di oggi, che si immerge nella lettura di un manuale cervellotico, scritto da una persona che passa «tra i moralisti di Francia, il più simile a un masso erratico», come copia l’articolista dal saggio di Lanterna (p. 7, prime tre righe). Possibile che nessuno abbia detto al collaboratore di «Libero» che una frase, se tratta da un libro o da un saggio, deve essere virgolettata?
    Così l’articolista aggiunge il brano successivo, questa volta tra virgolette: «A volte fa pensare […] a un Leopardi senza biblioteca paterna, privo di filologia» (p. 7). E subito dopo accenna in modo confuso all’amicizia con Voltaire (p.12), copiando il giudizio che egli dà del giovane: «Dolce, sensibile, comprensivo, che teneva le nostre anime nel palmo» (righe 29-31, p. 15) e che si presentava come un uomo «di statura somma nel secolo delle piccolezze …» per «la semplicità d’un bambino che celava profondità e forza di genio» (righe 33-36, p. 16). In questo modo l’articolista continua a riportare i giudizi di Lanterna, senza aggiungere nulla di suo: «Il più bel animo, il più profondamente filosofo, il più libero da qualsivoglia spirito di fazione» (rughe 38-41, p. 16).
    Dopo aver ripreso e modificato un altro brano del saggio introduttivo, là dove dice la «sua attitudine» (non «pensiero»), «a mezz’aria tra pessimismo e ottimismo», «conquisterà per ragioni diverse, sia Schopenhauer che Netzsche» (righe 41-47, p. 17), Camprincoli salta la parte più interessante, quella relativa alla fortuna del marchese di Vauvenargues in Italia (pp. 24-27), e passa brevemente all’esposizione dei suoi consigli. Per i giovani propone «una sorta di pedagogia magna per uomini magni» (righe 52-53, ma che cosa vuol dire?), mentre alle ragazze consiglia di stare lontano dall’uomo sbagliato, che identifica con l’uomo egoista (riassunto mio, mal virgolettato dall’articolista, righe 48-65).
    Nella seconda colonna altre lunghe citazioni, riportate a casaccio e prive di significato, da cui l’articolista trae la considerazione che si tratti di un «autore attualissimo», che «sa parlare ai ragazzi con parole delicate senza mai usare l’imperativo del comando ma utilizzando il suggerimento» (rughe 84-90). Che cosa viene detto in quei consigli così preziosi impartiti da Luc de Clapliers? Che cosa consiglia il marchese ai giovani? Che si può diventare ricchi, che si possono «ottenere cariche e onori», senza privarsi della probità d’animo e della generosità verso gli altri (sunto mio, righe 105-107).
    L’operetta ebbe qualche fortuna solo tardi molti anni dopo la sua morte, avvenuta nel 1747, dopo una triste e breve esistenza. Il suo pessimismo non presenta l’afflato pedagogico di Leopardi, seppure volto a celebrare la dignità dell’uomo. Esso si muove entro binari consueti di astratti sentimenti che da un’analisi pacata della realtà, osservata da uno speculum personale. Quella del marchese di Vauvernagues è infatti una ragione estranea alla vita, che riscalda senza indicare la via, entusiasma ma non rischiara il cammino per combattere l’esito disperato dell’esistenza. Nelle soluzioni date al giovane, de Clapiers consiglia il «vigor dell’anima» come un’unica «virtù attiva, capace di vincere il male e di conquistare la gloria».
    Certo non si può pretendere che l’articolista citi Antonio Gramsci – ognuno è «libero» di scegliere gli interpreti che più gli aggradano (ammesso che li conosca) – ma la sua versione è degna di essere ripresa. Sebbene i gramsciologi, la maggioranza anche gramsciani, non sia riuscita a ritrovare la fonte, il pensatore sardo riprende una norma del giovane moralista francese, sottolineando come sia «più difficile instaurare un ordine intellettuale collettivo che inventare arbitrariamente principi nuovi e originali» (A. Gramsci, Quaderni del Carcere, II, Einaudi, Torino 1975, p. 1483). Nelle sue riflessioni carcerarie, Gramsci auspica «un nuovo ordine intellettuale, accanto all’ordine morale, e all’ordine …pubblico», invocando la necessità di un «linguaggio comune», senza scadere nella vita dell’individualismo vanesio e dell’improvvisazione culturale, prodotto di «uno stato d’animo permanente» sfociato «in una pigrizia intellettuale altrettanto degenerativa e repulsiva del fenomeno che voleva combattere» (ivi, p. 959).

     

  • GRAMSCI, IL MISTERO
    DELLA SUA CONVERSIONE
    AL LIBERALSOCIALISMO

    data: 02/05/2020 17:02

    La tragica vicenda di Antonio Gramsci ritorna puntuale in ogni anniversario della sua morte avvenuta il 27 aprile 1937. Anche quest’anno, per l’ottantatreesimo anniversario della sua scomparsa sono stati pubblicati molti post sul pensatore sardo, che denotano una mancanza spaventosa di conoscenza del personaggio: alcuni hanno scritto che egli è morto in carcere, altri in una clinica di Formia, altri ancora che è stato ucciso da Mussolini, altri che si sono formati con la lettura dei «Quaderni del carcare » (quasi 2400 pagine). Al di là della polemica contingente, sembra che Gramsci stenti ad essere valutato con distacco critico nella sua dimensione temporale e nello sviluppo genuino del suo pensiero, che presenta uno spessore culturale e una lenta e graduale metamorfosi verso il liberalsocialismo di Carlo Rosselli.
    Questo sbocco, a tutt’oggi, è avvolto in un alone di mistero e presenta scarni e veloci cenni nella letteratura storica sul Pci. La questione non ha appassionato i cultori del pensatore sardo, come si ricava da un recente volume collettaneo (Il presente di Gramsci. Letteratura e ideologia oggi, Galaad Edizioni, pp. 335). Una raccolta di saggi, che si propone di utilizzare il suo lascito culturale per una rilettura corretta della realtà politica odierna. Tuttavia essa lascia in ombra un tema di grande interesse nel panorama politico attuale per il richiamo al liberalsocialismo e ai valori del socialismo liberale. Nulla si dice intorno al rapporto tra Gramsci e il socialismo liberale nella farraginosa e «nuova biografia» su «Gramsci» (Feltrinelli, Milano 2017 e 2018) di Angelo d’Orsi.
    Eppure nel 1980 Sergio Bertelli «riportò la testimonianza di Eugenio Reale, che sull’adesione di Gramsci agli ideali liberalsocialisti informò l’autore che essa poteva ricavarsi da uno schedario approntato da un alto funzionario del Pci (Il gruppo. La formazione del gruppo dirigente del Pci 1936-1948, Rizzoli, Milano 1980, p. 227). Dell’esistenza di questo schedario parla anche Antonio Roasio nelle sue memorie, quando accenna all’iniziativa assunta dal Comintern di controllare la vita dei quadri comunisti. I ricordi di Reale coincidono con quelli di Roasio e concordano sul fatto che il Comintern aveva incaricato i funzionari del Centro Estero di trasmettere a Mosca notizie specifiche sui militanti comunisti europei, perché fossero preparati dei «cartellini individuali ... allo scopo di seguire i compagni nella loro vita attiva» per registrane «funzioni, successi e difetti, preparazione politica e ideale» (A. Roasio, Figlio della classe operaia, Vangelista, Milano 1977, p. 161). Non è chiaro l’anno in cui ebbe inizio la compilazione dello schedario, ma si sa con certezza che nel 1936 l’alto funzionario addetto a questo compito era Umberto Massola. Fu proprio lui a tenere aggiornato lo schedario dei quadri comunisti e ad approntare la scheda relativa a Gramsci, in cui egli è catalogato come «un ex comunista passato a Giustizia e Libertà».
    L’evoluzione di Gramsci verso il movimento giellista spiega il «profondo disagio» di Togliatti e dell’intero apparato comunista, che nonostante varie sollecitazioni di «fare conoscere meglio Gramsci al Partito e al mondo» preferì rinviare la pubblicazione dei «Quaderni» (P. Spriano, Gramsci in carcere e il partito, Editori Riuniti, Roma 1977, p. 111). Il problema della loro stampa fu infatti sollevato alcune settimane dopo la morte di Gramsci (27 aprile 1937), dopo che i quaderni erano stati salvati dalla cognata e da Piero Sraffa e affidati a Raffaele Mattioli, in attesa di essere inoltrati a Mosca alla moglie Julia. Il succitato libro dello Spriano contiene una significativa lettera del 19 maggio 1937 inviata a Sraffa da Donini, il quale gli comunica in termini alquanto oscuri che «dove c’è Giulia c’è Ercoli», cioè Togliatti.
    Quale interesse recondito avesse Togliatti a rinviare la pubblicazione dei «Quaderni» se non quello di far una cernita dei famosi «manoscritti» o di utilizzarli per uso proprio! Così nel 1937 egli diede incarico di approntare solo una raccolta di testimonianze su «Antonio Gramsci capo della classe operaia italiana», edita poi a Parigi l’anno successivo. Sul Gramsci politico gravava la colpa di aver dissentito, nell’ottobre 1926, dalla linea ufficiale del Partito comunista sovietico, come emerse da una lettera pubblicata sul «Nuovo Avanti!» l’8 maggio 1937 da Angelo Tasca (cfr. E. Santarelli, Gramsci ritrovato 1937-1947, Abramo, Catanzaro 1991, pp. 89-90.) oppure si trattava di un più recente mutamento di indirizzo politico e ideale?
    Le due ipotesi non si escludono e rientrano nel percorso politico di Gramsci, che nel 1930 lanciò la proposta di una «Costituente antifascista» per un’azione congiunta di socialisti e comunisti; che nel 1931 - come si ricava dalla testimonianza di Umberto Terracini - espresse una «critica molte forte e di ripulsa delle posizioni del partito», ossia della natura totalitaria del comunismo diretto a «creare un’altra dittatura» sostitutiva a quella fascista (testimonianza di U. Terracini, in Gramsci vivo nelle testimonianze dei suoi contemporanei, Feltrinelli, Milano 1977, p. 116). Comunque sia, la stampa antifascista diede una larga risonanza alla morte di Gramsci: il periodico «Giustizia e Libertà» ricordò che «il fascismo, col suo assassinio, arriva troppo tardi», perché «il pensiero di Gramsci è fissato […] nei cervelli e nelle coscienze della élite rivoluzionaria» (Lento assassinio, in «Giustizia e Libertà», 30 aprile 1937, n. 18, p. 1).
    Uguale risalto diede all’avvenimento il quotidiano «l’Unità» con un articolo commemorativo firmato dai membri del Comitato Esecutivo dell’Internazionale comunista, tra i quali spiccava la firma di Ercoli (Togliatti) «che, fino a pochi giorni prima, era stato in accesa polemica con Gramsci per il suo antistalinismo» (R. Mieli).
    In quest’ambito va collocato lo scarso interesse per la liberazione di Gramsci da parte dei vertici comunisti, che non presero alcuna iniziativa per la sua scarcerazione, a differenza di quanto era successo con Georgij Dimitrov, liberato in quel periodo dal giogo nazista e divenuto poi segretario della III Internazionale. Gli stessi dirigenti del Pcd’I non si preoccuparono molto alla sorte di Gramsci e non intervennero presso Stalin, che probabilmente avrebbe potuto ottenere un risultato analogo grazie ai buoni rapporti dell’Urss con il governo fascista. Essi, inoltre, attesero dieci anni per pubblicare le “Lettere dal carcere” in un’edizione censurata ed editare i “Quaderni”, usciti in sei volumi tematici tra il 1948 e il 1951 sempre sotto la supervisione di Togliatti. L’uso strumentale degli scritti di Gramsci cominciò proprio ad opera di Togliatti, che nei primi anni ’50 lo collocò nell’ambito di una inesistente tradizione leninista in Italia, inserendo la sua opera nell’alveo del marxismo ortodosso di stampo stalinista. Dopo il XX congresso del Pcus e la denuncia di Kruscev dei misfatti staliniani, Togliatti strumentalizzò nuovamente Gramsci attraverso un’ennesima manipolazione diretta ad attribuirgli un’artificiosa sintesi tra leninismo e «via italiana al socialismo».
    Iniziò così l’onda lunga della fortuna di Gramsci, il cui pensiero ha diviso i suoi interpreti e ha riproposto le più disparate versioni secondo le indicazioni di Togliatti o post mortem a secondo la strategia politica del Pci, ma dopo la caduta dei comunismi quale è la lezione gramsciana se non quella di collocarla nell’alveo della società contemporanea in una versione democratica e socialista liberale?
     

  • SECONDA LETTERA A FELTRI:
    L'ITALIA NON E' UN PAESE
    STRAVAGANTE E IMBECILLE

    data: 27/04/2020 16:50

    Gentile direttore di “Libero”, nei giorni scorsi le ho inviato una lettera che lei non ha pubblicato e sicuramente non pubblicherà. Ma devo dirle che la sua mania ossessiva di stupire contiene una dose di furbizia eccessiva: vuole forse riscuotere successo e notorietà per costringere in modo subdolo a comprare il suo quotidiano? Purtroppo sono un meridionale di origine siciliana, che ha il brutto vizio di leggere, per cui leggo anche il suo quotidiano che trovo superficiale e caratterizzato da una subcultura spaventosa.
    Certo non voglio generalizzare come fa lei, ma gli articoli pubblicati nel suo giornale - poi di che cosa sia libero, è noto solo a lei - sono privi di serietà culturale e per alcuni aspetti anche strumentali per finalità poco chiare. Tra ieri e oggi ha pubblicato tre articoli - uno su Luigi Sturzo, uno su Stuart Mill e uno su Tucidide - che rivelano un’incomprensione spaventosa del pensiero di questi scrittori.
    Prendiamo quello pubblicato oggi, di Paolo Becchi, che parla della peste di Atene e ad un certo punto cita la concezione di Hobbes sulla paura: una versione erronea, perché lo Stato non nasce dalla “paura”, ma dalla lotta esistente nello stato di natura (“homo homini lupus”, “bellum omnium contra omnes”). Glielo dico con cognizione in quanto conosco i tre scrittori, avendo anche insegnato “Storia del Pensiero politico” nell'Università di Torino. Perché, a proposito, citare “un commentatore d'eccezione, quale Leo Strauss" (p. 5), quando abbiamo in Italia il più grande interprete europeo della filosofia hobbesiana: Norberto Bobbio, che ha raccolto i suoi saggi nel volume “Thomas Hobbes” (Einaudi, Torino 1989, pp. 218).
    Lascio stare le idiozie che ieri ha ripetuto nella trasmissione “Non è l'Arena” di Giletti; ma perché ritorna sempre sui medesimi argomenti? Le sue argomentazioni - come diceva un mio amico siciliano di Alia, tal Ernesto Maggio, internato in un campo di concentramento per combattere il fascismo e dare a lei la possibilità di pubblicare “Libero” - sono “aria fritta”, in quanto si ritrovano nella cultura più retriva dell’antropologia criminale razzista dei vari Lombroso, Niceforo e Sergi. Ma la smetta di considerare un popolo come formato da esseri inferiori (anche sul piano economico) e cerchi di leggere un libro che le apra gli occhi e il cervello sulle vere cause del dualismo tra Nord e Sud: le consiglio di leggere il libro “Scienza italiana e razzismo fascista” (Firenze 1999) e vedrà che le sue argomentazioni sui “neri” sono vecchie come il cucco: alla pagina 169 trova espressa l’opinione proposta da lei questa mattina: “I nostri romanzieri (giornalisti) non esprimevano una visione del negro poi tanto lontana da quella che era messa in circolazione dalla nostra più elevata cultura scientifica”, ossia da quella fascista!
    Leggere il suo giornale mi ricorda infatti la lettura della rivista “La Difesa della razza” di Telesio Interlandi: le consiglio di leggere la raccolta antologica curata da Valentina Pisanty e introdotta da Umberto Eco (Milano 2006) e vedrà che le sue opinioni sugli zingari si ritrovano negli articoli pubblicati sul periodico “La Difesa della Razza” di Interlandi: c’è l’imbarazzo della scelta. Egli, seppur siciliano ma come lei considerato un “grande giornalista” (diresse anche “Il Tevere”), era ossessionato dagli ebrei, dai neri, dagli zingari e poi - a guerra dichiarata dal suo padrone fascista - dagli Inglesi. Lei è invece ossessionato dai neri e dagli zingari: ho conosciuto uno zingaro serbo con un’intelligenza straordinaria, così come ci sono lombardi stupidi e lombardi intelligenti, così ci sono anche i rom intelligenti, a meno che non vogliamo “infornarli” come fece un suo amico tedesco.
    Possibile che non capisca che attaccare un “terun”, di cui lei ignora la radice latina, è un grande servigio che rende alle popolazioni meridionali dedite alla coltivazioni di eccellenze nel settore agricolo: ha mai gustato un’insalata condita con olio extra vergine della zona di Centuripe, ha mai mangiato un’arancia rossa del territorio di Adrano o Paternò, una torta al pistacchio di Bronte (la località de “La libertà” di Giovanni Verga), una mozzarella di Gioia del Colle (quelle preparate dal “popolo di formiche” di Tommaso Fiore), le fragole della Basilicata (quelle di “Cristo si è fermato a Eboli” di Carlo Levi) una soppressata calabrese (la zona di Tommaso Campanella o di Corrado Alvaro) o un'insalata di cedro di Carcaci o i carciofini spinosi selvatici? No, perché lei bergamasco si nutre solo dei prodotti agricoli della sua zona.
    “L'Italia - caro direttore - non è “un Paese stravagante e imbecille” (V. Feltri, Zingari e neri più rispettati dei vecchietti, “Libero”, 27 aprile 2020, a. LV, n. 116, pp. 1 e 18) di cui lei fa parte, ma è un Paese ricco di cultura, di arte, di bellezze naturali e di grandi tradizioni storiche ed anche culinarie: invece di scrivere “baggianate” come quelle che oggi vuol propinare ai suoi lettori sulla differenza tra “neri” e “negri” oppure le sue scemenze sui Rom, specializzati solo nel furto, ma si è mai affacciato dalla finestra del suo ufficio? Lo faccia e si accorgerà che anche i lombardi (non tutti per carità) hanno rubato e come se hanno rubato, attingendo le loro mani sporche di sangue nel pubblico denaro. Certo che ogni cittadino - come recita la Costituzione e come dice lei nel suo articolo di oggi - debba essere rispettato, ma non quando spara scemenze. Un consiglio - signor Feltri che come il lupo della fiaba esopiana lei stava “superior” e l’agnello di noi della Terronia “inferior” - rilegga la Costituzione di cui ignora gli articoli fondamentali e non formuli giudizi sciocchi sul presidente del Consiglio definendolo “il duce di Foggia”, perché la provenienza non c'entra un “fico secco”.
    Nunzio Dell’Erba
     

  • CARO VITTORIO FELTRI,
    SUD INFERIORE? NO,
    ABBANDONATO A SE' STESSO

    data: 25/04/2020 15:02

    Gentile direttore, oggi ho comprato “Libero” per usufruire del libro sul coronavirus, dato in regalo con il suo giornale. Leggo lettere e interventi di persone che commentano la sua frase infelice sui meridionali come “essere inferiori”. A sua difesa dice che il Sud è arretrato sul piano economico, ma possibile che un giornalista di lungo corso si lasci andare e possa esprimere giudizi simili? Nell’uno e nell’altro caso i suoi giudizi sono elementari e denotano una conoscenza sommaria della storia d'Italia e dell’assetto geografico della sua parte “inferiore”.
    La informo, caro Feltri, che sul Mezzogiorno d'Italia pesa ancora il modo come è stata compiuta l’Unità d'Italia, che per Giuseppe Mazzini e per gli scrittori del meridionalismo classico (Francesco Saverio Merlino, Napoleone Colajanni, Guido Dorso, Gaetano Salvemini, Giuseppe Galasso) è stato il prodotto di una “conquista regia”. Dalle scelte economiche erronee, compiute nel corso della sua storia successiva, il Mezzogiorno è stato penalizzato per le misure economiche assunte prima da Giolitti e poi da Mussolini, pur avendo dato un contributo essenziale allo sviluppo del Nord nel cosiddetto “triangolo industriale”: crede che senza la “manodopera meridionale” sarebbe stato possibile lo sviluppo delle industrie lombarde?
    Premesso ciò, guardi una cartina geografica e si accorgerà che la Sicilia è più vicina all'Africa, mentre la Lombardia è più vicina alla Svizzera e ai Paesi del Nord Europa: crede che ciò non abbia condizionato il dualismo tra quelle che Giustino Fortunato chiamava le “due Italie”? Tuttavia devo riconoscere che lei ha smosso le acque stagnanti del dibattito sulla questione meridionale. Così alcuni meridionali, ignari delle cause che hanno prodotto e tenuto in vita il divario tra Nord e Sud, si sono avventurati in considerazioni storiche frettolose, eppure animate da un sincero amore verso la propria terra.
    La scarsa conoscenza della storia italiana non può che aggravare i rapporti tra gli abitanti delle “due Italie”, immobilizzando così il dibattito storico su temi che da oltre 150 anni ruotano intorno a stereotipi e a discorsi superficiali. I veri amanti del Sud sono invece quelli che denunciano la corruzione politica, la collusione tra potere politico e potere illegale, il monopolio della stampa e la scelta sbagliata di molti politici.
    Non è questione di inferiorità, ma il ritardo dello sviluppo del Mezzogiorno d’Italia ha cause complesse e varie, che vanno da residui feudali ad una mentalità condizionata da superstizioni religiose. Resta comunque lo stato di abbandono in cui è stata lasciata per decenni l’agricoltura non per colpa sua, ma per le responsabilità dei politici che i meridionali hanno mandato a Roma per salvaguardare il bene comune. Essi hanno fatto invece i loro interessi, senza curarsi del loro territorio, guardando solo il loro “particulare” di memoria guicciardiniana.
    Parlare ancora in termini di dualismo è sbagliatissimo a tutti i livelli, a meno che si creda alle tesi lombrosiane dell'inferiorità biologica del meridionale e alla superiorità delle arance spagnole su quelle siciliane.
    Nunzio Dell’Erba

  • ADA GOBETTI, SCUOLA
    E IMPEGNO ANTIFASCISTA

    data: 23/04/2020 19:01

    La personalità e l’impegno antifascista di Ada Prospero, moglie sfortunata di Piero Gobetti, si riassumono nel suo volume «Diario antifascista» che, seppure pubblicato varie volte (1956, 1972, 1975, 1979, 2005), rimane un testo prezioso per comprendere la Resistenza, i valori democratici ad essa connessi e il 25 aprile come giornata emblematica della Liberazione dal nazifascismo. La morte del coniuge, avvenuta a Parigi il 15 febbraio 1926, è vissuta come unione «eccezionale» e legame di arricchimento culturale. Essa non lascia inattiva la giovane Ada (era nata a Torino il 14 luglio 1902), che dopo la scomparsa del marito avverte la necessità di ritrovarsi, maturando una scelta antifascista fino a sfociare in un’intensa attività contro il regime mussoliniano durante la Resistenza.
    Assente nell’«Enciclopedia dell’antifascismo e della Resistenza» (1971), non biografata nel «Dizionario del movimento operaio» (1976), presentata con poche righe nel «Dizionario della Resistenza italiana» (1995), Ada Prospero ha un ruolo attivo nel gruppo torinese di «Giustizia e Libertà» e in quello femminile che opera nella lotta nazionale contro il nazi-fascismo, di cui lascia una narrazione appassionata nel suo Diario partigiano (1956). Eppure fino agli inizi degli anni Ottanta, le indagini su Ada Prospero come vicesindaco del Comune di Torino (1945-46), si riferiscono agli anni che trascorre vicino a Piero Gobetti come collaboratrice di «Energie Nove» e di «Rivoluzione Liberale». Venuta meno la tendenza degli studiosi a considerarla come una personalità sentimentale, ella svolge come pedagogista un’intensa attività sul periodico «Il Giornale dei Genitori» e sul quotidiano «l’Unità».
    Il decennio 1955-1965 è emblematico per comprendere gli interessi culturali di Ada Prospero, che propone un modello educativo finalizzato a un progetto di «democrazia espansiva» sulla base dei valori costituzionali. Il suo richiamo alla responsabilità dell’individuo e ai suoi doveri, più che dalla dottrina marxista, sembra derivare in parte dall’insegnamento pedagogico di Giuseppe Mazzini che ne caldeggia la priorità sui diritti e concentra l’educazione nei luoghi preferenziali della famiglia e della scuola. Questo motivo è presente negli articoli che scrive per il quotidiano romano «Paese», poi diventato «Paese Sera», o per l’edizione piemontese de «l’Unità», in cui si cimenta nelle recensioni di libri e di film, discute commenti della cronaca quotidiana o dei fatti di costume tramite la rubrica «Posta dei lettori».
    Dai numerosi interventi emerge l’interesse per il fatto educativo, che presenta un aspetto problematico e complesso, nell’analisi della famiglia, in quella dei problemi della coppia o del rapporto tra docente e discente. La sua proposta innovativa si differenzia nelle conclusioni dalla tradizione marxista o mazziniana nello sforzo che Ada Prospero compie per dimostrare che l’educazione non può essere rinchiusa nell’àmbito della sezione, della bottega, del cinema o del campo sportivo, ma deve coinvolgere tutta la società.
    Questo nuovo leitmotiv si riassume nella formula «Siamo tutti educatori», che compare nel primo articolo apparso nel 1953 sul periodico «Educazione democratica», diretta insieme a Dina Bertoni Jovine. E riflette un pensiero che estende l’impegnativo categorico di ciascuno a dare testimonianza delle diverse coordinate educative. Il rifiuto dell’educazione come funzione esclusiva dello Stato etico si unisce alla condanna del modello stereotipato del fascismo, volto a rinchiudere la donna nella sfera riproduttiva e l’uomo nell’autoritarismo paterno. Il rifiuto del ruolo della donna remissiva è connesso alla necessità dei coniugi di svolgere il loro «mestiere genitoriale», al loro reciproco dialogo e alle difficoltà quotidiane incontrate nel vissuto quotidiano.
    Parimenti la scuola deve ispirarsi al dialogo, inteso alla maniera di Guido Calogero e alle elaborazioni che egli presenta nel corso di pedagogia tenuto nel 1938-39, confluito nel libro La scuola dell’uomo (Firenze 1939) e richiamato nel mio volume Intellettuali laici nel ’900 italiano (Padova 2011, pp. 198-199). La proposta pedagogica di Calogero, basata su un’etica laica, deve riflettere una tensione ideale verso un mondo di valori profondamente radicato nell’uomo. L’aspetto fondamentale di questa nuova visione riguarda la rivalutazione della coscienza, nell’àmbito della quale la presenza individuale deve essere coniugata con la moralità che è data dalla «posizione dell’esistenza altrui» (La scuola dell’uomo, ivi, p. 199). Il saggio non ha una buona accoglienza da parte di Aldo Capitini, mosso da un’istanza etica aperta al dialogo, ma incentrata su una visione religiosa distante dalle riflessioni di Calogero e di Piero Calamandrei.
    Sono questi influssi meritevoli di essere ripresi e approfonditi per meglio definire assonanze e discordanze tra le posizioni pedagogiche di Calogero e di Capitini con quelle di Ada Prospero. Negli anni della sua collaborazione al «Giornale dei Genitori», idealità e prassi educativa diverse la portano a un impegno politico nel partito comunista e ad un’ammirazione verso la pedagogia di ispirazione sovietica. Le riflessioni di Ada Prospero, vincolate al messaggio politico gobettiano, sono in parte datate, ma altre volte favoriscono la comprensione degli avvenimenti reali e della direzione verso cui si muove il processo democratico nell’Italia contemporanea. Il modello educativo di Ada Prospero riprende le istanze di una trasformazione etica per il mutamento strutturale della società, ma presenta risvolti utopici, seppure proiettati alla ricerca di rapporti umani più soddisfacenti alla convivenza familiare e civile.
    La sua morte, avvenuta il 14 marzo 1968, lascia un vuoto nell’antifascismo torinese e italiano per la libertà di pensiero e per il suo impegno democratico inteso come invito all’educazione politica dei lavoratori e alla partecipazione dei cittadini,
     

  • ALLA RICERCA DELLE RADICI
    NELLA TRAGEDIA ISTRIANA

    data: 15/04/2020 11:00

    Silvia Dal Pra’ è una giovane docente che ha al suo attivo due romanzi: «La bambina felice» (Gremese) e «Quelli che però è lo stesso» (Laterza), il primo una narrazione storica di una donna con due figlie abbandonata dal marito e il secondo un reportage dedicato a una scuola periferica di Roma. Ora per la casa editrice barese pubblica un altro romanzo «Senza salutare nessuno. Un ritorno in Istria» (Bari-Roma 2019, pp. 161), un affresco biografico che va alla ricerca delle proprie radici e del suo bisnonno paterno, perito nella foiba di Vines.
    Preceduto da una citazione poetica di Giuseppe Ungaretti «Cessate d’uccidere i morti», il romanzo presenta uno stile di piacevole lettura e si distingue come guida di una terra attraente e densa di eventi storici come la regione istriana, nonostante il doloroso episodio connesso alla scomparsa del suo bisnonno paterno. L’autrice segue infatti le tracce della storia e si mette alla sua ricerca per spiegare a se stessa e agli altri quell’«evento scatenante» di un trauma che ha segnato la vicenda dei suoi genitori e quella della generazione successiva.
    In questo àmbito l’Autrice considera terribile quell’evento familiare, che ha segnato la vita della sua nonna e «a scendere quella di suo padre, di sua madre e un po’ anche la sua». Un tracciato biografico che l’Autrice vive come una «necessità privata» e percorre con tenace volontà, quasi come «un bisogno di coprire un buco» per capire come questa storia – la vita da esule, le vicissitudini familiari, l’infoibamento – avesse lasciato una traccia indelebile dei «rapporti intergenerazionali». Una storia che la spinge nel 1992 come volontaria a recarsi in Bosnia per vivere la guerra da vicino, un’esperienza che si incrocia con quella del suo avo, ma raccontata con autoironica descrizione: «avevano bisogno di capitale e di ingegneri e di architetti e di medici e non di rampolli della buona borghesia italiana iscritti al Dams». Quella guerra balcanica è presentata come una conseguenza ritardata di altri eventi bellici che si sono susseguiti nel corso del cosiddetto «secolo breve».
    Il racconto autoironico non svilisce però la tragedia del suo avo per vivere una storia che nessuno le ha mai raccontato, neppure la nonna Iole di origine istriana (Giobbe-like), donna riservata e poco legata alla memoria storica. Le foibe erano ancora episodi che dovevano essere taciuti e non avevano suscitato quell’interesse nazionale che porteranno al Giorno del Ricordo, istituito con la legge n. 92 del 30 marzo 2004. Fu solo dopo che la foiba di Bassovizza venne dichiarata monumento di interesse nazionale che l’autrice decide di compiere quel viaggio, stringendo una rete di relazioni con personaggi indispensabili alla scrittura del racconto.
    In questo viaggio, non sempre idilliaco, entra in rapporto con personaggi reticenti ed anche ostili, che sembrano all’autrice veri e propri antagonisti. Eppure quella vicenda familiare, in cui venne coinvolto il suo avo, è disseminata di morti, alcuni di malattie infettive come malaria e altri di tifo o tubercolosi. Ma il suo avo era invece sparito nelle foibe, come recita l’iscrizione che l’autrice trova in un elenco di morti: «Romeo Martini di Giacomo, anni 41, commerciante infoibato a Vines il 5 ottobre 1943». Di lui traccia un ritratto che definisce con l’ausilio di testimonianze orali e da ricerche documentali: gestore di un negozio alimentare e poco incline alla politica, seppure tacciato di essere vicino alle autorità fasciste.
    Nel romanzo l’autrice sembra scansare la brutta qualifica di fascista e sostituirla con quella meno compromissoria di benestante (non ricco). Così ella segue le vie indicate dai testimoni per giungere al cimitero ove si presume fosse sepolto il suo avo, ma trova solo il nome, perché nulla indica la sua presenza nella tomba. Così l’autrice va alla ricerca del suo avo, cercando di ricostruire la sua vita politica e giungendo alla conclusione che alla radice c’è un odio profondo tra opposte fazioni, quelle dei fascisti mussoliniani e quelle dei comunisti titini. Sono proprio questi che uccidono e si vendicano dell’infausto regime fascista anche con italiani come il bisnonno dell’autrice.
    Tuttavia, al di là delle vicende che accompagnano il loro dissidio politico, il romanzo si snoda con un racconto quasi «intimista» e si caratterizza come una storia privata, che può aiutare le nuove generazioni a comprendere nel loro vissuto quotidiano «se ciò che si sono portati dietro è simile a ciò che è arrivato a me, se ci sia un punto di unione, una traccia che ci rende simili in un dolore che non se ne andò, un buco di cui in tanti cercarono di appropriarsi ma che in pochi conoscono veramente, una foiba che padri e madri consegnarono ai propri figli raccomandando loro il silenzio, perché quel punto morto non avesse mai un nome né una storia» (p. 152).

     

  • DOPO LA PANDEMIA
    CI SARA' LA RESURREZIONE?
    QUANDO? E DI CHE TIPO?

    data: 13/04/2020 18:46

    L’emergenza coronavirus è in corso, eppure abbiamo già diversi libri sulla terribile pandemia che ha provocato nel mondo più di 42 mila morti. Da pochi giorni è in circolazione il libro 2020. Pandemia e Resurrezione (Guerini e Associati - goWare, Milano-Firenze, pp. 127) di Giulio Sapelli, con contributi di Giuseppe De Lucia Lumeno e Alessandro Mangia. Il saggio, seppure pubblicato in piena crisi di emergenza pandemica, si distingue dai consueti instant book che escono nell’immediatezza di eventi eccezionali. Esso presenta infatti capitoli ricchi di richiami culturali alla letteratura storica e filosofica sulle epidemie e la loro diffusione nel mondo.
    Uno scenario inquietante, che presenta il volto sofferente di un’umanità colpita da una devastante sciagura, da cui è possibile trarre una rara occasione di trasformazione, ossia di resurrezione sulla base della lezione di San Paolo, là dove nella «Lettera ai romani» dice: «Ritengo che le sofferenze del tempo presente non siano paragonabili alla gloria futura che sarà rivelata in noi» (cap. 8). Abbandonato l’afflato religioso, Sapelli riprende categorie economiche e tecniche analitiche per spiegare l’insorgere della pandemia e proporre un’attenta lettura del cosiddetto «cigno nero» che si è abbattuto nel mondo con spaventosa virulenza.
    Con raffinata acribia culturale, l’autore attribuisce il triste fenomeno della pandemia alla globalizzazione, di cui è difficile prevederne l’impatto e coglierne il passaggio finale, ossia l’approdo decisivo al dominio del mercato oppure al riconoscimento del lavoro come mezzo principale di equità sociale. Tuttavia Sapelli si domanda se il 2020 - quello che sarà ricordato come «l’anno fatale» - sarà l’inizio di una nuova rilettura del sistema globalizzato e della crisi di un mondo proiettato alla ricerca di crescita economica e di concordia tra gli Stati. Per ora risulta certo che l’unica globalizzazione è stata quella finanziaria con una moneta simbolica creata dalle banche centrali e quella digitale derivata dalle banche sulle scommesse dei derivati: unica merce in grado di spostarsi in tutto il mondo senza barriere e a costi di transizione tendenti allo zero.
    Di fronte alla gestione dell’emergenza si addensa invece più di un’ombra sul ruolo dell’Unione europea e della Cina: se la prima si è trovata impreparata ad affrontarla, la seconda ha gravi responsabilità nella comunità internazionale per avere taciuto l’insorgere dell’epidemia. Per l’autore il comportamento della Cina avrà anzi conseguenze geopolitiche e determinerà un riflusso nel concerto della globalizzazione finanziaria. Al cosiddetto modello cinese, avvolto ancora in un approccio enigmatico, l’autore dedica pagine significative sul suo basso grado di civilizzazione giuridica e sulla «disinformazione sanitaria» messa in atto da Xi Jinping, segretario generale del Partito comunista cinese dal 15 novembre 2012 e presidente della Repubblica popolare cinese dal 14 marzo 2013.
    Se l’Europa si caratterizza per l’assenza come potenza politica e marittima, la Cina ha manifestato nell’ultimo decennio un volto «imperialistico» con il suo dominio commerciale. Sul piano interno essa può essere definita un regime a capitalismo monopolistico di Stato controllato da una burocrazia dittatoriale. La questione riguarda invece il suo intervento sanitario, certamente benefico per frenare l’epidemia in corso, ma assai pericoloso in una nazione come l’Italia debole e priva di una classe dirigente capace di gestire l’emergenza sanitaria.
    Di fronte a questo complesso problema l’autore considera negative le misure del governo italiano, che non ha saputo tutelare la salute dei cittadini e, al contempo, salvaguardare la parte essenziale dell’apparato produttivo «senza di cui neppure le risorse per battere l’epidemia possono riprodursi». La misura restrittiva di «stare a casa» è stata una rinuncia ad utilizzare le potenzialità tecnologiche che - ignorate dalla classe politica italiana – sono state impiegate come percorso di «tracciabilità» nella Corea del Sud o Taiwan dove le persone contagiate sono state sottoposte a un periodo di quarantena in strutture ospedaliere e quelle entrate in contatto con i positivi al test sottoposte ad accurati controlli mediante interconnessioni telefoniche wireless e con modelli algoritmici di previsione.
     

  • E IL "NUMERO PRIMO" S'INOLTRO' NEI TERRITORI INESPLORATI DEL CONTAGIO

    data: 20/03/2020 16:32

    Paolo Giordano è un giovane scrittore che gode di uno spazio eccessivo e di una «competenza» supervalutata nella stampa del nostro «scombinato» Paese. L’aggettivo è usato da Gaetano Salvemini per il titolo del libro «Italia scombinata» (Einaudi, Torino 1959), che presenta la situazione dell’Italia post-bellica ed offre un insegnamento prezioso per la lettura del libro che sto per commentare: «La verità – afferma il grande storico pugliese – è che, dove tutti sono responsabili, ciascuno è responsabile per la parte che gli spetta, in proporzione della sua capacità a fare il bene o a fare il male, e in proporzione del male che ha realmente fatto e che non ha cercato di impedire. Un contadino sardo è anche lui responsabile per la sua quarantacinquemilionesima parte di quanto avviene oggi in Italia. Ma un ministro che sta a Roma è infinitamente più responsabile che un contadino sardo per quel che avviene col suo consenso, o per suo ordine, o colla sua semplice passività» (p. 29).
    Questa riflessione mi è venuta in mente durante la lettura dell’ultimo libro di Paolo Giordano Nel contagio (pp. 63) uscito in coedizione Einaudi - «Corriere della Sera». La sua uscita, annunciata con grande clamore dal quotidiano milanese, vede la luce in un momento critico per l’Italia e per gli Italiani afflitti dal cosiddetto Covid -19 per le morti diffuse, per la drastica limitazione delle libertà individuali e per altri provvedimenti restrittivi: chiusura delle scuole, divieto di incontri, proibizione degli spostamenti sul territorio e costrizione di restare a casa. L’Autore scrive di argomenti che non rientrano nella sfera abituale delle sue conoscenze scientifiche e dei suoi interessi culturali, come succede con questo suo libriccino confezionato sulla base di un leitmotiv secondo cui in questa epidemia «la colpa, se proprio vogliamo trovarne una, è tutta nostra» (p. 41).
    «Restare a terra» si intitola l’incipit del saggio di Giordano, che considera «l’epidemia di coronavirus» la candidata privilegiata dell’«emergenza sanitaria più importante della nostra epoca» (p. 9). Altro che candidata, la terribile epidemia è diventata protagonista di un contagio globale che ha provocato 25 mila morti e sta mettendo in crisi le economie di tutti i Paesi del mondo. Aspetto che viene colto dall’Autore quando scrive che «il contagio è la misura di quanto il nostro mondo è diventato globale, interconnesso, inestricabile» (pp. 4-5).
    In questo àmbito sorgono spontanei alcuni interrogativi: perché scrivere se il «nostro mondo» non può essere districato? Perché affliggere noi comuni mortali delle esperienze personali dell’Autore? Perché costringere noi tenaci lettori di novità librarie a sorbirci la sua passione per la matematica come eccelsa e idonea disciplina a «tenere a freno l’angoscia» (p. 7)? A chi può interessare se l’Autore abbia cenato l’ultima volta a casa di un suo amico (p. 17) o se abbia trascorso le vacanze nel Cilento o nel Salento (p. 49)?
    Nel suo contraddittorio elenco («Suscettibili», «Infetti», «Rimossi») la personificazione del virus, in altre parti presentato come una entità astratta, è puerile e non aiuta gli operatori sociali a svolgere la loro opera di assistenza, se essi non hanno i mezzi necessari per evitare che altri «essere umani» siano infettati (p. 10). La «matematica del contagio» (pp. 9-10), su cui l’Autore esprime concetti veloci e giudizi frettolosi, necessita di studi lunghi e pazienti, che a distanza dei mesi dalla sua esplosione non sembrano essere a disposizione della comunità scientifica. L’esempio delle «biglie» e la riduzione delle persone a numeri sono quanto di puerile che uno scrittore possa compiere in un un’analisi che necessita il contributo interdisciplinare di esperti nelle varie sezioni della scienza moderna. Non è tanto la «distorsione di cosa è normale a generare paura» (p. 14), ma la novità del virus e il diffondersi di una epidemia che possa infettare noi stessi e i nostri cari.
    Di fronte alla pandemia odierna essere ottimisti o pessimisti (pp. 17-18) non inficia il suo diffondersi e non scalfisce le speranze di quanti desiderino la sua fine: che senso ha allora sottolineare l’esigenza delle persone a facili illusioni e a disquisire su questioni filosofiche che necessitano di vasta esperienza culturale? Eppure l’Autore disquisisce su argomenti a lui ignoti, interviene su temi che esulano dalle sue competenze professionali (p. 18), invade il territorio degli epidemiologi (p. 19) per fare la classica «scoperta dell’acqua calda» che «bisogna allontanare le biglie una dall’altra» (p. 19), che «nel contagio la mancanza di solidarietà è prima di tutto un difetto d’immaginazione» (p. 29) e che per ora «il solo vaccino a nostra disposizione è una forma un po’ antipatica di prudenza» (p. 20). Dunque se io non sono solidale con un malato contagiato dal coronavirus, incorro nel difetto di immaginazione? Dunque se io mi ammalo, devo essere prudente in quanto non esiste il vaccino per curarmi?
    Nonostante questi inviti un po’ ridicoli, il «Corriere» ha dedicato al libro recensioni entusiastiche (si veda quella di Mauro Bonazzi del 26 marzo 2020) ed ha cominciato una pubblicità a pagina intera sul numero del 27 marzo (p. 30), che si presuppone ancora destinato a protrarsi per altre settimane. Nella recensione del libro Bonazzi parte da Tucidide e dalla sua descrizione della peste che devastò Atene nel 430 avanti Cristo per poi arrivare a Freud e così rilevare il contrasto tra «ragione e passione»: una questione assente nel libro dell’Autore.
    In questo contesto elementare e farraginoso Paolo Giordano ricorda la lezione paterna sulla «tormenta di neve» che lo colpì durante una sua gita in montagna e che riassume nel consiglio pacato della rinuncia come unica manifestazione di coraggio (p. 21). Inezia letteraria che si unisce ad altri aspetti inutili e vaghi come la cosiddetta malattia «Bocca- mani-piedi» (pp. 23-24), il rischio di una eventuale partecipazione a una festa di compleanno (pp. 25-26), l’invito ossessivo di restare chiusi in casa (pp. 27-29), il pensiero che la «Covid-19 possa diffondersi in Africa» (pp. 30-31) oppure le strane riflessioni sulla globalizzazione con il riferimento veloce alla «meditazione abusata di John Donne “nessun uomo è un’isola”» (p. 33).
    Sulla base di questo scenario incerto ed elementare, l’Autore ritorna sulla funzione matematica, nel cui àmbito «esistono tecniche raffinate ed efficienti per governare la confusione, esistono equazioni, anzi grappoli di equazioni concatenate l’una all’altra per guardare come un sistema caotico evolverà nel futuro» (p. 36). In questo repertorio Bonazzi coglie «pagine affascinanti» per il tentativo dell’Autore a domare la realtà e per l’uso esclusivo dei numeri a «proteggerci dal tumulto del mondo dal proliferare disordinato della vita e della morte» (M. Bonazzi, «Noi nell’età dell’incertezza», in «Corriere della Sera», 26 marzo 2020, p. 36). Sfugge così al collaboratore del giornale milanese che l’invito ai dettami matematici è esteso anche ad altri settori del sapere scientifico, ma – seppure esposto in modo elementare – conserva una sua dignità culturale di modernità per la possibilità di costruire una rete generale di conoscenza riguardo al coronavirus.
    Così l’Autore si inoltra in ambiti ancora oscuri e si introduce in territori inesplorati per offrire verità indiscutibili, esprimere giudizi apodittici e svelare un «chiaro meccanismo generale» del coronavirus (p. 38). «Il Cov-2 – scrive con sicumera l’Autore – ha contagiato l’uomo a partire da un’altra specie animale. Tutti puntano il dito contro i pipistrelli, dai quali arrivava anche la Sars. Ma dai pipistrelli Cov-2 non è passato direttamente all’uomo, ha fatto una sosta intermedia in un’altra specie, forse un serpente. All’interno di quell’ospite, il suo RNA è mutato in modo da diventare pericoloso per noi. A quel punto ha spiccato il secondo salto e infettato una o più persone, i pazienti zero di questa storia planetaria» (p. 39). Conclusione: «Fatto sta che in molti hanno riassunto la storia di Cov-2 in poche parole planetarie: “in Cina mangiano degli animali orribili. E vivi”» (p. 39).
    In questo senso appare risibile la constatazione dell’Autore quando cerca di collegare il bisogno crescente di cibo all’incremento demografico, inducendo milioni di persone a mangiare questi orribili animali, tra i quali i pipistrelli, anch’essi forieri di malattie e serbatoi di Ebola nell’Africa occidentale (p. 44). Non affiora mai nella mente dell’Autore che la miseria sia il risultato delle disparità di ricchezze e delle ingiustizie sociali? Persino «la xylella fastidiosa», che ha infestato molti uliveti in Puglia, «arriva dalla Cina» (pp. 49 e 50), quando è ormai appurato che il maledetto batterio è presente anche in America latina e negli Stati Uniti. Come sia arrivata la Xylella nel Salento non vi sono certezze, non certamente dalla Cina, ma con ogni probabilità sembra che sia stata trasportata da piante ornamentali provenienti da altri luoghi: così si legge in un accurato articolo sulla «Storia della Xilella infame» (Luciano Capone, in «Il Foglio», 25 aprile 2015).
    In altre pagine l’Autore attribuisce il successo del coronavirus e l’insorgere di «nuovi patogeni» - già tranquilli «nelle loro nicchie naturali» - agli aspetti devastanti dell’ambiente come la deforestazione, l’urbanesimo, gli allevamenti intensivi (p. 42). La causa di questa devastazione, seppure espressa in forma interrogativa, segna il trapasso di «microrganismi mai censiti dalla scienza» in «una nuova patria» (p. 43), di cui la più idonea è quella dell’uomo: quale sia poi il rapporto tra una visione malthusiana e il sorgere della pandemia non è detto e l’Autore non è in grado di dirlo.
    In questa miriade di considerazioni, l’Autore introduce anche il tema del cambiamento di clima, su cui offre uno spaccato superficiale, sostenendo che il «climate change» potrebbe apportare un beneficio a malattie come l’Ebola, la malaria, la dengue, il colera, il morbo di Lyme, il virus del Nilo occidentale e persino alla diarrea (p. 47). E nella riga successiva invita «a pensare il contagio», perché gli «esseri umani» fanno parte di una «comunità» e sono «la specie più invadente di un fragile e superbo ecosistema» (p. 48), Invito veramente sconfortante che l’Autore vuole giustificare con il richiamo all’invocazione del Salmo 90: «Insegnaci a contare i nostri giorni e acquisteremo un cuore saggio» (p. 62). Parole in libertà che, oltre ad essere prive di senso e di conoscenza della storia umana, non colgono neppure il significato del brano volto ad un invito preciso ad essere realisti, senza essere sopraffatti dall’affanno e oberati dalle preoccupazioni in un momento – aggiungo – in cui gli uomini in questo momento sono stati privati del loro vissuto abituale, del loro lavoro e della vita sociale.
    Eppure l’Autore afferma che nell’epidemia odierna gli uomini passano i loro giorni a contare «gli infetti e i guariti … i morti, i ricoveri e le mattine di scuola saltate … i miliardi bruciati dalle borse, le mascherine vendute e le ore che mancano al risultato del tampone» (p. 62). Si tratta di una lettura distorta della realtà che non tiene presente la situazione del Paese e del sistema sanitario nazionale, i bisogni primari delle persone, la loro necessità ad uscire liberamente in strada e soprattutto cogliere lo sforzo per uscire da questa terribile pandemia.
     

  • PESTE NERA, LUNGO
    LA VIA DELLA SETA...

    data: 20/03/2020 16:32

    Nella miriade di articoli sul coronavirus e sulle epidemie, scarso rilievo è stato dato al morbo della peste nera che colpì l’Europa tra il 1268 e il 1352. Le drammatiche immagini di Wuhan hanno riacceso l’interesse per la storia delle epidemie: articoli e saggi hanno invaso la stampa quotidiana e sono stati pubblicati anche libri come quello intitolato «Virus. La grande sfida. Dal coronavirus alla peste: come la scienza può salvare l’umanità» (Rizzoli, Milano 2020, pp. 240) di Roberto Burioni o l’altro «Corona virus. Gli esperti rispondono» (Corriere Della Sera, Milano 2020) e curato da Simona Ravizza con i contributi di Raffaele Bruno, Sergio Harari, Alberto Mantovani, Giuseppe Remuzzi, Michele Riva e Gian Vincenzo Zuccotti.
    Durante quel doloroso evento, che causò la morte di 20-25 milioni di persone, furono espressi i giudizi più strampalati: alcuni attribuirono l’insorgere della peste ai genovesi provenienti dal Mar Nero sulla cosiddetta via della Seta, altri l’attribuirono ai mongoli e alle catapulte utilizzate per gettare i corpi degli appestati dentro le mura della città assediata di Caffa. Da questa il morbo seguì le rotte del commercio per diffondersi in Europa, dove i primi focolai si ebbero in varie zone dalla Svizzera alla Sicilia. Sembra però che il primo focolaio si sia manifestato proprio nella città cinese dello Hubei, da dove è partito il contagio attuale del Coronavirus.
    Per Amedeo Feniello, autore di un saggio sull’argomento, pubblicato nel volume collettaneo «Storia del mondo. Dall’anno 1000 ai giorni nostri» (Laterza, Bari-Roma 2019), la peste nera è partita proprio da Wuhan, dove «si scatenò il primo grande focolaio che avrebbe sconvolto il volto dell’intera Euroasia». Essa si sviluppò nel 1331-1332 «per poi proseguire nelle steppe eurasiatiche, nel Sud della Russia. In quindici anni la peste avrebbe fatto un viaggio di 6500 chilometri dalla Cina fino al Mar Nero, fino al tourning point di Caffa». La peste nera oscurò ogni pandemia nella storia dell’umanità, si propagò con una velocità inusitata e si tradusse in una grande sciagura.
    Per il cronista contemporaneo Matteo Villani (1280 ca - 1363), la peste nera partì dal Cattai, ossia dalla Cina: «Cominciossi nelle parti d’Oriente, nel detto anno (1346), inverso il Cattai e l’India superiore e nelle altre provincie circostanti a quelle marine dell’Oceano, una pestilenzia tra gli uomini d’ogni condizione di catuna età e sesso: che cominciavano a sputare sangue e morivano chi da subito, chi in due o tre dì, e alquanti sostenevano più al morire. E avveniva che chi era a servire questi malati […] ai più ingrossava l’anguinaia (l’inguine) e a molti sotto le ditella (ascelle) delle braccia a destra e a sinistra e in altre parti del corpo» («Cronica», Torino 1979).
    Come il contemporaneo Villani, Giovanni Boccaccio (1313-1375) prende spunto dalla peste per comporre il «Decàmeron», nella cui opera trasfonde la sua esperienza di spettatore nella tragedia che colpì nel 1348 Firenze. La sua testimonianza oculare è emblematica per comprendere la situazione eccezionale che la pestilenza determinò nei costumi della città toscana, dove furono sconvolti i riti funebri e persino le condoglianze con l’uso di «risa e motti e festeggiare compagnevole; la quale usanza le donne, in gran parte posposta la donnesca pietà, per la salute di loro avevano ottimamente appresa» (Intr. 34). Come testimone oculare lo scrittore toscano fu colpito non solo dalla trasgressione delle norme civili e religiose, ma anche dal dilagare della «bestialità» della gente che non sapeva più affrontare razionalmente la vita e la morte.
    Negli anni successivi alla stesura del capolavoro di Giovanni Boccaccio, composto con ogni probabilità negli anni compresi tra il 1350 e il 1355, si affermò l’idea che il focolaio primigenio fosse collocabile nel centro dell’Asia. Ma sarà il medico tedesco Justus Friedrich Karl Hecker (1795-1850) a collocare il primo focolaio in Cina da dove si espanse in Euroasia.
    Nell’ultimo decennio alcuni scienziati hanno invece stabilito che esso fosse collocabile in Cina, dopo uno studio del bacillo poi denominato «Yersinia pestis». Il bacillo della peste bubbonica, che trae il nome dal suo scopritore – il medico svizzero Alexandre John-Emile Yersin (1863-1943) – che nel 1894 lo mise a fuoco, in contemporanea del medico giapponese Shibasaburo Kitasato (1852-1931) e del batteriologo tedesco Emil von Behring (1854-1917). Per il succitato Feniello, il bacillo, che «può restare per settimane o anche per mesi silente», è in grado di «contaminare i suoli e insediarsi negli animali, per via aerea o per ingestione». Esso può inocularsi negli animali e nel corpo degli uomini, causando un carico di morte mediante crisi respiratorie e devastanti attacchi polmonari: «pericolosissimo per chi stava vicino all’ammalato, quando cominciava a espettorare copiosamente».
    La testimonianza del cronista fiorentino e degli altri studiosi della fine secolo XIX, collocabile negli anni precedenti la sua morte e raccolta dai viaggiatori coevi nei porti del Mediterraneo, è confermata dalla scienziata italiana Giovanna Morelli, la quale ha indicato nella via della Seta il percorso della diffusione della pandemia della peste. In uno studio, condotto in collaborazione con Y. Song e C. Mazzoni e pubblicato nell’ottobre 2010 sul periodico «Nature Genetics», «il bacillo si sarebbe evoluto proprio in Cina»: una tesi confermata due anni dopo dal genetista Mark Achtman, che «ha trovato nel grande Paese asiatico non solo quella originaria ma anche le sue derivazioni, in molteplici branche». Dalla Cina il bacillo si muove con celerità attraverso vari itinerari e si unisce a tanti compagni di viaggio, depositandosi nei posti più impensabili come carri, carovane e dromedari. Arrivato in Europa, esso si insinuò nei grandi scali marittimi, varcando le Alpi fino alle isole britanniche e oltre.
     

