C’è un termine comune – anzi un marchio – che permette di trattare congiuntamente design, moda e architettura (ma che si potrebbe allargare anche ad altri comparti): cioè “il made in Italy”. Un’etichetta che solitamente contraddistingue il luogo del costruito o manufatto inserita nel risvolto interno del collo di una giacca o di un pantalone come d’abitudine in tutti i paesi produttori di beni di consumo, si trasforma, nel caso italiano, in un messaggio di qualità, di fantasia, di affidabilità: non è poco per un Paese che peraltro viene rappresentato come luogo di pizza, spaghetti e o’sole mio.
Ma questo marchio – che è un vero e proprio brand – non è frutto di circostanze occasionali, ma esito di una storia sociale, una cultura, una capacità costruttiva, una organizzazione industriale, una operosità, una ricerca del nuovo, una voglia di nuove frontiere, una sfida, di un misto tra fantasia e razionalità, tra genialità e ricerca, tra l’arte di arrangiarsi e la messa a frutto del commercio. Sia chiaro: non sono, queste, caratteristiche di cui l’italiano ha il monopolio. Ogni paese è il prodotto delle condizioni in cui si è sviluppata la sua storia e ogni popolo è frutto delle condizioni sociali, politiche, culturali, economiche, geografiche che lo hanno caratterizzato nei secoli. Né è lecito esprimere un giudizio di valore sulle peculiarità di una nazione rispetto ad un’altra; come, ad esempio, tra paesi rivieraschi e paesi montani, tra paesi a forte contaminazione etnica e paesi chiusi, tra paesi a giovane sviluppo e paesi a forte tradizione economico-industriale, tra consolidate democrazie e forti totalitarismi, tra colonizzatori e colonizzati, tra occupanti e occupati. Dunque il caso italiano non va enfatizzato né universalizzato e va visto nel suo concreto essere sia come peculiarità che come specificità.
Il genius loci
E’ indubbio che la creatività italiana mista all’operosità trova le sue radici nella organizzazione del territorio: dai comuni rinascimentali ai distretti industriali di oggi. L’organizzazione in comuni del Rinascimento se da un lato corrispondeva alle lotte tra feudatari del medioevo, dall’altro rappresentò proprio il superamento del feudo. Come alla pioggia segue il sereno, così alla voglia di espansionismo seguì la voglia – o necessità – di guardarsi i fatti di casa propria (non che non ci furono guerre per accaparrarsi fette di territorio!) e di godere un po’ di … dolce vita.
Lo sviluppo delle arti (Leonardo, Michelangelo), dell’architettura (Bernini, Filarete, Leon Battista Alberti), della scienza (ancora Leonardo), del bel vestire (le corporazioni dei sarti), del bel vivere (tra feste, amori e tradimenti) insieme al fiorire del commercio (si inventa la cambiale), dei traffici, dei viaggi avventurosi (si scopre l’America) sono frutto ma anche stimolo per una esplosione di creatività tutta locale che attraversò imperiosamente l’Italia dei comuni e si estese ai secoli successivi.
E’ nel crogiuolo dell’età rinascimentale e dintorni che va cercata l’origine, il genius loci italiano.
Facciamo un salto di cinquecento anni e chiediamoci se l’articolazione del territorio è un elemento di caratterizzazione della produzione italiana: la risposta è sì. Pensiamo ai distretti industriali. L’Italia produttiva è a macchie come una pelle di leopardo: tra zone sviluppate e zone sottosviluppate, se vogliamo; oppure tra zone agricole e industriali; tra aree a vocazione monoculturale e aree indifferenziate. Negli anni Settanta e Ottanta del secolo scorso è invalsa la tendenza a recuperare le specificità di alcune situazioni territoriali cercando di capirne e valorizzarne la diversità rispetto ad un modello omologante basato sul dualismo: sviluppato/sottosviluppato, nord/sud, agricolo/industrializzato.
Proprio questo cambio di prospettiva ha permesso di riconoscere la valenza e la peculiarità di alcune aree del paese: pensiamo al distretto dell’automobile del Piemonte, del metallurgico nel bresciano-Lombardia, del mobile in brianza-Lombardia, del tessile e serico nel comasco-Lombardia, del vetro a Murano-Veneto, dell’oreficeria a Vicenza-Veneto, della sedia nel Friuli, del marmo a Carrara-Toscana, della calzatura nelle Marche, dell’imbottito in Puglia-Basilicata, (per non parlare dei distretti culturali, di quelli enogastronomici e di altri ancora). In effetti queste aree trovano la loro origine per lo più nella storia del loro territorio, nelle arti e mestieri, nelle tradizioni: quello che dapprima sembrava essere un limite è diventato una risorsa.