  • STORIA D'ITALIA:
    LA CONFUSA "LETTURA"
    DEL CORRIERE

    data: 16/03/2020 18:25

    Gli Italiani sono preoccupati per il rinvio del convegno storico “Sguardi del mondo. L’Italia contemporanea nella storiografia internazionale”, che si doveva tenere a Bologna dal 18 al 21 marzo di quest’anno. L’emergenza epidemica, provocata dal coronavirus, ha costretto i promotori a rinviare all’anno prossimo il convegno. Essi sono stati costretti a sospendere l’iniziativa culturale organizzata dal “Dipartimento delle Arti e da quello di Storia, Culture, Civiltà” della città emiliana.
    L’annuncio è dato da Fulvio Cammarano sull’inserto settimanale «la Lettura» del «Corriere della Sera» (15 marzo 2020, n. 433, pp. 6-7), che con la curatela di Antonio Carioti ha dato avvio ad un dibattito tra Catherine Brice e David Forgacs, due degli autorevoli partecipanti al convegno. Con il suo consueto linguaggio sibillino, Cammarano informa i lettori che “da tempo la logica dell’indagine comparata sta spingendo gli storici a confrontarsi non con i giudizi antropologici sull’arretratezza, ma con i processi di modernizzazione”, che “ci permettono di resistere all’idea dell’eccezionalismo italiano, per apprezzare il ruolo e il peso dei confini senza farsi ingabbiare”.
    Nel suo “pezzullo” Cammarano crede di aver spiegato così il motivo del rinvio del convegno, a cui l’anno prossimo dovrebbero partecipare “oltre 30 relatori provenienti da Europa, Stati Uniti e America latina”, per discutere sulla storia italiana dall’Unità all’età repubblicana. L’illustre accademico aggiunge anche che la legittimazione degli Stati nazionali ha indotto gli storici a “lasciarsi alle spalle la lunga tradizione dell’«Italia giudicata»”, come se fosse noto a tuttiche cosa si debba intendere con questa denominazione. Forse egli si riferisce al titolo che Ernesto Ragionieri (1926-1975) diede mezzo secolo fa al volume antologico “Italia giudicata 1861-1945 ovvero la storia degli Italiani scritta da altri” (Laterza, Bari 1969, pp. 855). La raccolta del valente storico fiorentino, ancora utile per comprendere il giudizio storico degli stranieri sull’Italia, si allontana dall’assunto di Cammarano, il quale sostiene che questa tradizione dell’«Italia giudicata» “spesso si è trasformata nella ricerca del grado di aderenza del «caso italiano» ai grandi modelli di occidentali”.
    Questo fuorviante giudizio interpretativo distorce la storia d’Italia e non tiene conto delle ponderate osservazioni di Ernesto Ragionieri, che con acribia storica e con dovizia di riferimenti mette in risalto le pagine più interessanti degli storici stranieri sull’Italia. Sulla scia delle originali osservazioni del grande meridionalista Pasquale Villari (1827-1917), lo storico fiorentino propone una distinzione degli storici stranieri, i quali non pochi hanno dato una visione superficiale della storia d’Italia. Se l’esimio docente dell’accademia bolognese avesse letto attentamente l’introduzione di Ragionieri, si sarebbe accorto che la sua tesi sulla modernizzazione è vecchia come il cucco. Ne parla già Jacob Burckhardt (1818-1897), il grande storico svizzero che - attratto dalla “civiltà del Rinascimento” - aveva rilevato che “soltanto dove c’è la ferrovia, è stata passata in gran fretta una mano di modernità sulla vecchia misère” per la presenza di un ceto politico monarchico e militarista.
    Su questo fragile impianto storiografico, volto alla ricerca dei cosiddetti “sguardi del mondo” sull’Italia, si innesta il discorso del francese Catherine Brice e dell’inglese David Forgacs. Essi, intervistati da Antonio Carioti (l’esperto per eccellenza di storia moderna e contemporanea del giornale milanese), dimostrano una conoscenza sommaria della storia d’Italia. E se Cammarano propone un confronto con gli altri Paesi sulla modernità, Forgacs vuol “scartare termini come arretratezza e modernizzazione”, perché “implicavano una via unica di crescita virtuosa di tutti i Paesi verso lo stesso modello di capitalismo avanzato e di democrazia liberale, escludendo altre vie”.
    Allo storico inglese si associa Catherine Brice, che considera “ambigua” la nozione di modernità, senza considerare la varietà delle culture politiche che hanno caratterizzato la storia d’Italia. L’Italia unita – bisogna ricordare alla storica francese – nasce come Stato liberale con un suffragio elettorale ristretto e imbocca una via accidentata verso la democrazia, ottenuta con immensi sacrifici solo con la sconfitta della monarchia e del fascismo. La presenza dei socialisti, dei cattolici e dei mazziniani è una costante nella storia d’Italia e nel dibattito storiografico, che seppure nella loro diversità ideale hanno contribuito a porre le basi di una moderna democrazia.
    Nelle domande sue raffazzonate, Carioti considera il pensiero mazziniano improntato ad un “nazionalismo romantico”, che dà adito alla storica francese di sfondare una porta aperta, là dove afferma che “il mazzinianesimo […] fu sconfitto dalla soluzione monarchia sabauda”. Quello di Mazzini non fu per nulla un “nazionalismo romantico”, come si ricava dalla sua iniziativa di costituire una “Giovine Europa” (1834) e a tale idea rimase fedele per tutta la vita. Poi, con un volo pindarico stravagante, accosta la Lega di Salvini a un progetto “nazionalista/regionalista”, che non discende minimamente dal pensiero di Mazzini, contrario ad ogni forma di federalismo e favorevole ad un regionalismo democratico. Fra il 1851 e il 1861 egli chiarì la questione dell’ordinamento dello Stato, opponendosi al “pensiero gretto, pauroso e funesto d’una Federazione” e proponendo una struttura regionale come unità politico-amministrativa, che doveva rappresentare la “zona intermedia indispensabile tra il Comune e la Nazione” (cfr. N. Dell’Erba, “Giuseppe Mazzini. Unità nazionale e Critica storica”, Padova 2010, p. 28).
    Contro il “nazionalismo romantico” e della sua presenza nei vari Paesi europei, di cui parla Forgacs, Mazzini conduce una strenua lotta non all’insegna dei principi romantici, ma di una proposta democratica basata sulla libertà e sull’uguaglianza dei popoli (ibidem, p. 18). Nel suo confuso discorso, lo storico britannico accosta eventi storici diversi come il divario tra Nord e Sud, il sorgere del fascismo, il duplice aspetto della Chiesa con le sue organizzazioni conservatrici e progressiste fino al “cosiddetto eurocomunismo” e alla leadership politica di Berlusconi nella “gestione della cosa pubblica (p. 7). In quest’ambito rientra il discorso della storica francese, che nega una linea di continuità con il Risorgimento e spezzetta in modo elementare la storia d’Italia, senza cogliere la distanza tra le promesse evase dai governi postunitari e la realtà effettiva.

     

     

     

  • 8 MARZO, SALVARE ANNA KULISCIOFF DA INTERPRETAZIONI ERRONEE DEL SUO PENSIERO

    data: 07/03/2020 20:48

    Sull’inserto settimanale «Tuttolibri» del quotidiano «La Stampa» (7 marzo 2020, n. 2179, p. XIII) è uscito un articolo di Elena Stancanelli su Anna Kuliscioff con il titolo reboante «L’autrice da (ri)scoprire». Si tratta d’una presentazione del famoso discorso che la socialista russa – nata a Moskaja Cherson il 9 gennaio 1854 e morta a Milano il 29 dicembre 1925 – pronunciò il 27 aprile 1890 al Circolo filologico milanese, poi pubblicato con il titolo «Il monopolio dell’Uomo», uscito lo stesso anno per iniziativa del titolare della Libreria Galli (Milano 1890, pp. 52) e ora come seconda edizione dell’editrice Ortica (Aprilia, 2011 e 2020, pp. 102).
    A parte il titolo e il preambolo, ripresi dalla IV di copertina, si rimane basiti per l’interpretazione erronea e per la serie di errori contenuti nell’articolo. Anzitutto bisogna dire che il pensiero di Anna Kuliscioff ha ricevuto notevoli studi da parte degli storici dalla bibliografia delle sue opere, curata da Stefano Caretti e pubblicata nel volume «Turati e la Kuliscioff» (Firenze 1974) di Nino Valeri fino alla ricca letteratura che si trova pubblicata nei volumi «Anna Kuliscioff. Immagini, scritti, testimonianze» (a cura di F. Damiani e F. Rodriguez con la prefazione di F. Pieroni Bortolotti, Feltrinelli, Milano1978, pp. 197); «Anna Kuliscioff» (Mondo Operaio Edizioni Avanti!, Roma 1978, pp. 477; «La questione femminile e altri scritti» (a cura di M. Boggio e A. Cerliani, Marsilio, Venezia 1981, pp. 180) e agli studi pubblicati dal compianto Giulio Polotti, fondatore della Fondazione a lei dedicata, con la ristampa del volume «Anna Kuliscioff. 29 dicembre 1925. In Memoria» con una scelta di scritti» (1989).
    Né mancano le biografie sul personaggio, che vanno da quelle di Paolo Pillitteri «Socialismo e femminismo in Anna Kuliscioff. Gli scritti» (Franco Angeli, Milano 1986, pp. 461; di Maria Casalini («La signora del socialismo italiano. Vita di Anna Kuliscioff», Editori Riuniti, Roma 1987, pp. 301); di M. Addis Saba «Anna Kuliscioff. Vita e passione politica», Mondadori, Milano 1993, pp. 469); del volume collettaneo «Anna Kuliscioff. Il socialismo e la cittadinanza della donna» (Agra editrice, Roma 2015, pp. 301). fino a quella recente di Francesca Zazzara «Anna Kuliscioff. Donne, rivoluzionario, medico. Storia della dottora dei poveri nella medicina del suo tempo» (Biblion, Milano 2019, pp. 174).
    Il volume biografico del 2015 riunisce i quattro saggi succitati di Maurizio Degl’Innocenti, Fiorenza Taricone, Paolo Passaniti e Luigi Tomassini, che ripercorrono i settant’anni dell’itinerario politico di Anna Kuliscioff nel novantesimo anniversario della sua morte avvenuta a Milano il 29 dicembre 1925. Corredato da un’appendice iconografica che comprende rare foto di donne socialiste (Clara Zetkin, Angelica Balabanoff, Argentina Altobelli, Carlotta Clerici, Maria Gioia) il volume pubblica le copertine degli opuscoli di Anna Kuliscioff e un’appendice documentaria di alcuni suoi brani e articoli apparsi su «Critica Sociale».
    Sulla base di questa ricchissima bibliografia sul personaggio Anna Kuliscioff, Elena Stancanelli si imbarca in disquisizioni storiche ancorate al suo pensiero femminista, inquadrando con superficialità la sua biografia. Così storpia il nome della rivista «Critica Sociale», fondata da Filippo Turati e uscita il 15 gennaio 1891; confonde del nome originario della Kuliscioff, che era Anja Moiseevna Rozenštejn; storpia il nome dell’attività del padre che era un commerciante di grani. Ella dimentica di dire che egli era un ebreo convertito alla religione ortodossa; non dice nulla del primo marito Makarevič e, seppure concentri l’attenzione sul suo legame con Andrea Costa, non spiega il motivo per cui «a Napoli si innamora di Filippo Turati», dopo che dal contratto matrimonio con il socialista romagnolo abbia avuto la figlia Andreina nata l’8 dicembre 1881.
    Dalla biografia di Maria Casalini, che mi attribuisce il merito di avere per primo collocato l’arrivo di Anna Kuliscioff a Napoli (primo trimestre 1884), sappiamo che ella si laurea nell’anno accademico 1886-87 alla Facoltà di medicina dell’Università di Napoli (cfr. M. Casalini, «La signora del socialismo italiano cit. p. 91 che rinvia a N. Dell’Erba, «Le origini del socialismo a Napoli», Milano 1979, p. 44». Sorge spontanea la domanda: se la Kuliscioff «a Napoli si innamora di Filippo Turati»», come mai aspetta il 1891 per «andare a vivere con lui a Milano»?
    L’ingresso di Anna Kuliscioff sulla scena del socialimo milanese avviene invece prima, tenuto presente che ella tiene la conferenza sul «monopolio dell’uomo» il 27 aprile del 1890. Una contraddizione che l’Autrice non chiarisce quale sia stato il suo ruolo nella costituzione della Lega milanese e nella prassi riformista che porterà al distacco dagli anarchici e alla costituzione del Partito socialista. Eppure il saggio di Fiorenza Taricone, pubblicato nel volume collettaneo richiamato, aveva chiarito molti aspetti della biografia politica della Kuliscioff, la quale dalla città natìa di Moskaja Cherson si sposta per motivi di studio a Zurigo, dove intrattiene intensi scambi culturali con i profughi russi per superare le esperienze insurrezionaliste di stampo nichilista ed approdare a una visione nuova del socialismo. L’unione sentimentale con Andrea Costa e con Filippo Turati è significativa per la Kuliscioff, che matura un indirizzo riformista, pur mantenendo una sua autonomia personale.
    Sulle colonne della rivista «Critica Sociale», fondata insieme a Turati il 15 gennaio 1891, ella scrive numerosi articoli sulla questione femminile, dando vita alla «Biblioteca del socialismo italiano». Proprio sulla collana della biblioteca ripubblica il famoso opuscolo Il Monopolio dell’uomo, che – esposto nella conferenza tenuta il 27 aprile 1890 dal Circolo filologico milanese – può essere considerato il «Manifesto della questione femminile italiana». Il tema, che ha suscitato un intenso dibattito ed è ripreso negli articoli della rivista, solleva una miriade di tematiche connesse alla questione del voto alle donne, alla richiesta del divorzio, alla denuncia dello sfruttamento femminile e al suo impegno per la tutela della lavoratrice nei congressi socialisti. Si tratta di temi ricorrenti, che saranno ripresi sull’«Avanti!» e su «La Difesa delle Lavoratrici».
    Attraverso questo periodico – citato male da Elena Stancanelli – l’organo esprime un suo respiro nazionale nel movimento femminile socialista sino alla morte di Anna Kuliscioff, avvenuta il 29 dicembre 1925. L’Autrice distorce il suo messsaggio, laddove ella invita le donne a collaborare con l’uomo «nelle lotte per la conquista dei diritti comuni» e ribadisce l’esigenza di una lotta solidale contro lo sfruttamento padronale e la reazione governativa. La sua posizione, a cui rimane fedele per tutta la vita, può essere colta in un brano contenuto nell’articolo Il femminismo («Critica Sociale», 16 giugno 1897, VII, n. 12, pp. 185-187), là dove sottolinea: «Socialismo ed emancipazione della donna sono fatti connessi, compenetrati e il trionfo di quello non può andare disgiunto da questo»: una posizione che per l’Autrice viene precisata nel senso che «la vittoria del socialismo sarà la vittoria della donna» e che entrambi «possono correre su un terreno parallelo ma la loro causa non sarà mai una sola».
    Per l’Autrice il messaggio di Anna Kuliscioff si pone invece al di sopra delle classi e si ritrova in un contesto indifferenziato, dove la donna ha il dovere di «compiacere l’uomo e assecondarne i desideri e i bisogni». Forse confonde la sua posizione con quella di Anna Mozzoni, il cui rapporto con la Kuliscioff – già discusso in sede storiografica da Paolo Passaniti – è sganciato da un «femminismo duro e puro senza cedimenti» e «da ogni legame con la politica declinata al maschile» (Cfr. P. Passaniti, «Anna Kuliscioff e i diritti di cittadinanza», cit. pp. 142 e 143). Le diverse posizioni, assunte durante l’età giolittiana, contrappongono le due protagoniste del movimento femminile e si trasformano in due visioni contrastanti sul piano politico: «Da una parte un femminismo integrale che non si accontenta delle briciole legislative, dall’altra il femminismo sacrificato all’altare della giustizia sociale eretto dal partito maschile di classe» (pp. 143-144).
    Sulla lotta condotta dai socialisti, il saggio richiamato di Luigi Tomassini (pp. 177-227) e l’Appendice Iconografica (pp. 235-257), l’uno dedicato al tema «Donne e lavoro nella fotografia» e l’altra alla riproduzione di foto di operaie, dimostrano la presenza di una loro particolare sensibilità nei confronti del mondo operaio. La fotografia come fonte conoscitiva del lavoro femminile rivela un mondo poco conosciuto, su cui organi come l’«Avanti!» o «La Difesa delle Lavoratrici» prestano particolare attenzione ed offrono «una serie molto ampia e articolata di immagini di lavoro anche femminile» (p. 196). Ciò non significa che quella della Kuliscioff, emblematica per la funzione svolta nei periodici «Critica Sociale», «La Difesa delle Lavoratrici» o «Il Tempo», trascuri lo sfruttamento dei lavoratori uomini.
    A tutt’oggi il saggio richiamato di M. Degl’Innocenti è istruttivo, perché contestualizza la vicenda della Kuliscioff intorno a tre momenti significativi come lo sviluppo del socialisno italiano, la lotta per la conquista dello Stato sociale e quella per il suffragio universale. Esso rileva infatti il ruolo imponente della Kuliscioff nell’emancipazione della donna riguardo alla cittadinanza, ai diritti civili, all’istruzione e al rapporto tra sfera privata e pubblica. Ella, dotata di una vasta cultura scientifica, considera la donna «una forza viva» per renderla consapevole dei diritti riservati all’uomo e partecipe delle conquiste sociali. Tuttavia il suo impegno non è racchiuso nell’ambito esclusivo del partito e del sindacato, ma si estende anche all’elevazione della coscienza femminile per superare lo stereotipo della donna come angelo del focolare. In questo contesto il ruolo partecipativo di donne come Anna Kuliscioff, Argentina Altobelli e Angelica Balabanoff nei comizi e nei convegni socialisti, si propone di valorizzare la donna non come antagonista dell’uomo, ma come valida titolare nella stampa e soprattutto nel mondo politico.
     

  • ANCORA UNA IMPROPRIA
    CITAZIONE ERUDITA
    DA GIAN ANTONIO STELLA

    data: 04/03/2020 18:42

    Gian Antonio Stella è un giornalista con la passione della storia e la fisima della citazione. Alcune volte cita bene, altre volte no, però è ammirevole il suo impegno di ricercare la citazione erudita. È il caso del suo ultimo articolo «Gli untori? Sono sempre stranieri» («Corriere della Sera», 4 marzo 2020, p. 27), laddove riferisce l’origine del «Mal Francese» o «Mal Franzoso», considerato una «definizione etnica» di Marin Sanudo. Lo storico veneziano, considerato sic et simpliciter un «infaticabile diarista», si sta rivoltando nella tomba ad essere paragonato a Luca Zaia, responsabile di aver associato il coronavirus alla triste battuta sui cinesi che «mangiano i topi vivi».
    Marin Sanudo, vissuto a Venezia dal 1466 al 1536, scrisse numerose opere storiche e riunì una cospicua biblioteca privata, che nel 1516 era composta di 2800 volumi e nel 1536 di 6500. Egli raccolse manoscritti (alcuni molto rari), dipinti e disegni dei costumi della popolazione europea e del mondo, carte geografiche e un persino un prezioso mappamondo. I manoscritti dei suoi «Diari», scritti tra il 1496 e il 1533, sono conservati nella Biblioteca Nazionale Marciano di Venezia. Sulla base degli autografi originali essi coprirono 50 volumi e furono pubblicati dal 1879 al 1898 a cura di una équipe composta da illustri studiosi come Federico Stefani, Guglielmo Berchet, Rinaldo Fulin, Niccolò Barozzi e Marco Allegri.
    Come fa il giornalista del «Corriere» a paragonare Marin Sanudo a Luca Zaia? Come fa Gian Antonio Stella a commettere un così grossolano errore storico? La sua citazione sul «Mal Franzese» come sifilide, che dovrebbe ritrovarsi nel Primo volume dei «Diari» (1496/1879), non sembra essere tratta da esso che si sviluppa per ben 942 pagine: citare la fonte è diventata un optional e i lettori devono credere ciecamente nella citazione del giornalista del lombardo-veneto. Essa è tratta invece dal XXIV tomo del «Rerum italicarum Scriptores» (Ex Tipographia Societatis Palatinae, in regia curia, Mediolani MDCCXXXVIII, 1738, p. 74 ss.) con la prefazione di Ludovico Antonio Muratori: «per tutto il mondo in tal contagione dalla venuta del re di Francia in Italia che per tutto si chiamava Mal Franzese»: malattia che «debellita li membri le mani e i piedi in specie di gotte, et fa alcune pustule et vesciche tumide infiade per tutta la persona e sul volto, con febre e dolori artetici, che fa tuta la codega piena e coperta di broze su la faza fino ai ochii, come fanno varuole, a la femine tute le coxe fino a la natura, in tanto fastidio, che tal paciente chiamavano la morte».
    Precisato ciò, l’illustre giornalista vuol dimostrare che l’accusa del famoso diarista venne respinta dai francesi, i quali reagirono e la considerarono un «mal italiano», per la precisione un «mal napoletano», essendosi propagata per la prima volta nella città partenopea. Ammesso che sia – come sostiene Eugenia Tognotti nel suo volume «L’altra faccia di Venere. La sifilide dalla prima età moderna all’avvento dell’AIDS, 15-20 sec.» (Angeli, Milano 2006, pp. 263) – la diatriba non presenta alcuna dignità scientifica e trasforma un discorso serio in una battage sciocco.
    Un discorso serio sulla sifilide deve essere invece compiuto con serietà e riconoscere che il primo ad usare il termine sifilide fu il medico Gerolamo Fracastoro (1478-1553), che – come ci informa Wikipedia – «ipotizzò e verificò che le infezioni fossero dovute a germi portatori di malattia con la capacità di moltiplicarsi nell’organismo e di contagiare altri attraverso la respirazione o altre forme di contatto». Il medico veronese pubblicò infatti nel 1530 il volume «De contagione et contagiosis morbis» («Sul contagio e sulle malattie contagiose»), con cui pose le basi della patologia moderna.
    A dispiacere del giornalista veneto bisogna dire che la sifilide, chiamata «mal Franzese» oppure «mal napolitain» è esistita fin dall’antichità e la «mentagra» descritta da Plinio nella «Storia naturale» può essere paragonata alla sifilide come devastante infezione venerea. Resta invece valido l’ammonimento di Ludovico Antonio Muratori, il prefatore del volume di Sanudo, che nella sua ultima opera «Della pubblica felicità oggetto de’ buoni Principi» (Lucca 1749) propose alla classe politica coeva una serie di riforme volte a dare sicurezza ai cittadini per «prevenire e allontanare i disordini temuti, e rimediare a i già succeduti; con fare che sieno non solo in salvo, ma in pace, la vita, l’onore e le sostanze di qualsivoglia de’ sudditi» (p. 7). Parole di straordinaria attualità che non le meschine lotte campanilistiche, anzi sovranazionali con i nostri cugini d’oltralpe.
     

  • IL CORONAVIRUS COME CASTIGO DEL CIELO...

    data: 28/02/2020 16:18

    Il 25 febbraio Livio Fanzaga, direttore dell’emittente radiofonica cattolica Radio Maria, è intervenuto sul coronavirus. Egli ha ricondotto l’epidemia a due menzogne che affiggono il mondo: l’onnipotenza della tecnica e l’ateismo inteso come aggressione a Dio. Da questo vilipendio divino ha origine l’epidemia, che è presentata come un castigo divino, per cui l’unica via d’uscita per debellare il triste morbo è la preghiera. Al presbitero italiano si associa anche il pastore statunitense Rick Wiles, che attribuisce alla volontà di Dio la decisione di mandare una punizione: «il coronavirus non è altro che l’angelo della morte mandato da Dio» e ha colpito la Cina, perché «i comunisti cinesi, il governo sono gente senza Dio e non sono persone virtuose».
    In realtà, la tesi dei due prelati affonda le sue radici in una visione paganeggiante della realtà e si ritrova persino nell’antica Cina. Il filosofo cinese Mencio (Mengzi), vissuto all’incirca tra il 372 e il 289 a. C., espresse queste posizioni in un dialogo con Wan Chang e affermò: «Il Cielo non parla e manifesta la sua volontà per azioni e grandi eventi». Su questo tema il sinologo Maurizio Scarpari, curatore di un corposo volume su «Menco e l’arte di governo» (Marsilio, Venezia, 2013), attribuisce al filosofo cinese l’idea che nell’antica Cina le epidemie fossero considerate come ammonimenti inviati dal Cielo (tian) a sovrani indegni. Questa massima divinità aveva la prerogativa di scegliere la persona più idonea a governare, perché «mentre al popolo veniva conferita la facoltà di ratificare la scelta e di verificare poi se il sovrano si fosse mantenuto degno dell’investitura».
    Secondo questa visione «il mandato del Cielo» (Tianmìng) fu utilizzato come forma di legittimazione della dinastia Zhou e dalle successive dinastie imperiali della Cina. Esso sancì per millenni il loro diritto a regnare, ma stabilì anche la legittimità della ribellione nel caso di un sovrano corrotto, ingordo e ingiusto. La fortuna del regnante derivava così dalla sua capacità politica, prodotta non solo da competenza e carisma, ma anche da qualità morali come l’onestà e la rettitudine morale. «Il nuovo figlio del Cielo (tianzi) – afferma Maurizio Scarpari, curatore di una grandiosa opera su «La Cina» in quattro volumi (Einaudi, Torino 2009-2013) – aveva il compito di selezionare, in base al merito e non al censo, ministri e funzionari, creando una classe di amministratori efficienti e degni di fiducia. Eventi infausti come pestilenze e inondazioni non sarebbero derivati dunque dall’arbitrio di un’entità imprevedibile coma Ananke [...] ma dalle colpe del sovrano».
    Tra questi eventi vanno annoverate anche le carestie e le epidemie (il coronavirus odierno), che sono interpretate non solo come segni del ritiro del mandato da parte del Cielo, ma come un castigo divino. Così se la detronizzazione dell’imperatore era attribuita al suo pessimo modo di governare, non era facile cogliere un nesso con le catastrofi naturali come inondazioni o terremoti. Tuttavia esse, se unite con le condizioni delle masse contadine, potevano scatenare rivolte, sommovimenti e persino movimenti millenaristici a causa di una grave esasperazione imputabile a stridenti diseguaglianze sociali. La situazione politica odierna, seppure caratterizzata da profonde stratificazioni sociali, assume aspetti diversi per il ruolo carismatico di Xi Jinping e per il consenso popolare ottenuto con l’assenza di un sistema democratico.
     

  • LA DESTRA ITALIANA
    E 50 ANNI DI PROPAGANDA

    data: 10/02/2020 17:14

    Con il reboante titolo «Cinquant’anni di stampa e propaganda della destra italiana 1945-1995», si terrà a Roma dall’11 al 17 febbraio una mostra sulla stampa del Movimento Sociale Italiano (Msi). Su iniziativa di vari enti, la mostra espone i periodici custoditi nelle Biblioteche del Senato e della Camera dei deputati, e in quelle della biblioteca nazionale di Roma e della «Fondazione Pino Rauti», integrate con materiale proveniente dall’archivio della casa editrice «Eclettica». «Il percorso espositivo – afferma Isabella Rauti, direttrice della Fondazione – segue un criterio cronologico, articolato in nove bacheche che ricostruiscono i cinque decenni interessati. Si aggiungono quattro teche tematiche dedicate alla propaganda giovanile del “Fronte della Gioventù”, alla satira, alle tematiche femminili ed alla pubblicistica elettorale».
    La mostra espone circa 90 esemplari di testate relative all’editoria della destra italiana e alla propaganda politica del Movimento sociale italiana: periodici, settimanali e mensili di un partito nato settant’anni fa e vissuto sotto varie sigle politiche. Si tratta di raccolte, che mettono in mostra una storia che – cominciata su iniziativa di un gruppo di nostalgici e di reduci della Repubblica di Salò – si ispirò dichiaratamente all’esperienza storica del fascismo per ricordare i «fasti» del regime mussoliniano e ripristinare i valori di «ordine e legge».
    Sorto a Roma nel dicembre 1946, il Msi elesse come segretario Giorgio Almirante, la cui scelta del nome sembra significare «Mussolini sei immortale» e quella del simbolo con la fiamma tricolore e il trapezio sottostante per dare spazio alla sua dicitura. Come figura centrale di questa storia messa in mostra con dovizia di periodici, Almirante esercitò una grande influenza per la sua dote di equilibrio tra le diverse anime del partito. Per raggiungere questo obiettivo, egli si avvalse di un periodico preesistente, «La Rivolta Ideale» - il primo numero uscì l’11 aprile 1946 – con lo scopo di chiamare a raccolta «tutti i fedeli della Patria» e di aderire al nuovo partito (si veda l’editoriale del 26 dicembre ’46).
    Su iniziativa del suo direttore, Giovanni Toninelli, «La Rivolta Ideale» avviò una molteplicità di iniziative con lo scopo di invitare i direttori dei periodici («Fracassa», «Rataplan», «Rosso e Nero» ecc.) sparsi su tutto il territorio nazionale «ad affiancare una adeguata opera di propaganda il movimento politico unificato». L’unico giornale «Credere», diretto da Cesco Giulio Baghino, si rifiutò di sciogliere l’organizzazione clandestina dei Far (Fasci di Azione Rivoluzionaria), continuando ad inneggiare il «santo manganello» e la politica disastrosa della Repubblica Sociale Italiana. Merita un cenno il settimanale «Rosso e Nero» di quattro pagine che – uscito il 27 luglio 1946 – auspicò una politica più intransigente nello schieramento neofascista.
    Presentatosi per la prima volta alle elezioni amministrative di Roma del 1947 e a quelle politiche nell’anno successivo, il Msi ottenne sei seggi alla Camera e uno al Senato grazie alla propaganda dei fogli neofascisti. Da quell’anno il partito guardò con simpatia alla stampa più come strumento di propaganda che di formazione dei suoi adepti, servendosi di vari organi come «L’Ordine Sociale», che uscì per pochi mesi nel 1948. Un altro organo, «Pensiero Nazionale» diretto da Stanis Ruinas, si propose di unire fascisti e comunisti nel superamento di concezioni contrapposte come quelle spiritualistica e materialistica, in auge fino alla metà degli anni Cinquanta (si veda il libro «Fascisti rossi» di Paolo Buchignani).
    Tuttavia fin da i primi anni della sua nascita il partito si trovò invischiato in discordie personali, che portarono ad una grave crisi interna per la diversa posizione sull’adesione dell’Italia al Patto atlantico. Almirante fu costretto a dimettersi e venne sostituito da Augusto De Marsanich, che impresse al partito un indirizzo basato sull’accettazione del Patto atlantico, sulla ricerca di un’intesa con i liberali, i monarchici e la destra della Dc.
    In questo contesto storico grazie all’ausilio offerto dalla stampa come «Il Secolo d’Italia» (il primo numero apparve il 16 maggio 1952), il Msi partecipò alle esperienze amministrative in molti comuni meridionali, cominciando a far proseliti nelle zone rurali. Famosa rimase l’intervista a Junio Valerio Borghese, che considerò il Msi «il più grande partito nazionale», l’unico raggruppamento politico in grado di mantenere «l’ordine sociale» e conciliare la fede politica con quella religiosa: aspetti che riscossero largo sostegno in alcuni ambienti cattolici e persino della Dc. Famoso è rimasto il gesto di Giulio Andreotti, che durante un comizio tenuto nel maggio 1953 invitò Rodolfo Graziani a salire sul palco, dimenticando che il generale fascista si era macchiato di orrendi delitti per l’uso dei gas asfissianti nella guerra d’Etiopia.
    Dai ripetuti tentativi degli anni Cinquanta, volti ad ostacolare nuove alleanze tra socialisti e democristiani, il Msi imboccò la strada della violenza con il sostegno di gruppi eversivi come Fronte nazionale, Ordine Nuovo, Rosa dei Venti, Avanguardia Nazionale, presentati come organizzazioni staccate da esso. L’antisemitismo fu presente anche in molti ambienti vicini al Msi, dove – come ricorda Mario Giovana in un raro volumetto «Le nuove camicie nere» (Saluzzo 1966, pp. 100-101) – un dirigente come Vanni Teodorani «nel novembre del ’57 aveva affermato: “Noi avevamo l’abitudine di bruciare i giudei nei forni”. Nel maggio 1958 un corteo di neofascisti era sfilato per le vie di Roma inneggiando al duce e gridando: “Morte agli ebrei!”. I nostalgici avevano insozzato le lapidi commemorative degli israeliti periti nei campi di eliminazione e tracciato scritte antisemite sui muri delle case. Nel luglio del 1960 le squadre missine si erano spinte nel quartiere ebraico della capitale, armate di bastoni e di catene, saccheggiando negozi e percuotendo i passanti».
    Negli anni Sessanta la stampa di destra ebbe un declino: nel maggio ’61 si ebbe una nuova serie di «Pagine Libere», la vecchia rivista di Angelo Oliviero Olivetti, ora diretta da Silvio Panunzio, riproponendo vecchi temi come l’anticomunismo marxista e la «bolscevizzazione progressiva delle idee, della cultura e del costume», presentate come «l’anticamera necessaria alla conquista politica del potere da parte della sinistra». Un libro come «Cavalcare la tigre» (1961) di Julius Evola divenne il nuovo vangelo degli eversori di destra, che aprì la strada ai suddetti gruppi eversivi.
    A questa situazione di crisi pose rimedio Almirante, che – rieletto segretario alla fine del decennio – sfruttò le agitazioni operaie e studentesche del ’68 per rilanciare il suo partito sul piano politico e organizzativo: riuscì a congiungere l’ala parlamentare con gli estremisti di «Ordine Nuovo». Nelle elezioni amministrative del 1971 il Msi ottenne 24 degli 80 seggi del consiglio comunale di Roma, riuscendo a diventare il terzo partito nel consiglio regionale della Sicilia (dopo la Dc e il Pci). Nelle elezioni politiche del 1972 il Msi, presentatosi con la denominazione di «Destra nazionale», ottenne l’8,7 per cento dei voti, mentre in quelle del ’76 scese al 6,1 %.
    Proprio nel 1976 venne pubblicata a Roma la rivista femminile «Eowyn», diretta da Monica Centanni e Marilena Novelli, che per il titolo ripresero il nome del personaggio di Tolkien. Il periodico, sorto nell’ambito delle iniziative avviate dal Msi, lanciò un’immagine di «donna forte, dolce ed emancipata», come si legge in un proclama pubblicato in prima pagina nel giugno 1977 (n. 4): «Eowyn è una donna cui non pesa il ferro della spada, Eowyn è tutte noi, donne che combattiamo questa società».
    Nelle elezioni del 1979 Il Msi subì ancora una flessione. La morte di Pino Romualdi (1913-1988) e quella di Almirante (1914-1988) fece emergere l’astro nascente di Gianfranco Fini. A preparargli il terreno fu la corrente «Proposta Italia» che, emersa nel congresso di Sorrento (10-14 dicembre 1987), gravita intorno al giornale «Proposta» sotto la guida di Domenico Menniti e di tre giornalisti come Adolfo Urso, Mauro Mazza e Gennaro Malgieri.
    La segreteria di Gianfranco Fini traghettò il partito verso una linea di legittimazione quale destra democratica. Nel 1994 egli annunciò la trasformazione del vecchio Msi in Alleanza nazionale con lo scopo di dar vita a una moderna organizzazione di destra, ma si trattò di un’operazione ambigua per un partito che soltanto un anno e mezzo prima aveva celebrato il settantesimo anniversario della marcia su Roma con una manifestazione scandita di inni fascisti e saluti romani. L’ultimo congresso del Msi (Fiuggi, 25-27 gennaio 1995) e il primo di Alleanza nazionale provocò anche la nascita del Msi-Fiamma nazionale su iniziativa di Pino Rauti, contrario ad accettare il nuovo corso inaugurato dal delfino di Almirante. L’assise di Fiuggi aprì una fase nuova nel partito, alimentando contrasti personali e chiudendo una storia che – inaugurata 76 anni prima con la fondazione dei Fasci di combattimento – culminò il 26 dicembre 1946 nella nascita del Msi, di cui la mostra ripercorre vicende ancora da definire sul piano storico.
     

  • LA TRASCURATA STORIA
    DELL'IMPRESA DI ETIOPIA
    E DEL CAFFE' CIOFECA

    data: 07/02/2020 18:25

    In una celebre scena del film «I due marescialli» (1961), di Sergio Corbucci, ambientato nei giorni successivi all’armistizio dell’8 settembre 1943, Totò esclamava disgustato all’assaggio di uno pseudo-caffè che si trattava di una ciofeca: un surrogato composto di orzo, lupini e favetta. Il «caffè buono» era una prerogativa di pochi privilegiati per il suo costo abbastanza elevato, per cui quella scena – interpretata da Totò nei panni del finto maresciallo – rimase impressa nella memoria collettiva degli italiani, già abituati al consumo del caffè d’orzo o di cicoria durante il regime fascista.
    La guerra d’Etiopia, invasa dall’esercito fascista fra il 2 e il 3 ottobre 1935, avrebbe dovuto procurare all’Italia una quantità considerevole di ottimo caffè. Fu questo uno dei molteplici motivi, addotto più volte da Benito Mussolini per giustificare l’occupazione del territorio etiope e piegare il negus Haile Selassie alla volontà imperiale dell’Italia fascista: finalità che venne raggiunta il 5 maggio 1936 con la conquista di Addis-Abeba. Per la conquista dell’Etiopia furono utilizzati circa 330 mila soldati italiani, vennero prezzolati 37 mila ascari eritrei e libici, trasferiti nel suo territorio 90 mila quadrupedi, 10 mila mitragliatrici, 1100 cannoni, 250 carri armati e 350 aerei, alcuni dei quali addetti al bombardamento a iprite e ad altri aggressivi chimici come l’arsina. Uno spreco di denaro per dare al popolo italiano un buon caffè, ottenuto con investimenti oculati sotto l’«occhio vigile» del duce.
    Su questo aspetto, trascurato dalla storiografia sul fascismo, abbiamo ora a disposizione un aureo libretto «Fascio ciofeca. Caffè vero e fasullo ai tempi dell’autarchia» (Edizioni Affinità elettive, Ancona 2018, p. 70) di Sergio Salvi, che sviluppa un discorso interessante sul vantaggio che i consumatori italiani avrebbero ottenuto con il cosiddetto «caffè coloniale» poi «caffè dell’Impero». Lo Stato fascista non mobilitò solo un ingente apparato militare, ma assoldò anche uno stuolo cospicuo di scrittori con lo scopo ben preciso di esaltare la conquista dell’Etiopia ed incantare gli italiani con il profumo aromatico del suo caffè.
    Prima dell’occupazione dell’Etiopia, però, si ebbe una «sperimentazione agraria» in Eritrea con risultati insoddisfacenti e con una produzione pari a 120 tonnellate. La nuova colonia etiope avrebbe dovuto fornire una qualità migliore ad un costo minore, a cui poteva accedere tutta la popolazione italiana. Solo che, con la conquista dell’Etiopia, non si ebbe l’abbondanza di caffè auspicata dagli agronomi fascisti e un prodotto idoneo alla distribuzione di massa.
    Sulla coltivazione del caffè, praticata in modo difforme sul territorio etiope, Salvi fornisce indicazioni precise sul terreno, sulle piante e sulle sue varie fasi (trapianto, potatura, pulitura del terreno ecc.). Egli dimostra così una conoscenza precisa della letteratura coeva, da cui trae elementi significativi come la raccolta del caffè, l’essiccamento, la decorticazione delle fave e le successive fasi fino alla quotazione del prezzo e all’esportazione finale. Le autorità italiane, subito dopo la conquista dell’Etiopia, si trovarono di fronte a una serie di problemi, che riuscirono a risolvere solo in parte con la creazione di stazioni sperimentali nei centri di produzione più importanti.
    A fronte di una spesa esorbitante di 15 milioni di lire, la produzione del caffè fu abbastanza scarsa e - nonostante la politica autarchica imposta dal regime mussoliniano – fu mantenuta la linea tradizionale, cioè quella di importare in Italia quello proveniente dal Brasile e da altri Paesi del Centro-Sud America. Le sanzioni internazionali, imposte all’Italia a seguito dell’aggressione all’Etiopia sulla base della Convenzione internazionale del 17 giugno 1925, aggravò la situazione, mantenendo la situazione antecedente a quella scelta dell’espansionismo fascista.
    In questo ambito gli italiani continuarono a ricorrere alla ciofeca: «complice il costo del caffè, sempre alquanto elevato», dice con precisione l’Autore, che analizza i vari tipi di surrogati, la cui preparazione si trova in una sorta di ricetta come nel libro «Il pane nero di Stadel Gutwiarginj» di Giovanni Barbero: «si miscelano un terzo di caffè comune, un terzo di “Vero Frank” (a base di radici di cicoria), un terzo di “Miscela Leone” (composta da orzo, segale, lupino, bietola) e un cucchiaio di “Estratto Olandese” a base di melassa di canna da zucchero caramellizzata. Si lascia in infusione per dieci minuti e, una volta avvenuta la decantazione di ciò che non si era sciolto, si versa in tazza» (p. 26).
    Altre diverse marche famose erano «Coffea», «Fago», «Biscione», «Franck Aquila», «Vero Franck» o «Franck Orientale», preparate con una mistura ottenuta dalla miscela della canna da zucchero con cereali oppure con la radice di cicoria. Per giustificare l’uso del caffè da parte dei ricchi, il duce incaricò i medici ad esaltare queste miscele come surrogato del caffè, da cui il cosiddetto «fascio ciofeca» che per essi aveva effetti salutari e presentava persino motivi igienici.
     

  • LA MAMMA DI ATTILA

    data: 05/02/2020 12:16

    La famiglia è considerata la cellula madre della società e come tale continua ad esercitare un ruolo essenziale nell’educazione dell’individuo. Dei suoi molteplici aspetti la condizione naturale e pedagogica è la più significativa per comprendere l’evoluzione della società. Le madri rivestono una funzione fondamentale per la vita di ogni essere umano, ma anche per la storia civile di ogni Paese. «Quanto dipende dalla madre se il figlio da grande farà danni o invece contribuirà al bene della società?».
    L’interrogativo, seppure adattato alla realtà odierna, è quello che percorre la narrazione del nuovo libro «La mamma di Attila. Sostenere la crescita di un adolescente guerriero» (Solferino, Milano 2020, pp. 171) di Barbara Tamburini, psicopedagogista e autrice insieme al marito Alberto Pellai di altri saggi come «L’età dello tsunami» (2017), «Il metodo famiglia felice» (2018), «Il primo bacio» (2019).
    Sulla scia dello psicanalista inglese John Bowlby (1907-1990), l’Autrice sottolinea il legame istintivo del bambino «ad attaccarsi a una figura prossima dalla quale ricercare (ricevere) calore e protezione» (p. 14). Ella vuole così rendere omaggio con una sorta di dialogo ultraterreno tra Bowlby e la mamma di Attila: un dialogo che sviluppa la cosiddetta «teoria dell’attaccamento» e conferma il danno irreparabile che provocano «le separazioni tra madre e bambino» (p. 16). La costrizione, cui fu sottoposto Attila nella sua infanzia «a stare lontano dai suoi affetti», lo spinse a diventare un valoroso condottiero «con lo stile più efferato di tutti i tempi» (p. 21).
    Il dialogo dà l’avvio all’Autrice per impostare una discorso che, seppure arricchito di esperienze personali, le permette di definire il ruolo della madre durante l’infanzia fino alla adolescenza, considerata come «l’età per eccellenza dell’esplorazione», quella «per eccellenza dei pensieri magici» (p. 61), ovvero la più decisiva per il futuro del figlio. Su questa età l’Autrice ritorna costantemente, quasi per sottolineare l’importanza straordinaria che essa assume nella persona umana come fase di transizione, dove si collocano le scelte più decisive della vita. Più avanti ella precisa: «Poiché dentro questa complessità i nostri figli approdano all’adolescenza, l’età del conflitto generalizzato e in particolare del conflitto con i genitori, non possiamo però permetterci di sottovalutare comportamenti e reazioni che dall’essere “normali” possono passare rapidamente all’essere “a rischio”» (p. 71). Un giudizio analitico che si coniuga con le riflessioni dell’Autrice, laddove colloca in quest’età le più profonde trasformazioni: quelle del corpo, delle competenze cognitive e delle relazioni con i genitori per la volontà di separarsi da loro (e soprattutto dalle madri), onde «costruire nuovi legami profondi con i propri coetanei» (p. pp. 72-73) e «imparare a fare a meno delle proprie figure di attaccamento» (p. 73).
    Proprio nell’età adolescenziale bisogna infatti «imparare a gestire gli impegni di scuola, acquisire un metodo di studio, assumersi delle responsabilità e portarle a termine» (p. 61), e superare quelle che lo psicologo canadese Albert Bandura definisce «aspettative» nel suo noto libro «Adolescenti e autoefficacia. Il ruolo delle credenze personali nello sviluppo individuale» (Trento 2012). Conclusione che sembra stonare con quella dell’Autrice, là dove afferma: «Avere con un figlio una relazione di attaccamento che sopravvive a ogni cosa è la risorsa più grande che possiamo regalargli. In adolescenza il conflitto e la trasgressione sono dimensioni naturali, così come lo sono l’errore e l’incertezza» (p. 88).
    Nella relazione più la madre si allontana dal figlio, più si sviluppano «micro-sequenze», che nella loro ripetizione rappresentano un modello di funzionamento destinato ad orientare le azioni future. In questo ambito la «teoria dell’attaccamento spiega questo processo di costruzione come un progressivo strutturarsi di interazioni», il cui ripetersi «genera dei modelli di funzionamento» (p. 38).
    La costruzione di sofferenze emotive agisce da pulsione negativa e diviene un criterio interpretativo della realtà. L’intervento immediato, che l’Autrice riassume nelle formule «cosa fare» e «di cosa c’è bisogno» (pp. 43-53), può essere compendiato in un aiuto concreto da parte degli adulti, che si relazionano con i figli «nella costruzione del loro nucleo e della loro capacità di mettersi in gioco» (p. 55). Compito che per l’Autrice diventa difficile «in un contesto fluido e in continua evoluzione» (p. 55) come la società odierna dove si assiste «a uno sbilanciamento generale tra l’iper-specializzazione tecnologica e l’analfabetismo relazionale» (pp. 56-57).
    Per dimostrare la sua tesi, l’Autrice cita l’interessante libro «Demenza digitale. Come la nuova tecnologia ci rende stupidi» (Corbaccio, Milano 2012) di Manfred Spitzer, di cui rifiuta la rigidità con cui definisce i ragazzi di fronte al «mondo virtuale» (p. 57). Rimane il fatto che i reati connessi alla rete informatica sono in crescita per il disorientamento degli adolescenti e per l’«assenza di lavori formativi capaci di guidare il loro agire» (p. 58). Un’osservazione, già sviluppata da Vittorino Andreoli nel suo libro «L’uomo del cervello in tasca» (Milano 2019), laddove sottolinea la diversità della trasgressione adolescenziale rispetto alla realtà del passato.
    In questa prospettiva la trasgressione come l’uso di sostanze ad azione psicotropa ha la funzione di superare la paura, l’ansia in alternativa alle sicurezze dell’adolescente può ricevere dalla vita sociale e dall’appartenenza a un gruppo, inteso come «luogo dell’intimità […] della leggerezza, superficialità e del divertimento» (pp. 62-63). Fuori dalla normalità adolescenziale vi sono mali come il cyberbullismo, il consumo di alcol e di tabacco, nonché l’uso di sostanze psicotrope. Ricollegandosi alle ricerche di Sabrina Molinaro, l’Autrice pone in rilievo la crescita di «smart drugs», ossia di quelle «droghe cosiddette furbe perché al limite della legalità e illegalità, facilmente reperibili sul web sotto forma di prodotti naturali e come sciroppi all’oppio» (p. 65). Se poi si aggiungono l’uso de iPad, le chat con il cellulare e la diminuzione delle ore di sonno trascorse in discoteca si assiste ad uno stile di vita che degli adolescenti, che «sono diventati una vera emergenza», come mette in rilevo il docente Giovanni Biggio dell’Università di Cagliari (p. 66).
    In questo ambito l’Autrice discute le esperienze di adolescenti come Greta Thunberg (pp. 78-83), la «resilienza di Elisabetta» Ballarin e l’uso distorto della droga (pp. 83-87) per poi sviluppare l’intreccio tra la funzione della madre e personaggi celebri come Leonardo da Vinci (pp. 93-96), Michelangelo Buonarroti (pp. 96-98), Barak Obama (p. 99-101), Amelia Mary Earhart (101-104) e Adolfo Hitler (104- 107). Sul dittatore nazista l’Autrice compie alcune riflessioni relative non al suo nefasto ruolo della storia della Germania o dell’Europa, ma sull’uomo e sui suoi rapporti con la madre. Sulla scia della presentazione che opera Joachim Fest nel suo libro «Hitler. Una biografia» (Milano 2005), ella mette in rilevo l’adolescenza del dittatore, caratterizzata dall’assenza di amicizie, da una spiccata intolleranza delle posizioni diverse alle sue e dai suoi fallimenti scolastici. Eppure Hitler conservò ed espresse un amore profondo verso la madre, della cui morte scrisse di aver perduto la «sua stella polare». Nella rappresentazione del personaggio, presentato come incapace a stabilire legami affettivi, l’Autrice non riesce a dare spiegazioni valide, limitandosi a dire che la «mancanza della madre venne fatta propria dal futuro dittatore» e ciò «gli permise di vivere sempre come fosse dentro a una bolla, solo coi suoi deliri di potenza»: un’interpretazioni semplicistica che andrebbe meglio chiarita e sviluppata.
    A questa tesi si è opposta con garbo Cesira Fenu, che ha sottolineato come l’azione politica di Hitler è il risultato di molteplici fattori e non possono limitarsi alla sfera psicologica: egli «era uno psicopatico», che ha trovato un ambiente propizio e un «terreno fertile in una nazione di individui frustrati e spaventati dallo spettro del comunismo» e dal ruolo della presenza ebraica. Seguono alle vicende adolescenziali di Hitler quelle di Charlie Chaplin (pp. 113-116), di papa Francesco (pp. 117-120) e di Federica Pellegrini (pp. 120-122). In conclusione l’Autrice dedica un capitolo ai genitori per stimolare le riflessioni sul modello educativo in voga nelle scuole italiane, fornendo loro una serie consigli (le «cosiddette buone pratiche») volti a riconoscere «automatismi e blocchi» che minacciano i rapporti familiari e minano le relazioni sociali.

     

  • STRANEZZE STORICHE
    DI CAZZULLO SU DE GASPERI

    data: 10/01/2020 19:09

    Povero è il Paese in cui il ciabattino si improvvisa idraulico, il panificatore fabbro e il giornalista si erge a storico. In questa situazione rientra il caso di Aldo Cazzullo, collaboratore del «Corriere della Sera» e responsabile della rubrica fissa «Lo dico al Corriere». Sul quotidiano milanese egli pubblica una lettera di un lettore, critica verso il movimento del Sessantotto ed elogiativa dello statista Alcide De Gasperi, «chiamato in America il politico che in albergo spegneva la luce». Quale sia il nesso tra le nefandezze del Sessantotto e la politica di De Gasperi è chiaro solo al giornalista albese.
    Nella sua risposta, pubblicata sul «Corriere della Sera» (9 gennaio 2010, n. 7, p. 29) con il titolo reboante «Elogio di De Gasperi e del suo discorso del ‘46», Aldo Cazzullo richiama il nome della figlia Maria Romana, la quale «racconta del padre come un essere umano, con limiti e difetti». Il suo giudizio è però completamente falso, perché nei libri di Maria Romana De Gasperi non si ritrovano critiche né si rilevano «limiti e difetti» sulla figura del padre. Nel suo libro più noto «De Gasperi uomo solo» (Mondadori, Milano 1964, poi edito con il titolo «De Gasperi. Ritratto di uno statista», la biblioteca di Repubblica, Roma 2005) non si ritrovano solo encomi ed elogi come questo passo riportato nella prima edizione: «Lo vidi solo, ingigantire nella lontananza dei tempi mentre il suo viso onesto volle ricordarmi che era bene restasse soltanto ciò che di ricostruttivo e di serio si era raggiunto con la fatica e il consenso» (1964, p. 9); nell’edizione del 2005, in una prefazione datata «maggio 2004» e firmata «M. R. D. G.» si legge: «De Gasperi non ha mai diviso la sua vita politica da quella familiare o dal suo essere cristiano ed appunto in ragione di ciò fu aperto alle culture e alle credenze degli altri, rispettoso delle altrui libertà e difensore della propria. Non ha mai colpito l’avversario con polemiche che non facessero parte integrante dell’ambito politico, e di fronte ai vantaggi che poteva offrirgli questo tipo di carriera, che egli chiamava la sua missione, ha scelto di essere in pace con la propria coscienza» (pp. 11-12).
    L’amore filiale è così intenso da farle dire che il padre è stato un «genio» della politica e un «autore solitario del proprio successo» (1964, pp. 416 e 417), pur offrendo una «soluzione politica» ai problemi impellenti dell’Italia e dell’intera Europa (2004, p. 11). Nel suo volume «La nostra patria Europa», che reca il sottotitolo «Il pensiero europeistico di Alcide De Gasperi» (Mondadori, Milano 1969), Catti De Gasperi presenta il padre come il migliore interprete dell’europeismo moderno, collocandolo acconto a Robert Schuman e a Konrad Adenaur, gli unici che «fecero dell’idea europea l’impegno della propria vita», che «hanno saputo superare, in forza della loro fede, ogni antica rivalità di popoli», che «hanno abbattuto le barriere create da miti ormai insostenibili e che hanno aperto le porte a una storia contemporanea» (p. 11).
    Nel IV capitolo, quello che copre gli anni tra il 1919 e il 1926 (ed. 1964, pp. 75-99; ed. 2005, pp. 77-101), Catti De Gasperi non accenna alla posizione benevola del padre verso il fascismo nascente, ma si limita a considerarla «come un impeto di reazione all’internazionalismo comunista» (p. 81), ossia come un argine della marea crescente del massimalismo socialista. Dal «buen retiro» nelle sale della Biblioteca vaticana fino al ruolo egemone della Democrazia cristiana si ha un susseguirsi di elogi verso il padre, di cui Cazzullo ricorda il discorso che «De Gasperi tenne nel 1946 davanti al rappresentante delle potenze vincitrici della guerra», senza coglierne l’intrinseco significato e senza offrire un quadro generale della realtà europea coeva.
    In realtà il discorso fu pronunciato il 10 agosto del 1946 da De Gasperi, che non si presentava come «un italiano di frontiera» oppure come «un trentino che si era formato nel Parlamento di Vienna», ma come uno statista di una nazione sconfitta, che espresse con dignità le posizioni del governo italiano e che parlava a nome di un Paese desideroso di giustizia e avanzava precise richieste per la revisione delle principali clausole del trattato. La conclusione del suo discorso, considerata in modo erroneo «meno nota» da Cazzullo, riguardava anche astratti ideali di giustizia e di umanità, ma era importante in quanto indicava le nuove linee della politica estera italiana, proiettate in senso europeistico e collaborative con gli Stati Uniti d’America. Proprio in quell’anno il presidente del Consiglio e ministro degli esteri ad interim indicò la strada che avrebbe portato al Patto atlantico. Nulla di tutto ciò si ritrova nella risposta di Cazzullo, che esprime giudizi di valore e persino frettolosi, senza fare alcun accenno alle questioni dell’Alto Adige e di Trieste, connettendo a vanvera problematiche complesse a quelle speciose del Sessantotto, su cui non assume una posizione precisa, e a quelle offensive verso il ministro dell’Istruzione in carica «che parla male l’inglese e non sa nulla di informatica».
     

  • ALDA CROCE, UNA
    LIBERALE INQUIETA

    data: 08/01/2020 19:46

    L’iniziativa di dedicare a Torino un giardino pubblico alla Figura di Alda Croce è veramente lodevole per la presenza di statue intitolate solo al genere maschile. Essa, decisa all’unanimità dalla commissione toponomastica del Comune di Torino, attende il parere definitivo della Giunta. Alda Croce nutriva un amore sincero verso la città subalpina per il legame familiare della madre (era cresciuta in corso Vittorio) e per la tradizionale risorgimentale a cui era molto affezionata per motivi sentimentali. Per lei il richiamo ai valori del Risorgimento significava la salvaguardia dell’Unità nazionale e la garanzia di un rapporto solidale tra quelle che Giustino Fortunato chiamava le «due Italia» e che il padre Benedetto Croce denominava «Sorgimento».
    Figlia secondogenita del filosofo abruzzese-napoletano, Alda Croce (Torino, 10 dicembre 1918 – Napoli, 10 luglio 2009) stabilì un legame affettivo con la città subalpina, come tenne a precisare in un’intervista del 1997: «I miei rapporti con Torino sono profondi: vi sono nata e mia madre era torinese. Mio padre amava il Piemonte e Torino come poteva amarli un uomo della prima generazione post-risorgimentale Il mio legame risale a quello che mia sorella Elena ha definito L’infanzia dorata titolo di un libro di successo. E potrei anche parlare delle annuali vacanze piemontesi a Meana, a Bardonecchia, a Viù ed in seguito a Pollone, per tanti anni». Il libro della sorella, a cui si richiama Alda Croce, fu pubblicato nel 1966 (Adelphi) e ricostruisce la loro infanzia «dorata» trascorsa durante il fascismo in un racconto che si spinge sino alla soglia della maturità per evidenziare il ricordo che si conserva della propria memoria.
    Come viene ricordato da Pier Franco Quaglieni nel suo libro appena ripubblicato «Figure dell’Italia civile» (golem edizioni, Reggio Calabria 2016, pp. 187), Alda Croce si batté per la tutela dell’ambiente e la difesa degli animali – fu contraria alla vivisezione – forse influenzata dal filosofo canavesano Piero Martinetti, autore del saggio «Pietà per gli animali», poi pubblicato in un aureo volumetto curato da Alessandro Di Chiara (Il Melangolo, Genova 1999). Per chi l’ha conosciuta, Alda Croce era una donna colta, che considerava la cultura «non come esibizione di conoscenze, ma come forma di civiltà cosmopolita in cui trovavano una sintesi Napoli e Torino» (Quaglieni, p. 99). Si trattava cioè di una donna che univa la classica ironia partenopea ad una sobrietà subalpina, come dimostra la serietà manifestata nel libro su Francesco De Sanctis.
    Nella prestigiosa collana diretta da Nino Valeri, Alda Croce – insieme alla sorella Elena – pubblicò infatti la biografia del De Sanctis, il grande intellettuale irpino divenuto nel 1861 ministro della Pubblica Istruzione. Il volume biografico uscì nel 1964 ed ebbe una seconda edizione nel 1974 in un momento in cui la fortuna del grande critico letterario si era offuscata. Nel 1975 il suo carattere intransigente di vecchio stampo liberale la portò a rifiutare ad Umberto Cerroni l’inclusione di un saggio del padre nella raccolta antologica su «Il pensiero politico dalle origini ai giorni nostri», uscito lo stesso anno per gli Editori Riuniti.
    Nel 1997 Alda Croce assunse la presidenza del «Centro Pannunzio», imprimendo al sodalizio culturale un indirizzo contrario ai cosiddetti «opposti estremismi», cioè al fascismo e al comunismo che per lei rappresentavano un tradimento della cultura liberale e persino della cultura laica. Dieci anni dopo però, in occasione dei suoi novant’anni, si impegnò nella pubblicazione del famoso saggio «Perché non possiamo non dirci cristiani» che il padre pubblicò nel 1942 su «La Critica» (LV, pp. 289-297) e ripropose tre anni dopo nei «Discorsi di varia filosofia» (1945), quasi per riaffermare il valore del Cristianesimo di fronte all’immane tragedia della guerra e della barbarie nazifascista.
    Sempre fedele ai principi liberali, Alda Croce manifestò una certa simpatia per i radicali, ai quali si unì nelle battaglie laiche per il divorzio e l’aborto. Nel 1999 si impuntò nel «Centro Pannunzio», perché venisse dato il premio ad Emma Bonino, riuscendo nel suo intento contro altre propose di consegnarlo a Marco Pannella. Vicina a un’altra donna come Oriana Fallaci, condivise con lei l’avversione verso l’Islam, considerato una minaccia per l’Occidente a causa del terrorismo arabo. Difatti fu contraria alla concessione del Premio ad Igor Man, che riteneva ostile allo Stato d’Israele e favorevole ad una politica filo-araba: una posizione che venne rifiutata dal comitato del «Centro Pannunzio». Il suo rifiuto era dettato dalla convinzione che l’Islam non avrebbe mai accolto la laicità occidentale e quei principi liberali ai quali si sentiva unita per un legame familiare.

     

     

  • LEONE GINZBURG
    UNA BIOGRAFIA
    CON STRAFALCIONI (2)

    data: 18/12/2019 16:26

    Nel libro L’intellettuale antifascista. Ritratto di Leone Ginzburg (Neri Pozza, Vicenza 2019, pp. 447), Angelo d’Orsi dedica il terzo capitolo ai rapporti di amicizia tra l’intellettuale russo e Norberto Bobbio, mentre nel quarto analizza il percorso universitario di Ginzburg: di questi due capitoli ci occupiamo in questa seconda puntata della nostra recensione. Studenti al Liceo Massimo d’Azeglio, amici di svaghi e di confidenze letterarie, essi instaurano un rapporto fraterno alimentato da interessi comuni come la musica, il teatro, la cronaca sportiva e persino il mondo femminile. La storia giovanile dei loro rapporti, tuttavia, è ricostruita in modo sommario dall’Autore sulla base di una lettura frettolosa del carteggio depositato presso il «Centro Studi Piero Gobetti». Eppure un’attenta lettura del loro carteggio avrebbe permesso un inquadramento più efficace per comprendere il clima culturale coevo.
    Tra gli errori più eclatanti la datazione della lettera del 27 luglio 1925, inviata da Ginzburg a Bobbio (p. 362, nota 2), la quale deve essere anticipata al 27 luglio di dieci anni prima. La lettera è utilizzata in modo disordinato per i riferimenti alle letture fatte da Ginzburg (non ancora italianizzato) e comunicate al suo compagno di classe: non è specificato quale sia il libro di Novelle di Marino Moretti (1885-1979), viene citato male il libro Le Confessioni roussoiane (non «russoiane», p 57), non è indicata la data di pubblicazione del libro La Bonifas (1925) di Jacques de Lacretelle (1888-1985), la cui lettura non dimostra minimamente «un interesse che sembra prefigurare la sua tesi di laurea» (p. 57) su Guy de Maupassant; quest’ultima scelta dal giovine studente oppure imposta dal suo professore solo sei anni più tardi.
    Nella lettera del 27 luglio 1925 Ginzburg commenta «la orribile morte del povero Ascari» (pp. 60 e 366), ma l’Autore confonde la morte di Antonio avvenuta il 26 maggio di quell’anno con quella del figlio Alberto, anche egli vittima trent’anni dopo di un incidente automobilistico (p. 437). Riguardo alla frequentazione dell’universo femminile e alle sue «protagoniste», l’Autore ricorda Luciana Segre (?), sorella di Sion (p. 60), Luisa Marchello, sorella di Giuseppe e le sorelle Giorgina e Luciana Lattes: strano che Bobbio e Ginzburg frequentassero Giorgina Lattes, che nel 1925 aveva 12 anni, essendo nata a Torino il 17 ottobre del 1913. Per d’Orsi sembra che le date non abbiano alcuna dignità storica e non necessitino di precisazione sull’età di Luisa Marchello, «anch’essa sorella di un futuro compagno di studi all’università, allievo di Solari a Giurisprudenza» (p. 60), né viene detto il nome del fratello, quel Giuseppe Marchello, che fa nascere a Bologna nel 1922 e lo dà per laureato a soli 12 anni «con Solari nel 1934»; cfr. A. d’Orsi (a cura di), La vita degli studi. Carteggio Gioele Solari- Norberto Bobbio 1931-1952, FrancoAngeli, Miano, p. 129, nota 99.
    Accanto a questi errori di datazione, l’Autore raggiunge l’apice della superficialità nella presentazione di Sergio Corazzini (1886-1907) come «esponente emblematico della Scapigliatura» (p. 75), confusa con il Crepuscolarismo, di cui il poeta romano fu un vivace rappresentante. Il riferimento a Corazzini si ritrova in una lettera che Ginzburg invia a Bobbio il 10 ottobre 1927 (p. 367, nota 55), cioè l’anno in cui entrambi si iscrivono alla Facoltà di Giurisprudenza.
    In questo àmbito l’Autore colloca il concorso della «Rivista Universitaria» e l’esordio di Bobbio «come autore di una rivista goliardica musicale, dal titolo già sufficientemente significativo: Fra gonne e colonne (p. 79), attribuendosi il merito di avere egli «stesso dato la notizia per la prima volta nel suo volume La cultura a Torino tra le due guerre (Einaudi, Torino 2000, p. 195, con ulteriori particolari) » (p. 368, nota 4). Una vanteria incongrua, se si pensa che la notizia si ritrova già nel volume Autobiografia (Laterza, Roma-Bari 1997, p. 16) di Norberto Bobbio. Così d’Orsi ignora che la «la rivista … fu musicata» dal «cugino Norberto Caviglia» e non dice che essa risultò vincitrice per il parere favorevole di Giuseppe Blanc (1886-1969), «autore della canzone Giovinezza, che sarebbe diventata in seguito con mutate parole, l’inno fascista» (N. Bobbio, Autobiografia cit, p. 16). L’opera, stranamente rimasta inedita, comprende l’introduzione di Ginzburg, di cui l’Autore non dice quale sia stato il suo ruolo nella rappresentazione. Lo spettacolo fu tenuto da una compagnia di studenti, «che facevano anche le parti femminili ad eccezione della soubrette, che interpreta la “Madonnina degli sleepings, noto romanzo di Maurice Dekobra» (ivi, p. 16-17). Da questa narrazione l’Autore attinge lautamente le sue notizie, ma non fa alcun riferimento al libro autobiografico di Bobbio, che cita il romanzo di Maurice Dekobra, peraltro mai consultato dall’Autore e non citato nella bibliografia e neppure nell’Indice dei nomi. Si tratta dello pseudonimo dello scrittore Ernest-Maurice Tissier (1885-1973), che pubblica quel romanzo con grande successo di pubblico e di cui l’Autore offre scarne notizie più sul piano cinematografico che su quello letterario (p. 368), ignorando persino il riferimento utile alla Russia bolscevica per la comprensione del Nostro.
    Il passaggio di Ginzburg alla Facoltà di lettere, denominato in modo orribile «trasmigrazione» (p. 82) dall’Autore – gli dà adito di compiere lunghe riflessioni sui docenti di Giurisprudenza, con i quali egli aveva sostenuto gli esami: Arangio Ruiz, Achille Loria, Silvio Pivano, Federico Patetta, Francesco Ruffini (pp. 83-86). Il classico “fuori tema” compiuto da un accademico, che fa sfoggio di erudizione inutile, ma omette stranamente il percorso universitario di Riccardo Cattaneo (1854-1931), docente di Istituzioni di diritto privato, confuso con il federalista lombardo Carlo Cattaneo (p. 438). Eppure Ginzburg sostiene l’esame ed ottiene la votazione di 28/30 dal docente, che – come si legge alla pagina 66 nell’Annuario della R. Università di Torino 1925-26 – è «Senatore del Regno e Presidente del Consiglio dell’Ordine degli Avvocati di Torino, membro delle Commissioni Reali per la riforma dei Codici, di istituzioni di diritto privato».
    A dispetto di pagine superflue, non viene approfondito il motivo del cambio di facoltà che per l’Autore deve essere ricondotto all’ «incontro personale con Croce» (p. 87) oppure alla sua indole letteraria (p. 88), confermata in un passaggio di una lettera inviata il 1° gennaio 1928 da Ginzburg ad una amica genovese: «Ma ad un tratto io, che non per nulla son letterato e ho l’indagine psicologica alla base del mio mestiere» (cfr. Conversazioni con Marussia Ginzburg (a cura di M. Clara Avalle, Torino 2002, pp. 133). Questo passaggio è ignorato dall’Autore, che invece cita quello successivo in modo non confacente al testo, laddove si dice: «Per me essere un letterato non è solo un mestiere ma anche, disgraziatamente, un modo di vivere, condannandomi il mondo ad esser sempre e dappertutto letterato, permettendomi d’esser tragico o pietoso solo sotto forma di tragedia, e (non “o”) allegro sotto forma di commedia, e (non “o”) malinconico sotto forma d’elegia, pena l’esser definito istrione se cerco di vivere per conto mio senza preoccuparmi della letteratura» (ivi, p. 134; d’Orsi, p. 88). Posizione che viene stravolta dall’Autore, che distorce il brano e non dà alcuna dignità all’evoluzione del pensiero ginzburghiano
    (II parte)
     

  • LEONE GINZBURG
    UNA BIOGRAFIA
    CON STRAFALCIONI (1)

    data: 02/12/2019 17:20

    «Non è un caso che nessuno finora si sia cimentato nel tentativo di fornire un ritratto biografico complessivo - intellettuale, politico, umano - di Leone» Ginzburg (p. 9). Con questo giudizio superficiale, se non erroneo, si apre il libro L’intellettuale antifascista. Ritratto di Leone Ginzburg (Neri Pozza, Vicenza 2019, pp. 447) di Angelo d’Orsi. L’illustre biografo di Gramsci ripercorre la vicenda esistenziale dello scrittore russo e riconosce che «poteva fare meglio» (p. 9), ma allora sorge spontanea la domanda: perché ha dato alle stampe un libro così contorto, pieno di luoghi comuni e impregnato di ideologismi scolareschi?
    Eppure la farraginosa biografia è presentata con elogi sperticati sui quotidiani «La Stampa» da Marco Albertaro (Vita e morte di un’antifascista. Leone Ginzburg “eroe sventurato”, 30 ottobre 2019) e su «il Manifesto» da Claudio Vercelli (Leone Ginzburg. Quell’insaziabile curiosità per il mondo. “L’intellettuale antifascista” di Angelo d’Orsi, per Neri Pozza, 18 novembre 2019, p. 10). Sul giornale torinese Albertaro presenta il libro come «la prima biografia dedicata a lui da Angelo d’Orsi», la cui «narrazione avvincente» riesce «a consegnare al lettore … il complesso ritratto di un uomo straordinario e della sua generazione». Sul quotidiano «il Manifesto» Claudio Vercelli richiama «il magistero morale e civile» di Leone Ginzburg, la cui breve esistenza – fu «assassinato dalla canaglieide nazifascista nel 1944 a soli trentacinque anni» – non gli permise «di redigere un corpus di scritti pari alla sua effervescente intelligenza, se si fa eccezione per i lavori di russistica, del quale era uno specialista in via di affermazione, poiché l’accelerazione dei tempi e il progressivo coinvolgimento nell’azione antifascista, seguiti dall’incarcerazione, dalle leggi razziali, dal confino, dal guerra e dalla lotta contro l’occupazione tedesca e repubblichina, lo assorbirono pressoché a tempo pieno». Quello di d’Orsi è presentato con encomi eccessivi come un lavoro biografico minuzioso e «portato avanti nel corso di diversi anni di acribiosa ricerca», come «un mosaico estremamente articolato e stratificato di tasselli eterogenei, destinati a trovare il loro posto all’interno di un’architettura esistenziale».
    Il volume biografico è suddiviso dall’Autore in dodici capitoli, che risultano di difficile lettura per l’assenza di un metodo storico e per il rinvio delle citazioni ad «apparati» di note (pp. 355-413) e per il rimando a loro volta ad una «bibliografia» infarcita di titoli inutili e mancante di altri citati nel testo (pp. 415-435). Accanto ad un’assenza di metodo razionale si colgono incongruenze, contraddizioni, storpiature di nomi e persino giudizi frettolosi se non erronei su eventi e personaggi. Ciò che viene espresso con chiarezza da Norberto Bobbio, viene da d’Orsi oscurato e presentato in modo stucchevole e non aderente al pensiero del grande intellettuale torinese: si confrontino per esempio i brani riassunti (e non sempre evidenziati) oppure citati dall’Autore nella presentazione dei «Tre Maestri Umberto Cosmo, Arturo Segre, Zino Zini», ricordati l’11 gennaio 1953 nell’Aula Magna del Liceo Massimo d’Azeglio (Industria Libraria Tipografica Editrice, Torino, 10 giugno 1953)
    Già nel primo capitolo si rimane basiti per l’indicazione di Odessa come cittadina che «darà i natali a un altro Leone, Trockij» (p. 14): in realtà questi nacque a Janivka (ora Bereslavka) distante più di 250 chilometri da Odessa dove il 4 aprile 1909 vide la luce Leone Ginzburg. Ma altri errori si ritrovano in quel capitolo intitolato appunto «Da Odessa a Torino» (pp. 13-27) riguardo alle vicende esistenziali di Ginzburg: secondo l’Autore «nel marzo del ’21 il dodicenne Leone, stando ai registri della classe III A lascia la scuola» (p. 20), mentre più avanti – citando uno scritto di due mesi dopo datato «Berlino, 1° maggio 1921» – si dice che “l’undicenne fanciullo invita i suoi coetanei a «non […] stare inerti», rivolgendo loro “un appello …che evoca affiliazioni di sinistra” (p. 22).
    Strano che l’Autore, già in età avanzata di studi e di esperienze storiografiche, esprima giudizi così semplicistici, attribuendo all’undicenne Leone la qualifica di «sinistra», se poi lo considera autore di «scrittarelli» (p. 25). Così sono infatti considerati i suoi scritti su Dante e su Mazzini, letti con superficialità nel volumetto Conversazioni con Marussia Ginzburg (a cura di M. Clara Avalle, Torino 2002, pp. 111-115 e pp. 115-119) per l’assenza di un metodo storico. Secondo la testimonianza della sorella, lo scritto su Mazzini «risale probabilmente all’anno scolastico 1921-22» (p. 115) e venne compilato in lingua russa a Berlino, dove Leone Ginzburg fu condotto per motivi poco chiari e non sufficientemente indagati. Sulla sua lettera al «Corriere della Sera» e sulla risposta di Angelo Gatti, l’Autore non compie alcuna ricerca e non si sforza di seguire le annotazioni della sorella, che colloca l’invio della lettera nel periodo estivo trascorso a Viareggio («22 della luna di ottobre», p. 34). Come può la lettera di Ginzburg trovarsi nel fascicolo intestato ad Angelo Gatti (p. 359, nota 39), se essa venne trasmessa al collaboratore del giornale milanese? Come mai l’Autore non segue la pista offerta dalla sorella, che fornisce su quell’episodio non pochi particolari? Come mai l’Autore, che fornisce ricchi e inutili particolari, non si è degnato di consultare la raccolta del «Corriere della Sera» dei mesi di ottobre, almeno per sapere che cosa abbia affermato Angelo Gatti? Come mai l’Autore cita i volumi «LABANCA 2017 e MONDINI 2017» (p. 359, nota 38), che non sono riportati nella Bibliografia?
    Secondo Renato Hirsch, che invia una lettera (non un articolo, p. 357, nota 10) al mensile «Resistenza. Giustizia e Libertà» (agosto 1964, a. XVIII, n. 8, p. 2), «Leone rimane con Maria [Segrè] fino al 1921, quando va a raggiungere i Ginzburg a Berlino dove rimane per due anni e frequenta la scuola russa …. Nel 1923 si trasferisce con la famiglia a Torino e da allora incomincia il suo periodo torinese di maggiore maturità. Però, anche di là egli si reca sovente presso Maria e a Viareggio trascorre le sue vacanze». Dunque la lettera, inviata al «Corriere della Sera», deve essere collocata nel 1923, se è vero che essa venne spedita da Viareggio e annunciata con clamore ai fratelli Nicola e Marussia proprio il «22 della luna piena di ottobre» (cfr. la lettera in M. Clara Avalle (a cura di), Conversazioni con Marussia Ginzburg, cit. pp. 34-35). Perché allora d’Orsi non riesce a collocare la lettera? Perché si contraddice, affermando che essa sia collocabile «forse nel 1922» (p. 359, nota 39) e poi con sicumera sostenere che al momento dell’invio Leone fosse «tredicenne» (p. 26). Persino Antonio Scurati, che certo non brilla per precisione nei suoi romanzi storici, dice giustamente che la famiglia Ginzburg si stabilisce a Berlino «nel marzo del 1921» (Il tempo migliore della nostra vita, Bompiani, Milano 2015, p. 26) e che «trenta mesi più tardi» si trasferisce a Torino (p. 27). La lettera, dunque, deve essere collocata verso la fine dell’ottobre 1923, per cui il «22 della luna di ottobre» indicato da Leone Ginzburg si deve riferire proprio a quell’anno: aspetti argomentati male dall’Autore per l’inquadramento spesso improvvisato della sua biografia.
    Nel secondo capitolo intitolato «La Confraternita» (pp. 29-53), l’Autore presenta l’ambiente culturale del torinese Liceo D’Azeglio, animato da tre docenti autorevoli: Umberto Cosmo, Arturo Segre e Zino Zini, ai quali dedica un ritratto intellettuale non sempre veritiero, per lo più tratto dal menzionato saggio di Bobbio e arricchito con riferimenti a personaggi della tradizione comunista (Antonio Gramsci, Palmiro Togliatti, Umberto Terracini).
    Della commemorazione di Arturo Segre, l’Autore riprende e cita un lungo brano di Bobbio, tagliuzzato nella parte più significativa, che ben si concilia con la conclusione finale: così Bobbio scrive che egli incuteva timore e al suo ingresso in aula «cessava … ogni pensiero che non fosse rivolto alla lezione da ripetere, agli appunti da eseguire con mano febbrile» (N. Bobbio, Tre Maestri, cit., p. 11). Il brano è presentato invece in modo diverso e il verbo «eseguire» diventa «seguire» (p. 34). Di Bobbio cita un brano su Zino Zini, anch’esso storpiato, là dove si dice: «A noi ragazzi Zini era noto soprattutto come l’autore di quest’opera maledetta (Il Congresso dei morti, Roma 1921) di cui si parlava con scandalo, e che nessuno aveva letta, ed empio sarebbe stato chi avesse avuto l’audacia di leggerla»: nell’originale è scritto che «nessuno aveva letto» (N. Bobbio, Tre Maestri, cit., p. 7). Un altro brano di Bobbio su Ginzburg è citato in modo superficiale: si veda il passaggio in cui egli dice che «Leone […] non perdeva il filo anche nei discorsi più difficili» (N. Bobbio, Maestri e compagni, Passigli editore, Firenze 1984, 1994, p. 167), che diventa: «Leone […] non perdeva il filo anche nei ragionamenti più difficili» (A. d’Orsi, L’intellettuale antifascista cit., p. 39).
    Queste citazioni non conformi ai testi originali sono unite a riassunti di brani non sempre colti nella loro essenza: si esamini per esempio il brano in cui Bobbio spiega in modo chiaro il pensiero di Zino Zini, che «allo studio dei problemi sociali egli era stato portato … da una delicata coscienza morale» e da «una concezione pessimistica dell’uomo e della storia, corretta da un cristiano senso di pietà per le sventure degli uomini» (N. Bobbio, Tre Maestri, cit., p. 6). Si confronti il brano in cui d’Orsi, che non cita la fonte, scrive che «Zini giunge alla politica in virtù di una ferma coscienza morale, non priva di un senso tutto cristiano dell’umana compassione per i deboli e gli indifesi» (35). Da questi due brani si comprende la visione opposta che lega il Maestro al discepolo, che si vanta di essere l’unico titolato a scrivere su Leone Ginzburg, inondando il suo testo biografico come un fiume in piena di citazioni inutili e sfoggio di erudizione.
    (I parte)
     

  • IL FONDO TULLIO DE MAURO
    E IL DIZIONARIO
    CHE CURA LE PAROLE

    data: 02/12/2019 17:17

    Tullio De Mauro è stato un grande linguista italiano, docente presso l’Università la Sapienza di Roma, direttore della Fondazione Bellonci dal novembre 2007 e ministro della Pubblica Istruzione dal 26 aprile 2000 all’11 giugno 2001. Di origine campana - era nato a Torre Annunziata (Napoli) il 31 marzo 1932 e vissuto per molti anni a Foggia - egli ha lasciato la sua biblioteca all’associazione «Rete Italiana di Cultura Popolare» di Torino, dove è custodito il suo patrimonio librario dopo la morte avvenuta il 5 gennaio 2017.
    Il sodalizio, la cui sede si trova all’interno della Galleria Tirrena della città subalpina, si propone di preservare il patrimonio linguistico italiano con iniziative culturali sulla scia della lezione dell’intellettuale campano. Presso la sede torinese è stato istituito «Il Fondo Tullio De Mauro», che comprende circa seimila volumi, tra i quali dizionari, grammatiche regionali, saggi di linguistica, testi di narrativa, poesia dialettale e raccolte di filastrocche, canti e fiabe. Nel Fondo si trovano anche opuscoli e periodici di oltre cento testate locali: un patrimonio di inestimabile valore riconosciuto di grande interesse culturale dalla Sovrintendenza ai Beni Archivistici del Piemonte.
    Tra opere antiche e nuove di glottologia, linguistica, dialettologia si ritrovano antichi volumi e preziosi come «La Divina Commedia» tradotta in tutti i dialetti italiani, «La Gerusalemme Liberata» nella parlata napoletana del XVII secolo, studi sulle minoranze linguistiche e sui dialetti, considerati da De Mauro come «la lingua degli affetti, quella originale, delle emozioni e dell’infanzia». In quest’àmbito si inserisce la pubblicazione del primo volume di una collana che «vedrà raccolte tutte le future parole di cui il Fondo si prenderà cura, anno per anno». Esso che si intitola «Dizionario che cura le parole» (edizioni SuiGeneris, Torino 2019, pp. 80), si propone di impedire il diffondersi del cosiddetto «analfabetismo funzionale» così deprecato negli ultimi anni da Tullio De Mauro. I quattordici lemmi, scritti da sociologi e da altri intellettuali come storici, linguisti, animatori e cultori di varie discipline, sono aperti dalla parola biblioteca presentata come «il luogo più democratico che esista» (Antonella Agnoli, p. 19).
    La sociologa Chiara Saracena, presidente della Rete, analizza la parola «Odio» che, vista nella sua duplicità come riferita alle persone e a «cose o atteggiamenti» (p. 48), è spiegata sul suo significato storico e sulla sua evoluzione temporale per definire che cosa si nasconda dietro il suo utilizzo. La scrittrice e giornalista Igiaba Sciego chiarisce il lemma «Contatti», che nella storia dell’uomo sono sfociati nella violenza, ma ciò non ha impedito ai singoli e ai gruppi di superare situazioni di ostilità e di «costruire qualcosa che poteva inglobare e non escludere» (p. 23).
    L’attore e regista Tindaro Granata analizza il termine «Coraggio», il cui significato sembra essersi smarrito nella coscienza odierna degli italiani, adusi alla monotonia del tran tran quotidiano. Il pedagogo Marco Rossi Doria, insegnante nei quartieri difficili di Napoli e di Roma, chiarisce il concetto di «Educazione», parola complessa presentata come promozione di «attitudini e sensibilità», ma anche come sviluppo di «facoltà intellettuali» e di conoscenze atte a migliorare il consesso sociale. (p. 34). La parola «Famiglia» è esposta dall’antropologo Francesco Remotti, che sottolinea la pluralità delle sue forme (per esempio quelle di tipo poligamico) e mette in rilievo come quella mononucleare sia considerata la cellula madre del progresso sociale.
    La scrittrice Cinzia Sciuto, autrice di un libro sul «Multiculturalismo», offre uno spaccato culturale del termine e fornisce un’articolata definizione, secondo cui con esso si intende un preciso modello politico variabile a seconda delle diverse comunità etnico-cultural-religiose. Lo storico Guido Formigoni analizza invece il termine «Politica», pronunciato con un certo disprezzo per la delegittimazione del ceto politico e per la convinzione che essa sia «solo mirata a perseguire interessi personali». Segue quello di «Populismo», che viene presentato da Gian Enrico Rusconi come «una delle espressioni più ricorrenti nel linguaggio politico» (p. 56). Il termine, fortemente polemico e divisivo, richiama l’atteggiamento «di chi crede di avere radicalmente ragione» in nome di una pretesa ed unica rappresentanza del popolo.
    Il divulgatore scientifico Francesco Cavalli Sforza compie un excursus linguistico del concetto di «Razza», termine che può essere imputabile al mondo animale, ma non a quello umano. Le differenze delle diverse popolazioni riguardano invece aspetti esterni del corpo, un risultato dell’adattamento al clima: «la pelle, la superficie del corpo, la sua forma, sono la nostra interfaccia diretta con l’ambiente e ogni popolazione sviluppa adattamenti propri, spesso determinati anche da fattori culturali, come la dieta o l’uso di vestirsi» (pp. 63-64). Lo scrittore ed ex magistrato Gianrico Carofiglio chiude il dizionario con l’analisi del lemma «Verità» (pp. 71-72), la cui locuzione «può essere anagrammata in una ventina di modi diversi», tra i quali i più significativi si riferiscono a quella rivelata della religione o quella dello scetticismo: un tema che andava certamente meglio chiarito per la diversità di opinioni e la rilevanza assunta nella storia della filosofia umana.
     

  • FRANCESCO DE SANCTIS
    NON SOLO STORIA
    DELLA LETTERATURA
    ITALIANA

    data: 28/11/2019 18:17

    Francesco De Sanctis (1817-1883) fu un grande intellettuale irpino che dedicò tutta la sua attività culturale all’emancipazione dei ceti meno abbienti. La sua Storia della letteratura italiana (1870-1871) è stata più volte ristampata per il legame inscindibile fra storia letteraria e impegno civile. Antonio Gramsci e Benedetto Croce, due pensatori di orientamento politico opposto, hanno rilevato più volte il valore di un’opera che ha formato intere generazioni di studiosi. Il filosofo napoletano approntò addirittura una nuova edizione (Bari 1912, ristampa 1925), introducendo una punteggiatura moderna e uniformando nome e titoli, mentre l’intellettuale sardo ritornò spesso nei Quaderni del Carcere (Torino 1975, pp. 971 e 1207) e citò il saggio Scienza e Vita (1872) per indicare lo scrittore irpino come l’interprete più genuino del romanzo «verista».

    Il famoso testo di De Sanctis, letto da Gramsci nella raccolta dei suoi scritti curata da Paolo Arcari (1924), fa parte del percorso conclusivo della mostra Francesco De Sanctis a Torino, inaugurata il 16 novembre scorso ed esposta fino al 20 febbraio 2020 nelle sale della Biblioteca nazionale della città subalpina. I cinque percorsi espositivi rivisitano le tappe più significative della vita dello scrittore irpino: «De Sanctis 1853 a Torino», «la corrispondenza da Zurigo», «lo scrittore giornalista nella Torino capitale», «gli anni della storia della letteratura italiana» e i «lettori piemontesi del Viaggio elettorale, la polemica murattiana»

    La mostra, organizzata dal Comitato nazionale per le celebrazioni del bicentenario della nascita di Francesco De Sanctis e dal dipartimento di studi umanistici dell’Università di Torino, ha ricevuto la consulenza di Clara Allasia, già curatrice di un volume collettaneo dedicato proprio al grande intellettuale irpino: Francesco De Sanctis a Torino da esule a ministro (Alessandria 2015, pp. XI-201).

    Nel primo percorso espositivo sono narrati gli anni trascorsi da De Sanctis a Torino dove rimase in un triste isolamento culturale dal settembre 1853 al marzo 1856. Solo l’insegnamento della lingua italiana in una scuola privata femminile gli fu di grande sollievo, anche per l’amicizia che lo legò in una relazione tormentata con la giovane Teresa De Amicis. Nel secondo percorso, «la Corrispondenza da Zurigo», De Sanctis – vissuto nella cittadina svizzera dal 1856 al 1860 – criticò il conservatorismo mascherato dei progressisti coevi e si batté contro il provincialismo della cultura italiana. Egli studiò Giacomo Leopardi e pose il poeta in «dialogo» con Schopenhauer nella torinese «Rivista contemporanea» (1858). Il saggio, ripreso altre volte ma rimasto incompiuto, dimostra una maturazione dello scrittore irpino come lettore e interprete, con evidenti riferimenti al mondo della politica, della pedagogia e del costume.

    Segue nel terzo percorso l’esposizione dell’intensa attività svolta da De Sanctis come collaboratore della stampa torinese e di periodici come il «Cimento», «Il Piemonte», la «Rivista Contemporanea» e il «Diritto». Proprio da quest’ultimo periodico egli rivolse un’aspra critica al «murattismo» come via diplomatica favorevole alla sostituzione del Borbone con un discendente di Gioacchino Murat. Sono saggi che meritano una maggiore conoscenza per l’attualità straordinaria e per le feconde intuizioni in essi contenute. La sua stroncatura del volume l’Ebreo di Verona di Antonio Bresciani ebbe una larga risonanza per il paragone con Manzoni e la denuncia di una ispirazione religiosa nel romanzo. Le critiche allo spiritualismo di G. Prati e alla tronfia retorica di F. D. Guerrazzi sono esemplari per serietà culturale e acribia scientifica.

    Nel quarto percorso sono ricordate le vicende personali del De Sanctis e la sua stesura della Storia della letteratura italiana, che sarà pubblicata nel 1870-1871. Quelli di Zurigo sono gli anni preparatori alla sua maggiore opera, che si caratterizza «non già sul piano della astratta teorizzazione, bensì in un duplice ordine di riflessioni e di esercitazioni concrete e in un assiduo confronto e reciproco conforto delle une con le altre: il che rende ragione bensì della scarsa sistematicità, ma anche della ricchezza di un pensiero sempre calato in una problematica attuale» (N. Sapegno, Introduzione a Francesco De Sanctis, Storia della letteratura italiana, Milano 1991, pp. IX-X). Nell’ultimo capitolo viene ribadito il concetto che una grande letteratura deve indagare la direzione verso cui si muove la vita della Nazione e trasmettere i suoi valori all’intero popolo italiano. Quasi a definire una concezione culturale dell’Autore, che pone le basi della lotta politica a cui De Sanctis parteciperà come ministro della Pubblica Istruzione.

     

    Nelle quattordici lettere, pubblicate in appendice della «Gazzetta di Torino» nei primi mesi del 1875 e ristampate l’anno successivo con il titolo Viaggio elettorale, De Sanctis narra il memorabile ballottaggio delle elezioni politiche, offrendoci un quadro delizioso di note critiche dei personaggi e schizzi critici dell’ambiente. Si tratta di un aureo volumetto, la cui lettura è indispensabile per comprendere il dibattito sulla questione meridionale, cui daranno rilevanti contributi Francesco Saverio Merlino, Gaetano Salvemini, Giustino Fortunato, Guido Dorso e Tommaso Fiore. Per il De Sanctis, la questione meridionale poteva trovare una soluzione, diffondendo soprattutto l’istruzione e la scuola, al cui sviluppo avrebbero contribuito gli strumenti del giornale e del libro in un quadro di difesa dei valori nazionali contro le spinte disgregatrici sociali (la lotta di classe), religiosa (il clericalismo) e politica (il federalismo).

  • VINCI VERGINELLI
    L'ERMETICO DIMENTICATO

    data: 14/11/2019 12:46

    In un noto racconto compreso nel volume La messa dei villeggianti, ora ripubblicato da Bompiani (pp. 244, euro 13), Mario Soldati tratteggia il volto di un professore durante una festa popolare romana. Il racconto si intitola La pagliata e riferisce una nota ricetta che è cucinata in umido oppure al forno con brace di carbone a legna. Più che la festa incentrata sul prelibato e antico piatto della cucina romana, è significativo il riferimento al docente, che attrae l’attenzione dello scrittore per lo «strano lampo nei suoi occhi neri e diabolici».
    Il personaggio era un docente di nome Vincenzo Verginelli che, sebbene fosse nato a Corato, visse quasi sempre a Roma dove morì il 6 dicembre 1987 all’età di 84 anni. Nonostante la rigida educazione impartitagli da due zie religiosissime e da un solerte prelato del paesino pugliese, Verginelli manifestò uno spirito irrequieto che lo condusse sedicenne a Trieste per partecipare alla liberazione di Fiume al seguito di Gabriele d’Annunzio. Il suo compito era quello di consegnare al poeta un assegno con una somma utile a preparare la spedizione dei volontari legionari.
    Non si era ancora attuato l’incontro con il vate-comandante che il giovane legionario rimase ferito durante la presa di Fiume. Così d’Annunzio si recò a fargli visita sul campo e, vistolo intento a leggere un libro, gli chiese quale fosse il suo nome e che cosa leggesse. «Mi chiamo Vincenzo Verginelli e sto leggendo La Divina Commedia», rispose il giovane pugliese. E il poeta abruzzese subito, giocando su quel nome, lo chiamò «Vinci»: un nome che segnò la sua vita, perché da quel momento fu chiamato in quel modo al suo ritorno a Corato.
    Conclusi gli studi liceali a Bitonto, il giovane Verginelli conobbe Giuliano Kremmerz (al secolo Ciro Formisano) che lo indirizzò verso lo studio dell’ermetismo e la lettura del testo «Chymica Vannus» (il vaglio chimico) del 1666. Così negli anni 1921-25 tradusse quel testo dell’ermetismo, che fu pubblicato molti anni dopo grazie al contributo di Girolamo Moggia. Nel frattempo compì gli studi universitari a Firenze, dove frequentò la Biblioteca Filosofica fondata da Arturo Reghini, riuscendo a laurearsi in Lettere classiche con una tesi sulla storia dell’arte, che gli permise di collaborare all’Enciclopedia Treccani fondata da Giovanni Gentile.
    Nel 1929 Verginelli vinse un concorso per l’insegnamento delle materie letterarie e cominciò le sue peripezie professionali a Napoli, a L’Aquila e a Velletri per stabilirsi definitivamente a Roma. Negli anni 1939-1970 insegnò al Liceo Virgilio della capitale, trasmettendo ai giovani la sua vasta cultura ispirata alla lezione di Dante, di cui conosceva lunghi brani a memoria. Come docente si distinse per avere organizzato viaggi in Grecia e in Egitto, promuovendo anche la raccolta di fondi per la costruzione di un lebbrosario in Uganda. Nella sua attività culturale collaborò con il musicista Nino Rota, a cui dedicò il «Catalogo di antichi testi ermetici» durante un lungo sodalizio artistico, che si rivelò proficuo in molte iniziative. Entrambi prepararono il testo «Aladino e la lampada magica» che, attinto direttamente all’antica fiaba «Le mille e una notte», fu rappresentato nel 1968 al teatro San Carlo di Napoli e dieci anni dopo al teatro dell’Opera di Roma. Sempre con Rota curò la cantata La vita di Maria, che fu rappresentata a Perugia il 24 settembre 1974 durante la XXV sacra musicale umbra.
    Nella raccolta di poesie intitolata Ceneri di paradiso (1957), Verginelli dimostrò una particolare passione per la lettura dei classici (Francesco Petrarca e Giacomo Leopardi) e una conoscenza della poetica di Thomas S. Eliot e García Lorca. La sua visione cristiana-ermetica, la cui essenza poggia su un fraterno amore universale, confluì nello studio e nella diffusione della «medicina ermetica», su cui pubblicò nel 1983 un volumetto. In quell’anno, grazie all’ausilio di Giovanni Sergio, Verginelli concluse la stesura di un Catalogo di alchimisti in italiano, che venne pubblicato nel 1986 col titolo «Bibliotheca Hermetica». La raccolta dei testi venne donata all’Accademia Nazionale dei Lincei e ratificata sul piano giuridico dall’insigne arabista Francesco Gabrieli. Come presidente del «Circolo Virgiliano» di Roma e animatore dell’Accademia Pitagora di Bari, Verginelli profuse un costante impegno, che non ebbe un seguito dopo la sua morte, ad eccezione di una rappresentazione tenuta il 23 luglio 2003 a Bari nella presentazione del testo Roma capomunni, quest’ultimo consultabile nella biblioteca del Conservatore statale di Musica Niccolò Piccinni del capoluogo pugliese. Dopo la breve e interessante testimonianza biografica di Giovanni Sergio, contenuta nel volumetto Il serpente incoronato (2008), una lacuna è stata colmata da Enzo Tota e Vito Di Chio, che hanno dedicato all’erudito pugliese un volume con il significativo titolo Una vita per la poesia, la scuola e la cultura (2016).

    (*) da La Gazzetta del Mezzogiorno  del 13 novembre 2019)

  • PANSA COPIA SE STESSO
    E IL "CORRIERE" PUBBLICA

    data: 05/11/2019 19:41

    Considerata la penna più acuminata del giornalismo italiano, Giampaolo Pansa è ritornato a scrivere sul «Corriere della Sera» a cui aveva collaborato dal 1973 al 1977. L’ottantaquattrenne giornalista del «Bestiario», che si vanta «di essere il cronista che ha lavorato per più giornali» – da «La Stampa» a «L’Espresso», da «la Repubblica» a «Panorama» e a «La Verità» – ha pubblicato sul «Corriere» (2 novembre, p. 27) l’articolo Il giorno in cui Berlinguer mi disse che preferiva la Nato a Varsavia, che riprende l’intervista già resa nota nel suo libro «Ottobre addio, viaggio fra i comunisti italiani» (Mondadori, Milano 1982, pp. 9-20 e pp. 169-176).
    Nel suo articolo odierno Pansa aggiunge solo alcune considerazioni finali, dettate da ricordi vaghi e prive di una documentazione attendibile. Persino il titolo dell’intervista venne criticato da Berlinguer, che lo considerò «sensazionalistico» (p. 18) pari pari a quello riportato nell’articolo del 2 novembre. L’intervista ad Enrico Berlinguer, segretario del Pci dal 1972, uscì sul «Corriere» il 15 giugno 1976 e «fece un gran rumore sia in Italia che in Europa» (articolo, p. 27): giudizio già espresso nel libro, là dove dice «sulla stampa di mezza Europa si scatenò il finimondo» (p. 17). Sotto l’occhio vigile di Antonio Tatò, Berlinguer «si teneva su bevendo whisky con poca acqua aggiunta» (articolo, p. 27), mentre nel libro si dice che egli lo consumasse «con moltissima acqua» (p. 14).
    Dopo questi giudizi contraddittori, Pansa attribuisce a Berlinguer la seguente frase: «Io sento che, non appartenendo l’Italia al patto di Varsavia, da questo punto di vista c’è l’assoluta certezza che possiamo procedere lungo la via italiana al socialismo senza alcun condizionamento. Ma questo non vuol dire che nel blocco occidentale non esistano problemi. Tanto è vero che noi ci vediamo costretti a rivendicare all’interno del patto Atlantico, patto che noi non mettiamo in discussione, il diritto dell’Italia di decidere in modo autonomo del proprio destino» (articolo, p. 27; libro, p. 16). La successiva domanda e la relativa risposta sono riprese anche dal libro: «Lei mi sta dicendo che il socialismo nella libertà sarebbe più realizzabile nel sistema occidentale?». “Re Enrico rispose: «Sì certo. Il sistema occidentale offre meno vincoli. Però, stia attento. Di là, all’Est, forse vorrebbero che noi costruissimo il socialismo come piace a loro. Ma di qua, all’Ovest, alcuni non vorrebbero neppure lasciarci cominciare a farlo, anche nella libertà. Riconosco che da parte nostra c’è un certo azzardo a perseguire una via che non piace né di qua né di là» (articolo, p. 27; libro, p. 17).
    Premesse queste lunghe riprese personali, Pansa «si copia» anche male laddove dice che «nella terza parte dell’intervista, la risposta chiave, quella che conteneva la sorpresa più clamorosa, fu aggiunto soltanto un aggettivo, che nel testo abbiamo stampato in corsivo» (p. 17): nell’articolo dice invece di non rammentare l’aggettivo, contraddicendosi subito dopo nel dire che fu «stampato in corsivo». Il proseguo, breve e striminzito, è ripreso forse da un suo articolo apparso su «l’Espresso» del 22 novembre1992, là dove ricorda il ruolo di Antonio Tatò.
    Persino la descrizione di Tatò non contiene nulla di originale quando scrive: «Era un signore robusto, ma asciutto, dal profilo a metà tra il barbiere di lusso e centurione romano. Capelli neri e coperti di brillantina e le sigarette sempre a portata di mano» (articolo, p. 27). Nel libro del 1982 si legge: «Mi venne incontro un tipo alto, prestante, con l’aria del maturo gigolò tutto azzimato e che si tiene in forma […]. Voce ben impostata. Alterigia mista a cordialità un po’ finta. Splendido profilo fra il centurione e il barbiere di lusso. Chioma nera, imbrillantinata, taglio anni Quaranta. Infine, profumato, profumatissimo» (libro, p. 169).
    Più che la descrizione fisica o caratteriale del «guardiano» berlingueriano, Pansa avrebbe dovuto mettere in rilievo la gestione verticistica del Pci e il criterio adottato da Berlinguer, che – come risulta da un articolo coevo - «non concedeva interviste se non di natura strettamente politica» (cfr. A. Ongaro, Enrico Berlinguer. Indagine sulla formazione di un leader comunista, «L’Europeo, 3 aprile 1975). Perché allora dilungarsi con minuziosi dettagli su un criterio già noto? Se quei riferimenti potevano essere interessanti nel 1976, non lo sono oggi a distanza di quasi mezzo secolo e, soprattutto, dopo le testimonianze sul personaggio di E. Macaluso (50 anni nel Pci, Rubbettino, Soveria Mannelli 2003, pp. 176-177), la pubblicazione delle Note e appunti riservati di Antonio Tatò a Enrico Berlinguer (Einaudi, Torino 2003) a cura di F. Barbagallo e il volume di Vittorio Tranquilli (Antonio Tatò. La Resistenza e il sindacato, Edizioni di Storia e Letteratura, Roma 2001).
     

  • LA LETTERA CESTINATA
    DA ALDO CAZZULLO

    data: 16/10/2019 22:57

    Caro Cazzullo, frequento da quasi mezzo secolo l'università di Torino, dove mi sono laureato con Norberto Bobbio il 17 dicembre 1974. Trovo offensivo il giudizio che leggo nell'articolo di Antonio Ferrari verso i docenti universitari, tacciati di «trombonismo accademico, che è spesso saccente, presuntuoso» (Corriere della Sera, 26 ottobre). Vent'anni fa ricordo di aver letto il suo libro su "I ragazzi di via Po" e l'ho apprezzato per i suoi giudizi imparziali e veritieri sul ceto accademico torinese, mai definito in tono così sprezzante: non ho mai sentito un termine «verbalmente aggressivo» e non ho mai avvertito nulla di «elitario» nel comportamento di Bobbio, di Luigi Firpo, di Filippo Barbano o di Alessandro Passerin d'Entrèves.
    Nunzio Dell’Erba

    Nei giorni scorsi ho inviato questa lettera ad Aldo Cazzullo, responsabile dal gennaio 2017 della rubrica Lettere del «Corriere della Sera», dopo la curatela di Sergio Romano: altri tempi – sarebbe il caso di dire – per il rispetto manifestato verso i lettori e per la scelta ponderata delle lettere. La lettera trae spunto dall’articolo di Antonio Ferrari, che nella recensione del volumetto Lettere ad una dodicenne sul fascismo di ieri e di oggi (Solferino, Milano 2019, pp. 105) di Daniele Aristarco afferma: «Certo, per entrare in autentica sinfonia con i ragazzi, bisogna essere credibili, sinceri e lontani dal trombonismo accademico, che è spesso saccente, presuntuoso, verbalmente aggressivo ed elitario». La frase è seguita da un riferimento al presidente della Repubblica Sandro Pertini: «La gente è con lui, qualunque cosa dica, perché il capo dello Stato sa sempre di pulito». Riferimento incongruo e fuorviante, che non rende onore ad un accostamento già deplorevole per il suo giudizio generalizzante e offensivo del ceto accademico, certamente lontano dalla variegata ed eterogenea realtà universitaria.
    Dopo l’invio della lettera e la mancata pubblicazione nella rubrica delle lettere, riprendo il libro I ragazzi di via Po 1950-1961. Quando e perché Torino ritornò capitale (Mondadori, Milano 1997) di Aldo Cazzullo. Nel VII capitolo ritrovo una lunga lettera di Giampaolo Pansa, in essa egli ricorda il clima imperante nella Facoltà di Scienze politiche di Torino, dove vi erano «professori stupefacenti. Firpo insegnava storia delle dottrine politiche. Un’erudizione smagliante: ti assaliva con il suo sapere, senza fartelo pesare. Bobbio aveva la cattedra di filosofia del diritto. Cominciava le lezioni un minuto prima dell’orario previsto e spiegava per un’ira filata, con la chiarezza, il rispetto e l’umiltà che richiedeva l’addrottinare ragazzi ignoranti arrivati dalla provincia. […] C’era Passerin d’Entrèves, che pareva un gentiluomo inglese, andava in vacanza sopra Aosta nel castellotto quadrato di famiglia e cominciava le sue lettere con gli allievi così: Caro Pansa, temo di non aver saputo rispondere in modo esauriente alla sua richiesta di chiarimenti» (p. 225).
    La testimonianza di Pansa coincide con i giudizi espressi nella mia lettera a Cazzullo, che pubblica solo quelle allineate alla sua forma mentis di giornalista élitario, abituato a correggere, a storpiare gli scritti degli altri e a «correggere». Su Luigi Firpo (1915-1989) fornisce una biografia schematica: «Bibliofilo, coltissimo, cordiale, vive tra la sua biblioteca e la birreria Mazzini, sempre accompagnata da una donna piccola e premurosa, la madre» (p. 174): ci vuole proprio una grande fantasia a fornire questa versione dell’uomo Firpo. Su Alessandro Passerin d’Entrèves (1902-1985) scrive che egli fu un «collaboratore della “Rivoluzione liberale”» (p. 99), quando dall’elenco dell’edizione anastatica introdotta da Norberto Bobbio e pubblicata da Einaudi (2001) non si trova nessun articolo. Il giornalista albese dedica veloci riferimenti a Norberto Bobbio (1909-2004) e accenna alla sua collaborazione del 1976 a «La Stampa», ma tralascia le interviste come quella rilasciata l’anno prima a Stefano Reggiani (10 luglio 1975, p. 3). Egli non ricorda che il primo dei due articoli con il quale l’illustre filosofo pubblica sul quotidiano torinese riguarda il dibattito sul pluralismo (21 settembre 1976, p. 3), cui segue quello sul concetto di democrazia (10 ottobre 1976, p. 3).
    Nel capitolo dedicato alla casa editrice Einaudi, Cazzullo ricorda le riunioni degli intellettuali, che si riunivano a Torino nella sede di via Biancamano per discutere sui libri da pubblicare. Il discorso di Bobbio, di cui l’autore non cita mai la fonte, è significativo per comprendere il contributo degli azionisti, dei comunisti e dei pochi cattolici dissidenti (pp. 50-51). Ma nella presentazione del dibattito Cazzullo dà notizie frammentarie, senza dimostrare obiettività d’analisi e serenità di giudizio nella scelta delle notizie, ieri come oggi!

     


     

  • FUORVIANTE CONDANNA
    DI CELINE DA PARTE
    DI DUE GIORNALISTI

    data: 16/10/2019 19:40

    Sul «Corriere della Sera» Paolo Di Stefano il 13 ottobre e Pierluigi Battista il 14 ottobre sono intervenuti per commentare la concessione del premio Nobel per la letteratura a Peter Handke, tacciato di aver sostenuto le sue posizioni filoserbe durante gli orrori di Srebenica. Entrambi hanno discusso la vexata quaestio se si possa essere «grandi scrittori e pessimi cittadini», giustificando l’azione di Handke e additando l’esempio di Louis-Ferdinand Cèline, definito «un mostro antisemita» ma «eccellente scrittore». La questione ritorna puntuale ad ogni ristampa dei libri di Céline e del suo carteggio, come è avvenuto dopo l’edizione delle sue Lettere agli editori, pubblicate da Quodlibet e considerate da Paolo di Betto un esempio significativo della stretta connessione tra lo scrittore e la persona: «mai distinguere tra Céline uomo e Céline scrittore».
    Tuttavia lo scrittore e medico francese, nato a Courbevoie il 27 maggio 1894 e morto a Meudon il 1° luglio 1961, suscita ancora aspre polemiche tra i giornalisti italiani a causa del suo ostinato antisemitismo e delle sue simpatie per la Repubblica di Vichy. La mancata conoscenza della sua opera rende la polemica sterile e non apporta alcun elemento alla conoscenza dello scrittore francese. A parte le frettolose valutazioni di Battista e di Di Stefano, che pongono nel loro elenco personaggi diversi come Luigi Pirandello, Giovanni Gentile, Concetto Marchesi e Delio Cantimori, bisogna dire che essi propinano veloci riflessioni, dimostrando una scarsa dimestichezza con le loro posizioni politiche e dimenticando il contesto storico in cui esse maturarono e si svilupparono.
    I due giornalisti del «Corriere» dimenticano che l’opera dello scrittore francese ricalca temi già trattati da Édouard Drumont o Édouard Berth (Darville), seppure rivisti alla luce dei cambiamenti politici a lui contemporanei con uno stile violento e sarcastico. Una lettura attenta della biografia di Philippe Alméras su Céline (Corbaccio, Milano 1997) ci illumina sulle sue posizioni antisemite, sulle sue vicende personali (la madre era un’ebrea polacca) e sulla sua professione medica. Non si può ridurre l’opera complessiva di Céline soltanto all’antisemitismo in quanto egli «prende in prestito le ricette dei predicatori e dei retori di ogni epoca» (p. 214).
    Considerato uno scrittore conservatore e uno straordinario romanziere francese, Céline sfugge alle tradizionali categorie politiche per il suo ribellismo anarchico e per la sua visione pessimistica dell’uomo. I suoi tre libri (Bagatelle per un massacro del 1937, La scuola dei cadaveri del 1938 e La bella rogna del 1941), che contengono l’antisemitismo di Céline, circolano da decenni in Francia e in Italia dove sono stati pubblicati nel 1938 (Corbaccio), nel 1970 (Edizioni Soleil) e nel 1982 (Guanda).
    Nel libro Bagatelle per un massacro (1937), Céline riprende il contenuto di libelli ed opuscoli antisemiti, la cui documentazione tende a dimostrare il legame tra ebraismo e comunismo solo «per restare sul piano popolare» (pp. 215 e 216). Perché si chiede Alméras ridurre il contenuto del volume all’antisemitismo quando è palese, seppure ovattato, la sua avversione al cristianesimo?
    Nel libro La scuola dei cadaveri (1938) Céline attribuisce le responsabilità della guerra futura ai falsi democratici, indicando soluzioni concrete alla crisi europea nella riconciliazione tra Francia e Germania (p. 223).
    Nel libro La bella rogna (1941) Céline condanna civili e militari intenti «alla corsa al potere», assumendo un virulento antisemitismo e rivolgendo una devastante condanna del comunismo e della massoneria. La conclusione, che permette di uscire dal marasma sociale, è puerile: «La sola salvezza – scrive Alméras – è nel bambino, nella scuola. Bisogna reimparare a danzare, a cantare, a creare. Bisogna realizzare l’uguaglianza fisiologica di fronte al bisogno. Cento franchi al giorno per tutti. Élite compresa. Bisogna amputare dalla popolazione la gelosia prima di parlarle di razzismo. Se non parla di quattrini, razzismo bellezza patria merito abnegazione sacrifici sono parole al vento» (p. 250).
    Il viaggio in Unione Sovietica, compiuto nel 1936, spinse Céline a denunciare infatti gli orrori del comunismo sovietico nel pamphlet Mea culpa, ripubblicato nel 1982 da Guanda con grave disappunto dei comunisti francesi. Riguardo al massacro di Katyn, egli fu il primo a
    condannare lo sterminio dei Polacchi da parte dei sovietici: una denuncia che rinfocolò l’odio dei comunisti francesi con l’offesa di essere un fervente fautore del nazismo. Nel 1933 pronunciò un discorso, l’Hommage à Zola, con cui condannò i totalitarismi moderni, sottolineando come l’impulso di morte porta un popolo a diventare schiavo di un dittatore e a diventare succube della guerra. Tuttavia il suo antisemitismo, che si ritrova anche nel testo I bei drappi (1941), conferma le simpatie verso il regime collaborazionista di Vichy e della Germania. Le sue posizioni, tuttavia, non furono mai improntate ad un estremismo antiebraico, che sembra scomparire di fronte al suo tentativo di salvare molti ebrei dalla persecuzione nazista e all’amicizia di molti scrittori ebrei.
    A quasi sessant’anni dalla sua morte, la condanna di Céline da parte dei due giornalisti risulta “fuorviante” e rivela un’inconsistenza culturale e storica. Lo scrittore francese, autore di capolavori come Viaggio al termine della notte (1932) oppure Morte a Credito (1936), non può essere posto nell’inferno dell’antisemitismo per testi razzisti poi rinnegati. Il primo romanzo, ormai un classico della narrativa europea del XX secolo, mette a nudo le miserie dell’uomo e quelle dell’intera società attraverso il vagabondare del suo protagonista, che è ricordato nell’articolo del medico Delbecchi, senza specificare quale sia il suo ruolo dalla Grande Guerra al fordismo americano sino alla descrizione della povertà nei quartieri emarginati di Parigi. «Questi anfratti» – dirà Alberto Rosselli – non vede mai la luce della giustizia in posti «dove il male si rigenera automaticamente per mancanza di alternative», mentre nell’altro romanzo la descrizione della vicenda personale è afflitta dalla distanza della vita, che è vista dal protagonista come conquista dell’unico credito in grado di riscuotere.
    In un libro intitolato Céline segreto (Lantana, Roma 2012), scritto con Robert Véronique, la moglie Lucette Almanzor tiene a precisare il contrasto con Sartre, l’opera medica prestata ai poveri e il rifiuto dei testi antisemiti da parte del marito, che in privato si disse «orripilato» dall’Olocausto, definendolo una «atrocità». Aspetti che sono ignorati da Paolo Di Stefano e da Pierluigi Battista, che invece insistono sull’antisemitismo di Céline come un aspetto costante della sua opera. Lo spirito antisemita, che si ritrova in alcuni libri, sono dettati dal sentimento anticomunista dall’autore e dalla difesa della Francia. Altri aspetti dell’opera di Céline che bisogna tenere presenti sono la condanna del totalitarismo staliniano e l’opposizione dopo il II conflitto mondiale alla ristampa dei suoi libri antisemiti.
    Scomunicare l’opera complessiva di Céline significa negare la moderna coscienza democratica e non tenere presente che scrittori famosi come Robert Brasillach (1909-1945) o Lucien Rebatet (1903-1972) si dichiararono antisemiti e ostili al giudaismo, mentre François Mauriac (1885-1970), Jean Paul Sartre (1905-1980) e perfino André Gide (1869-1951) assunsero un atteggiamento di non belligeranza verso il nuovo regime di Vichy. Se Sartre lo additò al pubblico ludibrio, chiedendo che i libri di Céline venissero ignorati dall’intellettualità francese, lo scrittore antinazista Albert Camus (1913-1960) lo difese e scrisse a suo favore.
    L’operazione di ristampare i testi «vergognosi» di Céline non può che essere rifiutata, perché non si può impedire la lettura delle sue opere e costringere gli editori al silenzio con la scusa del rischio di «alimentare ancora di più i rigurgiti dell’antisemitismo». La censura ha sempre prodotto danni peggiori a condizione che siano ben inquadrati e inseriti nel contesto storico coevo. Le responsabilità del razzismo vanno ricercate altrove e non in testi ormai superati e scritti da un intellettuale, che va giudicato per le sue opere più mature.

  • GUSTAW HERLING
    INTELLETTUALE SCOMODO

    data: 30/09/2019 15:57

    Gustaw Herling è stato uno scrittore scomodo nel panorama culturale italiano. Di origini polacche (era nato a Kielce il 20 maggio 1919), egli visse per quasi tutta la vita a Napoli, dove morì il 4 luglio 2000. Fu prigioniero nei campi di concentramento della Nkvd per quasi due anni ai tempi del Patto Molotov-Ribbentrop, ma subito dopo la sua liberazione partecipò alla lotta antinazista al seguito del generale Anders come soldato alla battaglia di Montecassino. A causa delle sue posizioni anticomuniste, egli non fece ritorno in Polonia, stabilendosi a Roma, a Londra e nel 1955 a Napoli, dove sposò in seconde nozze la figlia Lidia di Benedetto Croce. Dal matrimonio nacquero due figli: Andrea Benedetto e Marta, quat’ultima attiva nella presentazione del suo romanzo autobiografico Un mondo a parte, la cui ultima edizione pubblicata nella collana dei classici Mondadori con l’introduzione di Francesco M. Cataluccio.
    A questa edizione si aggiunge ora un altro volume nei prestigiosi Meridiani delle medesima casa editrice: Etica e letteratura. Testimonianze, diario, racconti, a cura di Krystyna Jaworska. (Milano 2019, pp. CLXVII-1670), in circolazione del 24 settembre scorso. Nondimeno il suo romanzo autobiografico rimane il testo più significativo per la testimonianza sugli orrori dei totalitarismo del XX secolo. Il libro presenta una storia accidentata, perché - pubblicato a Londra nel 1951 - aveva precorso i tempi in quanto raccontava le peripezie trascorse tra il marzo 1940 e il gennaio 1942 nel gulag sovietico di Ercevo, anticipando così le denunce del regime stalinista e degli orrori di un sistema su cui era meglio tacere.
    Il gulag di Ercevo, ubicato nel comprensorio di Kargopol sul Mar Baltico, era un campo di lavoro adibito alla raccolta del legno per costruzioni, che veniva poi smistato con linee ferroviarie e utilizzato dai più fortunati danarosi. La vita dei prigionieri era disumana: 40 gradi sotto zero con lavori massacranti, resi ancora più duri dalla scarsa alimentazione (300 grammi di pane più un mestolo di minestra) e insopportabili per la presenza di delinquenti comuni. Nel campo vi erano infatti diversi livelli di prigionieri: i “bytovik”, ossia i criminali comuni con condanne lievi, i criminali più pericolosi denominati “urka” e i “belorucki” prigionieri politici. Di questa struttura concentrazionaria Herling descrive una situazione tremenda e realistica, non dissimile da quella lasciata da Dante Corneli (Tivoli, 6 maggio 1900 – ivi, 10 settembre 1990), che pone l’accento sul vasto ed eterogeneo universo politico costituito da anarchici, socialisti e comunisti dissidenti e quanti avessero formulato una lieve critica al regime staliniano. Nel gulag sovietico vigeva un sistema di controllo efficiente da parte di funzionari, che arrestavano i prigionieri per motivi futili e spesso per accuse false: sabotaggio della produzione, spionaggio, cospirazione contro la patria, tradimento e controrivoluzione. Su questo apparato burocratico vigilava la terribile polizia segreta NKVD (poi diventata KGB), che ricorreva ai metodi più crudeli per estorcere confessioni e costringere i prigionieri al lavoro forzato.
    Pubblicato per la prima volta nel 1958 da Laterza, il libro Un mondo a parte fu stampato dall’editore barese per il legame parentale che legava Herling a Benedetto Croce. Esso fu invece ignorato completamente nella cultura di sinistra e, ad eccezione di Ignazio Silone e di Leo Valiani, passò inosservato. Entrambi compresero il valore del libro per l’accento che Herling pose sull’universo concentrazionario, descritto con stile asciutto e limpido, senza lasciarsi trascinare dalle emozioni e dai sentimenti personali. Rancore, odio, fame, dolore non investono la sfera personale e non influenzano la scrittura di Herling, che manifesta un distacco dai patimenti subiti, dimostrando una profonda conoscenza della letteratura russa, senza identificare mai il regime sovietico con la letteratura, la musica, la poesia e i costumi di un popolo. “I libri di polemica politica – scrisse Silone – hanno una vita effimera; essi durano quanto le circostanze della polemica; ma se un libro tocca il fondo della sofferenza umana, se esso la vede con occhi di pietà e la ritrae con i mezzi dell’arte, anche se la sua origine fu occasionale, essa certamente sopravvive ed entra a far parte del patrimonio spirituale che l’umanità si tramanda di generazione in generazione”.
    Tuttavia la successiva edizione (Rizzoli, Milano 1965) non modificò la situazione: Gianni Toti recensì criticamente il libro su “Paese Sera”, chiedendo alle autorità italiane di espellerlo dall’Italia. Lo scrittore polacco non godeva larga simpatia negli ambienti culturali di Napoli, dove viveva dal 1955 dopo essere stato liberato dal gulag e avere trascorsi alcuni anni a Montecassino. Come studioso della letteratura polacca sin dagli Trenta, Herling manifestò fin da giovane un originale talento letterario, che espresse proprio nel romanzo “Un mondo a parte”, pubblicato in lingua inglese nel 1951. Come testimone del gulag sovietico, egli venne apprezzato da Bertrand A. Russell che scrisse un’introduzione elogiativa per quella “rara forza descrittiva, semplice e vivida” e per la sincerità della sua narrazione personale: il tentativo di fuga dalla Polonia, l’arresto da parte della polizia sovietica e la condanna a cinque anni nel campo di concentramento sovietico. Dal suo soggiorno a Napoli fino all’edizione francese del 1985 a quella nuova del 1994 per l’editore Feltrinelli, il romanzo di Herling subì l’ostracismo della stampa comunista, che cominciò a declinare grazie all’intervento favorevole di Albert Camus e al parere favorevole di Ignazio Silone e Nicola Chiaramonte.
    Come collaboratore del periodico “Il Mondo”, Herling pubblicò negli anni 1954-1958 articoli sulla letteratura russa (Gorki, Dudinzev, Pasternak). Ma scrisse anche sulla rivista “Tempo Presente”, dove pubblicò negli anni 1956-1968 una serie di articoli sull’Unione Sovietica e sull’Europa orientale, incentrati su una critica devastante della dittatura comunista e sulla difesa di un socialismo democratico. Furono anni di grande impegno culturale, come emerge dalla collaborazione a questi periodici e dalla pubblicazione dei racconti “Pale d’altare (Silva, Genova 1967). La posizione politica di Herling, che egli stesso presentava come una sorta di “anticomunismo socialista”, non fu gradita agli epigoni della cultura marxista, che lo tacciarono di essere un rappresentante della cultura di destra. Un atteggiamento che cominciò a cambiare dopo il 1989, in parallelo alla diffusione e al successo delle sue opere in Polonia. In tutte le sue opere, come già in Un mondo a parte, lo scrittore polacco – poi diventato napoletano - esprime uno stile narrativo, che riesce a conciliare il vissuto quotidiano con un pensiero profondo dell’esistenza umana, da cui si possono cogliere spunti di grande apertura sociale.
    L’incontro fortunato con la moglie Lidia lo aiuterà nelle sue fatiche intellettuali e nella stesura dei suoi libri: sino agli ultimi giorni scriverà il "Diario scritto di notte" (Milano 1992), un’opera in più volumi, di cui è apparso solo il primo che raccoglie gli scritti che vanno dal 1970 al 1987. Per la prima volta sono riuniti nel ponderoso volume i suoi scritti, introdotti dai saggi Goffredo Fofi e di Wlodzimierz Bolecki., mentre utile è la Cronologia di Marta Herling, figlia dell’autore, che introduce il lettore nel pensiero democratico e nella conoscenza di brani inediti del padre.
     

  • D'ORRICO NON HA DUBBI:
    ASFALTERA' LE CLASSIFICHE

    data: 23/09/2019 17:04

    Presentato in anteprima il 22 settembre a Pordenone, il romanzo Peccati mortali (Mondadori, Milano 2019, pp. 260) di Aldo Cazzullo e Fabrizio Roncone è stato salutato sul «Corriere della Sera» da Antonio D’Orrico come «un libro che asfalterà le classifiche di vendita». Nella sua elogiativa recensione egli dedica quasi due pagine al nuovo romanzo, che presenta le caratteristiche di fantapolitica con riferimenti alla realtà odierna, fatto di politici arrivisti, di cardinali indecifrabili e «inzaccherati fino all’inverosimile» (si legga la recensione di Matteo Collura, in «Il Messaggero» del 22 settembre).
    Quasi un instant book dove un Movimento 5 Stelle ribattezzato «Popolo dell’Onestà» compie un repentino voltafaccia e riesce a staccarsi dalla Lega di Salvini grazie ad un accordo con il Partito democratico; ecco Matteo Renzi, che lasciato questo partito fonda un raggruppamento politico denominato Avanti (Italia Viva); ecco alcuni prelati preoccupati dalle sortite del Pontefice e delle sue posizioni sull’immigrazione.
    Nella sua recensione compiacente, D’Arrico – noto come critico letterario e stroncatore di professione, ma nel caso dei suoi colleghi poco critico – rivolge loro solo elogi sperticati, valutazioni enfatiche e giudizi esagerati sui due autori che «hanno azzeccato in pieno storia, personaggi e linguaggio, condendo ogni cosa con giusta ironia». Nessun riferimento alla triste realtà politica del nostro Paese con l’enorme debito pubblico, con la disoccupazione giovanile in aumento e con storture diffuse in tutti i settori pubblici. Un articolo riempitivo con citazioni poco consone alla realtà odierna, tratte da Ennio Flaiano e non specificate: sono tratte dal libro L’uovo di Marx pubblicato nel 1987 da Scheiwiller.
    Strano il paragone al romanzo storico I tre Moschettieri (1844), i cui protagonisti usciti dalla fervida fantasia di Alexandre Dumas non presentano alcuna affinità e si muovono in un ambiente diverso animato da vicende accadute sotto il regno di Luigi XIII. Il romanzo Peccati mortali, che per il compiacente recensore funziona con lo stesso meccanismo, è incentrato sul telefonino del cardinale, «che contiene fotografie di un’orgia molto hot che potrebbero provocare il finimondo in Vaticano e negli altri palazzi di potere». Possibile che quelle quattro foto scatenino tanto putiferio nella Roma papalina e provochino una caccia al tesoro con un inseguimento di personaggi così pittoreschi?
    La trama ruota infatti intorno al cardinale Michelangelo Aldovrandi che, oltre ad essere discendente da una ricca famiglia di Roma, è l’unico conservatore ad essersi conquistato la fiducia del pontefice. Il personaggio ha una visione stravagante della vita ecclesiastica: celebra la messa ma non disdegna la compagnia di prostitute («e magari fossero state solo donne»), dice di seguire i principi evangelici, ma nutre un rancore sincero verso i poveri considerati «rompicoglioni». Difatti, dopo aver celebrato la messa, si traveste nel suo lussuoso appartamento in Vaticano e va alla ricerca del piacere. Nel suo impegno quasi quotidiano è aiutato da una suora di nome Remedios che lo aiuta a cambiarsi, porgendogli abiti borghesi, «omaggio personale dello stilista di Milano suo storico amico». Nulla di strano per «quel principe della Chiesa», presentato dagli autori come un uomo «alto, potente, sprezzante; con l’espressione di chi non ha mai passato una notte in un divano letto»; solo che era artefice di intrighi e di malefatte al limite della perversione.
    Su questo scenario gli autori innestano un giallo vero e proprio, provocato dalla morte misteriosa del cardinale, sul cui cadavere la solerte suora trova un telefonino con quattro foto. Sfugge a D’Orrico questo particolare, in quanto include nella ricerca del telefonino la puritana suora Remedios, che ha un rapporto strano con il cardinale per la sua manifestazione di una castità che gli suscita brividi di perversione: «Ogni volta ricordava a Remedios con tono di rimprovero che non gliel’aveva mai data, vedeva il rossore degli inizi munirsi in fastidio, diceva a sé stesso che talora esagerava; ma esagerare era il vero lusso che si era preso nella vita».
    Fatto sta che durante un festino erotico, il cardinale ci lascia la pelle di fronte al gruppo dei partecipanti, tra i quali la prostituta dell'Est, il trans, il giovane nero con la maglietta su cui è scritto Greenpeace e il ministro della Repubblica, uno di quelli che andavano ai comizi a piedi o con la metro. Un quadro romanzesco che si arricchisce con personaggi fantasiosi oppure presenti nel mondo giornalistico, nell’empireo della Roma papalina e nell’ ambiente politico della capitale. Vi si trovano riferimenti al delitto Pecorelli e raffronti con quello di Matteotti, al bacio tra Riina e Andreotti e al mondo di una capitale complicata e complessa, dove tutto è mosso dal potere nell’ombra del Palazzo e dell’intreccio non sempre lineare tra Stato e Vaticano, tra Confindustria e sindacato, tra poteri occulti e magistratura.
     

  • I RENZIANI SOTTO LA MOLE

    data: 19/09/2019 18:51

    Nella sfida del nuovo partito «Italia Viva» i seguaci di Matteo Renzi sono davvero pochi in Piemonte. Essi si contano sulle punte delle dita e segnano la continuità della propria storia politica. Il primo ad aderire al nuovo raggruppamento politico è stato Joseph Gianferrini, già vicepresidente del Pd e noto per avere elogiato nel suo profilo Facebook la polizia, intervenuta prontamente contro i «soliti teppisti no tav con Askatasuna accompagnati da una nutrita flotta 5 stelle» durante il Primo Maggio.

    Nell’elenco non proprio ricco degli scissionisti si ritrova la deputata Silvia Fregolent, convinta che il nuovo partito sarà «attrattivo per chi chiede una svolta». Due volte deputata, ella si vanta di essere cresciuta nel quartiere operaio del Lingotto, ma è laureata in Giurisprudenza e abilitata alla professione di avvocato. Le simpatie per Renzi, già palesi nelle primarie del Pd, sono dettate dal suo atteggiamento critico verso la Giunta Appendino, che a Torino «ha causato disastri con arroganza, superficialità ed incompetenza». La sua proposta è quella di rilanciare la città subalpina e toglierla dalla «decrescita economica ed occupazionale, degrado, conflitto sociale e perdita di prestigio».

    Tra i senatori passati a «Italia Viva» c’è Mauro Maria Marino, membro della Commissione parlamentare d’inchiesta sul sistema bancario e finanziario, nonché promotore di un «cambio radicale del rapporto tra Fisco e contribuenti». Il principale finanziatore dei Comitati Renzi negli ultimi due mesi è stato aspramente criticato dalla vicesegretaria regionale del Pd Monica Canalis, già in contrasto con lui nella scelta del segretario Paolo Furia. Il 16 dicembre scorso infatti il senatore Marino ottenne la maggioranza relativa dei voti (4,75%), ma fu sconfitto da Furia grazie all’intervento di Monica Canalis.

    Del nuovo raggruppamento politico fa parte anche Giacomo Portas (detto Mimmo), deputato indipendente del Pd, sostenitore di Bersani, di Zingaretti e ora di Renzi. La sua adesione è giustificata dalla scelta di Zingaretti di costituire un governo con il M5 Stelle, che è considerato dal deputato inaffidabile per le sue scelte politiche. Anzi promuove una proposta di alleanza di tutte le forze moderate per aprire uno scenario politico nuovo nelle elezioni comunali del 2021. Vicino alle sue posizioni è Davide Ricca, presidente della Circoscrizione Ottava, che ha già annunciato di seguire Renzi nel suo programma e di aderire al nuovo raggruppamento politico. Per i pochi seguaci piemontesi del senatore toscano, la sua operazione è corretta sul piano politico ed è volta ad occupare uno spazio politico nuovo per avviare una critica alla scelta del Pd di costituire un governo con il M5 Stelle.

  • E MUSTICA FUSE PITTURA
    SCULTURA E ARCHITETTURA

    data: 09/09/2019 21:21

    Nino Mustica avrebbe compiuto 70 anni il 26 agosto di quest’anno, essendo nato ad Adrano nel 1949: una morte crudele l’ha strappato il 17 gennaio scorso del 2018 ai suoi cari, agli amici e agli amanti dell’arte. Con lui è scomparso un artista poliedrico, che ha coniugato una pittura astratta con l’essenza della scultura e dell’architettura. Per tutta la vita coltivò infatti una varietà di interessi in una fusione di opere uniche nel suo genere artistico. Presentato dai critici come l’inventore di una nuova forma d’arte, la pittura solida, Mustica dedicò la sua attività artistica ad una composizione tra colore e il solido disegno scultoreo, denominando “forme di colore” le proprie composizioni apprezzate nei musei di tutto il mondo.

        La prima formazione artistica di Mustica avvenne nell’ambiente familiare grazie ai genitori: la madre gli inculcò la passione per la pittura e la musica, mentre il padre gli trasmise l’amore per il disegno e per l’architettura. Sarà prima all’Istituto d’Arte di Catania e poi all’Accademia di Belle Arti di Roma che egli perfezionò la sua preparazione artistica, grazie alla quale nel 1970 vinse la cattedra per l’insegnamento del Disegno dal vero ed Educazione visiva. 
        Artista curioso, Mustica viaggiò molto, assorbì molte suggestioni dell’arte contemporanea ed acquisì una vasta conoscenza grazie all’osservazione delle opere sparse nei più grandi musei d’Europa e del mondo. Durante i suoi soggiorni nelle capitali del Nord e in quelle del Sud, le prime definite una “lezione grafica” e le seconde una “lezione pittorica”, egli si nutrì della lezione dei grandi pittori, ai quali rivolse una particolare predilezione. La pittura di Giotto e di Piero della Francesca, quella di espressionisti francesi come Henri Matisse, di tedeschi-svizzeri come Paul Klee e franco-russi come Wassily Kandinskij vivificarono la sua creazione artistica: di questi ultimi apprezzò il contributo ad una nuova pittura fondata su caratteri astratti, seppure nella ricerca di un modulo personale dell’astrattismo e nella rappresentazione libera di segni e colori.
        I soggiorni a Londra, a Copenaghen, a New York rappresentarono un’esperienza significativa del suo percorso artistico, che approdò in una visione personale con il trasferimento nel 1986 a Milano. La città ambrosiana corroborò il suo talento artistico per la vicinanza ai musei europei, ma senza mai rinnegare le sue radici etnee. Uno sviluppo che lo storico e critico d’arte Giuseppe Frazzetto definì come “un precisarsi del colore sulla superficie, in una rammemorazione concentrata sul rapporto tra figura e fondo”. Per il noto studioso la dialettica tra grafica e pittura si snodò come una “alternativa fra energia magmatica e tramatura razionale, che tende a risolversi a favore di una superficie intesa come campo dell’irruzione del tempo del colore”.
        Come docente all’Accademia delle Belle Arti di Brera, poi di Budapest e di Milano pervenne a questo genere personale con la trasformazione del colore in forme concrete (“pittura solida”) grazie ad un programma di computer grafica e modellazione 3D. Le forme così ottenute – come afferma un cultore della sua opera – “possono essere tradotte in qualunque dimensione fino all’architettura” con un discorso variegato, dove “la musica diventa astrazione cromatica, la pittura forma pittorica tridimensionale e quest’ultima architettura” (F. D’Amico, Artitettura. Daniela Pellegrini e Nino Mustico, “La Stampa”, 26 giugno 2017) Un modo di sostituire lo sguardo istantaneo dell’osservatore con quello che volge con la dimensione temporale verso una “plasticità del farsi spazio d’una forma che è dipinta”. La tematica caratterizzò la mostra “Artitettura”, esposta nel giugno 2017 a Palazzo Chiericati, là dove arte e architettura diventano oggetto di continue modifiche e mutamenti determinati dall’intercedere degli artefatti dell’ambiente naturale. Delle sue molteplici mostre, che si susseguirono con ritmo incessante e frenetico, si possono ricordare quelle tenute a Bologna e a Pavia e pubblicate nel catalogo “Arie colorate” (Milano 1993); quella tedesca edita nel libretto “Continua a dipingere” (Heidelberg 1999) fino alle ultime tenute nel 2010 a Pietrasanta e nel 2012 a Milano, anch’esse edite nei due cataloghi “Pittura solida” (Milano 2010) e “Sparkle” (Milano 2012), e nel 2013 a Nervi con il titolo “Simbiosi” (s. l. 2013).
        Il progetto culturale dell’artista assume così la valenza conoscitiva per quanti intendono continuare la sua opera, da cui hanno origine riflessioni fantasiose, che - coniugate con impulsi e visioni - danno vita a nuove forme architettoniche. Il leitmotiv conduttore, che informa la sua creazione artistica, supera così un modello di stagnazione culturale e si pone su un piano di originalità per la fusione di conoscenze interdisciplinari.  L’attribuzione di una parte della creatività ai software elettronici non lo allontana dall’ambito umano e rende le sue finalità degne di essere riprese per la riscoperta di nuovi processi artistici. La sua pratica architettonica intende infatti promuovere azioni idonee al rispetto della vita e dell’ambiente naturale, con il quale è necessario sempre confrontarsi per la conservazione della vita
     

  • DAL DELITTO MORO
    ALLA STRAGE DI BOLOGNA

    data: 09/08/2019 22:31

    Gli anni 1978-80 riguardano un periodo piuttosto breve della storia d’Italia. Eppure investono una complessa trama di eventi nefasti e di delitti efferati ancora avvolti in una fitta nebbia di misteri e di silenzi.  Su questo periodo apporta un interessante contributo Giuliano Turone nel suo poderoso volume Italia occulta. Dal delitto Moro alla strage di Bologna. Il triennio maledetto che sconvolse la Repubblica (1978-1980), prefazione di Corrado Stajano, chiarelettere, Milano 2019, pp. 461. Il libro documenta con l’ausilio di atti giudiziari – sentenze, interrogatori, perizie balistiche – un passato torbido, la cui conoscenza è arricchito in appendice dai quattro saggi di Antonella Beccaria, Dimenticati dallo Stato; Stefania Limiti, Le interferenze occulte nel caso Moro; Sergio Materia, La giustizia a Perugia. Gli anni Ottanta; Beniamino A. Piccone, Il caso Italcasse.
    Alla base dei sordidi eventi di quegli anni, raccontati con dovizia di particolari da Turone, si ritrova un legame perverso tra politica e criminalità, quasi un connubio romanzesco ove emergono i personaggi più diversi come ministri, presidenti della Repubblica, giudici corrotti, affaristi, agenti segreti, capimafia, terroristi e generali infedeli ai dettami della Costituzione. In questo scenario intricato si collocano tre fattori storici peculiari che egli individua nella presenza del più grande Partito comunista dell’Europa occidentale, nelle mafie storiche e negli intrecci perversi di alcuni personaggi dell’istituzione ecclesiastica con il mondo della finanza e con un sistema di potere occulto.
    Fattore determinante è stata l’esistenza del più grande Partito comunista, la cui presenza è stata una peculiarità carica di ambiguità. Dopo la Conferenza di Yalta (4-11 febbraio 1945), e quindi dopo la caduta del Fascismo, la simpatia dei comunisti italiani verso il blocco sovietico ha suscitato gravi preoccupazioni negli ambienti della Nato. In una situazione paradossale le mafie storiche ed altri fenomeni di antistato, nemici della nuova Costituzione, si sono «visti attribuire – e si sono attribuiti – un ruolo di prezioso baluardo anticomunista». La presenza della Chiesa ha contribuito a rendere Roma una delle città più belle del mondo, ma in alcuni momenti della sua storia ha lasciato lasciti ingombranti come il ruolo deleterio svolto dallo Ior (Istituto per le opere di religione), la banca vaticano di cui l’arcivescovo Paul Marcinkus è stato presidente dal 1971 al 1989. L’Istituto ha intrattenuto intensi rapporti con il sistema di potere occulto della loggia massonica Propaganda 2 (P2) di Licio Gelli e di Umberto Ortolani, con la finanza d’avventura di Michele Sindona e Roberto Calvi e – attraverso le loro operazioni bancarie – con la mafia siculo-americana.
    Il sistema di potere occulto è scoperto il 17 maggio 1981 dalla polizia tributaria della guardia di finanza nella perquisizione dell’abitazione principale di Licio Gelli e del suo ufficio presso la fabbrica di tessuti Giole, di cui egli è azionista, a Castiglion Fibocchi vicino ad Arezzo. Il decreto di perquisizione, emesso dai magistrati milanesi Gherardo Colombo e l’autore del libro, era stato disposto nell’àmbito del procedimento penale contro il bancarottiere Michele Sindona, che nei mesi successivi all’omicidio di Giorgio Ambrosoli (11 luglio 1979) aveva mantenuto stretti rapporti con Gelli.
    La documentazione sequestrata svela l’esistenza di un’associazione segreta denominata Propaganda 2 (P2) con un elenco di 963 iscritti, tra i quali si ritrovano tre ministri della Repubblica, 38 deputati, 52 alti ufficiali dei Carabinieri, 79 ufficiali delle Forze armate, 37 della Guardia di finanza, 11 questori, 5 prefetti, 18 magistrati, 7 direttori di giornali ed anche docenti universitari, avvocati e funzionari dell’amministrazione pubblica.
    L’elenco dei nomi è coerente con il «Piano di rinascita democratica», il cui testo viene trovato nella valigia della figlia di Gelli all’aeroporto di Fiumicino, dopo lo sbarco da un volo proveniente da Nizza. Il suo ritrovamento è possibile per la mossa attuata da Gelli, che pone le condizioni per trasformare il testo originariamente destinato a rimanere segreto in un documento di dominio pubblico. La novità del Piano – secondo la relazione di Tina Anselmi, presidente della Commissione parlamentare d’inchiesta sulla P2 – riguarda l’abbandono di progetti eversivi violenti maturati «all’ombra dei militari» per condizionare le istituzioni repubblicane, con il ricorso alla stampa, alla magistratura sino ai ruoli centrali dell’esercito e della pubblica amministrazione.
    Il sistema P2, come viene denominato da Turone, esercita infatti un’attività sotterranea, che consente rilevanti azioni di dominio sul «Corriere della Sera», sul gruppo Rizzoli e sul Banco Ambrosiano. Dopo la strage di Bologna, avvenuta il 2 agosto 1980, la loggia segreta si consolida grazie a questi eventi con la famosa intervista di Gelli pubblicata il 5 ottobre dello stesso anno sul giornale milanese: titolo Parla per la prima volta il «Signor P2», autore Maurizio Costanzo (tessera 1819 della Loggia). Nella seconda metà dell’anno sono frequenti gli articoli della P2 apparsi sul quotidiano milanese come omaggio ai «fratelli di loggia» di Buenos Aires, come difesa della giunta militare in Argentina oppure la serie di interventi favorevoli all’imprenditore Silvio Berlusconi (tessera numero 1816) nella disputa con la Rai per la teletrasmissione delle partite del Mundialito.
     In quest’ambito il caso di Licio Gelli, morto ad Arezzo il 15 dicembre 2015, è emblematico per comprendere il potere occulto, la compagine dei servizi segreti o le strutture come Gladio o Anello. Le sue uscite pubbliche sono disseminate da interviste, da vanterie e da rivelazioni varie quasi sempre improntate a falsità, volte a difendere il suo operato di manovratore del potere. Gelli si vanta così di essere legato da vincoli di amicizia e da rapporti di collaborazione a Giulio Andreotti e a Francesco Cossiga; elogia l’assoluta genialità del «Piano di rinascita democratica», la cui unica finalità – come sostiene in un’intervista del 31 ottobre 2008 e conferma in un’altra del novembre 2011 – è quella di attuare un innocuo «colpo di Stato senza colpo ferire». Tuttavia, precisa l’autore, alcune sue rivelazioni contengono notizie attendibili sui legami tra P2 e i servizi di sicurezza o tra questi e l’omicidio di Aldo Moro.
    L’autore dedica così ampio spazio alla Loggia P2, considerata «la metastasi delle istituzioni», l’asse portante di quasi tutte le nequizie di quegli anni e di fatti atroci come il rapimento e l’uccisione di Aldo Moro (9 maggio 1978). Sulla vicenda del presidente della Dc sono analizzati alcuni «aspetti del caso Moro», il decisivo «scontro fra carabinieri fedeli alla Repubblica e carabinieri fedeli alla Loggia P2» e il ruolo opposto svolto tra Giovanbattista Palumbo e Carlo Alberto della Chiesa, entrambi generali ma acerrimi nemici. Il primo è presentato come un «appassionato cacciatore di adesioni alla Loggia» e vicino al servizio segreto militare, il secondo rispettoso del ruolo di «servitore dello Stato» e «dei suoi superiori gerarchici». Il 1° ottobre dell’anno di Moro, il generale della Chiesa irrompe nel covo brigatista milanese di via Monte Nevoso e trova l’archivio delle Br. In una cartellina azzurra sono rinvenuti 49 fogli dattiloscritti del Memoriale Moro – nel 1990 spunteranno altri 245 fogli fotocopiati dello stesso Memoriale – che sono avvolti da stranezze sulle quali Turone si muove con acribia, superando quel «gran garbuglio» formato da piccoli misteri come l’assenza di una seria ricostruzione dell’operazione di polizia giudiziaria, ossia dall’irruzione nell’abitazione sino al momento dell’elencazione di reperti. Sul tentativo (o sui tentativi) di salvare Moro, l’autore considera plausibile la spiegazione avanzata da Steve Pieczenik, l’esperto del dipartimento di Stato Usa, che come consulente collabora con i funzionari del ministero dell’Interno nei famosi cinquantacinque giorni della prigionia dello statista pugliese. Lo scopo della sua missione in Italia - come dichiara Pieczenik in un’intervista del 1998 e conferma poi nelle dichiarazioni rese a Emmanuel Amara per il suo libro Abbiamo ucciso Aldo Moro (Cooper, Roma 2008) – non è la salvezza di Moro, ma quello di scongiurare il crollo del sistema politico italiano.
    Un intero capitolo è dedicato al delitto di Carmine Pecorelli, il giornalista molisano ucciso a Roma il 20 marzo 1979. Come direttore del settimanale «OP- Osservatore politico»), egli si era inimicato molte persone per le precise denunce degli scandali connessi all’affare Lockheed, al traffico di armi, alle truffe del petrolio e al caso Moro. In quest’ambito l’Autore segue le diverse inchieste ed utilizza «le rivelazioni dei collaboratori di giustizia» per seguire le prime indicazioni sui mandanti. Le indagini sull’omicidio Pecorelli, che si erano chiuse a carico di ignoti con la sentenza istruttoria del 15 novembre 1991, saranno riaperte circa un anno dopo dalla magistratura inquirente, dopo le dichiarazioni dei mafiosi pentiti Tommaso Buscetta e Salvatore Cancemi e di altri quattro collaboratori della banda della Magliana Antonio Mancini, Fabiola Moretti, Maurizio Abbatino e Vittorio Carnovale. Le dichiarazioni dei sei collaboratori definiscono un connubio tra le due organizzazioni delinquenziali, ma la più rilevante è quella di Buscetta secondo cui l’omicidio Pecorelli era stato un delitto politico voluto dai potenti esattori Ignazio e Nino Salvo» su richiesta di Giulio Andreotti. Esse, peraltro, permettono di «ricostruire una sorta di organigramma dei personaggi» responsabili del delitto Pecorelli. Così Andreotti, Claudio Vitalone e i cugini Salvo sono rinviati a giudizio. Il processo, che comincia a Perugia l’11 aprile 1996, si conclude tre anni dopo con l’assoluzione di tutti gli imputati; ma dopo il ricorso in appello del pubblico ministero sono riconosciuti colpevoli Andreotti e Badalamenti. La sentenza della loro colpevolezza, espressa il 17 novembre 2002, viene annullata l’anno successivo dalla Corte di cassazione per «manifesta illogicità».
    Su Piersanti Mattarella, presidente della Regione Sicilia ucciso a Palermo il 6 gennaio 1980, l’autore discute la targa contraffatta dell’auto usata dal killer e descrive la sua fisionomia sulla base delle notizie fornite dai testimoni oculari presenti sulla scena del crimine. «Le presumibili cause del delitto» devono essere ricercate nella collusione tra ambienti politici, imprenditoria cittadina e cosche mafiose. L’omicidio di Mattarella è così ricollegato a quello di Boris Giuliano e di Cesare Terranova, uccisi l’uno il 21 luglio e l’altro il 25 settembre 1979 per sottolineare gli intrecci malavitosi tra politica e criminalità organizzata per il controllo degli appalti pubblici. Ma, a differenza dei due delitti, quello di Mattarella è commesso su iniziativa della mafia, che utilizzò giovani della destra eversiva, come viene sostenuto dall’autore sulla base delle confidenze di alcuni suoi membri.
    Il capitolo sull’eccidio della stazione di Bologna (2 agosto 1980) apre una «vicenda giudiziaria» lunga e tormentata», al termine della quale gli unici imputati ad essere «riconosciuti responsabili come autori materiali della strage […] saranno Valerio Fioravanti, Francesca Mambro e il giovane Luigi Ciavardini». Sul tragico evento, il più grave mai verificatosi in Italia (50 morti e oltre 200 feriti), l’autore segue il percorso processuale con commenti puntuali sulle rivelazioni di Massimo Sparti, pregiudicato legato alla Banda della Magliana, sulle intercettazioni di uno degli imputatati con la fidanzata e sul depistaggio messo in atto dalla P2.
    Il depistaggio, che si articola in diversi momenti delle lunghe e difficili indagini, coinvolge i servizi segreti per le notizie diffuse sulla stampa, volte a «seguire la fantomatica e inesistente pista libanese». I giudici bolognesi accertarono però che la pista internazionale nacque su iniziativa di Gelli e si sviluppò sul coinvolgimento di un funzionario affiliato alla P2. La conclusione dell’autore è perentorio: «che il sistema P2 sia stato – attraverso il suo controllo quasi assoluto sui servizi l’autentico dominus del grande depistaggio della pista libanese è quindi provato al di là di ogni ragionevole dubbio». Restano però altri dubbi relativi allo scopo finale degli artefici del depistaggio, su cui Turone accoglie le osservazioni di uno dei più attenti studiosi della strage di Bologna: «Un fatto è indiscutibile, nelle tormentate indagini sulla strage di Bologna: i vertici segreti italiani hanno fatto il possibile per nascondere la verità. Se i mandanti non sono stati scoperti […] è anche perché pezzi di Stato hanno ripetutamente ingannato i giudici. Per proteggere chi? Chi muoveva dall’alto i fili dei vari Grassini e Santovito? In che misura il piduista Licio Gelli e la sua loggia coperta hanno gestito la partita? E qual è stato il ruolo del faccendiere Francesco Pazienza?» (R. Bocca, Tutta un’altra strage, Rizzoli, Milano 2007, p. 136).
    Su queste intricate vicende, l’autore ricostruisce il ruolo di Francesco Pazienza, il suo incontro con il giornalista Andrea Barbieri di «Panorama» e il contatto con il generale Santovito, il quale consegna all’ospite un dossier, da cui si ricavano i collegamenti internazionali del terrorismo. Nell’articolo, intitolato La grande ragnatela e pubblicato su «Panorama» del 15 settembre 1980, Barbieri mette in risalto le responsabilità del Kgb nelle attività terroristiche in atto in Italia: episodio che porterà a processo i protagonisti della vicenda per divulgazione di segreti di Stato.
    A questo depistaggio l’autore aggiunge quello sulla cosiddetta pista palestinese, secondo cui la strage alla stazione ferroviaria di Bologna sarebbe stata provocata dal Fronte popolare di liberazione della Palestina (Fplp) come ritorsione verso lo Stato italiano, irrispettoso di un accordo intercorso con le organizzazioni militari palestinesi. L’accordo segreto, denominato lodo Moro, avrebbe consentito il transito nel territorio italiano di armi ed esplosivi destinati al Fronte palestinese, in cambio di precise garanzie di salvaguardare l’Italia da eventuali attentati di matrice islamica.

    Sono questi alcuni dei casi che l’autore mette in rilievo negli ultimi due capitoli, l’ultimo dei quali dedicato al «sistema P2 dopo la strage di Bologna», meritevole di essere meglio sviluppato nei suoi intrecci occulti con gli apparati dello Stato. Tale fenomenologia rientra nella logica del potere invisibile, che – seppure complessa e poco studiata – assume una valenza significativa per comprendere la sanità delle istituzioni repubblicane. L’aspetto più evidente è quello di nascondersi e di non mostrarsi mai in pubblico oppure di mostrarsi con una maschera che renda irriconoscibile le proprie sembianze. Le modalità del potere occulto si svolgono tramite il ricorso alle forme di simulazione comunicativa o a quelle di «nascondimento oggettivo» come il luogo segreto, la carta d’identità falsa o la scrittura in codice per impedire la ricerca della verità.       

  • IL SOCIALDEMOCRATICO
    DIMENTICATO

    data: 19/06/2019 22:21

    Personaggio emblematico della socialdemocrazia, Luigi Preti (Ferrara, 23 ottobre 1914 - Bologna, 19 gennaio 2009) è stato completamente dimenticato nel decennio che ci separa dalla sua morte. Eppure egli rappresenta un modello esemplare per la sua fedeltà ai princìpi democratici e per la sua instancabile attività politica. A queste doti si unì una fervida generosità, che lo portò nel giugno 2006 a donare all’Università di Ferrara la sua ricca biblioteca composta di circa otto mila volumi, in prevalenza di argomento storico, giuridico e politico.
    L’esordio politico di Luigi Preti avvenne nel Partito nazional fascista, ma fu di breve durata. Nel 1934 partecipò ai «Littoriali dello Sport e della Cultura», una sorta di Olimpiade per i Guf (Gruppi universitari fascisti). Dei premi ottenuti in quella gara – insieme a Pietro Ingrao, ad Aldo Moro e a Paolo Emilio Taviani – egli non si considerò un «pentito». Anzi quella scelta non fu mai nascosta e neppure giustificata dalla giovane età e l’immaturità politica. Negli anni successivi si distinse come avvocato, docente di Istituzioni di diritto pubblico presso l’Ateneo estense e autore di diverse pubblicazioni, tra le quali l’opera «Gli inglesi a Malta» (1938) e «Note sul concetto di “Status” e in particolare su alcune applicazioni nell’attuale diritto» (1942). Collaborò anche ai periodici «Il Diritto del Lavoro» e il «Giornale di politica e Letteratura», ma la lettura delle opere di Benedetto Croce lo portò ad assumere un atteggiamento ostile verso il regime mussoliniano: una presa di coscienza che sfociò dopo l’armistizio (8 settembre 1943) e l’occupazione tedesca dell’Italia nell’adesione ai principi socialisti. 
    Nel novembre 1943 Preti – in seguito all’agguato mortale subìto dal segretario del Fascio di Ferrara, Iginio Ghisellini – fu costretto ad abbandonare l’Emilia e a stabilirsi in Svizzera. Nel 1945 egli, alla conclusione del Secondo conflitto mondiale, rientrò a Ferrara dove divenne segretario del Psi e consigliere comunale. L’anno successivo, in coincidenza all’elezione di deputato all’Assemblea costituente, intervenne sulla questione socialista e su altri temi, inaugurando un’attività politica che si protrasse con passione per oltre quarant’anni di attività parlamentare. Nel giugno 1946 la sua elezione alla Costituente gli permise di condurre una tenace battaglia a favore dei cittadini di origine ebraica per il «risarcimento di danni», ma non mancò d’intervenire sulla libertà religiosa e sulle funzioni politiche che un nuovo ordinamento democratico avrebbe dovuto assumere nell’avvio delle istituzioni repubblicane. In quell’assise gli si deve riconoscere il merito se la magistratura fu considerata non un «potere», ma un «ordine autonomo», come si ricava da un suo emendamento compreso negli atti parlamentari e richiamato con orgoglio nel volume. 
    Nel gennaio 1947, con la costituzione del Psli, segue Giuseppe Saragat nella scelta socialdemocratica e partecipa come protagonista alla vicenda storica che si svolge a Palazzo Barberini con la scissione dal Partito socialista, respingendo il patto di unità con il Pci dichiaratamente stalinista. Nella definizione d’una linea politica autenticamente democratica, Preti – durante i congressi del nuovo partito – si batte per il superamento del frazionismo e per «una sintesi più approfondita delle esigenze di una politica socialista nel Paese». Dalla nascita del Psdi (gennaio 1952) al suo XI congresso (ottobre 1957) egli ribadisce più volte la necessità di risolvere i problemi che ostacolano la realizzazione di uno Stato moderno e democratico: «rendere efficiente l’amministrazione pubblica; risolvere il problema della giustizia tributaria, far rispettare la Costituzione in materia di pubblica istruzione; mantenere la tradizionale separazione tra Stato e Chiesa». Particolarmente significativa è la posizione che egli assume al IX congresso (novembre 1959), durante il quale coniuga gli «ideali di giustizia e libertà» per invocare un legame più stretto con il sindacato e invitare i socialisti democratici ad impegnarsi «maggiormente nel settore cooperativistico» .
    Dalla storia del Psdi all’esperienza del Centro-sinistra Preti ricostruisce gli anni difficili del partito, l’avvio del miracolo economico sino alla crisi del ’68. Ma oltre all’attività politica, che lo vede partecipe a tutti dibattiti connessi alle vicende del socialismo italiano, egli rivolge un’attenzione particolare alla ricerca storica, come dimostrano i volumi «Giovinezza, giovinezza» (1964) oppure «Impero fascista africani ed ebrei» (1968), che gli valgono numerosi encomi per la puntigliosità della ricerca e per la precisa spiegazione delle cause del totalitarismo fascista, di cui rifugge il monopartitismo politico e la politica guerrafondaia di Mussolini. A questi studi faranno seguito altri volumi come il fortunato «Italia malata» (1972), quello più problematico «Il compromesso storico. Un problema che divide gli italiani» (1975) o «Giolitti i riformisti e gli altri (1900-1911)» (1985).
    Quella di Preti è una storia vissuta in prima persona come storico, ma anche come deputato e responsabile di vari dicasteri (Finanze, Riforma della Pubblica amministrazione, Commercio Estero, Bilancio, Trasporti, Marina Mercantile ecc.). Dalle riflessioni sull’«età giolittiana» e sul fascismo fino alle considerazioni sul compromesso storico e a quelle più recenti sulla questione degli immigrati e sull’analisi dei rischi e dei difetti di una riforma di tipo federalista, Preti rivive un vissuto personale che egli non manca di documentare, ripensando il passato con obiettività e con passione.. Euroscettico della prima ora, Preti boccia l’unione monetaria (un «vero errore») ed esprime la sua contrarietà all’introduzione della moneta unica, preferendo lo Sme, considerato un sistema capace di assicurare equilibrio effettivo fra le varie monete. Sono trascorsi sessant’anni dall’esperienza alla Costituente, ma Preti non tradisce la fedeltà ai dettami costituzionali per una scelta democratica e socialista, con la quale può rivendicare a ragione l’attribuzione di «Padre nobile» della politica italiana.
                                                                                                       
     

  • STORIA DEI "NEOFASCISMI"
    DA SALO' A CASAPOUND

    data: 07/06/2019 19:58

    La storia dell’estrema destra è strettamente connessa a quella della Repubblica italiana. Essa rappresenta una specifica area composta da gruppi non sempre omogenei sul piano ideologico, ma animata da una radice comune, che si identifica con la finalità di modificare il sistema istituzionale e travolgere l’assetto democratico del nostro Paese. Questo è l’aspetto iniziale da cui si dipana la ricerca condotta da Claudio Vercelli nel suo interessante volume Neofascismi (Edizioni del Capricorno, Torino 2018, pp. 188).
    L’analisi storica dell’estrema destra è collocata in un lungo periodo, che va dalla fine del Ventennio fascista e dalla vicenda della Repubblica di Salò fino ai nostri giorni. Essa presenta le molteplici organizzazioni di quello che l’autore denomina l’«arcipelago nero» in Italia. Un insieme di gruppi, che si avvale nel corso della sua storia di varie sigle e di uno «stile neofascista» caratterizzato da simboli comuni e da pratiche continue lontane dai valori di una democrazia moderna. Proprio durante la vicenda di Salò, ancora vivente Benito Mussolini, fu costituito il Partito fascista repubblicano (Pfr), che si presentò agli Italiani come un «ordine di credenti e di combattenti» contro i «traditori» del Gran Consiglio, ossia i diciannove firmatari dell’ordine del giorno Grandi del 24-25 luglio 1943.
    L’intero periodo che va dall’8 settembre di quell’anno fino all’aprile 1945 è infatti considerato come una sorta di «guerra civile» che avrebbe visto contrapposti i fascisti repubblichini ai partigiani. Dell’organizzazione neofascista l’Autore presenta il gruppo dirigente e discute la consistenza numerica dei diversi nuclei sparsi in tutta Italia con presenze variegate che sopravvivono alla clandestinità, riuscendo il 3 dicembre 1946 a fondare il Movimento Sociale Italiano. Il nuovo partito, denominato «Mo. S. IT», ebbe come organo «La Rivolta Ideale» che il 26 dicembre annunciò la sua costituzione, dichiarandosi apertamente neofascista e chiamando a raccolta «tutti i fedeli della Patria» con lo scopo di «creare un fronte unico della gioventù italiana dei combattenti, dei reduci, degli ex prigionieri» e di tutti gli Italiani che credono […] nei valori spirituali della vita». Come simbolo fu scelta la fiamma tricolore, a cui più tardi venne aggiunta una base trapezoidale con la dicitura «Msi», la cui consistenza numerica – al momento della prima riunione del Consiglio Nazionale (15 giugno 1947) – era costituita tra le 10 mila e 20 mila persone circa di aderenti suddivisi in una sessantina di sezioni provinciali e 241 sezioni comunali.
    Nelle elezioni politiche del 18 aprile 1948, il Msi ebbe sei deputati (Giorgio Almirante, Luigi Filosa, Alberto Michelini, Roberto Mieville, Gianni Roberti e Guido Rossi Perez) e un senatore (Enea Franza). Esso riscosse un largo consenso nei collegi del Mezzogiorno, mentre nel Centro-Nord la popolazione elettorale diede scarso seguito al nuovo partito, che fu penalizzato a favore dei partiti antifascisti. La linea intransigente di Almirante, peraltro ostile all’adesione dell’Italia al Patto Atlantico, provocò divisioni tra quelle che l’Autore definisce «le due anime del partito», ossia «la destra politica e la sinistra sociale»: una divisione che portò alla scelta di Augusto De Marsanich come segretario, propenso a sostenere la Democrazia Cristiana per un accordo amministrativo negli enti locali e volto ad emarginare il gruppo più intransigente del partito, più legato al lascito della Repubblica Sociale Italiana.
    Durante la segreteria di De Marsanich, che detenne la carica dal gennaio 1950 al gennaio 1953, furono prese iniziative interne al partito o collaterali destinate ad esercitare un forte influenza nell’opinione pubblica: il 15 marzo 1950 uscì il quindicinale «Il Borghese», il 24 marzo nacque il sindacato della Cisnal, il 20-21 maggio venne costituito il Fronte Universitario di Azione Nazionale (FUAN), a maggio usciva il mensile «Imperium», mentre nel 1951 sarebbero usciti «Europa nazione» e il mensile «Nazionalismo sociale» e nel 1952 «Il Secolo d’Italia» che costituì l’organo ufficiale del partito.
    Un novero di periodici che negli anni successivi si arricchirono di nuove pubblicazioni critiche verso la linea del Msi e verso le velleità filogovernative di Arturo Michelini, sempre alla ricerca di un consenso elettorale al fine di entrare nella compagine governativa. Nell’ottobre 1955 uscì il foglio ciclostilato «Azione - Per il rinnovamento morale e politico del Msi», con cui i suoi promotori contestavano la linea collaborazionista del partito condannavano energicamente ogni compromesso con il partito di governo: si ebbe così il distacco del gruppo capeggiato da Giulio Caradonna e da Pino Rauti. Il primo, presidente del FUAN e soprannominato «il picchiatore», subì anche un processo per attività proprie del «disciolto partito fascista». Il secondo, vicino alle posizioni tradizionaliste di Julius Evola, fondò «Ordine Nuovo», che partecipò nell’estate del 1956 a Montecompatri (Roma) ad un convegno dei gruppi e delle riviste che criticarono la linea ufficiale del Msi con lo scopo di ribaltare la sua linea politica.
    Nei confronti dei governi democristiani il sostegno del Msi si manifestò più volte e concorse nel 1962 all’elezione di Antonio Segni a presidente della Repubblica. Forse, in quest’àmbito, deve essere inserita la richiesta avanzata l’anno prima da Ferruccio Parri e volta allo scioglimento del partito di Michelini, poi bocciata dal Parlamento. Fatto sta che, nel primo lustro degli anni Sessanta, si ha la nascita di Avanguardia nazionale, attiva negli scontri con gli avversari politici e nelle manifestazioni di piazza. Il movimento neofascista, seppure scioltosi nel 1965, coinvolge alcuni militanti a partecipare tre anni dopo agli scontri di Valle Giulia.
    Negli anni della sua attività, Avanguardia nazionale esalta la Repubblica sociale italiana e riprende alcuni temi del nazionalsocialismo, intraprendendo una lotta contro il sistema rappresentativo e adoperandosi per forgiare una militanza politica disciplinata, basata su un fideismo totale e su uno stile legionario favorevole ad una “rivoluzione nazionale”. L’insieme di questi aspetti trova un riferimento peculiare in un’ampia editoria di aerea neofascista, di cui le edizioni Ar sono le più note. Esse, sorte nel 1963 su iniziativa di Franco Freda, pubblica libelli antisemiti e un suo volumetto La disintegrazione del sistema (1969), che – secondo l’Autore - «diviene in breve tempo un testo di culto tra i militanti dell’estrema destra».
    Ricostituita nel 1970 sotto la direzione di Adriano Tilgher, Avanguardia nazionale partecipa ai moti di Reggio Calabria sulla base di un forte richiamo all’agire fascista e al grido di battaglia «boia a chi molla». L’altro gruppo, che partecipa ai moti di Reggio Calabria, è il Movimento Politico di Ordine Nuovo, organizzato su una struttura gerarchica e promosso da Clemente Graziani, Elio Massagrande, Sandro Saccucci, Mario Tedeschi, Roberto Besutti, Salvatore Francia. Negli anni Settanta la galassia neofascista si arricchisce di nuove organizzazioni come il «Circolo Nuova Europa» di Roma, sorto nel giugno del 1970 e presieduto da Domenico Gramazio; come il «Fronte della Gioventù» sorto nel febbraio 1971, che assorbe altre organizzazioni come la «Giovine Italia» e il «Raggruppamento Giovanile Studenti e Lavoratori». Alcuni suoi militanti sono attivi negli scontri di piazza ed altri scelgono la lotta armata e aderiscono allo «spontaneismo» dei Nuclei Armati rivoluzionari. Gli anni Settanta si caratterizzano per un clima guerra civile, che coinvolge giovani dei cosiddetti «opposti estremismi» e che, nel caso dell’estrema destra, presenta sigle e gruppo, spesso difficili da circoscrivere nelle dimensioni, nella durata e nella composizione sociale.
    In questo complesso arcipelago l’Autore segnala gruppi neofascisti come «Costruiamo l’azione» e «Terza Posizione», entrambi sorti nel 1977 e diretti l’uno da Paolo Signorelli e Sergio Calore, e l’altro da Roberto Fiore. Quest’ultimo gruppo, che raccoglie un discreto numero di aderenti in Lazio, in Umbria, nelle Marche e nel Triveneto, è attivo per quasi quattro anni, durante i quali diffonde un messaggio nazional-rivoluzionario, rifiuta il bipolarismo e si propone di superare le categorie di destra e sinistra sulla base della costruzione di uno Stato organico e di un’«Europa dei popoli». L’avvio degli anni Ottanta apre una fase nuova, che si caratterizza da una parte per un ripiegamento nella sfera personale e dall’altra per uno scontro tra vecchia e «Nuova Destra». A questa nuova compagine politica l’Autore dedica l’ultima parte della sua narrazione, che si svolge su un’analisi più ridotta, ma utile per la ripresa di spunti e di temi ancora oggi attuali: temi che saranno ripresi dalle formazioni neofasciste odierne prima da «Forza Nuova» e poi da «CasaPound Italia».

    La nascita di Forza nuova, inaugurata il 29 settembre 1997 in un meeting tenuto a Cave presso Roma, è diretta a raccogliere il dissenso giovanile e a coinvolgere il neofascismo sensibile al mondo skinhead. Il suo modello organizzativo si rifà a gruppi simili europei, intrisi di omofobia e di ostilità verso l’immigrazione islamica e zigana. I rapporti di amicizia verso i cattolici di «Christus Rex» o «Militia Christi» sono dettati dalla comune lotta contro l’aborto, i raduni dei Gay Pride e l’«ideologia gender». Temi peculiari presenti anche nel gruppo neofascista di CasaPound, che – sorta nel 2003 dalla fusione di altre organizzazioni di estrema destra come «Fiamma Tricolore» o «Destra» – manifesta ora un volto violento, ora moderato per la formazioni di liste autonome nell’agone elettorale e per le simpatie al cosiddetto «Fascio-leghismo» di Matteo Salvini. 

  • MA CHE C'ENTRA SALVINI
    CON MAURRAS (E GRAMSCI)?

    data: 27/05/2019 14:40

    Che l’uso distorto e strumentale dell’opera di Antonio Gramsci sia frequente, è ormai noto agli studiosi e ai critici della sua opera. Ma che esso sia compiuto dal direttore di un settimanale a larga diffusione nazionale non è ammirevole, specie se fatto con finalità di polemica politica contingente. Nel suo editoriale pubblicato su “L’Espresso” (26 maggio 2019, pp. 8 e 9), Marco Damilano riporta un lungo brano dei “Quaderni del Carcere” di Gramsci per accusare l’attuale ministro dell’Interno Matteo Salvini di ignorare Charles Maurras e la “sua pretesa di far coincidere la città di Dio con la città dell’uomo”
    L’operazione di Damilano è scorretta sotto il profilo della correttezza deontologica e impropria sotto quello culturale. Egli non indica il volume in cui si trova il brano e si attribuisce la patente di conoscitore dell’opera di Maurras e di Gramsci: solo che conosce poco e male il pensiero del nazionalista francese e quello del pensatore sardo. Abbiamo i nostri dubbi che l’attuale ministro dell’Interno conosca l’opera di Charles Maurras o che abbia letto il famoso saggio Perché non possiamo non dirci “cristiani”, pubblicato nel 1942 e citato nella trasmissione “Otto e mezzo”.
    Il brano di Gramsci si trova nel primo volume dei “Quaderni del Carcere (Torino 1975, p. 97) e dice: “Maurras odia il cristianesimo primitivo (la concezione del mondi degli Evangeli), dei primi apologisti ecc., il cristianesimo fino all’Editto di Milano, insomma, che credeva la venuta di Cristo annunziare la fine del mondo e determinava perciò la dissoluzione dell’ordine politico romano in una anarchia morale corrosiva di ogni valore civile e statale) che per lui è una concezione giudaica. […] Il culto cattolico, le sue devozioni superstiziose, le sue feste, le sue pompe, i suoi riti sacramentali, la sua gerarchia imponente, sono come un incantesimo salutare per domare l’anarchia cristiana, per immunizzare il veleno giudaico del cristianesimo autentico”.
    Senza togliere nulla alle robuste analisi di Gramsci, bisogna tenere presente che le sue riflessioni sono riprese pari pari da un sunto di un saggio dello studioso francese Joseph Vialatoux (1880-1970), pubblicato con il titolo La scuola di Maurras sulla “Rivista d’Italia” (15 gennaio 1927, a. XXX, fasc. I, pp. 139-140). Lo stesso Gramsci, seppure parco di virgolette, cita la fonte originaria (“Chronique Sociale de France”, 1927, pp. 83), ma non indica il titolo (La doctrine catholique et l’école de Maurras) in quanto trae la notizia dal volume Une opinion sur Charles Maurras et le devoir des catholiques (Plon, Paris 1926) di Jacques Maritain.
    Un confronto tra il saggio riassunto dalla “Rivista d’Italia” e il brano di Gramsci porta alla conclusione che le riflessioni sul nazionalista monarchico francese sono quelle di Joseph Vialatoux, che tra l’altro sostiene: «Maurras è definibile per i suoi odi ancor più che per i suoi amori. Odi et amo. Il suo grande odio, ovunque presente, ovunque operante, ovunque fremente, è quello del mondo cristiano; l’odio degli apostoli del messaggio evangelico che ha vinto gli dei, è anzitutto l’odio del “Cristo ebreo” che ha consumato questa follia sulla Croce […] . La sua filosofia pratica appare soprattutto come una filosofia di reazione. Distruggere il cristianesimo: tale è il suo disegno dominante, lo scopo ove tutto converge. […] Bisogna scristianizzare: ecco il grande affare».
    Chiarito il debito culturale di Gramsci verso il lo studioso francese, bisogna dire che tra il sovranismo leghista di Matteo Salvini, che invoca il Sacro cuore dell’Immacolata e bacia il Rosario, e le considerazioni politiche del promotore dell’Action française corre un divario: Salvini può essere tacciato di essere superstizioso e di utilizzare le immagini religiose per fini politici, ma Maurras non si proponeva per nulla “di far coincidere la città di Dio con la città dell’uomo” (come afferma Damilano), essendo il suo proposito quello di installare nel cuore dei suoi simili l’amore verso la morale pagana e “risuscitare le forze e le gioie della natura”.

        

  • SE IL CORRIERE RILEGGE
    IL FASCISMO A VANVERA

    data: 22/05/2019 14:42

    Il centenario dei Fasci di combattimento, costituiti a Milano il 23 marzo 1919 su iniziativa di Benito Mussolini, ha riacceso il dibattito sulla genesi del fascismo. Per ora il migliore studio resta ancora il libro Le origini del fascismo in Italia. Lezioni di Harvard (Feltrinelli, Milano 1961) di Gaetano Salvemini e la migliore antologia quella intitolata Il fascismo. Le interpretazioni dei contemporanei e degli storici (Laterza, Roma-Bari 1998) di Renzo De Felice.
    La storiografia italiana sull’origine del fascismo sembra essersi arenata a questi due studi, a tenere presente i titoli dei libri elencati nella presentazione dell’articolo «Un’allergia alla libertà più antica del fascismo» scritto da Fulvio Cammarano e pubblicato sull’inserto «la Lettura» del «Corriere della Sera» (19 maggio 2019, n. 390, p. 15): si ritrovano il farraginoso M. il figlio del secolo (Bompiani) di Antonio Scurati, il discorsivo Chi è fascista (Laterza) di Emilio Gentile, il superficiale Fascismo anno zero (Mondadori) di Mimmo Franzinelli e la frettolosa raccolta antologica di B. Mussolini Me ne frego (chiarelettere) a cura di David Bidussa.
    Di fronte a questi libri, meritevoli di essere discussi, si rimane meravigliati dalla superficialità con cui è presentata la «vexata quaestio» delle origini del fascismo da parte di Fulvio Cammarano, storico contemporaneo e docente dell’università di Bologna. Piuttosto che discutere le analisi e le novità riemerse in questi nuovi volumi, egli prende le mosse da un articolino scritto da Antonio Scurati e pubblicato il 23 marzo di quest’anno su «la Repubblica» con il fuorviante titolo «Il fascismo dentro di noi». L’illustre accademico, peraltro anche presidente della Sissco, si avventura in un discorso storico che ha scarsa attinenza con il sorgere dei Fasci di combattimento e con la loro trasformazione nel Partito nazionale fascista (Pnf) fondato a Roma il 7 novembre 1921.
    «Guardando la storia - scrive Cammarano - non sembra azzardato affermare che gli italiani, più che nostalgici del fascismo in quanto tale, siano semplicemente privi di un forte radicamento sul terreno delle libertà civili e dei diritti. Forse si dovrebbe dire che il facile attecchimento del fascismo, al di là delle note contingenze politiche e connivenze istituzionali, fu il risultato di un implicito “contratto” tra il regime e gli italiani, i quali più che dal fascismo furono conquistati da una prospettiva di ordine, identità sociale e una sorta di autarchico welfare in cambio della rinuncia alle libertà, verso le quali, peraltro, durante i precedenti sessant’anni, i nostri avi non avevano mai mostrato un particolare entusiasmo».
    Il discorso di Cammarano presenta connotati di astrattezza e tratti così evidenti di genericità che deve essere confinato nel limbo delle interpretazioni vaghe ad ogni discorso serio sul fascismo. Sarebbe interessante sapere quale storico abbia per primo enunciato questa interpretazione e in quale testo si ritrova una versione così generica? Piuttosto che chiarire il nesso tra le lotte per le «libertà civili e i diritti» e fascismo, l’articolista si dilunga sulla storia inglese e su episodi così lontani come il massacro di Peterloo del 1819 o della petizione elettorale avanzata nel 1842 dal movimento cartista.
    Questi lontani riferimenti sono privi di significato per la comprensione del fascismo e dell’ascesa al potere di Benito Mussolini; come sono privi di significato quelli relativi alla guerra di Libia, quale viene presentata dallo storico «corrierista». Seppure già presente al tempo della guerra libica, il conflitto non riguarda quello avviato con gli internazionalisti, ma deriva dalla scelta governativa di imbarcarsi in un’avventura coloniale deleteria alle popolazioni meridionali e dispendiosa sul piano delle risorse materiali. L’autore sembra così ignorare alcune caratteristiche peculiari della storia d’Italia, in quanto non è vero che questa si sia svolta solo intorno alle «rivendicazioni economiche dei lavoratori e quasi tutte incentrate intorno al conflitto tra nazionalisti e internazionalisti avviato dopo la guerra di Libia»; non è vero che i socialisti e i democratici si siano rinchiusi nell’esclusivo terreno di tali rivendicazioni e che la lotta per la conquista elettorale sia stata trascurata: basti pensare alle posizioni di Salvemini, che ne fa una cavallo di battaglia per la soluzione della questione meridionale, oppure a quelle di Anna Kuliscioff, che si batte per il «voto alle donne», come recita il titolo di un suo opuscolo del 1910 (Uffici della Critica Sociale, Milano 1910).
    L’accento sul ritardo storico della riforma elettorale del 1882 oppure su quella relativa alla concessione del suffragio universale maschile del 1912 aiuta ben poco a comprendere il successo del fascismo. Esso è invece imputabile a un miscuglio eterogeneo di ragioni e di episodi riconducibili alle promesse inattese dei reduci da parte del governo, al fanatico dannunzianesimo dell’impresa fiumana, alla minacciosa presenza del nazionalismo monarchico, alle lotte intestine nel partito socialista e al diffondersi degli scioperi alimentati da un massimalismo inconcludente e parolaio.
    In quest’ambito la citazione del giudizio di Piero Gobetti sul fascismo, senza indicazione dell’anno in cui venne espresso, è inconcludente a spiegare la manifestazione di un fenomeno politico, che non può essere ricondotto sic et simpliciter alla «parola d’ordine dal liberale eretico». Le posizioni di Gobetti sono molte più articolate da quelle che emergono dalla breve citazione: il fascismo – scrive egli – è «tutela paterna prima che (…) dittatura». Esse non possono così essere ridotte a quelle sottolineate da Cammarano, che avrebbe dovuto citare il brano nella sua interezza, là dove il giovane liberale parla anche di un’«immaturità economica italiana che si accompagna e determina la immaturità della lotta e la scarsa dignità personale». La conclusione di Gobetti contrasta con il discorso del presidente della Sissco, che addirittura sostiene con sicumera che la sua «parola d’ordine» fu «raccolta da spezzoni minoritari e perdenti dell’azionismo, del radicalismo e del socialismo liberale»: un’affermazione generica che contrasta con la storia del movimento inaugurato da Carlo Rosselli nel 1930 con il famoso libro Socialismo liberale e l’anno prima con la costituzione del movimento di Giustizia e Libertà.

    Il ricorso alla nuova interpretazione esula dalla storiografia più avvertita sulla genesi del fascismo, ancora ferma sulla distinzione avanzata da De Felice tra «movimento» e «regime». E se il primo rivela un dinamismo vitalistico ed esprime talune istanze rivoluzionarie, seppure basate sull’uso spregiudicato della violenza, il secondo significherà una realtà dittatoriale per volontà del potere carismatico di Mussolini. Ciò, al di fuori della riflessione proposta dall’illustre storico, il cui compito è quello di indicare la fonte e di evitare che la sua affermazione resti per ora gratuita senza valutazioni precise e documentate. 

  • FASCISMO E NEOFASCISMO
    CONFUSIONE E FACILONERIA

    data: 18/05/2019 20:53

    Sull’inserto settimanale «il venerdì di Repubblica» (17 maggio 2019, n. 1626) sono usciti due articoli di Gad Lerner e di Filippo Ceccarelli. Quello di Lerner, che si intitola «I nuovi difensori della razza» (p. 7), è un commento delle leggi razziali, adottate contro gli Ebrei in Italia dal settembre 1938 fino al 25 luglio 1943, seppure applicate ancora nella Repubblica sociale Italiana di Mussolini. Quello di Ceccarelli riguarda un commento sul neofascismo e su un’immagine pubblicitaria della Pivert, il marchio di abbigliamento legato all’editore Altaforte, salito all’onore delle cronache con il Salone del Libro di Torino.
    Di fronte agli articoli dei due noti giornalisti si rimane meravigliati dalla superficialità con cui sono presentati temi così importanti. Scrive Lerner che «nell’ottantesimo anniversario della promulgazione delle leggi razziali del 1938 sono andato a leggermi gli articoli e a guardare le vignette dei giornalisti che già negli anni precedenti avevano cominciato a martellare l’opinione pubblica sulla pericolosità degli ebrei, dei massoni, dei negri e dei meticci». A parte il fatto che la notizia, seppure verosimile, rappresenti una forzatura storica in quanto negli anni precedenti l’antisemitismo, che era sostenuto da una ristretta cerchia di persone, ebbe un vero e proprio imbarbarimento con la legislazione introdotta nel 1938.
    È vero che prima della pubblicazione del quindicinale «La Difesa della Razza», uscita dal 5 agosto 1938 al 18 luglio 1943, il suo direttore Telesio Interlandi aveva scritto articoli antisemiti su altri organi come «Il Tevere» o «Il Quadrivio», ma non bisogna dimenticare per esempio che su questo settimanale collaboravano Aldo Bandinelli, Alessandro Bonsanti, Mario Praz e Alberto Moravia. La vera svolta antisemita si ebbe con l’introduzione delle leggi razziali e con l’edizione di «Contra Judaeos» (1938) recensito con grande entusiasmo da Guido Piovene sul «Corriere della Sera».
    La cosiddetta intellettualità filogovernativa, a cui Lerner include Telesio Interlandi, Giovanni Preziosi, Giorgio Almirante, Jiulius Evola, si macchiò di antisemitismo, ma non può essere paragonata ai suoi epigoni contemporanei. Si tratta di intellettuali fascisti che diffusero un bieco razzismo con toni, propositi e finalità differenti dai “vari Del Debbio, Giuseppe Cruciani, Mario Giordano, Maurizio Belpietro, Vittorio Feltri ed altri epigoni minori». Non credo che Giordano abbia elaborato la evoliana teoria della «distanza» per professare le diseguaglianze naturali tra gli uomini oppure che Del Debbio abbia strumentalizzato le teorie razzistiche di impronta cattolica per professare l’antisemitismo di Interlandi.
    Riguardo all’articolo di Ceccarelli, bisogna tenere presente che si stia offrendo uno spazio eccessivo alla casa editrice Altaforte e al suo animatore, che ha tratto e trae lauti guadagni con l’edizione del libro intervista a Matteo Salvini. La questione non riguarda il marchio o i video della Pivert, ma il sorgere di un «fascioleghismo» pericoloso per le istituzioni democratiche. Il neofascismo trae origini da altri ambienti che da quelli dell’editore romano-milanese e presenta aspetti e temi diversi da quelli enunciati dalla rivista «Imperium», fondata nel 1950 da Enzo Erra con i contributi di Julius Evola e Massimo Scaligero. Non ha senso alcuno citare Pier Paolo Pasolini come se il tempo si sia fermato alla strage di Brescia e come se il suo monito sia ancora valido per comprendere quelli che si definiscono i fascisti del «terzo millennio». Il neofascismo non può essere presentato come un fenomeno folcloristico, le cui cause siano ricondotte semplicemente ad eventi storici, ma è il prodotto d’una profonda crisi sociale, ossia di un malessere a cui le forze politiche democratiche non sono riuscite a dare una risposta soddisfacente.

    Altre risposte erronee fornisce Luciano Canfora nel suo articolino Come si riconosce il fascismo, pubblicato su «la Repubblica Robinson, 18 maggio 2019, n. 128, p. 5». Sono destituite da ogni fondamento le sue proposte di leggere il presente neofascista con l’ausilio di libri di Umberto Eco o di Jason Stanley se non addirittura con la lettura del manuale Il primo libro del fascista (Mondadori, Milano 1939). Quella del saggista comunista è una lettura antiquata, che non coglie la vera sostanza del neofascismo, pericoloso oggi per il futuro dell’Italia rispetto al suo antenato che minacciava la sovranità di altri Paesi (si pensi all’invasione dell’Etiopia del 1935-36). Bisogna risalire a tempi più ravvicinati per comprendere le frange irrequiete dell’estrema destra, riconoscere il vero volto del neofascismo e il suo l’incontro con la Lega di Matteo Salvini, di cui offre un quadro interessante Paolo Berizzi nel suo volume NazItalia. Viaggio in un Paese che si è riscoperto fascista (Baldini+Castoldi, Milano 2018, pp. 426). 

  • PER SCURATI CI FU ANCHE
    UN FASCISMO MODERNO

    data: 29/04/2019 13:40

    Esalta il 25 aprile come mito sacrosanto della Repubblica; rilascia interviste quasi quotidiane a una miriade di giornali di orientamento culturale diverso; ma distingue un fascismo regressivo da un altro «più moderno e progressivo». Questo il leitmotiv che conclude l’intervista concessa da Antonio Scurati a Luca Mastrantonio sull’inserto settimanale «C7» del «Corriere della Sera» (25 aprile 2019, n. 1615, pp. 70-73).
    Nel suo articolo-intervista Mastrantonio annuncia il secondo volume della trilogia che Antonio Scurati sta per consegnare all’editore Bompiani. Ci auguriamo che il nuovo volume, che segue M. Il figlio del secolo, (Bompiani, Milano 2018, pp. 841), non sia zeppo di strafalcioni storici come il primo, considerato dall’articolista un libro «fortunato» per il «largo successo di pubblico» e per la promozione di «accesi dibattiti storico-politici». Che cosa renda un libro fortunato non rientra nella sfera di un commento storico, ma che abbia provocato un acceso dibattito sembra una forzatura derivata dal vezzo giornalistico di attribuire meriti non dovuti anche a libri di scarsa consistenza storica.
    Ad eccezione di E. Galli della Loggia e di David Bidussa, l’uno critico verso il libro di Scurati e il secondo elogiativo, non risulta che esso abbia avuto un così largo dibattito negli ambienti della «communitas studiorum» degli storici. Una campagna pubblicitaria martellante e una spasmodica attività dell’autore hanno trasformato un libro zeppo di incongruenze e di svarioni in un best seller, indicato da G. Caldiron come «un romanzo che dando voce ai protagonisti» del primo fascismo ricostruisce «centinaia di episodi e decine di figure» e «sembra illuminare una nuova consapevolezza un capitolo decisivo della storia italiana» («Intervista ad Antonio Scurati: “Dare voce a Mussolini per liberarsi di lui”, «il manifesto, 23 aprile 2019»).
    Ci duole l’accoglienza negativa riservata al libro di Scurati da parte di quelli che egli definisce il gesto «di isterici nostalgici del Duce», che hanno coperto il citofono con un pennarello nero, ma ci rattrista ancora di più che gli storici italiani non abbiano denunciato gli innumerevoli saccheggi perpetrati dall’Autore. E poi a chi può interessare la descrizione dello studio di Scurati, con il suo divano nero e con la statua colorata di Wonder Woman in bella mostra, oppure l’esposizione di una copia originale de «l’Unità» e dei volumi della destrorsa Testa di Ferro?
    In attesa del secondo volume, siamo curiosi di sapere che cosa abbia scoperto di nuovo l’Autore nella descrizione dello scandalo politico-finanziario che coinvolse negli anni 1926-28 il «sindaco» Ernesto Belloni. Possibile che il giornalista del «Corriere» non sappia che in quegli anni il sindaco era denominato podestà e sottoposto all’autorità governativa, ossia al Capo dell’esecutivo Benito Mussolini? Possibile che l’Autore cada in un errore così grossolano da distinguere un fascismo «regressivo» e un altro «più moderno e progressivo». Per comprendere l’interpretazione erronea dell’Autore, bisogna tenere presente che tutta la vicenda era gestita dal duce, per cui è sbagliato parlare di un fascismo moderno dal momento che i due contendenti della questione sono Ernesto Belloni (1883-1938) e Roberto Farinacci (1892-1945), entrambi lontani dalla concezione attribuita loro da Scurati.
    La convinzione trae origine dal tema centrale del nuovo volume, che «sarà centrato sullo scandalo politico finanziario che coinvolse Belloni, sindaco di Milano dal 1926-28». In realtà Belloni, primo podestà di Milano e legato da viva amicizia con Arnaldo Mussolini (1885-1931), fu travolto dallo scandalo di una tangente, che venne strumentalizzato da Farinacci per suoi interessi reconditi. Il caso aveva messo in rilievo il peso della campagna moralizzatrice avviata da Farinacci tramite l’organo «Il Regime fascista», con cui rivolgeva numerose critiche a personalità dell’establishment finanziario, tra cui quella relativa alla nomina di Ettore Conti all’Ente petroli. La critica suscitò l’ira del duce, che – come rileva Matteo Di Figlia nel saggio compreso «Il fascismo dalle mani sporche» (Laterza, Roma-Bari 2019, pp. 32-33) – rintuzzò le lamentele di Farinacci, scrivendogli il 21 maggio 1926 che il petrolio «non è fascista né antifascista ma è purtroppo soltanto straniero» (nota 34, p. 33). Fatto sta che il duce non ammetteva nessuna illazione sul fratello, il cui amore fraterno lo portava a confidargli che durante il processo Farinacci- Belloni (ottobre 1930) «si va determinando una certa resistenza allo scempio della logica e all’atteggiamento subdolo di molta gente al processo di Cremona» («Carteggio Arnaldo-Benito Mussolini», a cura di D. Susmel, La Fenice, Firenze 1954, p. 198).
    Dalla lettura della corrispondenza dei fratelli Mussolini e dai saggi riuniti nel volume ed egregiamente curati da Paolo Giovannini e Marco Palla, si ricava l’erroneità della tesi di Scurati, per cui non si può parlare di un fascismo progressivo per le mire personali di Farinacci e per la feroce dittatura esercitata da Mussolini e (p. 5). Riguardo ai rapporti con Mario Giampaoli (1893- 1944?), Scurati considera il gerarca fascista un malavitoso, senza tenere presente che egli godeva di larga simpatia negli ambienti cittadini milanesi. Per esempio, in occasione del suo matrimonio celebrato nel 1928, Giampaoli ricevette numerosi regali da imprenditori e commercianti per un valore di un milione di lire. Da questi episodi si può dedurre l’inanità della tesi di Scurati, che rilascia interviste su episodi difficilmente intellegibili se non siano documentati e spiegati nei minimi dettagli con l’ausilio anche dei carteggi e della lettura attenta della documentazione. L’augurio è che il prossimo volume sia documentato con l’indicazione precisa delle fonti.

           

  • EDMONDO DE AMICIS
    E IL "CUORE" DI TORINO

    data: 25/04/2019 20:34

    Il Museo della Scuola e del Libro per l'Infanzia, ubicato a Torino (via Corte d’Appello 20/c) propone un itinerario sul territorio denominato “Storie e memorie. Pratiche scolastiche e di lettura ieri e oggi”. L’itinerario, che utilizza le storie e le memorie descritte dai protagonisti del Libro Cuore di Edmondo De Amicis, ha come finalità quella di rievocare abitudini scolastiche e luoghi di lettura tra la fine del XIX e quello del XX secolo. Si tratta di una iniziativa encomiabile, che – al di là del costo del biglietto (8 euro, compreso l’ingresso al Museo) – non sempre rispetta la fisionomia della Torino coeva, oberata da gravi contrasti sociali e da stridenti diseguaglianze economiche.
    Conferenziere, giornalista e consigliere comunale di Torino per alcuni anni (1891-94), Edmondo De Amicis rimane uno scrittore controverso quanto prolifico nello scenario letterario dell’Italia “umbertina”. Sebbene sia nato ad Oneglia il 21 ottobre 1846, egli visse a Cuneo e poi a Torino, dove frequentò il collegio Candellero per essere avviato alla scuola militare di Modena. Ammesso nell’Accademia modenese e uscito con il grado di sottotenente di fanteria, partecipò alla Terza guerra di indipendenza e all’assistenza dei malati di colera in Sicilia. Quelle esperienze permisero al giovane De Amicis di pubblicare alcuni bozzetti di Vita militare, editi in un omonimo volume (1869), ora commentato con acribia linguistico-editoriale da Michela Dota (Milano 2017, pp. 351).
     L’opera, che fu il preludio di un’intensa attività pubblicistica svolta sulle colonne della Gazzetta d’Italia e della Nuova Antologia, aprì a De Amicis le porte di “inviato speciale” dell’Illustrazione italiana: soggiornò così in diversi Paesi europei (Spagna, Olanda, Francia, Inghilterra) e scrisse lunghi reportages, poi ampliati e pubblicati in volume tra il 1873 e il 1878. Abbandonata la carriera militare, egli si stabilì a Torino dove acquisì larga notorietà negli ambienti letterari della città subalpina, senza assurgere a fama nazionale. Solo con Cuore, uscito il 17 ottobre 1886, ottenne un grande successo grazie alla distribuzione oculata dell’editore Treves. Il 4 dicembre dello stesso anno confidò al letterato francese Clair-Edmond Cottinet, suo corrispondente dal 1879 al 1893, che il libro gli dette “una rara gioia” per la vendita strepitosa e per il successo letterario che “questa volta, è anche un successo finanziario”. In pochi mesi il romanzo divenne un bestseller mondiale con quaranta edizioni e decine di traduzioni in diverse lingue straniere.
    La Torino dei primi anni Ottanta, come è raffigurata nel romanzo, è diversa da quella che emerge dalle cronache cittadine dell’epoca. La città conta 250 mila abitanti, dei quali 30 mila vivono in soffitte fatiscenti, molte adibite anche a laboratorio per le loro attività artigianali. Il racconto di Enrico, l’io narrante del romanzo, non trova una corrispondenza nella vita quotidiana della città, che presenta situazioni molto diffuse di indigenza con fanciulle dedite alla prostituzione, bordelli clandestini, elevato numero di suicidi e di giovani ragazze rinchiuse nei sifilocomi: una realtà dolorosa che non poteva trovare ospitalità in un libro scritto per i ragazzi.
    Nei centotrentadue anni che ci separano dalla prima edizione, poco rilievo è stato dato al debito culturale che De Amicis contrasse verso il libro Enrichetto ossia il galateo del fanciullo “proposto dal professore Costantino Rodella” e pubblicato nel 1871 e nel 1874 dall’editore Paravia. Grazie a quest’operetta l’autore vinse un pubblico concorso promosso dal Municipio di Torino, che lo premiò con una medaglia d’oro per la passione pedagogica con cui “sparse ne’ cuori della gioventù semi di urbanità e di rettitudine”. Il protagonista di nome Enrichetto esordì quindici anni prima di Enrico Bottini, il personaggio centrale del romanzo Cuore, che rivelò una eguale “torinesità” e una diversità di carattere, forse per differenziarsi nei tratti fisionomici.
    In altre parti del romanzo De Amicis riprese scene e temi, già espressi da Rodella in Enrichetto con “l’andata a scuola” (p. 21) che è all’origine del brano “I parenti dei ragazzi” (6 marzo) oppure con il capitolo intitolato “La Scuola” (pp. 25-26) che anticipa le sue notazioni sul primo giorno scolastico (17 ottobre). Nel medesimo capitolo Rodella offre ragguardevoli spunti per la stesura dei brani “Il carbonaio e il signore” (7 novembre), “Superbia” (11 febbraio) o “Gli amici operai” (20 aprile). L’episodio su “Il ragazzo calabrese” (22 ottobre) sembra tratto invece dal saggio che Roberto Sacchetti pubblicò nell’opera collettanea su Torino (1880, pp. 189-190), laddove racconta dell’arrivo di uno scolaro nella IV elementare da lui frequentata nelle vicinanze di via Po: “aveva poi de’ modi curiosi, d’una umiltà ruvida e una pronunzia calabrese tanto schietta che non potevamo sentirlo senza ridere” (p. 190). Se Sacchetti considerò i suoi compagni di classe affetti da “una logica superficiale, piccina e malignuzza”, De Amicis colse invece negli alunni torinesi una gioia nell’accogliere il loro compagno calabrese, a cui regalarono “penne, una stampa e un francobollo di Svezia”.

    Come ha notato più volte Giorgio De Rienzo in diversi saggi ed ha confermato Luciano Tamburini nell’introduzione all’edizione einaudiana di Cuore (2001), il debito culturale verso Rodella o Sacchetti è palese, ma non si si tratta di plagio o di “ricalco”, ma di semplice fonte di ispirazione, a cui De Amicis si rivolse per trasformare una “materia grezza” in un classico della letteratura per l’infanzia. 

  • SETTANTACINQUE ANNI FA
    L'ASSASSINIO DI GENTILE

    data: 15/04/2019 19:31

    Settantacinque anni fa, il 15 aprile 1944, un gruppo di gappisti comunisti uccise con otto colpi di pistola Giovanni Gentile, il filosofo siciliano ritenuto un «traditore della patria». L’accusa, espressa in un commento radiofonico da Palmito Togliatti la sera del 26 giugno del 1943, prese avvio dal discorso pronunciato da Gentile due giorni prima in Campidoglio. Quel «discorso agli italiani», suggestivo sul piano filosofico e innovativo su quello politico, invitò alla concordia nazionale e al superamento delle discordie tra gli Italiani.
    Il discorso del filosofo siciliano suscitò l’avversione di Concetto Marchesi, suo conterraneo e celebre latinista fedele alla linea stalinista del Pci, che pubblicò sul foglio clandestino «La Lotta» (gennaio 1944) un articolo, con il quale respinse l’appello alla concordia, scorgendovi un sostegno alla Repubblica di Salò. L’articolo fu ripubblicato sul periodico comunista «La nostra lotta» nel marzo successivo da Antonio Banfi con un nuovo titolo e con un’aggiunta di Girolamo Li Causi, che suonava come un’esplicita condanna capotale: «Per i manutengoli del tedesco invasore e dei suoi scherani, senatore Gentile, la giustizia del popolo ha emesso la sentenza: Morte!».
    Nonostante che nessun tribunale avesse emesso quella sentenza, alcuni gappisti eseguirono il 15 aprile ’44 l’omicidio, che provocò forti contrasti nei partiti democratici ed alimentò il clima di odio già esistente in Italia al termine del regime fascista. La notizia fu commentata sull’edizione napoletana de «l’Unità» (23 aprile 1944) con toni dure da un anonimo x.y., che approvò l’omicidio di Gentile ad opera dei «patrioti italiani» e ribadì l’accusa di «traditore della patria», indicando nel filosofo fascista il «bandito politico», il «camorrista» e il «corruttore di tutta la vita intellettuale italiana». Dietro la sigla si celava Palmiro Togliatti, che nel luglio 1944 ripubblicò l’articolo di Girolano Li Causi con l’aggiunta di una postilla: «Poche settimane dopo la promulgazione di questo articolo, che suona come atto d’accusa di tutti gli intellettuali onesti contro il filosofo bestione, idealista, fascista e traditore dell’Italia, la sentenza di morte venne implacabilmente eseguita da un gruppo di giovani generosi e la scena politica e intellettuale italiana liberata da uno dei più immondi autori della sua degenerazione. Per volere ed eroismo del popolo, giustizia è stata fatta!».
    Di diversa opinione fu Benedetto Croce, la cui ferma condanna fu registrata nel suo diario per la morte del collaboratore di tante battaglie «barbaramente ammazzato per giustizia o vendetta dei partigiani». Alla condanna di Croce si unì quella degli azionisti fiorentini, che riconobbero «pesanti responsabilità» a Gentile nella «triste collana di violenze, di persecuzioni, di inettitudini che recarono rovina all’Italia», ma deplorarono «l’odiosità di un simile attentato». L’uccisone di Gentile fu considerata dagli azionisti come un inutile atto terroristico, deleterio alla Resistenza e diretto solo a rinfocolare la ferocia fascista.
    Bruno Fanciullacci, indicato come il principale esecutore del delitto, rimase ucciso nel luglio 1944 in circostanze poco chiare. La famigerata banda Carità, ritenuta responsabile dell’omicidio, fu negli anni di Salò denunciata dallo stesso Gentile per i suoi soprusi e gli eccessi delittuosi. Ma altri aspetti, ritenuti fondamentali nella sua biografia, possono essere considerati gli improvvisi aneliti alla libertà, la funzione culturale svolta nella promozione dell’Enciclopedia italiana, l’atteggiamento liberale assunto alla Normale di Pisa e l’aiuto agli Ebrei.     In quest’àmbito possono rientrare l’appoggio all’israelita Paul Oskar Kristeller, chiamato alla Normale e poi aiutato a espatriare negli Stati Uniti; oppure l’intervento a favore delle ebree Rosa e Mirella Bemporad, perché non siano inviate al campo di concentramento di Fossoli.

    Queste posizioni hanno spinto alcuni storici a riproporre una rilettura del personaggio, la cui vicenda biografica appare caratterizzata da una varietà di scelte spesso contrastanti con la fede fascista, l’assenza di interventi sulle leggi razziali o l’adesione alla Repubblica sociale. Nel libro «Intervista sull’intellettuale» (Laterza, Roma-Bari 1997), Eugenio Garin gli aveva riconosciuto il merito di avere promosso «i diritti della cultura e del suo rigore in una tensione drammatica degna di rispetto». Un giudizio simile si ricava nella documentata biografia di Sergio Romano «Giovanni Gentile, un filosofo al potere begli anni del “regime”» (Rizzoli, Milano 2004) oppure in quella di Daniela Colli («Giovanni Gentile», il Mulino, Bologna 2004), laddove essi attribuiscono al filosofo siciliano «intensità affettiva» e «fedeltà ai rapporti personali» in una trama di relazioni spesso difficili ma tenacemente ferme sui sodalizi culturali di lunga durata.  

  • CATTANEO RIVISITATO

    data: 07/04/2019 21:21

    Sull’inserto settimanale «la Lettura» del «Corriere della Sera» (7 aprile 2019, n. 384, pp. 6-7), Antonio Carioti ha curato un «dialogo tra Luigi Marco Bassani e Alberto Martinelli» sul pensatore federalista Carlo Cattaneo per la ricorrenza dei 150 anni dalla sua morte. Il dialogo prende spunto dai convegni che si terranno il 10 aprile prossimo a Castellanza (Varese) presso la Libera Università intitolata a Cattaneo e il 30-31 ottobre a Milano.

    Come mette in rilievo Carioti, «i 150 anni ricorrevano il 5 febbraio, ma solo adesso partono le iniziative per ricordare Carlo Cattaneo, pensatore federalista e leader delle Cinque giornate di Milano. Questo significativo ritardo offre lo spunto per affrontare il tema del federalismo con due studiosi di tendenze diverse: lo storico delle dottrine politiche Luigi Marco Bassani, allievo di Gianfranco Miglio (per una fase ideologo della Lega) e il sociologo Alberto Martinelli, già membro della Costituente del Pd e ora coordinatore del comitato per il centocinquantesimo di Cattaneo».

    L’asserzione del curatore suona abbastanza strana e incomprensibile a chi segue periodicamente la miriade di articoli apparsi sulla pagina culturale del giornale milanese e del suo settimanale: bisognava aspettare l’avvio di queste iniziative per dedicare qualche pagina al grande pensatore lombardo? Dalla lettura del dialogo si evince che i due intellettuali non abbiano molta dimestichezza con il pensiero di Cattaneo, che è diverso da come viene presentato nel corso del loro dialogo.

    Già nell’incipit del suo intervento, Bassani sostiene che «negli anni Settanta di federalismo parlava solo il Partito sardo d’Azione» e che prima della nascita della Lega «quei temi erano estranei al dibattito pubblico»: affermazione erronea e destituita da ogni fondamento in quanto in quegli anni sono stati prodotti numerosi studi, che vanno dall’antologia (1970) su Cattaneo di Adriano Soldini ai quattro volumi delle «Opere scelte» (1972) a cura di D. Castelnuovo Frigessi.

    Premesso ciò, Bassani sostiene alcune posizioni storiche stravaganti, la prima delle quali riguarda Giuseppe Mazzini accostato ai Savoia e risultato vincitore per il suo centralismo unitario «sul versante repubblicano» per poi sostenere che quest’ultimo ha utilizzato «nella storia d’Italia l’integrazione sovranazionale … contro le istanze federaliste interne». Nessuna replica da parte di Alberto Martinelli, che sic et simpliciter sostiene che «l’unificazione realizzata da Cavour nel 1861 segna la sconfitta di Cattaneo», ignorando che essa più che del federalista lombardo segna la sconfitta di Mazzini e la sua proposta repubblicana di ordinare l’assetto amministrativo su basi regionali. Entrambi però presentano il pensiero di Cattaneo come un blocco unico in modo vago ed in parte erroneo.
    Le posizioni più significative del percorso intellettuale di Cattaneo possono invece essere suddivise in tre fasi ben distinte della sua attività politica. La prima posizione, a cui Bassani sembra essersi fermato, è espressa nel decennio 1830-38, quando Cattaneo auspica una larga autonomia in difesa dei valori etnici di una fittizia comunità lombarda. Solo che in questa aspirazione Cattaneo voleva staccare la Lombardia per avviare un processo di integrazione fra diversi popoli sotto il dominio asburgico.
    La seconda fase del pensiero federalista, quale venne formulato da Cattaneo a partire dal 1839, si caratterizza per l’opposizione all’espansionismo piemontese e si dispiega in un programma orientato più verso ideali nazionali ed europei. Nella prefazione alla Prima serie del «Politecnico» (1839-1844) Cattaneo abbandona molte idee retrive, che gli avevano causato la taccia di «codino» o la qualifica di «austriacante» e invita gli Italiani a «tenersi soprattutto all’unisono coll’Europa, e a non accarezzare altro nazional sentimento che quello di serbare un nobil posto nell’Associazione scientifica dell’Europa e del mondo».
    Dal 1844 Cattaneo matura un pensiero federalista, che è critico verso i dialetti, che «innumerevoli e discordi» minano l’unità della lingua italiana, l’unica «interprete comune della scienza europea»; anzi propone la loro eliminazione per evitare «la discordia e la debolezza fra gli abitatori d’una patria comune». Dopo le cinque giornate di Milano (1848) Cattaneo promuove l’ideale repubblicano e a Gustavo Modena che gli faceva l’elogio d’essere stato «la chioccia» che aveva covato «tutti i milanesi giovani e buoni», Cattaneo rispondeva: «al primo levar del sole tutta la mia nidiata è corsa a razzolare nel letamaio del re». Il suo ideale politico, dunque, non si riduceva all’auspicio di un’Italia clericale e municipale; ma invocava «le provvidenze» per la «negletta» Sardegna e denunciava il razzismo nella difesa dei neri e delle popolazioni meridionali.
    Sulla scia del suo maestro, Gianfranco Miglio, Bassani – ignaro del pensiero di Cattaneo – ci stordisce con le sue analisi stravaganti e il suo sostegno alla politica di Matteo Salvini, intento a cercare «altre strade» come quella contro i rom e lo sbarco dei migranti. Egli cita infatti l’ammonimento del suo maestro, secondo cui «il federalismo della Lega non deve diventare come la società senza classi dei comunisti»: un richiamo privo di significato politico, visto il cambiamento di rotta di Salvini e la sua ricerca del consenso elettorale a livello nazionale.
    Nella terza fase più matura del pensiero, quella rivolta alla promozione di un’Italia unita, Cattaneo cerca di coniugare queste istanze con una visione europeista protesa verso un modello federale sull’esempio americano e volta alla realizzazione degli Stati Uniti d’Europa. La sua aspirazione, protesa a sottrarsi alla «luttuosa necessità delle battaglie, degli incendi e dei patiboli» riguardò solo la realtà sovranazionale, che doveva salvaguardare l’autodeterminazione dei popoli Questa visione politica, considerata giusta da Martinelli per l’accento che egli pone sull’«integrazione europea» come elemento essenziale per la salvaguardia della pace, non sembra adeguarsi alla realtà nazionale, il cui ricorso ad una struttura federale potrebbe scardinare l’assetto amministrativo dell’Italia unita.
    Ad unificazione politica avvenuta, il federalismo di Cattaneo diventò una battaglia di libertà, diretta alla valorizzazione delle autonomie locali e stimolata dalla partecipazione e dal controllo dei cittadini. Fu questo un programma politico che egli cercò di vivificare negli ultimi anni della sua vita attraverso il contributo delle associazioni operaie per un reale miglioramento dei ceti meno abbienti e per un reale progresso dell’intera società. L’interesse crescente verso il mondo del lavoro, che giace «in negletta e barbara condizione», si pone come la «più grave questione», la cui soluzione può trovare le condizioni favorevoli ad una democrazia europea, laddove la parità dei singoli Stati è preliminare agli Stati Uniti d’Europa e all’integrazione comunitaria.

  • CAPIRE LA POLITICA
    CON BOBBIO E SARTORI

    data: 20/03/2019 21:50

    Nel corso dell’età repubblicana Norberto Bobbio (1909-2004) e Giovanni Sartori (1924-2017) hanno incarnato il pensiero democratico di orientamento laico. Con la loro opera culturale essi hanno dato contributi essenziali allo studio del sistema politico, della democrazia e dei partiti. Del loro insegnamento dà un quadro complessivo il recente volume Bobbio e Sartori. Capire e cambiare la politica (Bocconi editore, Milano 2019, 232 pp.) di Gianfranco Pasquino, allievo di entrambi e professore emerito di Scienza politica nell’Università di Bologna.
    Con i loro editoriali su La Stampa e sul Corriere della Sera, con le frequenti interviste televisive nel caso di Sartori, Bobbio e Sartori hanno contribuito a formare l’opinione pubblica in Italia. Entrambi hanno svolto un’opera simile: se Bobbio si riallacciava alla dottrina liberal-socialista per ricostruire un sistema di pensiero volto a ridurre le diseguaglianze sociali, Sartori aspirava – come sostiene Gianfranco Pasquino – «a far funzionare bene la democrazia attraverso il complesso sistema di equilibri e contrappesi tra istituzioni, partiti e correnti, modelli di governo che regola il funzionamento dello Stato».
    Il libro è un omaggio ai due intellettuali da parte di uno studioso che, come egli mette in rilievo, può vantare il «privilegio unico e irripetibile» di essersi laureato con Bobbio e specializzato con Sartori, verso i quali ha un debito di riconoscenza per la trasmissione di un insegnamento ancora oggi valido nelle sue linee essenziali.
    Delle riflessioni politiche di Bobbio, l’Autore mette in rilievo il suo contributo sulla definizione del compito dell’intellettuale, la ricerca di una teoria generale della politica e le sue ricerche sulla democrazia. Di Sartori ricorda il suo contributo alla scienza politica, all’analisi dei partiti e all’ingegneria costituzionale del sistema italiano, dove il pluralismo politico era coniugato con i principi della democrazia contemplati nella Costituzione. «Rappresentavano entrambi l’élite del pensiero, erano certamente minoritari già ai loro tempi e tuttavia – ricorda Pasquino – entrambi traevano vantaggio dalla sfida di voler migliorare la cultura politica dei loro interlocutori, ovvero della classe dirigente, così come quella dei cittadini». Per l’autore de Il Sultanato sarebbe stata inconcepibile la polemica odierna del “popolo contro l’élite”: «chi si candida a guidare un paese, diceva, non poteva che avere una solida preparazione».

    La storia politica del Novecento – considerato il secolo più tragico della storia umana per gli eventi terribili delle due guerre mondiali, dei totalitarismi moderni, dei rivolgimenti nazionali e del terrorismo internazionale – fu sempre presente nell’opera di Bobbio sin dall’esordio della sua attività culturale e politica. Già nel 1946 egli, come candidato del Partito d’Azione per l’Assemblea Costituente, avanzò un progetto di «umanizzazione dello Stato», volto a un’attiva partecipazione dei cittadini e a un’organizzazione autonomistica «delle istituzioni di autogoverno». I principi della democrazia moderna, trasferiti all’organizzazione internazionale degli Stati, furono al centro della sua attività culturale: l’impegno nella «Société européenne de culture» e nella rivista «Occidente» furono i momenti preparatori del libro Politica e cultura (1955), con il quale cercò di superare il «divorzio» tra cultura e politica, proponendosi di trovare le cause per rendere più democratica la struttura sociale e meno oppressiva l’istituzione statuale.

    L’invite au colloque, ispirato all’estensione della libertà a ogni manifestazione umana, fu raccolto da Palmiro Togliatti, da Galvano della Volpe e da Ranuccio Bianchi Bandinelli, i quali criticarono la stretta connessione tra liberalismo e reazione, rifiutando le analisi dello scrittore torinese come un persistente attaccamento alla democrazia liberale. Il dialogo, che investì altri temi come la libertà e la giustizia sociale, si protrasse fino alle soglie dei fatti d’Ungheria e del XX congresso del Pcus (1956), ma non ebbe alcun seguito nella cultura politica per i vent’anni successivi.
    L’altra questione, che vide impegnato Bobbio nel dibattito culturale, fu quella relativa alla minaccia della guerra atomica per l’uso di armamenti «sempre più micidiali». Il rifiuto della guerra come «male assoluto» e delle sue tradizionali giustificazioni lo portarono ad invocare una totale obiezione di coscienza e un attivo pacifismo come vie necessarie al progresso della civiltà umana. L’analisi del sistema internazionale e del complesso rapporto tra diritto-guerra s’ispirò alla dottrina di Kant: una pacificazione duratura dei rapporti tra gli Stati poteva derivare solo dall’adozione in ogni singolo Stato di una Costituzione liberaldemocratica, ossia da quella «costituzione repubblicana» che era considerata dal filosofo tedesco come l’unica «in grado di evitare per principio la guerra» (N. Bobbio, L’età dei diritti, Torino 1990, p. 149).

    Le riflessioni sulla guerra si unirono anche alle vicende politiche della sinistra italiana, alle quali partecipò come protagonista. Nel 1966 aderì al Partito socialista unificato nella speranza che esso potesse aprire uno scenario nuovo nella vita politica italiana. L’unificazione segnò una delusione per Bobbio, che - dopo la sua sconfitta nelle elezioni politiche del 1968 - si convinse che il suo impegno doveva svolgersi non nelle aule parlamentari ma in quelle universitarie. La protesta studentesca e il movimento extraparlamentare furono criticati da Bobbio, che riconobbe valida la contestazione di alcune «disfunzioni reali» dell’Università italiana, ma si oppose a quello «stato di esaltazione collettiva» che spinse gli studenti a richiedere «corsi autogestiti». Il rapporto tra docenti e studenti, l’ostilità verso ogni forma di potere tradizionale, le nuove relazioni fra i sessi, il valore soggettivo dell’impegno politico furono così ricondotti a «un trauma profondo della sinistra italiana», le cui cause si rispecchiavano nella contestazione studentesca come esito finale di mutamenti sociali e come conseguenza di rivolgimenti politici. In questo ambito Bobbio incluse la crisi del Pci, l’ingresso dei socialisti nella compagine governativa, la costituzione del Psiup, l’eco della rivoluzione culturale cinese e i rivolgimenti politici in Urss come gli aspetti più appariscenti che «rappresentarono l’addio a ogni speranza di rinnovamento». 

    Nella prima parte del fortunato saggio Profilo ideologico del Novecento (1969), Bobbio contrappose l’antifascismo al fascismo come monito per scongiurare la «caduta» della vita pubblica italiana in un potere dispotico e in una degenerazione della democrazia. Le sue tesi, sviluppate in molteplici saggi e dirette a salvaguardare il sistema rappresentativo, approdarono alle elaborazioni di Quale socialismo? (1976)e del Futuro della democrazia (1984), che trovarono una conclusione definitiva nella definizione del metodo democratico e nel rispetto delle «regole del gioco». Con questo impianto concettuale Bobbio ritornò più volte dopo l’89 sul valore della democrazia per la difesa dei suoi postulati fondamentali e per la formazione di un partito unico della sinistra.
    Sull’onda degli sconvolgimenti internazionali prodotti dall’Urss, Bobbio non plaudì a quella mutazione genetica del sistema politico che va sotto il nome di «fine della Prima Repubblica». Nel nuovo «corso delle cose» inaugurato dal «berlusconismo», Bobbio vide nella «discesa in campo» del suo protagonista il volgare ritorno dell’«Italia barbara», ostile a ogni forma di serietà pubblica e privata, incapace di una vera pratica democratica, incerta tra «i luoghi comuni dei servi contenti» e le dimostrazioni oltraggiose di strapotere dei nuovi padroni. In un lucido articolo apparso su «La Stampa» il 20 marzo 1994, Bobbio prese spunto dalla vittoria di Berlusconi per definire «eversivo» il suo «modello» politico, considerato un «fenomeno senza precedenti» nella storia d’Italia e purtroppo «destinato a durare a lungo» nella scena politica. Gli anni finali della sua vita pubblica furono rivolti ad una critica impetuosa della Lega, la cui ascesa politica gli apparve un fenomeno «folle», «insensato e grottesco» per l’auspicio di una Padania immaginaria, che era visto come «uno sgorbio storico e geografico» alla stregua dello stesso modello vigente durante il fascismo intriso «della stessa mentalità, la stessa strafottenza e la stessa volgarità».

    Su questa linea si pose anche Sartori, che animò il dibattito sul sistema della democrazia, analizzando le cause del suo cattivo funzionamento, reperite soprattutto nei meccanismi di voto, nella sana rappresentanza politica e nell’equilibrio tra i poteri (legislativo, giudiziario ed esecutivo). Dalle sue denunce, sempre precise e minuziose, Sartori offre una grande lezione contro le derive autoritarie e contro il risorgere dei populismi, intriso di avversione al pluralismo e alla rappresentanza politica. Per questo motivo Pasquino considera attuale la sua lezione, come elemento costitutivo della scienza politica volta alla ricerca del migliore sistema elettorale e alla valorizzazione della partecipazione dei cittadini.

     

     

     

  • MERLIN E LE "CASE CHIUSE"

    data: 06/03/2019 18:42

    Ad oltre 60 anni dell’approvazione della cosiddetta “Legge Merlin”, pubblicata nella "Gazzetta Ufficiale” del 4 marzo 1958, si ritorna a parlare di “case chiuse”. Con lo slogan “liberiamo le strade delle nostre città”, la proposta di riaprire le case chiuse è avanzata dal leader della Lega Matteo Salvini. Secondo il Ministro dell’Interno, l’introduzione di una nuova legge porterebbe un incremento del gettito fiscale, toglierebbe alle mafie il monopolio della prostituzione e permetterebbe allo Stato un efficace controllo sanitario.
    Ora, dopo molti anni dall’entrata in vigore della legge Merlin, è stata interpellata la Corte costituzionale a pronunciarsi sulla questione di legittimità e sembra che essa abbia ritenuto la sua conformità ai dettami della  Costituzione. In attesa della sentenza, che deve essere ancora depositata dopo il ricorso della Corte d’Appello di Bari, la situazione è ancora in attesa di regolamentazione. Un nuovo disegno di legge, presentato dalla Lega, vuole abrogare i primi due articoli, prevedendo il via libera all’esercizio della prostituzione nelle abitazioni private e vietandolo “in luoghi pubblico aperti al pubblico” con l’istituzione presso la questura di un apposito registro a cui sono tenute ad iscriversi le persone interessate ad esercitare il mestiere di prostitute.
    Come provvedimento legislativo, la legge aboliva le case di tolleranza e regolamentava i reati di sfruttamento, induzione e favoreggiamento della prostituzione. Ma chi era la donna a cui è legata la legge? Quale era il suo intento a far approvare una legge che per lei intendeva tutelare la dignità della donna?
    Tenace oppositrice del fascismo, Angelina (Lina) Merlino (Pozzonuovo, 15 ottobre 1887 – Padova, 16 agosto 1979), è ricordata soprattutto per la legge contro le case di tolleranza, ma la sua attività fu molto vasta per la sua lunga militanza socialista. Iscrittasi nel 1919 al Partito socialista italiano, ella collaborò ai periodici “L’Eco dei Lavoratori” e “La Difesa delle lavoratrici” con articoli sulla questione femminile e sulla prostituzione. Negli anni 1921-22 denunciò le violenze fasciste nel Padovano per essere poi allontanata dall’insegnamento di maestra elementare per il suo rifiuto di prestare giuramento al regime. Il 24 novembre 1926 fu condannata dal Tribunale speciale a cinque anni di confino, che scontò in varie località della Sardegna. Ottenuta una riduzione della pena, nel 1929 ritornò a Padova, ma l’anno successivo si trasferì a Milano, dove visse grazie alle elezioni private di francese. Durante il soggiorno milanese, conobbe l’ex deputato socialista polesano Dante Galliani, che sposò nel 1933, ma – nonostante la perdita del marito tre anni dopo – ella continuò la sua attività antifascista.
    Dopo l’8 settembre 1943, Lina Merlin partecipò alla guerra di liberazione come rappresentante del Psi nei cosiddetti “Gruppi di difesa della donna, collaborando attivamente con Ada Gobetti e Laura Conti nell’acquisizione di fondi e vestiario per i partigiani. Dopo la liberazione fu la le fondatrici dell’Unione Donne Italiane (UDI) e fece parte della Direzione del Partito socialista. Durante i lavori della Costituente, la Merlin intervenne più volte sulla questione della rappresentanza e sulla parità di genere, contribuendo alla stesura della prima parte dell’art. 3: “Tutti i cittadini hanno pari dignità sociale e sono eguali davanti alla legge, senza distinzioni di sesso, di razza, di lingua, di religione, di opinioni politiche, di condizioni personali e sociali”. 
    Consigliere di Chioggia dal 1951 al 1955, Lina Merlin si impegnò a favore delle popolazioni del Polesine, specialmente dopo la disastrosa alluvione del 1951, su cui pronunciò un interessante discorso al Senato, edito nello stesso anno con il titolo Il dono del Po (Roma 1951), sottolineando la necessità della bonifica integrale del territorio. Proprio nella veste di senatrice, eletta nel 1948, ella cominciò la lotta per regolamentare la prostituzione: del 12 ottobre ’49 è il primo discorso per l’abolizione delle “case chiuse” in una instancabile attività che sfociò nella sua proposta di legge.
     La battaglia parlamentare, condotta poi alla Camera per la sua elezione a deputato il 25 maggio 1958, sollevò durante il dibattito aspre polemiche che, già ricordate nel volume La legge del desiderio. Il progetto Merlin e l’Italia degli anni Cinquanta (Carocci, Roma 2006), di Sandro Bellassai, sono riprese da Giovanni De Luna nel suo articolo apparso su “La Stampa” del 13 febbraio. Egli rileva infatti come dalla lettura degli atti si coglie un senso di disorientamento per l’accento quasi ossessivo posto dai deputati sui “risvolti medico-sanitari del fenomeno”. Alcuni deputati intervengono con previsioni e statistiche sulle malattie veneree “nel tentativo di calcolare le probabilità di infezione”, mentre altri si abbandonano a bizzarri calcoli “sul rapporto esistente tra il numero dei coiti quotidianamente sostenibili da una prostituta e quello dei potenziali contagi”. Le diverse posizioni riguardano la prostituzione “regolamentata” rispetto a quella “libera” in uno schieramento politico non sempre omogeneo e incentrato in una visione antiquata del fenomeno e non statistiche “scientificamente rilevate”.
    La legge contro le “case chiuse”, che prese il nome della Merlin, entrò in vigore il 20 settembre 1958 con la chiusura dei bordelli e la conclusione dell’inferiorità civile della prostituta. Essa previde la direzione dei mutamenti in atto nella società italiana, spazzando via molti stereotipi e luoghi comuni. E dal settembre di quell’anno i lupanari saranno trasformati in patronati per l’assistenza alle ex prostitute. Si rivelarono un fallimento, ma la legge avviò un processo di liberazione femminile nell’abolizione dello sfruttamento gestito dallo Stato.
    Abbandonata la politica attiva, Lina Merlin tornò nel 1974 alla ribalta durante la discussione sull’indissolubilità del matrimonio come membro del Comitato nazionale per il referendum sul divorzio. Gli ultimi anni della sua vita furono dedicati alle sue memorie per la stesura di un libro, che vide la luce dieci anni dopo la sua morte avvenuta nel 1979.

     Sulla senatrice esistono molti studi, tra i quali possono essere ricordati il volume La senatrice. Lina Merlin, un “pensiero operante” (Marsilio, Venezia 2017, pp. 204) con la curatela di Anna Maria Zanetti e Lucia Danesin, oltre alle Lettere dalle case chiuse indirizzate alla Merlin, già pubblicate dalle Edizioni Avanti! e ora riproposte come Reprint dalla Fondazione Anna Kuliscioff 

  • PSICOTERAPIA E RELIGIONE

    data: 17/02/2019 12:12

    Su «Infodem» Alberto Lori prende spunto da un articolo - pubblicato dalla psicologa clinica Carmen Di Muro sulla rivista «Scienza e conoscenza» - per sottolineare il nesso tra la preghiera intesa come pratica religiosa e i suoi effetti prodigiosi nella sfera organica del corpo umano. Lori cita Alexis Carrel (1873-1944), ma si potrebbe citare Boris Cyrulnik e  il suo recente volume Psicoterapia di Dio (Bollati Boringhieri, Torino 2018, pp. 205).
    Noto neuropsichiatra francese di origine ebraica, scampato per miracolo alle deportazioni naziste, Cyrulnik ricostruisce la sua vicenda esistenziale nel racconto autobiografico La vita dopo Auschwitz (2104), in cui rivela come sia «sopravvissuto alla scomparsa dei suoi genitori durante la Shoah». Nel sottotitolo sono riassunti le sue peripezie infantili, la retata degli ebrei di Bordeaux il 10 gennaio 1944, lo scampato pericolo e il nascondiglio nel bagno della sinagoga francese, l’orfanotrofio, l’affidamento ad una famiglia fino alla laurea in medicina e la specializzazione in psichiatria.
     In un altro volume intitolato La vergogna (2011), Cyrulnik elabora il concetto di resilienza (termine  usato nella fisica per definire la capacità di un materiale di resistere agli urti) per studiare gli effetti dolorosi di un individuo e la sua abitudine a superare episodi tragici sulla base delle sue forze e del proprio vissuto quotidiano. Dall’analisi di questi traumi e dalle loro ripercussioni nell’anima di ogni persona coinvolta in un’inconsapevole e tragico destino, Cyrulnik dà alle stampe il volume intitolato Psicoterapia di Dio già uscito in Francia nel 2017.
    Il tema indaga la crescente influenza delle religioni nelle società contemporanee e richiama la perenne questione del vissuto religioso come momento consolatorio in grado di esercitare gli effetti psicoterapeutici. Il cantillare salmodiante della liturgia ebraica, l’ambiente tranquillo e fiocamente illuminato delle chiese cattoliche, l’invito persuasivo del muezzin alla preghiera sono aspetti peculiari di un’esperienza religiosa totalizzante che incide nella vira quotidiana dei fedeli.
    Con gli strumenti delle neuroscienze e l’approccio psicologico, Cyrulnik afferma che la fede religiosa aiuta spesso a combattere le inevitabili avversità della vita e a raggiungere una serenità interiore. È vero che essa può essere considerata un semplice tranquillante per raggiungere uno stato di pacificazione personale, ma può anche – se vissuta in senso esclusivo – generare violenze e guerre che distruggono intere comunità. Come sostiene Cyrulnik, fuori dai rischi di intolleranza e violenza, è verificabile che «la religione soddisfa una piramide di bisogni, anzitutto cognitivi, poi emotivi, e infine relazionali e morali» (p. 126).
    In questo ambito lo psichiatra francese discute l’adesione dei bambini alla religione, che viene introiettata dall’infanzia attraverso le sollecitazioni dei genitori. Così il sentimento religioso si lega al loro esempio, corrobora il legame affettivo ed aiuta ad affrontare le avversità della vita. Esse traggono alimento risolutivo nella distensione della mente attraverso la preghiera che coinvolge anche il corpo, come si ricava dalle pratiche religiose e dal comportamento dei fedeli, variamente adottato nelle diverse religioni e compreso tra il semplice movimento del corpo fino alle esperienze di ascesi e di estasi.
    La consolazione della preghiera, tema già ricorrente nella letteratura religiosa, era già stato sottolineato nel libro La preghiera dell’uomo (1944) da Alfredo Poggi e in altri come Dio nell’inconscio. Psicoterapia e religione (Morcelliana, Brescia 1975) da E. Viktor Frankl e … Ma Dio non è così. Ricerca di psicologia pastorale sulle immagini demoniache di Dio (San Paolo edizioni, Cinisello Balsamo 1995) di Karl Frielingsdorf. Ma sembra che le ricerche odierne stabiliscano un rapporto stretto tra religione e benessere corporale.

    La questione sembra confermata anche nella seconda edizione del volume collettaneo Hanbook of Religion and Health (Il manuale di religioni e salute) edito nel 2012 dalla Oxford University Press e curato dallo psichiatra americano Harold Koenig. La risposta della ricerca, svoltasi negli Stati Uniti e in Europa, perviene alla conclusione che esista una stretta connessione tra afflato religioso e dimensione corporale intesa come salute mentale/psichica e benessere fisica. 

  • "DIZIONARIO EUROPEO"
    TANTE PAROLE INCONGRUE

    data: 06/02/2019 12:10

    La «Lettura» è il supplemento culturale del «Corriere della Sera» che vuole distinguersi per la serietà degli argomenti e la scelta accurata dei suoi collaboratori. Nondimeno l’ultimo numero, il 375 del 3 febbraio, lascia basiti per la superficialità con cui tratta l’argomento principale, quello relativo alla confezione di un «Dizionario europeo» in vista delle prossime elezioni per il Parlamento di Strasburgo.
    Curato da Antonio Troiano con l’ausilio di altri dodici giornalisti, il settimanale si avvale anche della collaborazione di specialisti su argomenti specifici inerenti il mondo scientifico, filosofico e storico. Il numero del 3 febbraio, in edicola per una settimana, si apre con un articolo del direttore Luciano Fontana, che annuncia la proposta rivolta a 27 scrittori dell’Unione Europea perché indichino una parola che esprima il significato dell’identità nazionale di ogni singolo Stato e dell’appartenenza comunitaria. Comincia così il cosiddetto «viaggio delle idee» nei Paesi dell’Unione Europea che ospiterà scrittori e intellettuali, chiamati a sviluppare nei «loro articoli una parola chiave o un’idea forte sull’identità del loro Paese e dell’essere europei».
    L’iniziativa di definire le 27 parole, che andranno a formare il «Dizionario europeo», è encomiabile a condizione che esse siano sviluppate sul piano storico e integrate con le questioni emerse nel processo dell’Unità europea. Il testo di Claudio Magris sfugge a questo criterio e dimostra una vacuità impressionante delle spinose questioni che affliggono questa compagine sovranazionale. Egli cita a vanvera Michelstaedter, Roth, Bloch, Marx in un lungo e farraginoso articolo sul futuro dell’«universo mondo»: solo che il suo discorso è avulso dalla realtà, com’è proiettato nostalgicamente ad una palingenesi, a cui manca un «elemento unificante», ossia quel «sale della terra» che estende nella sua veloce conclusione all’Europa e al suo ritardo unitario a causa di un rinvio continuo dei problemi imputabili «alle contraddizioni tra i principi e i valori sui quali essa si fonda e la Costituzione di alcuni Paesi».
    Quali siano queste contraddizioni, in che modo si disvelano in questo intreccio tra principi e valori Magris non dice, citando scrittori che hanno scarsa attinenza con la storia dell’Unione Europea. Piuttosto che richiamare Bloch o Marx sulla speranza del futuro, egli avrebbe dovuto ricordare il grande contributo di Immanuel Kant (1724-1804) all’idea di un’Europa unita. Nel saggio Per la pace perpetua (1795) il filosofo tedesco auspica una pace che non possi su una lega di princìpi, ma su una federazione di stati democratici che, partendo dall’Europa, si estenda a tutto il mondo. Come ha più volte precisato Norberto Bobbio, è necessario che la partizione tradizionale del diritto pubblico interno ed esterno si aggiunga una terza specie di diritto che Kant chiama ius cosmopoliticum: «il diritto cosmopolitico dev’essere limitato alle condizioni di una universale ospitalità» (cfr. I. Kant, Per la pace perpetua, in «Scritti politici di filosofia dei diritti e della storia», Utet, Torino 1956, p. 302, cit. da N. Bobbio, in L’età dei diritti, Einaudi, Torino 1990, p. 151).
     Piuttosto che richiamare Charles Péguy (1873-1914), la cui opera è incentrata più sul futuro della Francia che su quello dell’Europa, Magris avrebbe dovuto definire quell’indirizzo che da Kant approda alle proposte europeiste di Giuseppe Mazzini (1805-1872), di Charles Lemonnier (1806-1891), di John Robert Seeley (1834-1895), precursori degli «Stati Uniti d’Europa». Dalla lingua dei Chamacoco, «popolazione india del Paraguay» ricordata da Magris per indicare la propensione al preciso futuro della sua lingua, gli altri due scrittori coinvolti propongono altre due parole costitutive del nuovo «dizionario europeo»: «cedimento» e «scarpe».
     Per la parola cedimento viene scomodato Franz Westrman, che scrive una lettera al calciatore Arjen Åsbrink per informarlo che il suo paese natìo Bedum giace su un suolo mobile «che sprofonda di circa mezzo centimetro l’anno per via dell’estrazione di gas naturale». Non si comprende allora perché citi l’abate Emo van Huizing, che vissuto tra il 1175 e il 1237, non sembra aver posto il nesso tra il cedimento del suolo e l’estrazione del gas naturale. L’altra parola scelta da Elisabeth Åsbrink è quella di «scarpe», su cui costruisce un discorso sull’abitudine degli abitanti di alcune zone della Svezia che, invitati a casa di qualche loro conoscente, si toglievano le scarpe. Da qui le lunghe disquisizioni dell’autrice, - invitata a Milano nel prossimo festival I Boreali (23 febbraio) -, che illumina i lettori de «La Lettura» della sua grande scoperta: gli abitanti erano soliti togliere le scarpe per un preciso disegno igienico imposto dalle autorità governative, che organizzavano addirittura «servizi di vigilanza sull’igiene delle abitazioni per elevare la qualità delle popolazioni». La conclusione della scrittrice acquisisce un sapore strano, quando afferma che «l’esortazione musicale a togliersi le scarpe deve essere apparsa del tutto congrua. Sempre che non si fosse immigrati. In tal caso la faccenda sembrava incivile e basta».

    Sulla base di questa strana conclusione, nell’augurio che la scrittrice chiarisca il suo pensiero, attendiamo le altre 24 parole che andranno a formare il «dizionario europeo». Per ora si conoscono i nomi di Petros Markaris, Catherine Dunne, Clara Sánchez nell’augurio che scelgano parole più congrue come quelle affacciatesi alla ribalta della cronaca odierna come «populismo» o «sovranismo», dalla cui chiarificazione dipende l’avvenire dell’Europa o di altre come «amore e odio» tra europeisti e nazionalisti in vista del Forum organizzato dall’Università statale di Milano per il 16 febbraio. 

  • "MAI PIU' NERO", 1931
    LETTURA ANCORA UTILE

    data: 31/01/2019 10:19

    Nel lontano 1931 il giornalista afroamericano George Samuel Schuyler pubblicò l’avvincente romanzo Black No More di fantascienza razziale,  oggi ancora attuale per fronteggiare la diffusa paranoia razzista contro il nero e il diverso. Il romanzo, pubblicato nel 2006 e nel 2013 con il titolo Mai più nero dalla casa editrice Voland, è un capolavoro della letteratura afroamericana, alla pari dei classici di Richard Wright (1908-1960), Ralpf W. Ellison (1914-1994), James Baldwin (1924-1987).
    George S. Schuyler (25 febbraio 1895 - 31 agosto 1977) fu il primo giornalista di colore ad avere collaborato alle grandi testate «bianche» come il Washington Post oppure l’American Mercury. Come sottolinea M. Giulia Fabi nella postfazione, egli combatté la segregazione razziale per tutta la vita, prima come socialista democratico e poi come collaboratore delle più testate più prestigiose.
    Il romanzo non è però un’inchiesta giornalistica, ma un romanzo di fantasia razziale. Ambientato nel quartiere di Harlem degli anni Trenta del secolo scorso, esso narra la storia di Max Disher, un giovane agente assicuratore nero con la passione delle ragazze bianche: un vezzo che lascia insoddisfatte le sue pretese seduttive. L’ennesimo fallimento di un amore incontrastato e il rifiuto da parte di una avvenente bionda lo spinge ad assumere una decisione drastica, quella di trasformare il suo colore della pelle. Informato che uno scienziato nero, Junius Crookman, ha scoperto un nuovo trattamento di trasformare i neri in bianchi, Disher decide di diventare un vero bianco per conquistare l’avvenente bionda e superare le sue resistenze. Così si rivolge al medico per ricevere il trattamento nella sua famosa clinica sovrastata dalla scritta Mai più nero. Poi, divenuto bianco, si reca ad Atlanta, città della giovane bionda razzista per godere del suo nuovo privilegio, assaporare l’amore della sua conquista e non sentirsi più rifiutarsi con l’appellativo di «sporco negro».
    La storia amorosa del donnaiolo Max Disher offre la possibilità allo scrittore di descrivere l’ambiente americano, intriso di razzismo e di rancore verso il diverso. La cancellazione del marchio scritto nel colore della pelle, dice Schuyler, potrebbe sprofondare l’America nel caos economico per la  scomparsa della «classe inferiore», che garantisce forza lavoro a buon mercato e un bersaglio privilegiato per scaricare l’aggressività dei bianchi poveri.

    Lo scrittore afroamericano non risparmia di rivolgere la sua devastante critica anche alla borghesia nera, ossessionata dal modello di vita americano. Una divertente satira che stupisce per la lezione offerta ai neri americani, che devono considerarsi americani e poi neri per sfuggire ai limiti culturali della società complessiva. Ma anche un insegnamento all’umanità intera sul tema del razzismo che può essere superato con la diffusione della cultura e del dialogo tra varie etnie. 

  • IL SOCIALDEMOCRATICO

    data: 22/01/2019 10:51

    «Giuseppe Saragat socialista torinese e statista europeo» (1898-1988) è stato ricordato ieri sera a Torino, a 30 anni dalla morte e a 120 dalla nascita, su iniziativa del «Centro Pannunzio».

    Sull’ex presidente della Repubblica esistono molto biografie, tra le quali le più interessanti sono: Saragat e il socialismo italiano dal 1922 al 1946 (Marsilio, Venezia 1984) di Ugo Indrio, Saragat (Eri, Torino 1991) di Antonio G. Casanova e Giuseppe Saragat (Marsilio, Venezia 2003) di Federico Fornaro.

    La biografia e l’opera di Giuseppe Saragat sono strettamente intrecciate alle vicende politiche del Novecento e alla sua «battaglia per conquistare all’idea socialista la piena qualifica di democratica, puntando alla universalizzazione delle libertà liberali» nella «difesa dei principi di libertà, democrazia e giustizia sociale». A questi valori si ispira infatti la vicenda biografica di Giuseppe Saragat dai primi indirizzi democratici fino alla sua elezione a presidente della Repubblica (29 dicembre 1964), di cui ha tracciato un interessante profilo Marcello Staglieno nel suo volume L’Italia Del Colle 1946-2006: sessant’anni di storia attraverso i dieci presidenti (Boroli editore, Milano 2006, pp. 201-221).

    Formatosi alla scuola politica del padre Giovanni Saragat (1855-1938), avvocato liberale trasferitosi nel 1882 dalla natia Sardegna a Torino, il giovane Giuseppe acquisì la sua sensibilità vero le condizioni della classe operaia, crescendo in un clima fecondo di stimoli culturali a contatto con giovani democratici come Piero Gobetti e Andrea Viglongo. La guerra del 1915-18 lo trovò nelle file dell’interventismo salveminiano, verso cui espresse un acceso fervore tanto da arruolarsi volontario. Ma la conoscenza di Claudio Treves (1869-1933) e di Bruno Buozzi (1881-1944) lo spinse ad aderire al Partito socialista unitario (Psu), costituito il 4 ottobre 1922 in seguito all’uscita dei riformisti dal Psi.
    L’esordio ufficiale di Giuseppe Saragat avvenne come rappresentante della Federazione provinciale di Torino nel convegno del Psu (28-31 marzo 1925) a Roma, dove pronunciò un discorso inneggiante al «metodo democratico» contro il regime mussoliniano e la «illegalità anarchica delle squadre armate» che negano il pluralismo politico in nome di una «stalolatria che giunge fino al crimine di stato» (cfr. Il discorso Saragat, in «La Giustizia», 31 marzo 1925, p. 1). Il suo appello ai principi democratici fu proposto come antitesi al giacobinismo dei comunisti tacciati di negare la libertà, il cui ripristino presupponeva un adeguamento dell’organizzazione partitica all’accettazione della legalità come «base stessa della immancabile rivoluzione futura».
    Sulla rivista «Il Quarto Stato», di cui il primo numero uscì il 27 marzo 1926, Saragat auspicò un’azione comune con il Psi per condurre una lotta contro la dittatura fascista, culminata alcuni mesi prima nello scioglimento del Psu e quell’anno nella negazione delle libertà individuali. Di fronte al dilagare del fascismo egli decise così di emigrare a Vienna, dove nell’aprile 1927 trovò impiego nella banca cittadina Wiener Merkur, senza trascurare lo studio e la ricerca culturale: quello viennese fu un periodo fecondo di riflessioni politiche a stretto contatto con il socialista Otto Bauer (1881-1938) e alla sua elaborazione dell’austromarxismo. Questo permise a Saragat di comprendere la natura totalitaria del bolscevismo e dei mezzi spietati adoperati da Stalin per detenere il potere. Dal contatto con gli austro-marxisti egli trasse le sue riflessioni poi elaborate nel settembre 1929 in un saggio dal titolo Marxismo e democrazia (ESIL, Edizioni Sala dell’Italia Libera).
    In questo saggio Saragat ribadisce il nesso tra democrazia e libertà, senza la quale essa diventa «un vuoto formalismo» da diffondere tra i cittadini: riflessione che riprende in una serie di articoli pubblicati sul periodico «Rinascita Socialista» di Giuseppe Emanuele Modigliani (1872-1947). Il 19 aprile del 1930 invia una «lettera aperta» all’«Avanti!», diretto in quell’anno da Pietro Nenni (1891-1980), per superare la scissione del 1922 e impedire il successo del massimalismo sostenuto da Angelica Balabanoff (1869-1965). Nella Carta dell’unità, approvata nel Congresso di Parigi (20-21 luglio) auspica una convergenza unitaria con il nucleo operativo diretto da Nenni, a cui danno il consenso di Claudio Treves e di Filippo Turati (1857-1932). 
    Nella sua relazione Saragat propone una lucida analisi del fascismo, considerato «un prodotto dello sviluppo organico della economia capitalistica» che «non può essere sostituito a base di decreti», ma solo attraverso l’azione di un partito in grado di promuovere un’alleanza organica di tutte le forze progressiste e richiamare la classe operaia alla coscienza del suo compito storico. Le cause del fascismo, che egli attribuisce ad una «mancata rivoluzione liberale italiana», possono essere superate sul piano politico dall’alleanza tra repubblicani e socialisti, senza mai dimenticare il nesso tra democrazia e socialismo.
    Critico verso il liberal-socialismo di Carlo Rosselli e le posizioni antimarxiste sostenute nel saggio Socialismo liberale (1930), Saragat rimane fedele al materialismo storico non sempre valutato nella sua intrinseca essenza. La sua critica è rivolta anche ai comunisti per la loro incomprensione della libertà, elemento che può far sorgere uno spirito rivoluzionario in grado di coniugarlo con la lotta di classe. Lungo gli anni Trenta Saragat pubblica una serie di articoli sull’«Avanti!» e su «La Libertà», con quali ribadisce questo nesso inscindibile in un’aspra polemica con i comunisti per la loro sottomissione alla centrale moscovita.
    Tuttavia, sul patto d’azione tra Psi e Pci, Saragat difende l’unità tattica, unica via per sottrarre i comunisti alla loro visione politica catastrofica e per favorire il loro processo di «socialdemocratizzazione». Nel volume L’Umanisme marxiste (ESIL, Marsiglia 1936), egli si distanzia dalla lettura comunista di Marx, interpretato anche alla stregua di Benedetto Croce come «canone di interpretazione storica» utile alla conoscenza della società umana. Non rinuncia però a rivolgere una critica al bolscevismo e ai piani quinquennali sovietici, nei quali vede un’accelerazione forzata del ritmo di sviluppo economico a detrimento dei lavoratori e un inevitabile inasprimento del regime poliziesco.
    La guerra civile spagnola, cominciata nel luglio 1936, conferma la proposta di Saragat di un ampio fronte antifascista, che è così riproposto a sostegno della lotta contro il franchismo e in difesa del messaggio «Oggi in Spagna, domani in Italia» che Carlo Rosselli (1899-1937) lancia proprio durante la torbida vicenda spagnola. Il terzo congresso dei socialisti in esilio, tenuto a Parigi dal 26 al 28 giugno 1937, si caratterizza per il serrato confronto tra i sostenitori dell’alleanza con i comunisti e i critici verso l’immediato passaggio del loro partito nell’ambito dell’unità d’azione. Un confronto che non impedisce a Saragat di rivolgere una critica devastante alle purghe staliniane e ai processi di Mosca del 1938.
    Lo scoppio della Seconda guerra mondiale accentua la critica all’Unione sovietica che, per Saragat, ha instaurato un regime poliziesco e burocratico alla stregua delle analisi politiche espresse da Bruno Rizzi (1901-1977) nel suo volume La burocratisation du monde (Paris 1939). Ma il mutato clima, provocato dall’aggressione nazista all’Unione sovietica, favorisce un clima più distensivo tra socialisti e comunisti, che porta alla firma comune di un appello per la costituzione di un fronte nazionale antifascista.
    Alla caduta di Mussolini, Saragat ritorna nel 1943 a Roma, dove contribuisce alla ricomposizione del Partito socialista e alla rinascita dell’«Avanti!». Arrestato dai tedeschi il 18 ottobre, egli viene tradotto nel carcere di Regina Coeli, dove è rinchiuso per quattro mesi, insieme a Sandro Pertini e a Carlo Andreoni (1901-1957). La vicenda, raccontata nei libri Saragat. Il coraggio delle idee (Roma 1984?) di Vittorio Statera, coinvolge Giuliano Vassalli (1915-2009) e Massimo Severo Giannini (1915-2000), l’uno futuro presidente della Corte costituzionale e l’altro futuro ministro della Funzione Pubblica.
    Condirettore dell’«Avanti!», con Nenni direttore, Saragat contribuisce al rilancio del giornale socialista, che nella prima metà del 1946 raggiunge le 100 mila copie. Ministro senza portafoglio nel governo presieduto da Ivanoe Bonomi (18 giugno-12 dicembre 1944), poi ambasciatore a Parigi (15 marzo 1945-23 marzo 1946), egli è deputato all’Assemblea costituente e suo presidente con 401 voti su 468. Sostenitore dell’assoluta autonomia socialista e dei valori democratici dell’Occidente, Saragat ribadisce il nesso tra democrazia e socialismo, interpretando il marxismo in chiave umanistica come unica visione in grado di recuperare la tradizione riformista del socialismo italiano.
    In quest’ottica deve essere inquadrata la cosiddetta «scissione di Palazzo Barberini» (11-12 gennaio 1947) e la costituzione del Partito socialista dei lavoratori italiani (Psli), cui aderiscono 52 parlamentari su 115, la maggioranza della giovanile socialista e un cospicuo numero di militanti attratti dal verbo anticomunista e dal «massimalfusionismo della maggioranza». L’anno successivo Saragat, durante le elezioni politiche del 18 aprile, assume una posizione critica verso il «Fronte Democratico Popolare», provocando le invettive dei comunisti: in un intervento alla Camera viene definito da Gian Carlo Pajetta un «traditore del socialismo».
    Tra il 1948 e la sua nomina a presidente della Repubblica Saragat vive gli episodi più significativi del socialismo italiano nella ricerca dell’unità socialista: l’incontro del 25 agosto 1956 a Pralognan con Nenni segna l’inizio di un processo che porta alla costituzione di un partito unitario che si conclude solo nella costituzione del PSU realizzatosi nel XXXVII congresso (ottobre 1966). Per l’occasione egli suggerisce a Nenni di inserire nella «Carta dell’unificazione socialista» l’appello ai valori «universalmente umani» e agli ideali «di libertà, di giustizia e pace», come pure il richiamo alla collaborazione tra forze democratiche e cattoliche per avviare una politica riformista.
    Come presidente della Repubblica (28 dicembre 1964-29 dicembre 1971), Saragat osservò la divisione dei poteri con il rispetto dei vari organi costituzionali e non rinviò mai un provvedimento alla Camere per riesame, conferendo sempre l’incarico di formare il governo ai membri indicati dalla maggioranza parlamentare. L’esperienza del Centro-sinistra fu vissuta come formula di governo in grado di condizionare i processi di trasformazione sociale nell’ambito di una visione democratica contraria ad ogni forma di violenza e all’insegna di un riformismo inteso come fattore di crescita economica e culturale.

  • LUIGI STURZO
    E CARLO ROSSELLI

    data: 18/01/2019 17:49

     La storiografia contemporanea ha dedicato scarsa attenzione al fecondo rapporto di amicizia che unì Sturzo a Rosselli, l’uno prete cattolico con un profondo attaccamento alla sua missione sacerdotale, l’altro laico con sporadiche simpatie ebraiche d’ascendenza familiare[1]. Seppure di convinzioni politiche e ideali diverse, i due intellettuali furono accomunati da una forte riflessione sul ruolo della religione nella società, sulla questione cattolica e sul rapporto tra cristianesimo e socialismo. La salda difesa dei valori della libertà e della democrazia, proprio per le vicende storiche del loro tempo, s’intrecciò a considerazioni critiche sulla guerra e su altri aspetti peculiari come la crisi dello Stato liberale, la genesi del fascismo e la natura dei totalitarismi. Ma alla base del loro sodalizio politico non vi fu soltanto l’impellente necessità di comprendere e superare la triste realtà del fascismo come forma nuova di dittatura totalitaria, ma anche la comune condizione di esuli[2], che investì la loro esistenza in una ferma condanna dello Stato oligarchico e in un confronto delle dittature con le democrazie moderne per una proposta nuova sulla gestione politica della società.
    Il primo incontro di Rosselli e Sturzo può essere collocato nell’ottobre 1924, quando entrambi si trovavano nella capitale inglese, l’uno per motivi di studi e l’altro in esilio su consiglio della segreteria di Stato vaticana. La loro conoscenza - come si ricava da una lettera di alcuni anni dopo[3] - avvenne nella casa di Angelo Crespi (1878-1948), un ex socialista turatiano già collaboratore della rivista «Critica Sociale», poi avvicinatosi agli ambienti del popolarismo sturziano[4]. A quel tempo Rosselli non era un «oscuro studentello»[5], ma un fine intellettuale, che aveva insegnato economia politica alla università Bocconi di Milano e stretto rapporti personali e politici con Turati, Treves, Modigliani e Matteotti[6]. Seppure critico verso la tattica attendista dei leaders riformisti, egli diede prova di un perspicace realismo politico, che lo condusse ad analizzare con sorprendente lucidità la strategia aventiniana e a proporre una coalizione centrista tra liberali, popolari e socialisti contro l’incipiente dittatura fascista[7]. L’attenzione verso l’opera di Sturzo nacque - oltre che da questa necessità politica contingente - da una particolare simpatia al suo metodfo liberale intonato a vive istanze riformatrici e ad una visione «dinamica» della lotta sociale. Sulla scia delle valutazioni gobettiane[8], Rosselli guardò con favore al «progressimo laico» di Sturzo, anche se rivolse forti critiche alle proposte collaborazionistiche del sindacalismo cattolico. Lo spirito neo-corporativo, la «Chiesa romana come decisa sostenitrice della proprietà», la sua visione rigidamente interclassista furono alcuni tra gli aspetti criticati dal giovane Rosselli, che respinse il collettivismo burocratico e il determinismo marxista, intesi - come scriverà nel 1926 sul «Quarto Stato» - quali riflessi laici della «divina provvidenza dei cattolici»[9]. Comunque, l’auspicio di una vasto accordo governativo tra le forze antifasciste si consolidò in uno sforzo teorico, il cui aspetto fondamentale era quello di conciliare i principi socialisti con il liberalismo moderno per porre le basi di una moderna democrazia incardinata sul metodo liberale e su una crescente giustizia sociale[10].   
    Similmente Sturzo, prima d’imboccare la via dell’esilio, auspicò una fattiva collaborazione politica tra popolari e socialisti e propose un’azione politica comune, fortemente osteggiata dalle autorità ecclesiastiche che - ritenendola «né conveniente, né opportuna, né lecita» - elogiarono l’opera del governo Mussolini nei riguardi della religione[11]. La tenace intransigenza contro il regime mussoliniano e l’auspicato accordo fra popolari e socialisti costrinsero Sturzo all’esilio «per desiderio della S. Sede»[12] e alla scelta di Londra come sede della sua permanenza all’estero. Fu proprio alla fine dell’ottobre 1924 che Sturzo e Rosselli ebbero modo di conoscersi nella casa di Angelo Crespi, ma non si può escludere che qualche incontro sia avvenuto in precedenza e neppure che la loro corrispondenza epistolare - certamente «tra le più belle e nutrite che si conservino»[13] - sia iniziato nel novembre 1929[14]
    Durante il secondo soggiorno nella capitale britannica (4 settembre - 24 novembre 1924), Rosselli incontrò Sturzo, F. Adler, Ramsay Mac Donald, ma ebbe modo di arricchire il suo patrimonio culturale per i frequenti viaggi nell’intera isola e per il contatto diretto con la realtà politica inglese. La sua attenzione fu rivolta al movimento operaio inglese e al rapporto tra liberalismo e democrazia in un intreccio di motivazioni e di analisi che nascono - come giustamente è stato messo in rilievo - «da un’esigenza di riflessione originata nel contesto delle classi dirigenti liberali e dall’avvento al potere del fascismo»[15]. Di queste esperienze lasciò un ricca testimonianza negli articoli apparsi sull’organo «La Giustizia» diretta da Claudio Treves e nota certamente a Sturzo[16]. In questi articoli, come nelle lettere inviate alla madre, possono essere colte le linee principali del programma di Rosselli, che caratterizzerà la sua azione antifascista negli anni del «Non Mollare» (1925) e de «Il Quarto Stato» (1926)[17]. Proprio a questa intensa attività politica fu collegata la decisione di Mussolini di varare le leggi eccezionali del novembre 1926, scaturite - come egli stesso ammise più tardi - dalla preoccupazione dettata dalla «presenza di Nenni e di Rosselli nel quadro politico del raggruppamento socialista-repubblicano»[18]. Il varo delle cosiddette «leggi fascistissime» e la soppressione di ogni residua libertà di stampa non scoraggiò il socialista fiorentino, che intraprese una lotta più radicale contro il fascismo. Carlo Rosselli, insieme a R. Bauer e a F. Parri, organizzò una rete clandestina degli espatri, contrapposta a quella fascista già operativa sul piano della repressione politica. Nella notte tra l’11 e il 12 dicembre essi misero in atto la fuga di Turati verso la Corsica. Al rientro in Italia la mattina del 14 dicembre 1926 Carlo fu arrestato, rinchiuso prima nel carcere milanese di San Vittore e inviato poi al confino per essere processato l’anno successivo a Savona. Lo stesso Mussolini intervenne per farlo relegare al confino di Lipari, dove rimase sino al 27 luglio del 1929 e alla fuga dall’isola.
    Le sue imprese, largamente diffuse sulla stampa inglese, dovevano essere note al sacerdote calatino, che seguì l’espatrio clandestino di Turati, il processo di Savona e la «romantica evasione»[19] - come la definì Sturzo - dall’isola siciliana. Negli anni dell’esilio londinese Sturzo rifiutò l’invito della Santa Sede a non svolgere politica attiva[20]: tenne numerose conferenze, pubblicò libri e contribuì a tenere in vita un comitato di assistenza per i profughi politici, con lo scopo di «raccogliere, di aiutare e di unirli nella reazione fascista»[21]. La sua inazione e i momenti di cedimento furono dovuti all’opposizione delle autorità ecclesiastiche, che cercarono di ostacolare la costituzione del Ppi in esilio e di vietare ai cattolici la lotta intrapresa contro il regime mussoliniano. Le iniziative sturziane, certamente, non eguagliarono quelle di altri raggruppamenti politici in esilio come la «Concentrazione antifascista» o il movimento di «Giustizia e Libertà», ma diedero un indubbio contributo alla penosa vita dei profughi antifascisti.
    Carlo Rosselli, fuggito da Lipari il 27 luglio 1929 con Emilio Lussu e Francesco Fausto Nitti, giunse ai primi di agosto a Parigi, dove insieme ad alcuni fuorusciti diede vita al movimento di «Giustizia e Libertà». Suo obiettivo primario, come precisò due mesi dopo in un’intervista all’organo repubblicano «L’Italia del Popolo», era quella di coordinare l’attività antifascista e intraprendere una lotta a oltranza contro il regime fascista per il ripristino della legalità in Italia[22]. Così entrò in contatto con lo sparuto gruppo dei popolari, animati da Giuseppe Donati (Granarolo di Faenza - Ravenna, 15 gennaio 1889 - Parigi, 16 agosto 1931) e da Francesco Luigi Ferrari (Modena, 31 ottobre 1889 - Parigi, 2 marzo 1933), entrambi in esilio per sfuggire alla persecuzione fascista[23]. Nel fondo Luigi Sturzo, depositato presso l’omonimo istituto, c’è un’importante lettera di Ferrari, in cui si parla di un suo incontro con Rosselli e del progetto di fondare una rivista in grado di «riunire gli spiriti liberi dell’immigrazione attorno ad un programma di azione culturale e politica»[24]. Dell’incontro con Rosselli, avvenuto a Bruxelles nel settembre 1929, Ferrari informò Sturzo, il quale accolse l’invito di dar vita a un progetto editoriale, diretto a «stampare lavori seri di emigrati da diffondersi, in edizioni o francesi o inglesi, all’estero e da far penetrare, in edizione italiana, anche in Italia»[25].
    Il rapporto amicale e culturale tra i due leaders antifascisti è testimoniato dalla lettera che il 12 ottobre 1929 Carlo Rosselli scrisse a Sturzo per chiedergli una recensione al volume di Nello su Mazzini e Bakounine[26] da pubblicare nella rivista inglese «The Review of Reviews» diretta da Henry Wickham Steed[27]. La lettera, postdatata erroneamente di un mese da Carlo Rosselli, suonava così: «Gent.mo Signor Sturzo, mio fratello Nello […] credo che sarebbe incantato di poter avere una sua recensione. Ma non so se lo Steed potrà e vorrà pubblicarla»[28]. Sturzo, dal suo esilio londinese, si rivolse a Steed, che espresse parere favorevole sulla recensione del libro. L’insigne storico inglese, già direttore del «Times», era noto a Carlo Rosselli, il quale apprezzava molto il suo interesse per l’antifascismo e considerava il legame solidaristico con gli esuli come un importante punto di riferimento in tutta la Gran Bretagna. Prima di scrivere la recensione, Sturzo chiese a Salvemini informazioni sul giovane storico «sia come studioso sia come deportato» [29]. Lo storico pugliese passò la missiva a Carlo Rosselli, che il 12 ottobre informò Sturzo sull’attività storica del fratello e lo mise al corrente delle peripezie sofferte negli ultimi anni tra carcere e confino politico, annunciandogli anche l’intenzione di recarsi il 26 novembre a Londra. Prima che la recensione al volume del fratello fosse pubblicata, Rosselli incontrò il 27 Sturzo, con il quale discusse il progetto di una rivista antifascista diretta a denunciare il connubio tra Chiesa e governo fascista.
    Alcuni densi appunti, riconducibili secondo Zunino proprio ai primi anni dell’esilio (all’incirca al biennio 1929-1930), «testimoniano il nuovo e diverso interesse» di Rosselli sulla presenza cattolica nella società italiana[30]. Se è vero che Rosselli - forse stimolato dal dialogo con Sturzo - prestò una particolare attenzione al dibattito che precedette e seguì la stipulazione dei patti lateranensi, non si può dire che fosse nuovo il suo interesse alla storia sociale della Chiesa, come risulta dalle pagine dedicate al «sindacalismo cristiano» nella sua prima dissertazione di laurea (1921)[31].
    Tuttavia l’incontro del 27 novembre non approdò a nulla di concreto[32]; anzi l’iniziativa di fondare una rivista comune ebbe un esito fallimentare per i contrasti insorti tra laici e cattolici sul ruolo della Chiesa e sui suoi rapporti con il fascismo dopo il Concordato stipulato nel febbraio 1929. Ma il fallimento dell’iniziativa non impedì ai due esuli antifascisti di continuare il loro sodalizio politico e di intensificare la loro corrispondenza. Nel gennaio del 1930 l’uscita della recensione sturziana cementò i loro contatti che, ormai trasformatisi in una sincera amicizia, portarono l’animatore di «Giustizia e Libertà» non solo ad apprezzare l’«anima nobile e delicata» e la «bella intelligenza» del sacerdote siciliano, ma anche a scoprire uno «Sturzo, intimamente assai più liberale di quanto non supponesse»[33]. Anche il fratello Nello rimase abbastanza sorpreso degli elogi sperticati del prete siciliano[34], come risulta dalla lettera che il 17 marzo 1930 scrisse alla madre in termini lusinghieri: «Mi scrivono che Sturzo ha lungamente recensito il mio libro sulla “Review of review”! Ma vedi che uomo celebre»[35]
    Sul piano politico la collaborazione di Rosselli con Sturzo e i suoi discepoli prediletti Donati e Ferrari sfociò in un vero e proprio sodalizio culturale e politico. Come prova valga la testimonianza di Ferrari che nel settembre del 1930 - insieme a Turati, Nitti, Tarchiani e Marion Rosselli - si pronunciò, con un gesto non condivisibile da Sturzo, a favore di Fernando De Rosa, processato a Bruxelles con l’accusa di aver attentato alla vita del principe Umberto di Savoia[36]. Sul piano ideale vi è anche il giudizio che Ferrari espresse l’8 febbraio 1931 in una lettera a Donati sul volume rosselliano Socialisme libéral:
     
    Il libro di Rosselli, Socialisme libéral, ha provocato il putiferio tra i Concentrati parigini. I fedeli marxisti vorrebbero protestare violentemente; ma come si fa a protestare violentemente contro Rosselli? E’ una vera tragedia … Il libro val la pena di leggerlo; è il migliore fino ad ora apparso nella collezione di Valois. Se nella parte ricostruttiva è lungi dall’essere esauriente e completo, la parte critica è efficace e condotta con rigore e solide argomentazioni. In fondo, la posizione che assume Rosselli nella parte critica può essere quasi interamente accettata anche da noi, ed è in molta parte una “ripresa” delle argomentazioni da noi svolte contro lo pseudo-marxismo e la pseudo-scienza marxistica italiana[37].
     
    Negli anni 1930-31 Rosselli finanziò la pubblicazione dei due opuscoli di Ferrari Ai parroci d’Italia[38] quasi a testimoniare il pieno accordo con le sue tesi. Nel primo opuscolo Ferrari denunciò il connubio tra la dittatura fascista e le gerarchie ecclesiastiche, mettendo in rilievo anche l’asservimento di molti sacerdoti al regime e i privilegi accordati al clero. Nel secondo opuscoloFerrari rivolse un invito ai parroci, affinché esprimessero una ferma condanna dell’«odiato governo» fascista costituito da una «oligarchia di dominatori». La vigorosa condanna si univa ad alcuni preziosi consigli «per esercitare il diritto di resistenza ad un regime», che ha soppresso ogni forma di libertà (associazione, stampa, insegnamento etc.); che ha soffocato «l’attività intellettuale, artistica, economica del paese e che controlla, grazie ad una perfetta organizzazione investigativa, l’istessa vita privata dei cittadini»; che ha abolito l’istituto parlamentare e, soprattutto, ha schiavizzato la Chiesa trasformandola in «Chiesa dello Stato fascista»»[39].
    Gli opuscoli, che furono diffusi in Italia dai militanti di «Giustizia e Libertà», ebbero la cauta e riservata approvazione di Sturzo, che commentò: «Ho letto la pastorale che ti rimando; molto bene, anche come imitazione di stile; però qua e là si vede il laico: ma va meglio; non diranno che è mia»[40]. Il favore con cui Sturzo accolse le denunce di Ferrari sembrò trascurare la sua posizione sul Concordato, di cui l’antifascista modenese chiese l’immediata abolizione per i «molti danni spirituali» arrecati alla Chiesa[41].       
    Nel luglio 1932 il nuovo assetto politico europeo, con l’ascesa al potere di Antonio Salazar de Oliveria in Portogallo e il successo nazionalsocialista di Adolfo Hitler, gettò nello sconforto Rosselli, che considerò quest’ultimo evento come un coaugulo d’interessi corporativi e di veleni razzistici «ancora più brutale e povero di ideali del fascismo italiano»[42]. Il 2 settembre dello stesso anno Rosselli, riferendo alla moglie d’un incontro con il prete calatino e la sua assistente Bertha Pritchard, le scrisse che «anche Sturzo è assai pessimista sulla situazione e ha, come me, la sensazione che ci troviamo di fronte a una svolta storica»[43]. La dittatura mussoliniana era strettamente collegata da Rosselli ai gravi accadimenti che si stavano verificando in Europa e inquadrata nel più vasto orizzonte della crisi delle democrazie europee:
     
    La situazione europea è tragica. La incapacità delle democrazie di governo e soprattutto dei partiti socialisti di aderire alla realtà, la illusione che la politica estera briandista possa ancora trionfare in un’Europa per metà fascistizzata, il passivismo totale di fronte alle iniziative hitleriane, se procrastineranno l’urto, lo renderanno infinitamente più terribile e incerto di qui a due o tre anni[44].
     
    Di fronte al crescente pericolo della minaccia hitleriana, denunciato con straordinaria lungimiranza, Carlo Rosselli criticò l’attendismo dell’Inghilterra e della Francia in una sequela di denunce che riprenderà nel biennio successivo, facendone partecipe lo stesso Sturzo e coinvolgendolo su molteplici temi come quelli relativi alla politica estera, alla libertà d’insegnamento, all’atteggiamento della Chiesa sulla guerra etiopica, alla persecuzione degli ebrei e persino alla vita della Concentrazione.
     
    La Concentrazione - scrisse Rosselli a Sturzo il 14 marzo 1934 - è in piena crisi e mi pare difficile che possa sopravvivere. I socialisti sono sempre più preoccupati del nostro movimento e prendendo a pretesto un articolo personale di Lussu (a cui si potrebbero contrapporre infinite altre loro manifestazioni) vorrebbero ridurci a un gruppo di leva castagne dal fuoco per i begli occhi di Modigliani e di Nenni[45].
     
    L’«articolo personale» di Lussu, apparso nella sezione dei «Quaderni» dedicata alle «Discussioni del nostro movimento»[46], inasprì i rapporti tra GL e PSI e diede il colpo finale alla Concentrazione. Le osservazioni critiche di Rosselli, certamente non assimilabili a quelle di Lussu sulla «presunta impotenza dei socialisti di fronte all’avanzata del fascismo negli anni del dopoguerra», trovarono nel prete calatino un interlocutore sordo, che si sentiva più a suo agio nel dibattito relativo al programma politico del Ppi. Un articolo di Rosselli, apparso anonimo su «Giustizia e Libertà» (1° febbraio 1935), fornì a Sturzo l’occasione d’intervenire su una questione che gli stava particolarmente a cuore: quella della libertà d’insegnamento. La critica di Rosselli alla politica scolastica del Ppi non investiva solo l’uso strumentale della libertà d’insegnamento, ma - come aveva già fatto Ferrari[47] - intendeva sollevare la questione dell’«istruzione religiosa obbligatoria» concessa dallo Stato fascista al Vaticano[48]. Ma la questione fu evasa da Sturzo, che cercò di spostare il dibattito da un piano strettamente politico a quello storico[49]. La polemica assunse toni più aspri nei mesi successivi di fronte alle posizioni assunte da Sturzo sull’imminenza della guerra contro l’Etiopia da parte del governo fascista. Con argomentazioni di carattere teologico piuttosto che politico, Sturzo cercò di dissociare la posizione del Vaticano da quella del fascismo, richiamando l’insegnamento di S. Tommaso sulla guerra giusta. Il prete siciliano, in un articolo apparso sul periodico spagnolo «El Matì» il 21 febbraio ’35 e ripreso il 31 marzo dall’organo francese «L’Aube», confinò la questione della guerra nel limbo della coscienza individuale dopo aver osservato che nell’acme della dittatura fascista «ogni voce libera, ogni discussione franca, ogni possibilità di dissenso, sono soppresse: così il problema di coscienza se una guerra sia giusta o no rimarrà chiuso nel pensiero di ciascuno; e non potrà essere risolto sul piano della moralità pubblica»[50]. Il 12 giugno dello stesso anno spostò il nucleo del suo discorso e, rammaricandosi dell’atteggiamneto passivo della Francia e dell’Inghilterra, auspicò una «cooperazione internazionale stabile e solidale»[51]
    Le posizioni di Sturzo nei riguardi dell’ultima impresa coloniale italiana suscitarono una vasta eco negli ambienti episcopali italiani[52] ed offrirono l’occasione a Rosselli e ai suoi collaboratori di «Giustizia e Libertà» di ritornare sulla guerra d’Etiopia. Il 21 giugno 1935, nella rubrica Stampa amica e nemica, il settimanale giellista riportò alcuni brani dell’articolo di Sturzo sull’«Aube», seguito da questo commento:
     
    Ah, no, Sturzo. La Chiesa non ha taciuto. I vescovi benedicono i gagliardetti delle truppe partenti, l’«Osservatore Romano» riporta senza un commento tutte le notizie della guerra prossima e il Papa, ricevendo proprio in questi giorni 5.000 granatieri venuti a Roma per essere arringati dal duce con accenti di guerra, non solo non ha avuto una parola contro la guerra, ma li ha lodati per avere dato tante belle prove in guerra divertendosi a stabilire l’origine del loro nome: «lanciatori di granate». Tanto rispetto personale abbiamo per Sturzo quanto disprezzo per la Chiesa a cui egli conserva una così figliale obbedienza[53].
     
    Dopo questa valutazione, certamente ad opera del suo direttore, Sturzo inviò due lettere a Rosselli, una personale e un’altra destinata alla pubblicazione. Nella prima egli, dopo aver richiamato una frase pontificia contro «le nazioni (stati che vogliono la guerre (al plurale», accusò il gruppo giellista di perseguire finalità illiberali di «anti-cattolicismo che suona(vano) come antireligiosità», avanzando il non coltivato e sibillino timore che esso coltivasse «l’idea arrogante e insulsa di Hitler o degli hitleriani di creare una religione pagana di Stato, ovvero l’idea dei bolscevichi di fare una lega degli anti-Dio e dei senza-Dio»[54]. Nella seconda Sturzo impostò il discorso su un piano più articolato, ma sempre diretto a giustificare la politica del pontefice, che alla condanna della guerra dedicò due suoi interventi:
     
    Il papa - scrisse il prete calatino - ha parlato recentemente contro la guerra due volte (non ho il tempo di ricercarne le date), in forma solenne avanti ai Cardinali, quando accennando al riarmamento ed alle voci di guerra ha finito col citare le forti parole dei Salmi: «Dissipa gentes quae bella volunt».
    Ricordo che diversi giornali (fra i quali certamente «l’Echo de Paris») dissero che il papa intendeva alludere alla Germania. Nessuno c’impedisce di pensare che il papa avesse alluso alla guerra Italo-abissina. Certo, senza portare un giudizio di fatto sulle responsabilità particolari, egli intendeva condannare coloro che vogliono la guerra; in termini giuridici internazionali «l’aggressore.
    E’ del resto nella tradizione della Curia dalla caduta del potere temporale in poi, di non pronunziarsi a favore di uno e contro l’altro belligerante, ma di volere la pace fra tutti i popoli e di cooperarvi per quel poco che oggi è possibile.
    Non per me, ma per coloro che cerano di leggere nelle intenzioni altrui, vale la pena di riportare per intiero il versetto del Salmo 67 citato dal papa: «Disperdi le nazioni che vogliono le guerre. Verranno (allora) ambasciatori dell’Egitto, l’Etiopia stenderà le sue mani a Dio» (Traduzione, Libreria Editrice Fiorentina 1929[55].
     
    La frase ricordata, che fu pronunciata dal pontefice il 24 dicembre 1934 in occasione dell’allocuzione natalizia, venne ripresa poi nella sua diatriba con Rosselli e arricchita con le parole del versetto «Etiopia praeveniet manus eius Deo»[56].  
    Agli occhi di Rosselli appariva ambigua e non rispondente ai dettami del Cristianesimo.
    La guerra civile di Spagna trovò Rosselli e Sturzo concordi nella lotta contro Francisco Franco e il suo programma clerico-fascista[57]. Vicino alle posizioni dei grandi cattolici francesi (G. Bernanos, J. Maritain, F. Maurac, E. Mounier), Sturzo prese le distanze dalle posizioni dell’episcopato spagnolo.
     
    In tutta Europa, in tutto il mondo, la guerra civile spagnola sarà rinfacciata ai cattolici come la notte di S. Bartolomeo e come la repressione del Duca d’Alba nelle Fiandre. Ne abbiamo avuto troppo dell’Inquisizione di Spagna, (quasi sempre in mano ai re e a scopo politico) per avere oggi i crociati spagnoli contro un popolo ch’è stato in fin dei conti abbandonato spiritualmente e socialmente e lasciato preda del socialismo e del sindacalismo ed oggi del comunismo[58].
     
    L’assassinio di Carlo e Nello, uccisi il 9 giugno 1937 a Bagnoles-de-l’Orne, rattristò grandemente Sturzo, che inviò un telegramma di condoglianze[59] e mantenne saldi i rapporti epistolari con i familiari.
     
     
     
       NOTE
        [1] Per la vasta bibliografia sui personaggi si vedano: Bibliografia degli scritti di e su Luigi Sturzo, a cura di G. Cassiani, V. De Marco, G. Malgeri, Gangemi, Roma 2001; N. Dell’Erba, Carlo e Nello Rosselli. Guida bibliografica 1917-2001, in Politica, valori, idealità. Carlo e Nello Rosselli maestri dell’Italia civile, a cura di L. Rossi, Carocci, Roma 2003, pp. 155-231.
        [2] Sulle complesse vicende del loro esilio cfr. A. Garosci, Vita di Carlo Rosselli, Vallecchi, Firenze 1973, vol. I, pp. 170-202; Stanislao G. Pugliese, Carlo Rosselli. Socialista eretico ed esule antifascista 1899-1937 cit., pp. 118-181; G. De Rosa, Luigi Sturzo, Utet, Torino 1977, pp. 240-262; F. Malgeri, Luigi Sturzo, Edizioni Paoline, Torino 1993, pp. 169-185.
        [3] Lettera di Rosselli a Sturzo, 12 novembre 1929, in Luigi Sturzo e i Rosselli tra Londra, Parigi e New York. Carteggio (1929-1945), a cura di e con introduzione di G. Grasso, prefazione di G. De Rosa, Rubbettino, Soveria Mannelli 2003, p. 46.
        [4] Su Angelo Crespi (1877 - 1949) cfr. il profilo biografico curato da M. L. Frosio, in «Dizionario Storico del Movimento cattolico», vol. III-1: Le figure rappresentative, Marietti, Casale Monferrato 1984, pp. 267-268.
        [5] G. Grasso, Introduzione a Luigi Sturzo e i Rosselli tra Londra, Parigi e New York. Carteggio (1929-1945) cit., p. 5.
        [6] S.G. Pugliese, Carlo Rosselli. Socialista eretico ed esule antifascista 1899-1937 cit., p. 32.
        [7] Su questo aspetto dell’azione politica di Rosselli la storiografia è lacunosa, ma per alcuni aspetti meritevoli di ulteriori approfondimenti cfr. N. Tranfaglia, Carlo Rosselli dall’interventismo a Giustizia e Libertà, Laterza, Bari 1968, p. 176; P.G. Zunino, Chiesa e fascismo nelle concezioni di Giustizia e Libertà (1929-1936), in Aa. Vv., Modernismo, fascismo, comunismo. Aspetti e figure della cultura e della politica del cattolici nel ’900, a cura di G. Rossini, il Mulino, Bologna 1972, p. 516.
        [8] Sui rapporti fra Gobetti e il fondatore del Ppi cfr. P. Permoli, Sturzo nei giudizi di Piero Gobetti, in Aa. Vv., Luigi Sturzo. Saggi e testimonianze, Edizioni Civitas, Roma 1960, pp. 139-149; B. Gariglio, Gobetti e Sturzo, in «Mezzosecolo. Materiali di ricerca storica», Annali 1989, n. 8, pp. 4-31.
        [9] Il brano da cui è tratto il giudizio di Rosselli si trova in N. Tranfaglia, Carlo Rosselli dall’interventismo a Giustizia e Libertà cit., p. 306.
        [10] Questo impegno teorico e politico emerge in modo nitido da una lettera a Novello Papafava (22 giugno 1923), in cui Rosselli confida all’amico di lavorare «ad una revisione in senso liberale dei metodi socialisti» e, sul piano politico, ad un incontro tra «Albertini, Sforza, Salvemini, Sturzo, Amendola, Turati», i quali «se fossero uniti nella lotta […] rappresenterebbero un nucleo di forza veramente enorme, capace, alla lunga, di rovesciare qualsiasi avversario»; cfr. la lettera, in G. Rossini (a cura di), Il delitto Matteotti tra Viminale e Aventino, il Mulino, Bologna 1966, pp. 129-130.   
        [11] Cfr. E. Rosa, La parte dei cattolici nelle presenti lotte dei partiti politici in Italia, in «La Civiltà cattolica», 7 agosto 1924, pp. 297-306, ora in P. Scoppola, La Chiesa e il fascismo. Documenti e interpretazioni, Laterza, Bari 1971, pp. 81-87. La citazione, che si trova alla p. 85, è preceduta dall’esaltazione di Mussolini, il cui governo «grazie sopra tutto alla tempra singolare dell’uomo che lo dirige […] vanta benemerenze innegabili, massime per ciò che spetta alla religione» (p. 81).
        [12] Lettera di Sturzo al card. Bourne, 15 giugno 1926, in «Archivio Luigi Sturzo», f. 141A, c. 9, cit. in F. Piva e F. Malgeri, Vita di Luigi Sturzo, prefazione di G. De Rosa, Cinque Lune, Roma 1972, p. 291 (nota 8)  
        [13] Il giudizio è espresso da G. De Rosa nel saggio Luigi Sturzo nella storia d’Italia, in Aa. Vv., Luigi Sturzo nella storia d’Italia, Edizioni di Storia e Letteratura Roma 1973, p. 94.
        [14] Lettera di Rosselli a Sturzo, 12 novembre 1929, in Luigi Sturzo e i Rosselli tra Londra, Parigi e New York cit., p. 46.
        [15] M. Degl’Innocenti, Carlo Rosselli e il movimento sindacale dalla tesi di laurea a «Socialismo liberale», La Nuova Italia, Firenze 1978, p. 57.
        [16] Per un elenco degli articoli apparsi su «La Giustizia» cfr. N. Dell’Erba, Carlo e Nello Rosselli. Guida bibliografica 1917-2001 cit., pp. 162-163
        [17] Cfr. le lettere di Carlo Rosselli alla madre (1924), in Epistolario familiare. Carlo, Nello Rosselli e la madre (1914-1937) cit., pp. 205-242.
        [18] Y. De Begnac, Palazzo Venezia. Storia di un regime cit., p. 286.
        [19] L. Sturzo, Mazzini e Bakunin, in «The Review of Reviews», 15 gennaio 1930, ora in Id., Miscellanea londinese I: (Anni 1925-30), Zanichelli, Bologna 1965, pp. 353.
        [20] Sul divieto imposto a Sturzo cfr. la lettera del cardinale Bourne, 18 marzo, 1926, in G. De Rosa, Luigi Sturzo nella storia d’Italia cit., p. 90.
        [21] F. Malgeri, Il fuoruscitismo popolare, in AA. VV., Storia del movimento cattolico, vol. IV: I cattolici dal fascismo alla Resistenza, Il Poligono, Roma 1981, p. 44.
        [22] L’intervista concessa da Rosselli a «L’Italia del Popolo» (30 settembre 1929) è ristampata in «Archivio Trimestrale», gennaio-giugno 1984, n. 1-2, pp. 103-108.
        [23] Sui due personaggi si vedano G. Ignesti, Donati Giuseppe in «Dizionario Storico del Movimento cattolico 1860-1980», vol. II: I protagonisti, Marietti, Casale Monferrato 1982, pp. 181-190 ; Mario G. Rossi, Ferrari Francesco Luigi, ibidem, pp. 201-205.
        [24] Lettera di Ferrari a Sturzo, 30 settembre 1929, ora in L. Sturzo, Scritti inediti (1924-1940), a cura di F. Rizzi, Cinque Lune, Roma 1975, pp. 247-249.
        [25] Ivi.
        [26] N. Rosselli, Mazzini e Bakounine. 12 anni di movimento operaio in Italia (1860-1872), Bocca, Torino 1927.
        [27] Su Henry Wickham Steed (1871-1956) cfr. D. Forgacs, Sturzo e la cultura politica inglese, in G. De Rosa (a cura di), Luigi Sturzo e la democrazia europea, Laterza, Roma-Bari 1990, pp. 343-346; G. Farrell-Vinay, Sturzo e l’Inghilterra, in Aa. Vv., Universalità e cultura nel pensiero di Luigi Sturzo, Rubbettino, Soveria Mannelli (Catanzaro) 2001, pp. 181-223.
        [28] Lettera di Rosselli a Sturzo, 12 novembre [ottobre] 1929, in Luigi Sturzo e i Rosselli tra Londra, Parigi e New York cit., pp. 45-47. La lettera era stata parzialmente pubblicata da S. Mastellone, Liberalismo sociale e socialismo liberale, in A. Colombo (a cura di), I colori della libertà. Il mondo di Nello Rosselli fra storia, arte e politica, FrancoAngeli, Milano 2003, p. 109.
        [29] Lettera di Sturzo a Salvemini, 4 novembre 1929, conservata in «AGL» presso l’Istituto storico della Resistenza in Toscana di Firenze, sez. I, fasc. 7, sottofasc. 4, c. 10.
        [30] P. G. Zunino, La questione cattolica nella sinistra italiana (1919-1939), il Mulino, Bologna 1975, pp. 336-337.
        [31] Cfr. il capitolo 5 della tesi di laurea (1921), intitolata «Il sindacalismo cristiano» e ripubblicata integralmente, in Carlo e Nello Rosselli. Giustizia e Libertà, a cura di G. Limiti e M. di Napoli, UIL, Roma 1993, pp. 388-402. 
        [32] Dell’incontro con Rosselli e del fallito progetto, Sturzo informò Ferrari: «Ho visto Rosselli che è stato qui. Abbiamo scambiato molte idee, e ci siamo dato un altro appuntamento»; cfr. F.L. Ferrari, Lettere e documenti inediti, a cura di G. Rossini, Edizioni di Storia e Letteratura - Edizioni Sias, Roma 1986, vol. I, p. 240.
        [33] Secondo Zunino i giudizi rosselliani si ritrovano nelle lettere a Isabel Massey (11 marzo 1933) e a Bertha Pritchard (senza data), conservate nell’«Archivio di Giustizia e Libertà» presso l’Istituto storico della Resistenza in Toscana di Firenze, Fondo C. Rosselli, 94/5-6; cfr. P.G. Zunino, La questione cattolica nella sinistra italiana (1919-1939) cit., pp. 339.
        [34] L. Sturzo, Mazzini e Bakunin, in «The Review of Reviews», 15 gennaio 1930, ora in Id., Miscellanea londinese I: (1925-30) cit., pp. 352-356.
        [35] Lettera di Nello Rosselli alla madre, 17 marzo 1930, in Epistolario familiare. Carlo, Nello Rosselli e la madre (1914-1937) cit., p. 484.
        [36] Sull’attentato di De Rosa e sul dibattito suscitato negli ambienti del fuoruscitismo cfr. M. Giovana, Fernando De Rosa dal processo di Bruxelles alla guerra di Spagna cit.; A. Morelli, Nuovi elementi sul «caso De Rosa», in «Storia contemporanea», 1987, a. XVIII, pp. 767-809.
        [37] Cfr. la lettera di Ferrari a Donati, Bruxelles 8 febbraio 1931, in Francesco L. Ferrari, Lettere e documenti inediti, a cura di G. Rossini, Edizioni di Storia e Letteratura - Edizioni Sias, Roma 1986, vol. II, p. 485.
        [38] Copia degli opuscoli si trovano in «Archivio di Giustizia e Libertà», sez. IV, fasc. 2, sottofasc. I, inserto 5, n. 4. Il secondo è ripubblicato in F. L. Ferrari, L’Azione cattolica e il “regime”, introduzione di E. Rossi, Parenti, Firenze 1957, pp. 187-199. Per un’interpretazione dei due opuscoli si vedano i giudizi negativi di Pier G. Zunino, il quale afferma che «il popolare si fece strumento degli obbiettivi del movimento di Rosselli», svalutando così il contributo che Ferrari diede all’antifascismo; cfr. Id., Chiesa e fascismo nelle concezioni di Giustizia e Libertà cit., p. 523. Il giudizio su Ferrari, non esente da forzature interpretative, sembra attenuarsi nella rielaborazione del saggio, ma è sempre improntato a una valutazione negativa; cfr. Pier G. Zunino, La questione cattolica nella sinistra italiana (1919-1939) cit., pp. 339.  
        [39] Francesco L. Ferrari, L’Azione cattolica e il “regime” cit., pp. 188, 190, 195 e 198.
        [40] Lettera di Sturzo a Ferrari, [Londra] 11 maggio 1930, in Francesco L. Ferrari, Lettere e documenti inediti, I, a cura di G. Rossini, Edizioni di Storia e Letteratura - Edizioni Sias, Roma 1986, p. 313.
        [41] F.L. Ferrari, L’Azione cattolica e il “regime” cit., p. 195. Rivolgendosi ai parroci egli affermò: «Il problema che si porrà nell’avvenire non sarà quello di conservare il Concordato anche dopo l’inevitabile ruina del regime fascista: sarà quello di liberarvi del Concordato prima ancora della caduta della dittatura» (ivi, p. 198).
        [42] C. Rosselli, Italia e Europa, in «Quaderni di Giustizia e Libertà», giugno 1933, serie II, n. 7, p. 1.
        [43] Lettera di Rosselli a Marion Cave, in C. Rosselli, Dall’esilio. Lettere alla moglie 1929-1937, a cura di C Casucci, Passigli, Firenze 1997, p. 32.
        [44] Lettera di Carlo Rosselli a Sturzo, 15 novembre 1933, in Luigi Sturzo e i Rosselli cit., p. 56.
        [45] Lettera di Rosselli a Sturzo, [Londra] 14 marzo 1934, in Luigi Sturzo e i Rosselli cit., p. 63.
        [46] Cfr. Tirreno [E. Lussu], Orientamenti, in «Quaderni di Giustizia e Libertà», febbraio 1934, serie II, n. 10, pp. 58-72. Sulle reazioni suscitate dall’articolo negli ambienti socialisti cfr. le acute osservazioni di S. Fedele, Storia della Concentrazione antifascista 1927-1934, Feltrinelli, Milano 1976, pp. 173-177.
        [47] Francesco L. Ferrari, L’Azione cattolica e il “regime” cit., p. 195.
        [48] Cfr l’articolo anonimo deve essere attribuito a Rosselli per le medesime frasi contenute in un altro di alcuni mesi dopo; cfr. Missione d’imbroglio, in «Giustizia e Libertà», 1° febbraio 1935, a. II, n. 5, p. 4; C. Rosselli, «L’Osservatore romano» risponde, ivi, 7 giugno 1935, a. II, n. 23, p. 1, ora in Id., Scritti dell’esilio II: Dallo scioglimento della Concentrazione antifascista alla guerra di Spagna (1934-1937), Einaudi, Torino 1992, pp. 177-179.
        [49] Sulla posizione di Sturzo e il suo tentativo di evadere la questione si vedano le due lettere a Rosselli: la prima, [Londra] 7 febbraio 1935, ma pubblicata il 15 marzo; cfr. Una lettera di Sturzo, con postilla di Rosselli, in «Giustizia e Libertà», 15 marzo, a. II, n. 11, p. 2; la seconda, [Londra] 21 febbraio 1935, in P.G. Zunino, Chiesa e fascismo nelle concezioni di Giustizia e Libertà cit., p. 534.  
        [50] L. Sturzo, Un problème de conscience, in «L’Aube», 31 marzo 1935, ora in Id., Miscellanea londinese, Zanichelli, Bologna 1970, vol. III, pp. 124-126.
        [51] L. Sturzo, Hipothèses et non prophéties sur le conflit italo-abyssin, in in «L’Aube», 12 giugno 1935, ora in Id., Miscellanea londinese, vol. III cit., pp. 154-159. Sulle posizioni di Sturzo e il dibattito sulla questione abissina negli ambienti cattolici francesi cfr. F. Mayeur, L’Aube. Studio di un giornale d’opinione (1932-1940), Cinque Lune, Roma 1969, pp. 199-217 (I° ed. francese: Colin, Paris 1966). 
        [52] Per un quadro complessivo si veda lo studio di R. Moro, Azione cattolica, clero e laicato di fronte al fascismo, in Aa. Vv., Storia del movimento cattolico cit., pp. 308-320. 
        [53] Cfr. Sturzo e la guerra d’Africa, in «Giustizia e Libertà», 21 giugno 1935, a. II, n. 25, p. 4. L’episodio cui si riferisce avvenne il 15 giugno 1935, quando Pio XI celebrò nell’aula delle Benedizioni una messa per gli iscritti all’Associazione dei Granatieri d’Italia, rivolgendo loro un breve discorso di saluto; cfr. Il Sommo pontefice celebra il Divin Sacrificio, in «L’Osservatore Ropmano», 16 giugno 1935, p. 1. 
        [54] Lettera Personale di Sturzo a Rosselli, Londra 23 giugno 1935, in  Luigi Sturzo e i Rosselli cit., p. 74. Una distorsione del pensiero sturziano si trova nelle considerazioni di Zunino, che mutila la lettera nella sua parte più significativa; cfr. P.G. Zunino, La questione cattolica nella sinistra italiana (1919-1939) cit., p. 411.
        [55] Cfr. Il Vaticano e la guerra. Un’altra lettera di Luigi Sturzo, in «Giustizia e Libertà», 5 luglio 1935, a. II, n. 27, p. 3.
        [56] Cfr. L. Sturzo, Miscellanea londinese, vol. III, p. 172.
        [57] Per le posizioni di Rosselli e Sturzo sulla guerra civile spagnola cfr. L. Pala, I cattolici francesi e la guerra di Spagna, Argalìa, Urbino 1985; G. Campanini, Una battaglia per la libertà della Chiesa. Luigi Sturzo e la guerra di Spagna, in Aa. Vv., I cattolici italiani e la guerra di Spagna, a cura di G. Campanini, Morcelliana, Brescia 1987, pp. 167-194; G. Canali, L’antifascismo e la guerra civile spagnola, Manni, San Cesareo di Lecce 2004, pp. 11-37.
        [58] Lettera di Sturzo al direttore del «Matì» di Barcellona, 12 ottobre 1936, in L. Sturzo, Scritti inediti (1924-1940), II, a cura di Franco Rizzi, Edizioni Cinque Lune, Roma 1975, p. 435. Pubblica 11 lettere di Rosselli a Sturzo.
        [59] Il telegramma di Sturzo, pubblicato sull’organo del movimento giellista, esprimeva «le profonde condoglianze alle due desolate famiglie»; cfr. «Giustizia e Libertà», 18 giugno 1937, p. . G. Ranzato, Bollati Boringhieri, Torino 2004; De Rosa, Antifascismo e Resistenza ; V. Clemente, Luigi Sturzo e la politica centro-europea…, in «Rassegna di politica e storia», agosto 1965. 

  • IL RICCO EBREO
    E LA GIOVANE ARIANA

    data: 14/01/2019 18:05

    Giudici opportunisti, coinquilini delatori, carrieristi imbelli si stagliano nella vicenda sentimentale tra Lehmann (Leo) Katzenberger (25 novembre 1873 -3 giugno 1942) e Irene Scheffler (26 aprile 1910 - luglio 1984). La storia della loro amicizia, maturata nel clima persecutorio della Germania nazista, è ora narrata nel romanzo Il caso Kaufmann (Rizzoli, Milano 2019, pp. 382) di Giovanni Grasso, già noto per i suoi molteplici lavori storici e per la sua collaborazione al quotidiano cattolico «Avvenire».
    La conoscenza tra il presidente della Comunità ebraica e la giovane tedesca inizia nel dicembre 1933, in seguito ad una lettera inviata dal padre Kurt. Egli si rivolge all’amico, chiedendogli di assistere la figlia e di aiutarla ad inserirsi nel nuovo ambiente di Norimberga, dove si stabilisce per svolgere l’attività di fotografa. La giovane Irene riceve così in affitto un appartamento dal ricco possidente, che rimasto vedovo per la morte della moglie cerca una compagnia per uscire dal grigiore della sua vita quotidiana. Se questa compagnia si sia trasformata in una relazione amoroso sembra improbabile per il vincolo amicale con il padre, per la differenza d’età e per le misure antiebraiche introdotte nel 1935 e dirette alla proibizione della cosiddetta Rassenschande («rapporto sessuale con un’ariana» ).
    Sul «Corriere della Sera» (14 gennaio 2019, p. 39), Aldo Cazzullo scrive un farraginoso e prolisso articolo, riportando date erronee ed offrendo al lettore riflessioni strane sulla lettura del romanzo. Irene Scheffler, che nel 1939 sposerà un venditore di auto, ha quasi ventiquattro anni (non una «ragazza di vent’anni» ) e non si stabilisce a Norimberga per «studiare fotografia», ma per aprire «uno studio fotografico» secondo la versione data nel libro L’ebreo e la ragazza. Un’amicizia proibita nella Germania nazista (Baldini & Castoldi, Milano 1997, pp. 406) e ripresa Vanna Vannuccini nella puntuale recensione pubblicata su «la Repubblica» del 12 gennaio 2000. Erronea è la tesi di Cazzullo, secondo cui «nel grande pubblico la conoscenza delle persecuzioni naziste verso gli ebrei è spesso limitata ai campi di sterminio». La miriade di studi ha rivolto particolare attenzione ai molteplici aspetti che precedono e seguono il mondo concentrazionario.
    La vicenda sentimentale tra l’ebreo Lehmann e l’«ariana» è già nota da oltre mezzo secolo grazie al film americano del 1961 e da oltre vent’anni grazie al libro di Cristiane Kohl, che «ridà ai denunzianti e alle vittime il loro volto, la loro personalità», come emerge dai documenti storici e dai verbali coevi del processo. Un aspetto che sfugge completamente al collaboratore del giornale milanese per la complicità dei denunzianti e di quei «tedeschi comuni», studiati da Daniel J. Goldhagen nel suo interessante volume I volenterosi carnefici di Hitler (1997). Cazzullo ignora che l’ossessione di Hitler, secondo cui «giovani e ingenue ragazze tedesche potessero diventare “preda sessuale” degli è ebrei», era rivolta anche agli uomini delle SS innamorati di donne ebree: il caso più eclatante riguardò il caso raccontato da Martin Gilbert nel suo volume Mai più. Una storia dell’Olocausto (2000) sul soldato tedesco giustiziato insieme alla sua compagna.
    Il caso di Lehmann suscita certamente più scalpore per l’ingiustizia che subì e per la sua ingiusta uccisione. A quella tragica fine si giunse per la delazione dei cosiddetti «tedeschi ordinari», che ricorsero ai pettegolezzi e al mormorio dei vicini, dettato più da invidie e da vecchi rancori che da un viscerale antisemitismo. La notizia della relazione sentimentale tra l’anziano ebreo e la giovane tedesca perviene presto all’orecchio delle autorità naziste, che mettono in moto la spietata macchina giudiziaria hitleriana. Il 18 marzo 1941 Lehmann viene  arrestato con il sospetto di avere violato le leggi razziali naziste (il reato era commesso dall’uomo e non dalla donna).
    Comincia così un’intricata vicenda processuale, che porta in primo grado all’assoluzione dei due protagonisti, costretti poi ad un nuovo processo per il ricorso di Oswald Rothaug, il fanatico giudice ammiratore di Gauleiter Julius Streicher, uno dei più feroci e corrotti gerarchi nazisti. Durante il processo gli imputati negano di avere avuto rapporti sessuali, sostenendo con vigore che tra loro c’era solo una innocente amicizia, ossia un idillio platonico dettato da semplice simpatia. Le leggi razziali del 1935 prevedono una pena massima di 15 anni nel caso di ebrei e ariani. Eppure Rothaug condanna a morte Lehmann per «contaminazione della razza», appellandosi anche alla legge sul coprifuoco che vietava agli ebrei di uscire di sera. Lehmann fu ghigliottinato il 3 giugno 1942, mentre Irene fu condannata a due anni di prigione per falsa testimonianza.
    L’esito del processo interrompe la carriera di Rothaug, che viene criticato per avere inflitto una condanna fondata su prove inattendibili: una situazione che spinge le autorità naziste ad assegnargli un altro incarico. Dopo la Seconda guerra mondiale egli è coinvolto nel processo di

    Norimberga e condannato all’ergastolo, ma viene rilasciato nel 1956 per morire il 4 dicembre 1967. 

  • LA LEZIONE DI PIERSANTI

    data: 06/01/2019 18:28

    Nel corso di una cerimonia è stato ricordato oggi a Palermo Piersanti Mattarella, ucciso il 6 gennaio 1980 dalla mafia. Oltre ai suoi familiari erano presenti il Presidente del Senato Maria Elisabetta Casellati, il sindaco Leoluca Orlando, il prefetto Antonella De Miro e l’assessore regionale Gaetano Armao. Tutti i relatori hanno messo in rilevo l’alto valore della lezione di Piersanti Mattarella, che può essere riassunta nella conclusione di Pietro Grasso, là dove afferma che la sua antimafia «era nei fatti, nel lavoro onesto, negli appalti trasparenti, nell’esclusione delle clientele».

    Formatosi alla scuola politica del padre Bernardo Mattarella (1905-1971), amico di Luigi Sturzo e più volte ministro, il giovane Piersanti (era nato Castellammare del Golfo il 24 maggio 1935) crebbe in un clima fecondo di stimoli culturali alieni da forme morbose di pietismo e di eccessiva devozione popolare, così diffuse nella Sicilia del tempo. L’insegnamento del sacerdote calatino era presente nella sua famiglia, che tenne viva durante il regime fascista la fiaccola della libertà, della democrazia e della giustizia sociale. Nato proprio nell’anno dell’impresa fascista in Etiopia, Piersanti fu influenzato dal padre che si oppose ad essa con critiche ai soldati invasori responsabili di uccidere «i fratelli cristiani» intenti solo a «difendere la propria terra». Il nome fu suggerito al padre dall’amico e critico letterario Pietro Mignosi (1895-1937), che congiunse i nomi di Santi in ricordo del nonno paterno e di Pier Giorgio in onore di Frassati, denominato il «Gobetti cattolico» per la sua tenace opposizione al regime mussoliniano.

    Come ricordò in un’intervista, Piersanti frequentò la scuola elementare nel clima soffocante del fascismo imperante, a cui il padre contrappose un impegno attivo contro la politica autoritaria del regime: «Un giorno – ricordò egli – mi strappò la tessera di balilla che veniva dato a tutti gli alunni, raccomandandomi di dirlo alla maestra». Nel 1938 l’emanazione delle leggi razziali accentuò l’impegno antifascista del padre, che sul giornale «La Voce Cattolica» pubblicò alcuni articoli di Vincenzo Mangano (1866-1940) sull’assoluta incompatibilità tra Cristianesimo e razzismo. Una contrapposizione che nasceva dalle sue riflessioni sulla dottrina sociale della Chiesa, a cui egli si ispirava per riaffermare il messaggio pontificio di Leone XIII e condannare le invadenze del regime dittatoriale nella sfera individuale dei cattolici.
    La lezione di Mangano, unita a quella più robusta di Sturzo, influenzò Bernardo Mattarella, che l’anno successivo delle leggi razziali conobbe Aldo Moro, recatosi a Palermo nel venticinquennale dell’elezione alla cattedra vescovile di Lavitrano. Il fervore religioso e l’impegno antifascista del padre ebbe un effetto benefico su Piersanti, che lo seguì nelle sue peripezie politiche a Roma, dove ricoprì la carica di sottosegretario alla Pubblica Istruzione nei governi Bonomi (18 giugno 1944-21 giugno 1945), quella al Ministero dei Trasporti (23 maggio 1948-16 luglio 1953) e poi come Ministro nel governo Pella (17 agosto 1953-18 gennaio 1954).
    Nella capitale Piersanti ricevette una rigorosa formazione culturale, che – unitasi a quella religiosa e politica – si arricchì con la conoscenza amorosa di Irma, figlia dell’insigne giurista Lauro Chiazzese (1903-1957). Il suo ritorno a Palermo fu determinato dall’amore verso la futura moglie, la cui sorella diverrà poi la compagna di vita del futuro Presidente della Repubblica. Dopo la laurea in giurisprudenza, Piersanti avviò uno studio legale con il collega Alberto Oddo Antonello, divenendo anche assistente ordinario di Diritto privato nell’Ateneo palermitano grazie ai suoi lavori giuridici pubblicati su riviste specializzate.
    L’esempio paterno e l’avversione verso la politica siciliana, intrisa di affarismo e clientelismo, spinsero Piersanti Mattarella a intraprendere l’attività politica nella Dc, dominata da notabili come Vito Ciancimino e Salvo Lima. Proprio la débâcle elettorale del padre, primo eletto nella Sicilia occidentale poi sceso al settimo posto, lo convinse a scendere nell’agone politico: consigliere comunale nel 1964, deputato nel 1967, membro della Commissione Legislativa Regionale nei quattro anni successivi, ancora deputato nel 1971 e nel 1976, poi nel 1978 presidente dell’Assemblea Regionale Siciliana alla guida di una coalizione di centro-sinistra con l’appoggio esterno del Partito comunista italiano.
    Gli anni compresi tra il suo ingresso a Palazzo delle Aquile e l’elezione a presidente della Regione coincisero con la politica dissennata della Dc siciliana, con la sua gestione clientelare dell’amministrazione pubblica e con il «sacco di Palermo», che segnò la scomparsa di eleganti palazzine per dar vita alla costruzione di altissimi palazzoni di cemento. Con la tenace azione di Piersanti fu avviata un’opera di risanamento, fatta di controlli e di divisioni nette di compiti volti ad eliminare commistioni tra apparato tecnico-burocratico e compagine politica. Il suo impegno politico fu infatti diretto ad una gestione oculata e trasparente dell’amministrazione pubblica per imprimere un nuovo volto alla città di Palermo, senza trascurare la crescita culturale dei suoi cittadini e la formazione dei giovani nella ricerca del bene comune.
    La strategia di Piersanti non riscuote le simpatie dei notabili palermitani, arroccati al controllo delle tessere e chiusi nella difesa dei loro privilegi, ma richiede il cambiamento sulla base di una nuova visione politica incentrata sui valori cristiani e sulla difesa della persona enunciata da Vincenzo Mangano. Esiste un interessante libretto intitolato Mattarella ha da dirvi qualcosa (Palermo 1971, pp. 43), che si sgancia dalle consuete promesse elettorali, si dichiara favorevole al centro-sinistra e affida lo sviluppo della Sicilia a tre settori significativi come agricoltura, industria e turismo.
    Nel suo incarico di assessore alla Presidenza e di delegato al Bilancio, quale membro nella giunta di centrosinistra guidata da Mario Fasino (n. nel 1920), Piersanti trasforma quella delega in una carica prestigiosa in grado di condizionare la politica complessiva della Regione siciliana. Grazie ad essa assurge a figura di prestigio nazionale e a leader indiscusso della Dc siciliana tanto da essere indicato come il nuovo artefice della lotta alla casta affaristica e ai clan mafiosi.
    La direzione della Regione siciliana, assunta da Piersanti Mattarella il 9 febbraio 1978 alla guida di una coalizione di centro-sinistra, pose le premesse per la sua feroce esecuzione avvenuta il 6 gennaio 1980. Fu il socialista Gaetano Giuliano ad assumere la guida della giunta regionale fino al termine della legislatura. Solo quindici anni dopo furono condannati all’ergastolo i boss Salvatore Riina e Bernardo Provenzano. Nella sentenza della Corte di Assise di Palermo si legge che «l’azione di Piersanti Mattarella voleva bloccare proprio quel circuito perverso tra mafia e politica incidendo così pesantemente proprio su questi interessi illeciti».

  • ARTEFICE DELL'UNITA'

    data: 04/01/2019 16:06

    Il pensiero politico di Giuseppe Mazzini si colloca nella storia del Risorgimento e s’intreccia con il movimento che condusse l’Italia all’unificazione nazionale. Fondamentale fu il suo ruolo nel perseguire questo ideale, che – sebbene concretizzatosi in un’Italia unita sotto lo scettro sabaudo – aprì la via alla realizzazione della Repubblica. L’obiettivo, vissuto come missione politica con intenso afflato religioso, condizionò tutta la vita di Mazzini, che è oggi considerato l’artefice dell’unità nazionale. A differenza di Giuseppe Garibaldi, che per dare un assetto unitario all’Italia preferì le conquiste militari, o di Camillo Benso conte di Cavour, che ricorse alle alleanze diplomatiche, Mazzini scelse di agire sul carattere degli italiani, per rinsaldare i loro sentimenti patriottici e guidarli verso la creazione di una nuova nazione. Egli poté realizzare poco prima della morte il suo sogno di vedere Roma capitale, ma rimase deluso dal ruolo guida che assunse la monarchia sabauda nella costruzione dello Stato unitario.
     
    La vita
    Giuseppe Mazzini nacque a Genova il 22 giugno 1805, da Giacomo e da Maria Giacinta Drago. Il padre ebbe scarsa influenza nella sua formazione, mentre la madre gli trasmise un forte senso del proprio rigore morale, alimentato anche dalla rigida educazione ricevuta dai precettori, sacerdoti giansenisti. Nel 1819 s’iscrisse all’Università di Genova; dopo aver frequentato per breve tempo i corsi di medicina, scelse la facoltà di Giurisprudenza, dove si laureò il 6 aprile 1827. Più che verso gli studi giuridici, tuttavia, nutrì un vivo interesse per la letteratura: nel 1827 – come ha documentato Gaetano Salvemini (I primi scritti, in Galante Garrone 1981, pp. 410-22) – scrisse il saggio Dell’amor patrio di Dante, in cui elevò il poeta fiorentino a profeta della patria italiana; il saggio rimase inedito per un decennio, quando fu pubblicato da Niccolò Tommaseo nella rivista torinese «Il Subalpino. Giornale di scienze, lettere ed arti» (1837, 2, pp. 359-77).
    Affiliatosi alla Carboneria genovese, fu arrestato nel novembre 1830 per la delazione di un infiltrato e venne recluso nel carcere di Savona. Nel gennaio 1831 fu posto davanti all’alternativa tra il confino e l’esilio: scelto l’esilio, soggiornò in varie città europee, stabilendosi infine a Marsiglia, dove nel luglio dello stesso anno fondò la Giovine Italia, con lo scopo di «restituire l’Italia in Nazione di liberi ed eguali, UnaIndipendenteSovrana» (Istruzione generale per gli affratellati nella Giovine Italia, 1831, ora in Scritti editi ed inediti, 2° vol., 1907, p. 45). La nuova associazione, alla quale Mazzini volle dare una forte impronta propagandistica, dal gennaio 1832 dispose anche di una rivista omonima, della quale fino al giugno 1834 uscirono sei fascicoli, diffusi clandestinamente.
    Dopo il fallimento della spedizione in Savoia nel febbraio 1834, Mazzini fondò in aprile a Berna la Giovine Europa, con lo scopo di riunire i patrioti delle nazioni oppresse. Nel corso del 1836, le sterili polemiche sorte in tale organismo non aiutarono l’esule genovese in questo difficile periodo della sua vita, che vide gli insuccessi dei tentativi insurrezionali e la diffusione di un sentimento di sfiducia tra i militanti. Il rischio di essere espulso dalla Svizzera lo convinse a stabilirsi a Londra, città nella quale giunse nel gennaio 1837.
    Dopo tre anni di inattività politica, nel marzo 1840 costituì l’Unione degli operai italiani, che ebbe come organo ufficiale l’«Apostolato popolare», pubblicato dal 10 novembre dello stesso anno al 30 settembre 1843 con lo scopo di elevare il sentimento patriottico dei suoi soci. Accanto a questa attività, svolta soprattutto in funzione antiaustriaca, egli costituì anche una scuola elementare per i bambini italiani che, inaugurata nel novembre 1841, rimase operativa fino al 1848 grazie al sostegno finanziario di alcuni esponenti cartisti e radicali come William Linton e William Lovett. L’impegno educativo verso gli operai e l’attività di alfabetizzazione a favore dei bambini non impedirono a Mazzini di collaborare ai periodici «Westminster review», «The northern star» e «The people’s journal» con recensioni e articoli rivolti alla propaganda patriottica e all’esposizione del suo pensiero politico.
    Dopo l’esperienza della Repubblica romana (1849), Mazzini ritornò a Londra, dove nel gennaio 1851 contribuì alla costituzione della Società degli amici d’Italia (Morelli 1965, p. 112) per sensibilizzare l’opinione pubblica britannica alla causa italiana, e in luglio sottoscrisse un manifesto del Comitato centrale della democrazia europea indirizzato ai patrioti delle nazioni oppresse. Fino al 1868, ultimo anno di soggiorno nella capitale britannica, egli svolse un’intensa propaganda repubblicana: fondò il periodico «Pensiero e azione» (pubblicato dal 1° settembre 1858 al 22 maggio 1860) e il 21 febbraio 1859 sottoscrisse una dichiarazione di protesta contro la guerra all’Austria. Nel 1860 uscì il volumetto Doveri dell’uomo (raccolta di scritti già in parte pubblicati a partire dal 1841 sui periodici «Apostolato popolare», «Pensiero e azione» e «L’unità italiana»), destinato a una grande fortuna editoriale (Monsagrati 2009, p. 598). Dopo aver accettato l’ospitalità di Giannetta Nathan Rosselli, si stabilì a Pisa, dove morì il 10 marzo 1872.
     
    Le fonti del pensiero politico
    Il pensiero politico di Mazzini si coniuga con un programma di riforma della società italiana e di cambiamento della forma istituzionale dello Stato, ma non costituisce un blocco monolitico e omogeneo di idee che, formatesi negli anni giovanili, si siano mantenute inalterate durante la sua lunga e intensa attività rivoluzionaria. Infatti, dalle prime esperienze letterarie (1827) fino alla costituzione di un’Italia unita e indipendente (1861), il suo pensiero presenta un’evoluzione strettamente connessa allo studio degli scrittori politici e alla meditazione degli eventi a lui coevi.
    Negli articoli pubblicati sui giornali «Indicatore genovese» (1828) e «Indicatore livornese» (1829-1830), Mazzini enuncia una visione letteraria laica, democratica e ispirata a una comune civiltà europea, da cui scaturisce il programma politico, che sin dalla costituzione della Giovine Italia (1831) pone l’ideale democratico come premessa per la liberazione dell’Italia dallo straniero, l’abbattimento della monarchia e la realizzazione della Repubblica. Questa sua fede inaugura così «una tradizione democratica sostanzialmente nuova», volta a superare il giacobinismo italiano e a proporre con forza un nuovo modello di organizzazione della società (Galasso 1974, p. 20). Democrazia parlamentare e principio di nazionalità costituiscono gli aspetti fondamentali del pensiero politico di Mazzini, la cui fede è animata da una forte tensione religiosa e alimentata da una decisa avversione verso la monarchia.
    L’esaltazione dello Stato repubblicano e il rifiuto della monarchia come negazione della libertà sono – secondo Mazzini – dettati da una necessità storica, connessa con il progresso civile della società europea. Con il concetto di progresso, sviluppato grazie all’influsso delle teorie di Marie-Jean-Antoine-Nicolas Caritat, marchese di Condorcet (1743-1794), e di Démosthène Ollivier (1799-1884), Mazzini definisce meglio il progetto graduale di palingenesi sociale «per spiegare la sua scelta repubblicana» (S. Mastellone, Introduzione a G. Mazzini, Pensieri sulla democrazia in Europa, 1997, p. 7). La nozione di repubblica, considerata l’unica forma costituzionale idonea a garantire i principi di uguaglianza e di libertà, è arricchita da alcune formulazioni dottrinali derivate dalle idee di Claude-Henri Rouvroy, conte di Saint-Simon (1760-1825), e connesse ad aspetti specifici come l’assetto della proprietà, la trasmissione ereditaria dei privilegi, la funzione dei banchieri nella società presente e futura, l’indissolubilità tra spirito e materia, la libera concorrenza nel capitalismo e l’elevazione dell’associazione a fondamentale principio per il superamento di quest’ultimo.
    Nella già citata Istruzione generale per gli affratellati nella Giovine italia(1831), Mazzini elabora un programma che arricchisce di feconde ispirazioni culturali e nuovi spunti dottrinali maturati durante l’esilio in Francia. Oltre che dalle citate idee di Saint-Simon, tenute vive dai discepoli Saint-Amand Bazard (1791-1832) e Barthélemy-Prosper Enfantin (1796-1864), Mazzini rimane influenzato dalla lettura della «Revue encyclopédique» e del «Globe», i cui collaboratori pongono l’accento sulla sovranità popolare ed esortano i lettori a un impegno più diretto nella questione sociale.
    L’influsso iniziale del pensiero di Filippo Buonarroti (1761-1837) e di Carlo Angelo Bianco, conte di Saint-Jorioz (1795-1843), l’uno promotore dell’ideologia rivoluzionaria giacobina e l’altro dell’insurrezione per bande, è da Mazzini meglio definito e trasformato in una più precisa «intuizione», dettata da una visione unitaria della questione politica, culturale e sociale (Galasso 1974, pp. 100 e 101). Dell’influsso di Buonarroti rimangono ferme la scelta repubblicana e l’avversione per il federalismo, considerato da Mazzini transitorio e deleterio per le sorti future dell’Italia. Infatti, sull’esempio di Buonarroti, che aveva espresso un giudizio negativo sul federalismo di tipo statunitense nell’opuscolo Riflessi sul governo federativo applicato all’Italia (1831), Mazzini assume un’analoga posizione critica nell’articolo Dell’Unità italiana («La Giovine Italia», 1833, 6, ora in Scritti editi ed inediti, 3° vol., 1907, pp. 259-302).
    La presenza in Italia di due vizi intrinseci, quali la debolezza esterna nei confronti dei Paesi confinanti e quella interna nei confronti dell’aristocrazia, è ricondotta da Mazzini a una vicenda storica diversa da quella degli Stati Uniti, e collegata ad altri elementi, come la religione, il clima e la forma di governo. Il rifiuto del modello statunitense gli deriverebbe, secondo alcuni, da una memoria dell’inglese Henry Peter, barone di Brougham and Vaugh (1778-1868), pubblicata nel 1832 sul periodico «Westminster review» e conosciuta da Mazzini nella traduzione italiana dello stesso anno, Condizione politica ed economica degli Stati Uniti d’America. Convincono Mazzini che il sistema federale non è idoneo per l’Italia, inoltre, la lettura del saggio Notice sur l’Amérique («Revue encyclopédique», 1827) di Jean-Charles-Léonard Simonde de Sismondi (1773-1842), e dell’opera Storia dell’America (28 voll., 1820-1822) di Giuseppe Compagnoni (1754-1833), e le considerazioni di alcuni fautori del modello politico statunitense come Luigi Angeloni (1759-1842) e Saverio Salfi (1759-1832).
    Il pensiero di Mazzini si sviluppa a contatto con la cultura francese degli anni Trenta, ma pone al centro della sua riflessione politica la questione della rivoluzione nazionale nel contesto delle esperienze più recenti della storia italiana. Per Mazzini, i movimenti rivoluzionari del 1820-21 e del 1831 si erano spenti per l’inerzia delle masse e la mancanza di dirigenti politici, privi di coraggio,
    di scienza politica [e di fiducia] nelle moltitudini che reggevano, nella santa bandiera che inalberavano; poi di consiglio rivoluzionario, di spirito logico, e del segreto che suscita i milioni di difensori a una causa (D’alcune cause che impedirono finora lo sviluppo della libertà in Italia, «La Giovine Italia», 1832, 2 e 3, ora in Scritti politici, a cura di T. Grandi, A. Comba, 1972, p. 236).
    Dopo gli eventi del febbraio 1834, Mazzini imprime un carattere religioso più evidente al suo pensiero politico, soprattutto per l’influenza del francese Félicité-Robert de Lamennais (1782-1854), che aveva invitato la Chiesa a fare propria la causa dei poveri, e del polacco Adam Mickiewicz (1798-1855), che considerava la Polonia come «nazione martire».
    Come Lamennais, Mazzini invoca un rinnovamento della Chiesa gerarchica, e scorge tra le proprie idee e quelle del francese una coincidenza in merito alla visione etica della società, ai valori della tradizione religiosa e al culto per la democrazia quale forma di rappresentanza politica improntata a un forte senso morale e a un’elevata funzione pedagogica. Una comunione di ideali a cui aveva già accennato nella prefazione scritta per la versione italiana (1832) del saggio di Charles-Emmanuel-Nicolas Didier (1805-1864) Les trois principes. Rome, Vienne, Paris («Revue encyclopédique», 1832, pp. 59-61).
    Di Mickiewicz, Mazzini accoglie l’idea di «nazione martire», che estende all’Italia, imprimendole un impulso fideistico e aggiungendovi un messaggio politico che dovrà tradursi nel «Vangelo della nazionalità» (Sarti 2000, p. 101). Questo principio, inteso come una realtà spirituale, dovrà essere diffuso dagli «Apostoli del popolo», che testimonieranno la loro fede con prontezza di sacrificio e con un conforme comportamento:
    Il Popolo non è mai per coloro che stima deboli e da poco. Esso ama e segue i forti, e con i forti combatte. E i forti sono quelli che, in ogni circostanza, ad ogni momento, son presti a far testimonio, colla parola e colle opere, di tutta intera la fede dell’anima loro (Il popolo e i patrioti, 1835, ora in Scritti editi ed inediti, 4° vol., 1908, pp. 321-22, e in Sarti 2000, p. 101).
    Nel periodo dell’esilio in Svizzera, il pensiero di Mazzini evolve verso forme più mature di elaborazione politica, che arricchiscono il concetto di governo repubblicano e lo collocano in una dimensione più vasta, sfociata nel 1834 nella costituzione della Giovine Europa. La decisione di costituire la nuova associazione è dettata da una serie di ragioni, tra le quali spiccano il dissidio con la Carboneria e la necessità di tenere vivo l’ideale repubblicano e di creare una santa alleanza dei popoli contro quella dei sovrani. Il patto costitutivo, redatto da Mazzini e denominato Atto di fratellanza della Giovine Europa, è firmato da diciassette membri, rappresentanti dell’esulato italiano, polacco e tedesco. Dei tre gruppi federati, il più attivo è quello della Giovine Germania, per la massiccia presenza di lavoratori tedeschi in territorio elvetico. Al centro della visione europeista mazziniana, tuttavia, c’è sempre la convinzione che non esiste alcuna gerarchia tra le nazioni e che tutte hanno un eguale valore morale. Alla stregua delle riflessioni di Johann Gottfried von Herder (1744-1803), Mazzini è convinto del contributo unico e insostituibile di ogni nazione verso l’umanità, ma del filosofo tedesco respinge l’enfasi posta su fattori prepolitici come la razza o le tradizioni di un popolo.
     
    Il concetto di democrazia
    Tra il 1840 e il 1846, Mazzini, anche per la frequentazione di scrittori politici inglesi come Thomas Carlyle (1795-1881) e John Stuart Mill (1806-1873), rivolge particolare attenzione al concetto di democracy. Lo spunto gli è dato dal saggio Chartism (1840) di Carlyle, che collega la nascita del movimento cartista all’incapacità del governo di garantire i diritti sociali. Come risposta, Mazzini pubblica nel giugno 1840 l’articolo Chartism, it is a revolt or a revolution? («Tait’s Edimburgh magazine»), in cui rileva come l’azione sociale dei dirigenti cartisti si muova nell’ambito delle rivendicazioni economiche piuttosto che in quello della richiesta di partecipazione politica: una carenza imputabile alla struttura del Parlamento inglese, dove hanno la preminenza i rappresentanti della casta aristocratica, borghese e militare, arroccati su posizioni conservatrici e incapaci di guidare il progresso della società.
    In otto articoli, pubblicati su «The people’s journal» tra l’agosto 1846 e il giugno 1847 sotto il titolo collettivo Thoughts upon democracy in Europe – riproposti nel volume antologico Scritti scelti (a cura di C. Cantimori, 1915, pp. 282-338) e in seguito tradotti in italiano con il titolo Pensieri sulla democrazia in Europa (a cura di S. Mastellone, 1997, 20052) –, Mazzini conclude il suo discorso sulla democrazia, pervenendo a una concezione della rappresentanza politica che resterà invariata negli anni successivi. Il rifiuto dell’utilitarismo di Jeremy Bentham (1748-1832) dev’essere connesso con il «moto ascendente delle moltitudini vogliose d’entrare partecipi nella vita politica» (I sistemi e la democrazia, 1867, ora in Scritti editi ed inediti, 34° vol., 1922, p. 92), ma finalizzato a una responsabilità etica dell’uomo. Sulla scia delle riflessioni espresse da Mill nell’articolo Pledges («The examiner», 15 luglio 1832, pp. 417-18) e nel libro The rationale of political representation (1835), Mazzini identifica l’essenza della democrazia con la sovranità popolare, ma a condizione che la rappresentanza politica sia scelta nell’ambito di persone oneste e qualificate dal punto di vista morale e intellettuale.
    Il concetto mazziniano di democrazia (che presenta una dimensione etica e pedagogica, al contrario di quella strettamente giuridica di Brougham) si definisce come un movimento proiettato «verso l’emancipazione, il miglioramento, la cooperazione di tutti» (Pensieri sulla democrazia in Europa, cit., p. 95), nella convinzione che il suffragio universale sia l’opzione più idonea per designare le capacità dei cittadini chiamati alla gestione dell’amministrazione pubblica. La partecipazione democratica deve raggiungere un triplice scopo: sottrarre il potere politico «a una cerchia di privilegiati» (p. 82), costituire un «governo rappresentativo» e porre la sua direzione «sotto la guida dei migliori e dei più saggi» (p. 85). Nella scelta dei loro rappresentanti, i cittadini devono essere indirizzati a «un programma educativo» (p. 88), che valorizzi la circolazione delle idee, favorisca il sorgere dell’eguaglianza e diventi patrimonio comune del «partito democratico» (p. 85) e poi dell’intera società. Una concezione della storia limitata all’aspetto economico e allo sviluppo degli interessi materiali tra gli uomini dev’essere sostituita da un ideale più alto, una democrazia etica, l’unica in grado di fornire le idee fondamentali necessarie per l’avvenire dell’Europa e di tutti i popoli. Questo messaggio di liberazione, improntato a venature religiose che fanno riferimento allo spirito più genuino dell’insegnamento evangelico, deve sfociare in una democrazia rappresentativa garante dei diritti sociali, dei valori etici e del merito personale.
    L’ideale repubblicano come leitmotiv del pensiero mazziniano assume un connotato specificatamente democratico durante l’esperienza della Repubblica romana (1849), per il rifiuto del comunismo come regime oppressivo e per l’appello a una Costituente italiana «come unica soluzione della questione nazionale» e «unico simbolo dell’Unità» (Programma, 1849, ora in Scritti editi ed inediti, 39° vol., 1924, pp. 95 e 96).
    Su questi due aspetti fondamentali del suo pensiero politico, Mazzini sviluppa il discorso sull’associazione come nucleo costitutivo della società e sul sistema rappresentativo strutturato in comuni e regioni. Nel manifesto del Comitato nazionale italiano (1849) egli presenta il regionalismo come principio costitutivo del futuro sistema politico italiano, che è meglio svolto l’anno successivo nel programma dell’Associazione nazionale, laddove auspica che l’unità politica dell’Italia raggiunga il suo compimento
    coll’esistenza di Regioni circoscritte da caratteristiche locali e tradizionali e colla vita di grandi e forti Comuni, partecipanti quanto è più possibile coll’elezione al Potere e dotati di tutte le forze necessarie a raggiunger l’intento dell’Associazione (in Scritti editi ed inediti, 43° vol., 1926, pp. 185-86).
    Il sistema dell’ordinamento dello Stato, su cui egli ritorna con frequenza tra il 1851 e il 1861, è svolto con indicazioni precise sulle attribuzioni delle funzioni e con un progetto istituzionale contrario a un’eccessiva centralizzazione.
     
    La questione sociale
    In Mazzini il pensiero politico è strettamente connesso con l’interesse per la questione sociale. Nei primi anni di attività, dal 1831 al 1835 circa, egli non effettua una sistemazione compiuta delle sue riflessioni teoriche, che raggiungono piena maturità solo a contatto con la cultura inglese. Tuttavia, fin dal suo esordio politico, il motivo conduttore è costituito dall’accento posto sulla distinzione di interessi tra le classi popolari e i ceti economicamente e socialmente più abbienti: come soggetto autonomo di bisogni, il popolo assume così nella sua visione etico-religiosa un ruolo privilegiato nella futura rivoluzione nazionale. Infatti, affinché il popolo diventi nuovo protagonista storico, la Giovine Italia deve tendere
    a ravvicinare le classi, costituire il Popolo, ottenere lo sviluppo maggiore possibile delle facoltà individuali; a ottenere un sistema di legislazione accomodato ai bisogni; a promuovere illimitatamente l’educazione nazionale (Delucidazioni morali allo Statuto della Giovine Italia, 1833, ora in Scritti editi ed inediti, 2° vol., 1907, pp. 299-300).
    Ancorato a un’impostazione ‘sociale’ della questione nazionale, Mazzini nel succitato testo del 1833 cerca di coinvolgere l’intero popolo in un’iniziativa rivoluzionaria volta a un «miglioramento delle classi più numerose e più povere» (p. 299), spronandolo all’azione e chiarendo i diritti e i vantaggi che esso potrebbe trarre dal nuovo assetto sociale. L’analisi delle prospettive rivoluzionarie spinge Mazzini a sensibilizzare il popolo verso una lotta che faccia leva sui suoi bisogni materiali, impostando la lotta nazionale contro lo straniero fuori dagli schemi consueti dei moti tradizionali, basati solo sull’amor patrio. A questa convinzione perviene per il fatto che
    tutte le rivoluzioni sono nella loro essenza sociali, che l’ordinamento politico è la forma e non altro dei mutamenti, e che non s’ha diritto di chiamare i milioni al sagrificio della quiete e della vita, se non proponendo loro uno scopo di perfezionamento collettivo, di miglioramento morale e materiale comune a tutti, di educazione fraterna senza eccezione (Necessità dell’ordinamento speciale degli operai italiani, 1842, ora in Scritti politici, cit., p. 546).
    In quest’ambito, Mazzini si batte per l’aumento dei salari e per la riduzione della giornata lavorativa, avanzando l’idea di istituire forme speciali di credito per gli operai, affinché siano facilitati nel loro accesso alla proprietà dei mezzi di produzione. I fenomeni negativi dell’economia europea sono indicati nelle ricorrenti crisi produttive, le quali si ripercuotono nelle retribuzioni salariali e determinano il progressivo peggioramento della vita dei lavoratori. La crescente integrazione dei mercati europei, piuttosto che contribuire al progresso economico dei vari Paesi, aggrava le condizioni di vita degli abitanti, impedendo la realizzazione di una più equa distribuzione della ricchezza e rivelando l’aspetto menzognero del libero scambio.
    Nel suo duplice rifiuto del liberalismo e del comunismo, Mazzini è animato da una fede che sottomette gli interessi materiali ai principi, gli unici in grado di porre le basi di una nuova società. Gli interessi, siano essi individuali o collettivi, non possono provocare alcun mutamento sociale. Rispetto al liberalismo, volto solo a proporre libertà formali, Mazzini auspica una libertà reale che trasformi la dottrina dei diritti nella capacità di sviluppare le facoltà di ogni singolo individuo. Nei confronti del comunismo egli assume un atteggiamento ostile, respingendo la proposta, avanzata dai seguaci di questa corrente di pensiero, di abolire la proprietà privata e di porre l’economia sotto il controllo statale. Piuttosto che procedere verso l’abolizione della proprietà, che – qualora si realizzasse – soffocherebbe la libertà personale, vanificherebbe lo stimolo al lavoro e renderebbe inoperoso l’individuo, occorre creare le condizioni perché la maggioranza dei cittadini possa acquistarla: al pari della famiglia o della nazione, infatti, la proprietà è un istituto connaturato alla persona umana e, come tale, destinato a durare in eterno. Su questo aspetto fondamentale dell’uomo s’innestano tre distinte affermazioni, che sono colte da Giuseppe Galasso (1974, p. 70) nel
    diritto-dovere [dell’uomo] di organizzare da sé la sua vita materiale, [nella] perfetta parificazione del lavoro manuale con quello intellettuale e con ogni altra manifestazione della vita spirituale, [nel lavoro inteso] come unica fonte legittima della proprietà.
    L’unica forma di proprietà accettata da Mazzini è dunque quella che proviene dal lavoro, e per la cui tutela egli si batte affinché sia resa accessibile al maggior numero di cittadini: «Non bisogna abolire la proprietà, perché oggi è di pochi; bisogna aprire la via perché i molti possano acquistarla» (Doveri dell’uomo, cit., p. 120). Ciò non esclude per lui l’imposizione di un’imposta progressiva in base all’entità del reddito, per evitare il formarsi di un eccessivo accumulo di ricchezze in cerchie ristrette. Da ciò Mazzini deriva la proposta di una riforma tributaria ispirata alla tassazione del superfluo, tramite l’intervento legislativo dello Stato, in grado di assicurare «ricompense» proporzionate al lavoro e di garantire l’occupazione anche con una politica di lavori pubblici (I collaboratori della ‘Giovine Italia’ ai loro concittadini, 1832, ora in Scritti editi ed inediti, 3° vol., 1907, pp. 63 e 67).
    Gli anni compresi tra il 1850 e il 1860 si caratterizzano per una ripresa dell’attenzione di Mazzini alla questione sociale considerata come parte imprescindibile della rivoluzione nazionale, in un processo di liberazione in cui le disparità economiche devono essere superate dalla formula del «capitale e lavoro nelle stesse mani» (Doveri dell’uomo, cit., p. 125). Il pensiero sociale di Mazzini trova la conclusione pratica di uno sforzo ormai trentennale nei Doveri dell’uomo e nella parte finale del citato articolo del 1833 Dell’Unità italiana, allora rimasto incompiuto e arricchito nel 1861 da altre considerazioni politiche (ora in Scritti editi ed inediti, 3° vol., 1907, pp. 302-35). In un interessante passaggio dei Doveri, Mazzini afferma:
    Ogni mutamento, ogni rivoluzione […] che non faccia corrispondere al progresso politico un progresso sociale, che non promova d’un grado il miglioramento materiale delle classi più povere […] si riduce a una guerra di fazioni contro fazioni in cerca di una dominazione illegittima, è una menzogna ed un male (p. 111).
    Nel decennio postunitario, successivamente alle enunciazioni espresse nei Doveri, Mazzini invoca un rivolgimento politico, che deve sfociare nell’avvento di uno Stato repubblicano capace di confiscare i beni della Chiesa, della Corona e, in qualche caso, dei Comuni per emancipare i lavoratori dalla tirannide del capitale. Nella sua visione solidaristica, Mazzini attribuisce l’unica garanzia di progresso all’associazione, che deve ricevere sostegno dallo Stato con agevolazioni di vario genere come la costituzione di un fondo nazionale e la concessione di crediti a basso tasso d’interesse (Dell’Erba 2010, p. 30). La soluzione più efficace per la questione sociale può derivare soltanto dal fermento rinnovatore rappresentato dall’associazione e dalla sua definizione in senso cooperativistico. In questa direzione assume grande rilievo l’impegno politico verso le «classi operose», che deve tradursi in uno sforzo organizzativo per la creazione di società di mutuo soccorso e per la loro politicizzazione in senso democratico. Su questa base Mazzini svolge un ruolo di primaria importanza, in polemica con Karl Marx e i marxisti, quando a Londra nel 1864 avviene la fondazione della Prima Internazionale operaia.
    Su scala italiana, tra l’XI congresso delle società operaie (Napoli, ottobre 1864) e quello successivo (Roma, novembre 1871), Mazzini tenta di mettere in atto i principi fondamentali del suo pensiero politico, che – oltre a essere indirizzati a migliorare le condizioni dei ceti meno abbienti – devono ostacolare il sorgere del positivismo in Italia e il diffondersi delle tendenze materialistiche, per cui egli si trova anche in opposizione a Michail Bakunin.
     
    Opere
    Doveri dell’uomo, Londra [ma Lugano] 1860.
    Scritti editi ed inediti, Edizione nazionale degli scritti di Giuseppe Mazzini, prima serie, 100 voll., Imola 1906-1943.
    Antologia degli scritti politici, a cura di G. Galasso, Bologna 1961.
    Scritti politici, a cura di T. Grandi, A. Comba, Torino 1972, 20052.
    Pensieri sulla democrazia in Europa, introduzione e cura di S. Mastellone, Milano 1997, 20052.
    Lettere slave e altri scritti, a cura di G. Brancaccio, Milano 2007.
    Cosmopolitismo e nazione. Scritti sulla democrazia, l’autodeterminazione dei popoli e le relazioni internazionali, a cura di S. Recchia, N. Urbinati, Roma 2011.
     
    Bibliografia
    N. Rosselli, Mazzini e Bakounine: 12 anni di movimento operaio in Italia (1860-1872), Torino 1927, Firenze 19382.
    S. Mastellone, Mazzini e la ‘Giovine Italia’ (1831-1834), 2 voll., Pisa 1960.
    E. Morelli, L’Inghilterra di Mazzini, Roma 1965.
    F. Della Peruta, Mazzini e i rivoluzionari italiani. Il ‘partito d’azione’, 1830-1845, Milano 1974.
    G. Galasso, Da Mazzini a Salvemini: il pensiero democratico nell’Italia moderna, Roma 1974.
    G. Pirodda, Mazzini e gli scrittori democratici, 45° vol. di Letteratura italiana Laterza, sotto la direzione di C. Muscetta, Roma-Bari 1976, 19902.
    A. Galante Garrone, Salvemini e Mazzini, Messina-Firenze 1981.
    D. Mack Smith, Mazzini, New Haven (Conn.)-London 1993 (trad. it. Milano 1993).
    S. Mastellone, Il progetto politico di Mazzini: Italia-Europa, Firenze 1994.
    G. Monsagrati, Giuseppe Mazzini, Firenze 1994.
    S. Mastellone, La democrazia etica di Mazzini (1837-1847), Roma 2000.
    R. Sarti, Giuseppe Mazzini. La politica come religione civile, Roma-Bari 2000.
    Mazzini e gli scrittori politici europei (1837-1857), a cura di S. Mastellone, 2 voll., Firenze 2005.
    L. La Puma, Giuseppe Mazzini democratico e riformista europeo, Firenze 2008.
    G. Monsagrati, Mazzini Giuseppe, in Dizionario biografico degli Italiani, Istituto della Enciclopedia Italiana, 72° vol., Roma 2009, ad vocem.
    G. Belardelli, Mazzini, Bologna 2010.
    N. Dell’Erba, Giuseppe Mazzini. Unità nazionale e critica storica, Padova 2010.
     

  • IL PITTORE DEL SOLE

    data: 30/12/2018 09:38

    Nelle sale italiane è in corso la proiezione del film Capri-Revolution di Mario Martone, già noto per altre opere cinematografiche di forte impatto culturale. Nel 2010 è uscito Noi credevamo ispirato all’omonimo romanzo di Anna Banti e nel 2014 Il giovane favoloso sulla vita di Giacomo Leopardi. Ora il regista napoletano ci offre l’ultima sua fatica che trae ispirazione dalla vicenda esistenziale del pittore tedesco Karl Wilhem Diefenbach (Hadamar, 21 febbraio 1851 - Capri, 15 dicembre 1913).
    Autore di numerosi dipinti, trecento dei quali esposti nella Certosa di San Giacomo a Capri, Diefenbach fu un personaggio eccentrico tra i numerosi stranieri che popolarono l’isola tra la fine del XIX e il XX secolo. Ma egli non fu solo un prolifico pittore volto a cercare un’unità tra arte e vita, ma anche un teosofo e un personaggio eclettico che propose un modello di vita alternativo a quello presente in tutte le società esistite ed esistenti.
    Dopo aver subito l’influsso di Lorenz, suo lontano parente e sacerdote cattolico, Diefenbach si avvicinò alla Teosofia e professò un senso mistico della vita improntata al libero amore, al naturismo e ad altri ideali come la dieta vegetariana, l’antimilitarismo e l’avversione ad ogni forma di autoritarismo. Per questa sua weltanschauung, animata anche da un’aspra critica al governo tedesco per la sua politica bellicista, subì una serie di traversie che lo condussero a spostamenti continui durante la sua vita tedesca. 
    Perseguitato dalle autorità governative e accusato di essere un «pervertitore e corruttore dei giovani», «sobillatore e pazzo», Diefenbach si stabilì in una cava abbandonata della valle dell’Isaar dove fondò la sua prima comune, insieme ad un gruppo sparuto di adepti dediti al naturismo e al culto del sole: subì per questo il primo «processo nudista» della storia tedesca. Così nel 1892 fu costretto a trasferirsi a Vienna dove cercò di finanziare la sua comune con mostre di pitture, tra le quali la più famosa fu quella allestita con undici murales, che ebbe un successo strepitoso per la visita di molti turisti. La comune, composta da 24 persone e denominata «Humanitas», praticò la comunione dei beni e sperimentò una forma di vita improntata al naturismo, al vegetarismo e al culto della natura.
    Nonostante il contributo di Magnus Schwantje (1877-1959) e di Hugo Höppener (1868-1948), entrambi vegetariani e ambientalisti, la Comune non ebbe vita facile per il carattere dispotico di Diefenbach e per la penuria di mezzi, finché si sciolse per la sua decisione di partire per l’India. Ma non raggiunse l’agognata meta, per cui si ritrovò a Capri insieme ad alcuni suoi adepti fedeli. I tredici anni trascorsi nell’isola furono fecondi e si tradussero in opere di alto valore pittorico che – secondo il giudizio equilibrato di Antonella Basilico, forse la maggiore studiosa del pittore tedesco – esprimevano un vivo sentimento religioso e la ricerca di un infinito come espressione del misero e dell’ignoto, proiettati nella ricerca tra sacro e realizzazione dell’appagamento sessuale.
    Sbaglia quindi Vladimore Bottone che, in suo articolo pubblicato sul «Corriere della Sera» del 27 dicembre, presenta il pittore tedesco come «un artista mancato o, almeno, incompiuto» dedito solo a forgiare la propria arte sull’umanità presente solo nella sua mente. Per questo motivo è necessario separare la vita scapestrata di Diefenbach e il desiderio di palingenesi sociale dalla sua vicenda artistica che trae ispirazione dalla bellezza di Capri inteso come luogo idoneo a realizzare più le sue aspirazioni artistiche che quelle esistenziali.
    La trama del film si colloca infatti nell’ambiente retrivo di Capri dove la giovane capraia Lucia è incuriosita da questi «strani» individui, che praticano il nudismo e la comunione dei beni. A dispetto del giovane medico socialista, che esalta la scienza, essi attribuiscono alle erbe virtù taumaturgiche ed aspirano alla realizzazione di un mondo «solare» basato su un ritorno rousseauiano alla natura. L’incontro tra la giovane e Seybu, capo della Comune, solleva stridenti contraddizioni tra le spinte rivoluzionarie del gruppo e l’ambiente chiuso della società dell’isola. Tra l’indifferenza dei popolani e lo sprezzante giudizio dell’intellettualità napoletana, la Comune sopravvive tra molte difficoltà fino alla scomparsa di Diefenbach, che morirà per un attacco di peritonite il 13 dicembre 1913.

     

  • LA MORTE DELL'EDITING

    data: 21/12/2018 22:17

    Per il vocabolario della lingua italiana, uscito proprio vent’anni fa su iniziativa dell’Istituto Treccani, il termine editing indica la «messa a punto redazionale di un testo originale» prima che si proceda alla composizione (p. 509). La procedura, in corso di smarrimento nei meandri del mercato, investe anche libri di grande successo ove ripetizioni e incongruenze si uniscono a persino a strafalcioni storici. Si tratta di una situazione sempre più diffusa e presente in molte case editrici che sorvolano sugli errori storici e inesattezze, mirando soprattutto alla vendita del prodotto per trarne un profitto immediato.
    Il caso più eclatante riguarda il volume M Il figlio del secolo (Bompiani, Milano 2018) di Antonio Scurati, sottoposto ad una aspra critica sul «Corriere della Sera» (14 ottobre) da Ernesto Galli della Loggia, che ha segnalato errori gravi come la confusione tra Pascoli e Carducci, a cui attribuisce il famoso discorso tenuto a Barga «per i nostri morti e feriti», pubblicato sul giornale «La Tribuna» del 27 novembre 1911 e poi nello stesso anno dall’editore Zanichelli con il titolo La Grande Proletaria si è mossa. Lo scrittore non è nuovo a questi errori storici che, insieme a stravaganze stilistiche, ne fanno un esempio emblematico, di cui l’incipit si ritrova nel romanzo Il bambino che sognava la fine del mondo (2009), ristampato quest’anno, con il riferimento al cadavere «ritrovato privo di vita».
    Nel libro In terra consacrata (2009) un altro scrittore Ugo Barbàra narra il rapimento di Emanuela Orlandi, ma riferisce di un uomo d’affari, la cui eccessiva spregiudicatezza gli «era costata una catasta di protesti». Nel romanzo Seta (1996), più volte ristampato fino alla recente edizione della Feltrinelli (2017), Alessandro Baricco lascia «sfarfallare» i bachi, cosa che non deve avvenire in quanto il bozzolo si squarcia e non se ne può ricavare il filo. Nel terzo volume della Storia europea della letteratura italiana (2009) A. Asor Rosa scrive Curzio Maltese invece di Curzio Malaparte, mentre nel manuale L’età contemporanea. Dalla Grande Guerra ad oggi (2009) più volte ristampato A. Mario Banti scrive che Gramsci fu «condannato a vent’anni di carcere, dove ancora si trova al momento della sua morte»: in realtà il comunista sardo morì nella clinica Quisisana il 27 aprile 1937.
    In materia storica la situazione non muta neppure nella scuola, dove – secondo una ricerca compiuta nel 2017 e presentata nel sito di «Libreriamo» – il 37% dei maturandi non conosce gli eventi storici accaduti dopo la Seconda guerra mondiale. Il 22% conosce poco e male l’esito del conflitto mondiale, credendo che Churchill sia stato il primo ministro americano durante la guerra. Solo il 48 % conosce la data dell’Unità d’Italia, mentre un 23% la fissa nel 1850 e un 22% dichiara che essa sia avvenuta nel 1930. Il 24% degli studenti crede che l’Italia sia una monarchia, mentre un’altra percentuale (39%) è convinta che l’Italia sia uscita vittoriosa dalla Seconda guerra mondiale.
    Nella mia esperienza professionale come membro di commissioni di esami per Storia contemporanea ho ascoltato errori (orrori) peggiori come quella studentessa che, alla domanda sulle leggi razziali, sostenne che gli Ebrei ne furono colpiti in quanto extracomunitari; oppure di quello studente che attribuì a Francesco Crispi il merito di avere costituito i Fasci siciliani, poi diventati Fasci di combattimento.  

  • VIGNETTISTA E SOCIALISTA

    data: 15/12/2018 19:16

    Il 5 dicembre scorso è stata inaugurata a Milano la mostra su Giuseppe Scalarini (Mantova, 23 gennaio 1873 - Milano 30 dicembre 1948), che resterà aperta fino al 6 gennaio prossimo. L’iniziativa, che prende avvio dal settantesimo anniversario del vignettista mantovano, è ospitata in tre sedi della città lombarda: una parte della mostra, organizzata dall’Unione Femminile Nazionale e dalla Fondazione Anna Kuliscioff, si tiene a Palazzo Moriggia presso il Museo del Risorgimento (via Borgonuovo 23); una seconda è esposta nella sede dell’Unione Femminile (corso di Porta Nuova 32) e una terza a Palazzo Morando (via Sant’Andrea 6).

    La varietà della mostra è dettata dall’ampio ventaglio di interessi di Scalarini, che nel corso della sua vita svolse diversi mestieri finché riuscì a trasformare la sua vera passione di caricaturista e di disegnatore satirico in una fonte di sostentamento. Già nel 1896 egli fondò il Merlin Cocai, un settimanale di indirizzo radicale che commentò con poco successo gli anni delle lotte popolari contro il carovita, sfociate due anni dopo nella repressione del generale Bava Beccaris con la morte di circa cento morti e più di cinquecento feriti.

    Proprio nel 1898 Scalarini fu schedato a Mantova come iscritto al partito socialista e militante dei “partiti sovversivi”, subendo una condanna per i suoi disegni antimilitaristi e antigovernativi. Accusato di reato contro le istituzioni statali, egli riparò all’estero prima in Austria e poi in Germania, dove collaborò ai prestigiosi giornali satirici Fliegende Blätter di Monaco e al Lustige Blätter di Berlino. Dopo varie peripezie in diversi Paesi europei, solo con l’amnistia concessa da Vittorio Emanuele III poté ritornare a Mantova dove riprese la collaborazione al nuovo Merlin Cocai per poi seguire di nuovo la sua vita avventurosa e girovaga, ma sempre fedele nell’invio di vignette satiriche ai giornali tedeschi.

    Stabilitosi a Milano, Scalarini esordì il 22 ottobre 1911 sull’Avanti! con una vignetta contro la guerra di Libia, a cui ne aggiunse oltre 3700 fino alla soppressione del quotidiano socialista a causa delle cosiddette “leggi fascistissime”. Nelle sue edizioni pubblicò i suoi primi testi antimilitaristi che, intitolati La guerra nella caricatura (1912) e Il processo della guerra (1913), riscossero largo successo, trasformando il giornale socialista in uno dei più venduti.

    Le vignette di Scalarini, più che prendere di mira i singoli personaggi politici, ebbero come bersagli la monarchia, la guerra, l’ingordigia del capitalismo, lo sfruttamento della classe lavoratrice e poi lo squadrismo fascista. Una serie di disegni che, oltre a procurargli vari processi tra il 1911 e il 1922, gli provocarono l’aggressione degli squadristi fascisti nel paese in cui aveva scelto la residenza. Nel 1920 fu infatti aggredito a Gavirate (Varese) e costretto a ingerire l’olio di ricino con lo scopo ben preciso di convincerlo ad interrompere la sua devastante critica alla marea montante del fascismo.

     Scalarini, per nulla intimorito, proseguì la sua attività di disegnatore satirico, collaborando a molti periodici antifascisti, tra i quali la nuova edizione del periodico L’Asino. Una situazione che inasprì l’odio contro il vignettista socialista, aggredito con violenza nel novembre 1926 tanto da provocargli la frattura della mandibola e una commozione cerebrale. L’introduzione delle leggi eccezionali contro gli oppositori del regime coinvolse anche Scalarini: il primo dicembre dello stesso anno fu infatti condannato al confino per cinque anni prima a Lampedusa e poi a Ustica, dove rimase fino al novembre 1929. Durante il confino scrisse un diario, pubblicato postumo solo molti anni dopo con il titolo Le mie isole (Franco Angeli, Milano 1992, pp. 156, con 29 illustrazioni).

    Trasferitosi a Milano, Scalarini fu sottoposto ad una rigida sorveglianza che cercò di alleviare con il ricorso alla scrittura per l’infanzia: pubblicò a firma della figlia Virginia Chiabov il romanzo Le avventure di Miglio (Vallardi, Milano 1933, pp. 182) con 477 illustrazioni. La figlia ci lasciò un interessante ritratto dell’attività del padre, del suo pensiero e della sua capacità di caricaturista, sottolineando come in vita fosse stato sempre contrario ad ogni forma di anticlericalismo becero e favorevole invece al «rispetto e alla tolleranza» dei credenti. Di carattere mite e pacifico, Scalarini nutrì un sentimento religioso «in interiore hominis» come una delle possibili scelte dell’uomo, facendo riferimento nelle sue vignette ad «espressioni tolte dal Vangelo, oppure all’immagine del Cristo» (cfr. Virginia Scalarini Chiabov, Giuseppe Scalarini, in «Asce News», gennaio-febbraio 1980, p. 48).

    Ridotto quasi in povertà, Scalarini trovò un rifugio alla sua grama esistenza, allorché nel 1932 cominciò a collaborare al Corriere dei Piccoli e alla Domenica del Corriere, finché il 15 luglio 1940 fu di nuovo arrestato a Gaviarate e internato nel campo di concentramento di Istonio (oggi Vasto) e poi in quello di Bucchianico (Chieti). Trascorsi i mesi di internamento, ritornò alla vita civile, sfuggendo nel 1943 all’arresto della polizia di Salò.

    Alla conclusione della guerra Scalarini riprese a collaborare all’Avanti! e poi all’Umanità, organo del nuovo Partito socialista sorto dalla scissione di Palazzo Barberini. Tra il marzo e l’ottobre del 1947 egli - come è stato ampiamente documentato da Michele Donno nella sua pagina universitaria - pubblicò ben 53 vignette, collegate ai problemi più scottanti che affliggevano l’Italia postbellica dalla disoccupazione al carovita e al diffuso malcontento popolare.

    Morì a Milano il 30 dicembre 1948, lasciando una notevole produzione satirica, apprezzata in molteplici mostre, nonostante che uno storico consideri «rozze» le sue vignette (cfr. R. Vivarelli, Storia delle origini del fascismo, vol. I, Bologna 1991, p. 102).

  • ANNIVERSARIO SOLZENICYN

    data: 10/12/2018 13:21

    Il centenario della nascita (Kislovodsk, 11 dicembre 1918) e il decennale della morte (Troice-Lykovo Mosca, 3 agosto 2008) hanno riproposto all’attenzione l’opera letteraria di Alexkandr Isaevič Solženicyn. Essa, per alcuni anni dimenticata, è ritornata in auge per la mostra fotografica che si è tenuta dal 7 al 17 novembre presso l’Università Statale di Milano. La mostra ha ripercorso il suo itinerario letterario, che cominciò con il suo romanzo Una giornata di Ivan Denisovič, proseguì con il suo Arcipelago Gulag e si concluse con altri romanzi come L’uomo nuovo. Tre racconti.
    In questi giorni, presso la Maire du Vème Arrondissement 21 Place du Panthéon, si tiene un’altra mostra che ripropone l’opera letteraria di Solženicyn con l’esposizione di manoscritti, di fotografie, di edizioni rare, raccolti nel catalogo intitolato Un écrivain en lutte avec son siécle (Èditions des Syrtes, Paris 2018, p. 300) e curato da Georges Nivat, traduttore e profondo conoscitore della letteratura russa.
    Il catalogo offre uno spaccato esistenziale di Solženicyn che trascorse otto anni in diversi campi di concentramento. Il dissidente sovietico fu arrestato nel febbraio 1945 per avere criticato a Stalin in una lettera privata (intercettata) ad un suo amico. Solo nel 1953, scontata la pena detentiva, fu inviato per tre anni al confino nel villaggio di Kol Terek nel Kazakistan, dove gli fu concesso di lavorare come insegnante. Proprio nella steppa kazaka ebbe le prime idee di narrare il suo vissuto personale in un romanzo.
    Nel 1954 Solženicyn fu colpito da un tumore e ricoverato a Taskent, dove riordinò i suoi pensieri sugli orrori dei lager con una «scrittura a memoria» che trascrisse su carta solo dopo la liberazione in condizioni difficili
    Nel novembre 1962 Solženicyn pubblicò sulla rivista «Novyi Mir» (organo degli scrittori sovietici) Una giornata di Ivan Denisovič, in cui raccontò la giornata tipica di un deportato e denunciò i misfatti del sistema oppressivo di Stalin. Nel gennaio 1963 il saggio, pubblicato da Einaudi e da Garzanti, cominciò a circolare anche in Italia, dove contribuì a far conoscere l’orrore dei campi di concentramento, trascurato nel processo di destalinizzazione avviato da Nikita Chruščëv.
    Dopo il romanzo Divisione cancro (1968) e Reparto C (1969), Solženicyn pubblicò Arcipelago Gulag (Paris 1973), che gli provocò l’arresto e poi l’espulsione dall’Unione Sovietica. Nel 1970 l’attribuzione del premio Nobel per la letteratura, che non poté ritirare, acuì i rapporti difficili con le autorità sovietiche per il suo invito all’abolizione della censura: inviò un discorso denso di riflessioni interessanti sul rapporto tra arte e opera letteraria, nonché sul ruolo che questa può esercitare da una generazione all’altra. Nel 1974 il romanzo Arcipelago Gulag apparve anche in Italia, ma non ebbe un’accoglienza favorevole da parte dell’intellettualità marxista e da scrittori come Umberto Eco ed Alberto Moravia.
    Privato della cittadinanza sovietica, Solženicyn fu espulso dall’Urss e, dopo un soggiorno in Svizzera, di stabilì negli Stati Uniti, dove proseguì il suo lavoro letterario, ripubblicando alcuni suoi testi e collaborando ad una miriade di riviste: del 1975 è il volume di memorie La quercia e il vitello, dove muove una critica serrata al comunismo sovietico.
    L’8 giugno 1978 Solženicyn pronunciò ad Harvard un profetico discorso, con cui deplorò «il declino del coraggio nell’Occidente», che – oltre a colpire i governi dei singoli Paesi – ha investito la classe dirigente, la burocrazia, i partiti politici, il ceto intellettuale e persino l’organizzazione delle Nazioni Unite, aggiungendo: « I funzionari politici e intellettuali manifestano questo declino, questa fiacchezza, questa irrisolutezza nei loro atti, nei loro discorsi e soprattutto nelle considerazioni teoriche che si premurano di esibire dimostrandovi che questo modo d’agire, che basa la politica di uno Stato sulla vigliaccheria e il servilismo, è pragmatico, razionale e giustificato da qualsiasi elevato punto di vista intellettuale e perfino morale». 

    Dopo il crollo del comunismo, Solženicyn ritornò nel 1994 in Russia dove pubblicò otto brevi racconti, poesie in prosa e la storia delle relazioni tra Ebrei e Russi. Un’analisi che mette in rilievo il legame popolare tra la comunità ebraica e la rivoluzione bolscevica, considerata come il prodotto di un movimento autonomo e non come cospirazione dei suoi membri più autorevoli. Morì a causa di un infarto all’età di 89 anni la sera del 3 agosto 2008. 

  • CAZZULLO, FISIME STORICHE
    SU MUSSOLINI-SARFATTI

    data: 08/12/2018 16:51

    Sul «Corriere della Sera» Aldo Cazzullo è intervenuto il 24 novembre e il 7 dicembre sul «tentativo di Margherita Sarfatti di separare Mussolini da Hitler», sostenendo che ella abbia scongiurato l’ex amante «di non mettersi contro gli Stati Uniti e di non legarsi alla Germania nazista». Strano che un giornalista così perspicace come Cazzullo ritorni spesso su un argomento che non ha alcun valore storico. Sua unica fonte informativa è il libro Margherita Sarfatti. La regina dell’arte nell’Italia fascista (Mondadori, Milano 2015) di Rachele Ferrario, da cui il giornalista trae le poche notizie che propina ai lettori dalla sua rubrica quotidiana (si legga la pagina 5, laddove l’autrice attribuisce il merito alla Sarfatti di avere tentano «invano di convincere il duce a non rompere con gli Stati Uniti» e di avere tramato «per allontanarlo da Hitler»).
     Nella risposta al lettore Luigi Agosti, Cazzullo ignora che il libro M Il figlio del secolo (Milano 2018) non parla dell’argomento (si ferma al 1924) e riprende pari pari il colloquio tra Renato Trevisani e Margherita Sarfatti, che nell’imminenza della guerra di Etiopia sbotta nella frase conclusiva che l’Italia vincerà, mentre Mussolini «perderà la testa» (R. Ferrario, cit., pp. 11 e 295). Il colloquio era già conosciuto da decenni per essere riportato nella biografia più esaustiva su Margherita Sarfatti. L’altra donna del duce (Mondadori, Milano 1993, pp. 536 e 731). Esso, secondo gli autori, si ritrova nell’intervista pubblicata su «Gente» con il titolo Parla la figlia di Margherita Sarfatti. Il grande amore del duce (24 settembre 1982, III, 38, pp. 55 o 58), cioè quasi mezzo secolo dopo il famoso discorso che Mussolini pronunciò il 2 ottobre 1935 «fra le 18.45' e le 19.10' dal balcone di Palazzo Venezia» a Roma (cfr. B. Mussolini, Il discorso della mobilitazione, in Id., Scritti e discorsi. Dal gennaio 1934 al 4 novembre 1935, Hoepli, Milano 1935, p. 217).
    Il commento di Margherita Sarfatti sulla decisione di Mussolini è il prodotto di un risentimento più che «di un presentimento» della conquista dell’Etiopia e della fine ingloriosa di Mussolini. Esso non ha alcun valore storico, perché si tratta di una rievocazione poco attendibile e dettata da amore filiale verso un astio recondito dell’ex amante. È difficile stabilire l'anno preciso, ma sembra che il loro idillio sia tramontato nel 1932 o 1933, quando Mussolini conobbe la giovane e avvenente Clara Petacci: «All’orizzonte è già comparsa una donna molto più giovane e meno impegnativa», scrive la Ferrario a pagina 297. Questa tesi è ignorata da Cazzullo, che in modo erroneo attribuisce all’ex amante un ruolo eccessivo nella formazione della decisione del duce riguardo all’alleanza con la Germania nazista.
    Sulla rivista «Gerarchia» (ottobre 1932) Margherita Sarfatti assunse un atteggiamento ostile al nazismo, con il vivo plauso a Dino Grandi. L’elogio non piacque a Mussolini, che tre mesi prima lo aveva destituito come ministro degli Affari Esteri per la simpatia verso l’America e la sua politica d’intesa con la Francia e l’Inghilterra. L’ascesa al potere di Hitler e la sua avversione verso il nazismo risvegliò l’ammirazione della Sarfatti verso l’America, anzi ne accentuò il suo desiderio di una possibile visita, incoraggiata peraltro da Mussolini, desideroso di allontanare una donna diventata un ostacolo alla sua relazione amorosa con la Petacci.  Forse il duce si ricordò della confidenza rivolta a Leda Rafanelli che per conquistarla disse della sua rivale: «Mi perseguita col suo amore, ma io non potrò mai amarla. La sua spilorceria mi disgusta. È ricca e abita in un grande palazzo di corso Venezia. Ebbene, quando viene pubblicato un suo articolo, manda all’“Avanti!” la sua cameriera per prenderne tre copie gratis, per risparmiare tre soldi. E ha l’edicola a pochi passi» (A. Spinosa, Mussolini il fascino di un dittatore, Mondadori, Milano 1989, p. 47).
    La fine del relazione tra Mussolini e la Sarfatti trapelò velocemente nella casta politica del regime e persino nell'ambiente letterario della capitale, dove Alfredo Panzini diede alle stampe verso la metà dell'anno il romanzo La sventurata Irminda (1932), la cui eroina rispecchiava la personalità della Sarfatti: una conclusione amorosa che portò all’estromissione della Sarfatti dal «Popolo d'Italia» e da «Gerarchia». Come confidò ad un suo collaboratore, Mussolini tenne a precisare: «Ho preso delle misure per liberarmi di lei. L’ho fatta licenziare dal “Popolo d’Italia e l’ho rimossa dalla direzione di “Gerarchia”. Ovviamente le ho corrisposto la liquidazione» (cit. in D. Ducret, Le donne dei dittatori, Garzanti, Milano 2011, p. 59).    

    Al ritorno dall’America, dove rimase dal 28 marzo fino al 2 giugno 1934, la Sarfatti non esercitava più alcun ascendente intellettuale e sessuale sul duce, che aveva informatori più capaci e preferiva inoltre – stando alla testimonianza del suo cameriere personale – alle «spasimanti stagionate» una giovane bella e avvenente come la Petacci: aveva nel 1935 ventitré anni (si veda G. Navarra, Memorie del cameriere di Mussolini, Milano 1946, p. 200).                                      

  • STORIA DI UN UOMO GIUSTO

    data: 04/12/2018 18:17

    Nella mia frequentazione settimanale del Baloon di Torino, un tempo «mercato dei cenci e delle pulci», ho trovato un opuscolo su Carlo Angela Un uomo giusto (a cura di Franco Brunetta, Anna Segre e Gianfranco Torri, Assessorato alla Cultura della Provincia, Torino 2002, pp. 30). Incuriosito dal titolo, sfoglio l’opuscolo e l’acquisto per sapere se vi sia un legame di parentela con il noto divulgatore scientifico e conduttore televisivo Piero Angela. Scopro con mia sorpresa che si tratta del Padre, su cui per molti anni era scesa una coltre di silenzio per il carattere schivo del Personaggio.
    Nato il 9 gennaio 1875 ad Olcenengo, piccolo centro agricolo nei pressi di Vercelli, Angela si iscrisse all’università di Torino, dove si laureò in medicina e chirurgia nel 1899. Compì le sue prime esperienze come medico nelle foreste del Congo, al seguito dell’esercito belga per poi frequentare l’ospedale della Pietà di Parigi. Fu proprio nella capitale francese che conobbe il celebre psichiatra Joseph J. Babinski, la cui opera medica è ricordata soprattutto per la descrizione dell’estensione dorsale dell’alluce con una lesione del tratto corticospinale.
    Ritornato a Torino, Angela fece prima il medico condotto per essere poi chiamato come direttore della struttura sanitaria di Bognanco, località di cura e di villeggiatura del Verbano-Cusio-Ossola, su cui lasciò un interessante opuscolo intitolato La cura di Bognanco. Indicazioni pratiche per la cura delle acque (Gozzano s.d.).
    Ma le sue ricerche scientifiche proseguirono con altre pubblicazioni: nel 1912 pubblicò lo studio A proposito della mielite cronica e del tremore intenzionale (Firenze 1912); l’anno successivo diede alle stampe Paraplegia flacida ed esaltazione dei riflessi tendinei nella mielite traversa (Firenze 1913) e Il riso ed il pianto spasmodico nelle lesioni cerebrali d’origine vascolare (Torino 1913).
    Durante la Grande Guerra, Angela fu ufficiale medico della Croce Rossa Italiana presso l’Ospedale Vittorio Emanuele di Torino. Nel 1921 aderì al partito «Democrazia radicale», una coalizione politica sorta dalla ceneri del Partito radicale. Ma con l’ascesa al potere di Mussolini, egli si distaccò da essa per il sostegno dato al governo, da cui prese le distanze.  
    Tra la fine del 1923 e l’inizio del 1924 Angela si avvicinò alle posizioni riformiste di Ivanoe Bonomi, presentandosi alle elezioni del 6 aprile 1924: fu capolista nella circoscrizione piemontese per la lista «Opposizione costituzionale», ma non venne eletto per il mancato raggiungimento del «quorum». Alcuni giorni dopo il rapimento e l’omicidio del deputato socialista Giacomo Matteotti, avvenuto il 10 giugno 1924, Angela accentuò le sue critiche e accusò sul settimanale Tempi Nuovi il fascismo «per il nefando delitto che ha macchiato indelebilmente l’onore nazionale». La reazione non si fece attendere e nella notte tra il 20 e il 21 giugno 1924 gli uffici della redazione del settimanale furono saccheggiati e incendiati. Così si rinchiuse nella sua professione e per oltre venticinque anni svolse un’intensa attività come medico e direttore sanitario della clinica psichiatrica «Ville Turina Amione» di San Maurizio Canavese.
    Negli anni successivi alla promulgazione delle leggi razziali, Angela nascose nella clinica psichiatrica l’imprenditore socialista Donato Bachi, il docente Nino Valobra, Oscar Levi, Guido Cavaglion, Aldo Treves, Lydia Ghiron Ottolenghi e i coniugi Nella Morelli e Renzo Segre, che riuscirono a salvarsi dalla deportazione grazie alla sua sollecitudine: segnalò alle autorità i suoi ospiti, compilando false cartelle cliniche e attribuendo loro gravi patologie. Sospettato di prestare aiuto ai pazienti di origine ebraica, Angela – come ha ricordato più volte il figlio – fu interrogato nel febbraio 1944, rischiando di essere fucilato. Si salvò a stento grazie all’intervento del conte di Robilant presso il federale di Torino Giuseppe Solaro, comandante della milizia fascista repubblicana.
    Morì il 3 giugno 1949 a Torino. Alla sua scomparsa la moglie ricevette molte lettere di cordoglio, tra le quali quella di Renzo Segre, riconoscente per averlo sottratto alla barbarie nazifascista. Solo vent’anni dopo la morte di Segre, avvenuta nel 1973, la figlia Anna scoprì il diario del padre, che venne pubblicato con il titolo Venti mesi (Sellerio, Palermo 1995, pp. 132), portando a conoscenza l’operato segreto di Carlo Angela e l’aiuto prestato a molti ebrei. Nel 2001 l’Istituto Yad Vashem di Gerusalemme riconobbe il contributo che Carlo Angela diede all’umanità, attribuendogli l’attestato di benemerenza e la medaglia dei “Giusti tra le nazioni”.
     
     
     
     
     
     
     
     
     
     
     
     
     
     
     
     
     
     
                                    


     

  • STELLA: PENDE E GRAMSCI...

    data: 30/11/2018 18:48

    Sul supplemento settimanale 7 del «Corriere della Sera» (29 novembre 2018, n. 48, p. 19), Gian Antonio Stella prende spunto dalla pubblicazione 1938, l’Italia razzista. I documenti della persecuzione contro gli ebrei (il Mulino, Bologna 2018, pp. 275) di Fabio Isman per muovere un’aspra critica ad una notizia reperita nel volume. Esiste a Noicàttaro, un paese di oltre 26 mila abitanti in provincia di Bari, un istituto scolastico intestato ai nomi di Gramsci - Pende che è il risultato dell’unificazione di due scuole. «L’insana convivenza», ricorda l’illustre giornalista ancora presentato come «Autore del bestseller La Casta», è il prodotto di «un abbinamento insensato che pare indicare agli studenti due mondi ai quali indifferentemente ispirarsi».
    Al di là di questa anodina valutazione, l’articolo chiarisce poco quale sia la distanza politica che intercorre tra Nicola Pende (Noicàttaro, 21 aprile 1880 - Roma, 8 giugno 1970) e Antonio Gramsci (Ales, 22 gennaio 1891 – Roma, 27 aprile 1937), l’uno medico endocrinologo ricordato per il «Manifesto degli scienziati razzisti» del luglio 1938 e l’altro pensatore comunista di grande acume culturale. Così il giornalista cita il saggio Gramsci e il razzismo (Aa.Vv., Cultura della razza e cultura letteraria nell’Italia del Novecento, a cura di Sonia Gentili e Simona Foà, Carocci, Roma 2010, pp. 137-156) di Raul Mordenti, da cui trae una frase di Gramsci.
    Nella citazione tratta dal saggio di Mordenti, l’insigne giornalista incorre in un errore grossolano e sovrappone la frase di Gramsci al commento dell’Autore, là dove questi afferma che «egli legge il concetto di “natura umana” non come un dato, da definire e da difendere e da imporre, ma, al contrario, come l’obiettivo concreto di un grande processo storico di unificazione reale del genere umano, di tutti gli uomini del mondo: “quanti più uomini è possibile, tutti gli uomini del mondo in quanto si uniscono tra loro in società e lavorano e lottano e migliorano se stessi” (A. Gramsci, Lettere dal carcere, a cura di Sergio Caprioglio e Elsa Fubini, Einaudi, Torino 1965, p. 965» (corsivo mio).
    Meraviglia che una lettera così famosa sia citata malamente, quando essa si ritrova in centinaia di siti e persino in libri molti comuni: si può leggere nel secondo volumetto A. Gramsci, Lettere dal carcere, Editrice l’Unità, Roma 1988, p. 267. Nella lettera, non datata ma inviata al figlio Delio poco prima di morire, Gramsci scrive tra l’altro: «Io penso che la storia ti piace, come piaceva a me quando avevo la tua età, perché riguarda gli uomini, quanti più uomini è possibile, tutti gli uomini del mondo in quanto si uniscono tra loro in società e lavorano e lottano e migliorano se stessi».
    Medesimo criterio di superficialismo giornalistico si ritrova nelle due lunghe citazioni di Nicola Pende, più riempitive che esplicative. Se la prima non ha alcuna attinenza con il libro 1938, l’Italia razzista. I documenti della persecuzione conto gli ebrei di Fabio Isman, la seconda non si ritrova nei libri: Molti, sani e forti. L’eugenetica in Italia (Bollati Boringhieri, Torino 2006; La «Difesa della razza». Politica, ideologia e immagini del razzismo fascista, Einaudi, Torino 2008) di Francesco Cassata. In realtà le due citazioni dell’endocrinologo fascista, a cui è dedicato l’istituto del suo paese natale, si ritrovano in un articolo del giovane storico (Nicola Pende scienziato razzista, «la Repubblica», 14 settembre 2006), che unisce i due brani sulla condanna del meticciato e della commistione tra ebrei e la «progenie romano- italica».
    Rimane il dubbbio se i due brani siano il risultato di scavo del giovane storico oppure si ritrovino nella sua recensione-articolo del libro I dieci. Chi erano gli scienziati che firmarono il Manifesto della razza (Baldini Castoldi Dalai, Milano 2005 (o 2006), pp. 273) di Franco Cuomo. Fatto sta che non è Fabio Isman ad avere «scoperto esterrefatto... il luogo» intestato a Gramsci e a Pende, ma al compianto Franco Cuomo, che già nel 2005 sottolineava come al razzista di Noicàttaro fosse intitolata una scuola e persino due premi in biomedicina e endocrinologia. Se allora vi fu la protesta dell’amministrazione cittadina di Centrosinistra per difendere la «memoria dell’illustre scienziato», oggi quella gestita dal sindaco pentastellato ha superato la decenza con l’accostamento a Pende del nome di Antonio Gramsci. 

  • IL TRAM DEGLI ANTIFASCISTI

    data: 23/11/2018 11:58

    Ieri sera è stato proiettato al cinema teatro Gioiello di Torino il documentario «Storia di 1 Tram», redatto da alcuni storici torinesi e preparato dai registi Elis Karakaci e Alessandro Genitori. I due giovani registi (l’uno albanese e l’altro siciliano) hanno raccontato la storia del Tram numero 1, luogo d’incontro e vivaio di un antifascismo democratico. Il percorso del Centro storico assumeva così le sembianze di un luogo rilevante come scambio di opinioni tra i passeggeri, alcuni dei quali dotati di grande cultura umanistica e scientifica.

    Il progetto, realizzato grazie ad un contributo del Consiglio Regionale del Piemonte, prese avvio quattro anni fa con l’intervista a Massimo Ottolenghi, scomparso ultracentenario il 18 gennaio 2016. I due registi sono stati ispirati nella preparazione del documentario dal racconto di Ottolenghi, che ha rievocato o suoi ricordi di gioventù e gli incontri fatti nel Tram n. 1 a partire dagli anni Venti del Novecento.

    La vettura torinese, prima rosso crema e poi color verde su ordine di Benito Mussolini – al duce «il rosso non piaceva granché» – contribuì a tener desto il sentimento democratico durante il regime fascista in una città fortemente monarchica e conservatrice. Le testimonianze dei pochi superstiti rendono onore ad un «luogo della memoria» e ad una pagina negletta nella storia dell’antifascismo, ma animata da grandi intellettuali che utilizzavano quel mezzo di trasporto pubblico.

    L’avvocato antifascista Bruno Segre (nato il 4 settembre 1918), anch’egli ultracentenario, ricorda il filosofo del diritto Gioele Solari (1872-1952), che intratteneva «discussioni filosofiche anche con il tranviere»; il critico musicale Massimo Mila (1910-1988) e il futuro editore Giulio Einaudi (1912-1999), che usavano il Tram per recarsi al Liceo classico Massimo d’Azeglio. Così quel famoso liceo, frequentato anche dal letterato Leone Ginzburg (1909-1944) e dal filosofo Norberto Bobbio (1909-2004), assurge metafora filmica come fermata per avviare un discorso sulla cultura democratica della città subalpina.

    La fermata di via Valperga Caluso diventa il simbolo della cultura scientifica per la presenza nel Tram di Giuseppe Levi, che, forse caso unico al mondo, aveva insegnato a tre giovani futuri Premi Nobel: Rita Levi Montalcini (1909-2012), Salvatore Luria (1912- 1991) e Renato Dulbecco (1914-2012). La fermata al Teatro Regio, prima dell’incendio del 1936, vedeva scendere personaggi illustri che vi si recavano per assistere alle rappresentazioni teatrali oppure per ascoltare concerti di musica classica. Il tram era anche utilizzato dagli studenti e dai professori delle varie facoltà universitarie, dove il dibattito politico era sempre in fermento, nonostante la rigida sorveglianza della prefettura e degli organi incaricati di reprimere ogni sentimento antifascista.

    Il decennio compreso tra la marcia su Roma e la seconda visita di Mussolini (1932) vide un largo successo del fascismo sabaudo grazie alla direttive imposte dal duce sulla stampa cittadina: impose infatti l’uscita di Alfredo Frassati da «La Stampa» e costrinse Giovanni Agnelli a nominare un direttore non ostile al fascismo. Dal 1929 al 1931 l’organo torinese fu diretto da Curzio Malaparte, fascista ma destinato ben presto a cadere in disgrazia presso il duce. Anche la direzione della «Gazzetta del Popolo» fu imposta dal duce, che nominò Ermanno Amicucci grazie al capitale messo a disposizione dalla Sip

    Gli anni Trenta furono ancora caratterizzati a Torino da un largo consenso e da un entusiasmo che via via diminuì e cessò sette anni dopo con il ritorno del duce allo stabilimento di Mirafiori, dove gli operai lo accolsero freddamente, forse per l’imminente ingresso dell’Italia nel Secondo conflitto mondiale.

     

  • GLI SVARIONI DI SCURATI

    data: 19/11/2018 19:13

    Sull’«Avanti!» del 29 ottobre è uscito un mio articolo sul nuovo libro M. Il figlio del secolo (Bompiani, Milano 2018, pp. 841) di Antonio Scurati. Esso ha concentrato l’attenzione sugli eventi storici del cosiddetto «biennio rosso», che ha creato le condizioni della scissione al Congresso di Livorno (1921) considerato da Pietro Nenni come l’inizio della «tragedia del proletariato italiano» (cfr. Storia di quattro anni, Einaudi, Roma 1946, p. 123). Il giudizio è riportato da Scurati alla pagina 313 con riferimento alla prima edizione uscita nel 1926, ma senza altra indicazione di editore e di pagina tanto che sorge il dubbio se l’Autore abbia mai consultato il volume.
    In realtà il volume di Nenni, che deve contenere il sottotitolo La crisi socialista dal 1919 al 1922 (Libreria del «Quarto Stato»), non può essere inserito «nelle consuete e poco legittime classificazioni politiche e ideologiche» in quanto si tratta di un’opera critica rivolta soprattutto al «“diciannovismo” come fenomeno di immaturità popolare e velleità rivoluzionaria» (E. Santarelli, Pietro Nenni, Utet, Torino 1988, p. 108). Eppure Scurati cita a casaccio il giudizio di Nenni, che si rivela incomprensibile nell’esposizione del dibattito politico svoltosi nel Congresso di Livorno. Se l’Autore avesse consultato il Resoconto stenografico del XVII Congresso Nazionale del Partito Socialista Italiano Livorno 15-10 gennaio 1921 (Edizioni Avanti! 1962, citato d’ora in poi “Resoconto stenografico”), pubblicato per la prima volta nel 1921, avrebbe evitato diversi strafalcioni storici e avrebbe dato un quadro più chiaro della scissione di Livorno.
    Persino la citazione del brano di Amadeo Bordiga appare insignificante e che – estrapolata dal contesto dell’intervento del leader comunista – rende più oscura la comprensione delle diverse posizioni politiche. Quale sia stata la scelta di riportare il giudizio del comunista napoletano diventa così incomprensibile, se esso non sia inquadrato nel lungo discorso di Bordiga (“Resoconto stenografico”, pp. 271-296; Scurati, p. 313) che l’Autore non cita neppure una volta nella narrazione storica del Congresso livornese. Per comprendere il pensiero di Bordiga bisognava citare la frase per intero, là dove egli dice: «Noi rivendichiamo la nostra linea di principio, la nostra linea storica con quella marxista che nel Partito socialista con onore, prima che altrove, seppe combattere i riformisti. Noi ci sentiamo eredi di quell’insegnamento che venne da uomini al cui fianco abbiamo compiuto i primi passi e oggi non sono più con noi. Noi, se dovremo andarcene, vi porteremo via l’onore del vostro passato, o compagni!» (“Resoconto stenografico, p. 294; Scurati, p. 313 solo per la parte in corsivo).
    La narrazione del 1921 si apre con la descrizione del XVII Congresso del Partito socialista italiano, che ebbe inizio a Livorno alle 15,30 del 15 gennaio («e non alle ore 14.00 del 5 gennaio», (Scurati, p. 307). La composizione delle varie correnti non è quella presentata dall’Autore, secondo cui erano presenti «i delegati dei 58.000 elettori della frazione comunista», i «“centristi” forti di 100.000 mandati» e «i riformisti che portano 15.000 voti» (Scurati, p. 307). Nel Congresso di Livorno si scontrarono cinque correnti, cioè «quella dei concentrazionisti formata dagli antichi riformisti […], la vecchia frazione intransigente rivoluzionaria […], la frazione dei “comunisti unitari” […], la frazione dei comunisti puri e quella che si proponeva quale obiettivo di impedire la rottura fra le altre due frazioni comuniste» (cfr. Il Partito Socialista Italiano nei suoi Congressi, vol. III: 1917-1926, a cura di F. Pedone, Edizioni Avanti!, Milano 1963, p. 121).
       La presenza di queste varie frazioni è commentata da Scurati in modo semplicistico: nulla è detto di Paul Levi, delegato del Partito comunista tedesco e dei messaggi firmati da Gregorij Evseevič, Zinov’ev improntati ad una serrata critica dei riformisti socialisti capeggiati da Filippo Turati e da Giuseppe Emanuele Modigliani. Nulla è detto del discorso di Antonio Graziadei, che privilegiava la dipendenza dalla centrale moscovita all’unità del socialismo italiano, la cui fedeltà al «valore storico» del Psi si esprimeva nell’adesione alla III Internazionale, «scandita – come sostiene Scurati con linguaggio estroso – in 21 tesi perentorie come chiodi conficcati sulla bara dell’unità proletaria» (“Resoconto stenografico”, p. 29, Scurati, 307).
    Di Giacomo Matteotti e della sua presenza al Congresso di Livorno, Scurati non chiarisce il motivo per cui il deputato socialista abbandonò l’assise socialista (p. 310), credendo che abbia «dovuto rinunciare a parlare al congresso per accorrere» nel suo collegio elettorale. L’autore si limita così a dire che «per due giorni Matteotti ha ascoltato decine di interventi di uomini di lotta provenienti da tutta Italia e da mezza Europa» (Scurati, pp. 310-311) prima della sua partenza per Ferrara. Come sia possibile che Matteotti abbia ascoltato «decine di interventi» nei due giorni di presenza al Congresso, se la seduta pomeridiana del 15 gennaio fu occupata dalla nomina delle presidenza, dalla adesione dei vari partiti europei e dai saluti della «Direzione del partito», del Sindaco di Livorno e della Federazione Giovanile.
    L’unico discorso del 15 gennaio fu quello di Antonio Graziadei, mentre l’assise del giorno successivo fu occupata solo dai discorsi del comunista bulgaro Christo Kabakčiev e di Adelchi Baratono, l’uno volto a ribadire la linea stabilita dalla centrale moscovita e l’altro a sostenere le posizioni dei comunisti unitari (“Resoconto stenografico”, pp. 100-132). A questa inesattezza storica Scurati aggiunge l’altra sul discorso di Vincenzo Vacirca, che intervenne non nella «giornata del 17» gennaio (p. 308), ma nella «seduta pomeridiana del giorno 18» presieduta da Argentina Altobelli (cfr “Resoconto stenografico”, pp. 231-251). Del socialista siciliano (era nato a Chiaramonte Gulfi il 26 novembre 1886), l’Autore dice che si tratti di un «sindacalista … che a sedici anni ha organizzato la lega contadina di Ragusa ed è giù scampato più volte ad attentati sia in Italia che negli Stati Uniti d’America» (p. 308). È vero che Vacirca organizzò nel 1902 una lega dei contadini e che visse per alcuni negli Usa, ma si trattò di esperienze lontane dagli anni che lo videro impegnato nel dibattito precongressuale di Livorno. Egli fu direttore di periodici, organizzatore politico e attivo propagandista dei principi socialisti, oltre ad essere deputato nel legislatura e delegato del Psi «nella Russia sovietica». Così la parte su Vacirca dà notizie che hanno scarsa attinenza con il ruolo svolto nel Congresso di Livorno, dove si schierò per la corrente intransigente e individuò nello sciopero generale l’arma più idonea per arrestare la marea reazionari del fascismo. Come afferma Giuseppe Miccichè, profondo conoscitore del socialismo siciliano e autore della interessante voce sul personaggio (Cfr. «Il movimento operaio italiano. Dizionario biografico 1853-1943», V, Editori Riuniti, Roma 1978, pp. 160-163», Vacirca «si collocò fra i massimalisti unitari e i riformisti», rifiutò la cosiddetta «violenza rivoluzionaria» e denunciò il senso di malessere della classe lavoratrice «per la lunga e vana attesa dello scontro finale con la borghesia» (cfr. G. Miccichè, Dopoguerra e fascismo in Sicilia 1919-1927, Editori Riuniti, Roma 1976, p. 85).
    Così Scurati non coglie minimamente la posizione politica di Vacirca, che nel suo discorso non affermò l’identità tra socialismo e comunismo (p. 309). Come rappresentante della «più piccola frazione» del Congresso, egli precisò di essere lontano «dai compagni di estrema sinistra» (“Resoconto stenografico”, p. 231 e p. 232) ed auspicò un ritorno alla politica classista, diversa da quella sostenuta dai comunisti puri come Umberto Terracini ed Adelchi Baratono. Dai due comunisti, ma anche da Amadeo Bordiga, vi era una discordanza di vedute sulla rivoluzione russa, sull’uso della violenza e sulla funzione dei consigli di fabbrica (“Resoconto stenografico”, pp. 233-237).
    In questo contesto, e non nel quadro generale presentato dall’Autore, si inserisce l’episodio sullo scontro tra Vacirca e Nicola Bombacci e la critica che il socialista siciliano rivolse al comunista romagnolo, responsabile di fomentare la reazione borghese con il suo rivoluzionarismo parolaio e con il suo appello ad una «violenza assoluta come metodo normale di lotta» politica e «idea forza» disgregatrice del «mondo borghese» (“Resoconto stenografico”, p. 235). Lo scontro tra Vacirca e Bombacci, il caso del «temperino» dell’uno e il ricorso alla pistola dell’altro, sono ripresi dal volume Il comunista in camicia nera (Milano 1996) di Arrigo Petacco (Scurati, pp. 309-310). La descrizione delle sembianze fisiche («mani femminee», già ribadite in altre pagine (Scurati, p. 77, Petacco, p. 11), e persino alcune frasi (come per esempio «Prendi questa. Fagli vedere di cosa sei capace» non presentano alcuna originalità (Petacco, p. 51 e Scurati, p. 309).
    Eppure l’episodio increscioso, riportato nel “Resoconto stenografico” (pp. 238-239), ha una vasta presentazione con la conclusione di Riccardo Roberto, che deplorò l’accaduto e convalidò l’espulsione di Bombacci, su cui Scurati esprime più volte giudizi ripetitivi, tralasciando personaggi ed eventi di più grande rilevanza storica. Dopo descrizioni inutili e un susseguirsi di «svarioni», l’Autore ritorna su Giacomo Matteotti e sulla sua attività politica di cui traccia un profilo semplicistico dopo la partenza da Livorno e durante i pochi giorni trascorsi a Ferrara. Perché non dire che il segretario della Camera del lavoro ferrarese è Gaetano Zirardini (1857-1931), implicato nei fatti del Castello Estense (20 dicembre 1920) e arrestato al momento della sua partenza per Livorno? Perché non dire che l’altro arrestato era Edoardo Temistocle Bogianckino (1876-1953), primo sindaco socialista di Ferrara imparentato per via materna con Gabriele d’Annunzio?
    Di fronte a queste omissioni c’è da chiedersi il motivo per cui Scurati citi invece il nome del prefetto (Pugliese), a cui Matteotti si rivolse per non avere «la sorveglianza degli agenti di pubblica sicurezza» e fare affidamento solo sui «suoi compagni armati di bastone» (p. 311). Strana richiesta quella di Matteotti, se si pensa che si allontanò dall’assise socialista per sfuggire al clima di intolleranza e alla violenza verbale di comunisti come Bordiga e Terracini. Egli si recò a Ferrara non per un atto di eroismo, come vuol far credere Scurati (p. 312), ma per guidare le manifestazioni di piazza contro i fascisti della città Estense.