Il design
Un settore nel quale l’Italia eccelle è il design.
Come si sa la traduzione del vocabolo dall’inglese non ci aiuta giacché disegno non corrisponde alla realtà fenomenica del prodotto di cui parliamo e progettare implica un processo lungo che spesso non corrisponde alla realtà fattuale. Varie sono le interpretazioni tendenti a spiegare l’affermarsi del design in Italia e la sua diffusione nel mondo. Una prima interpretazione – che chiamiamo artistica – è che il design è il prodotto tra arte e artigianato e deriva dalla capacità artigianale tipica degli italiani che con il tempo e in circostanza specifiche si è trasformata in produzione seriale e cioè industriale. Se l’etimologia ci può aiutare, arte e artigianato hanno la stessa radice in ars: quindi il pezzo, il manufatto dell’artigiano pensato per una funzione pratica, se accoppiato ad una ricerca artistica produce quel valore aggiunto che fa di un oggetto pratico anche un oggetto bello. Se l’artigiano produce più pezzi attraverso uno stampo o comunque attraverso un processo di produzione in serie, questo diventa un oggetto di design.
Un’altra interpretazione – che chiamiamo tecnica – è appunto quelle che un oggetto può definirsi di design, se pensato, disegnato, ingegnerizzato, sperimentato, prodotto attraverso un processo che va da dal’idea alla ricerca di materiali alla sua produzione attraverso un processo industriale: gli attori sono, quindi, gli ideatori (architetti, designers) che lavorano con i tecnici (ingegneri) con i produttori (imprenditori, operai).
Una terza interpretazione – che chiamiamo tecnologica – prevede che l’oggetto è di design se ha in sé una forte componente di novità sia rispetto alla sua funzione che alla sua produzione; l’oggetto tecnologicamente avanzato è evoluto, ergonomico, ecologico, politically correct.
La storia del design italiano è attraversata contemporaneamente dalle varie interpretazioni, in una sommatoria di tentativi ed esperienze, intuizioni e casualità, provocazioni e assurdità. Un fiasco di vino può definirsi di design? La sedia superleggera di Gio Ponti è design artistico, ingegneristico, tecnologico? La poltrona di Proust di Mendini è arte, tecnologia o provocazione? La libreria Charlton di Sottsass è funzionale? La sedia Mezzadro di Achille Castiglioni è un nuovo prodotto o un vecchio prodotto per una nuova funzione? Come si vede ci sono casi dubbi! Ma c’è forse un altro tassello da aggiungere alle varie interpretazioni: quello sociologico-semantico. Tentiamo una affermazione apodittica: design non è un sostantivo ma un aggettivo con il quale il sentire sociale connota un oggetto consono al suo gusto e al suo stile di vita. L’evoluzione tecnica e tecnologica dei processi produttivi è una costante del divenire; il passaggio dall’artigianato alla produzione industriale è connaturato alla diffusione dei mezzi di produzione di massa e da una richiesta di mercato (ancorché spesso indotto); il bello è una categoria mutante e ricorrente, soggettivo e – contraddittoriamente – di moda. Il design è una categoria che nella sua componente strutturale appartiene ai suoi produttori; per i suoi consumatori, invece, è un segnale, una appartenenza di status, una comunicazione tra pari ed erga omnes: l’oggetto è di design per il suo significante non per il suo significato. Ma c’è un risvolto della medaglia: l’allargamento del consumo di design ha prodotto un processo di generalizzazione e una perdita di significante. Il consumatore storico di design ha passato il confine, è alla ricerca di nuovi simboli, si è chiuso in una community di specialisti che rifiuta la generalizzazione (già il design radicale ha tentato di sciogliersi dall’abbraccio del consumismo). Il paradosso oggi è che il design più si diffonde e meno definisce la peculiarità dei suoi consumatori . E allora: quale ruolo per il design del XXI secolo?
La moda
La moda è il fiore all’occhiello della produzione italiana e può a ben ragione definirsi un icona italica come la Ferrari, Federico Fellini, Valentino Rossi, La Biennale di Venezia, Renzo Piano. Tra i distretti industriali di cui abbiamo parlato prima, ben 35 sono riferiti al tessile-abbigliamento-prodotto moda. In Lombardia, ad esempio, su 16 distretti industriali individuati dalla Regione ben 9 sono riferiti al tessile-abbigliamento-moda. In Campania 5 su 8, nel Veneto 4 su 8. E così più o meno nelle altre regioni. Questa diffusione sul territorio dell’industria tessile tout court, peraltro, è caratterizzata da imprese di medie dimensioni (anche se con fatturati di tutto rispetto), in linea con la peculiarità del sistema industriale italiano. La moda come si sa non ha origini specificatamente italiane: è della fine del ‘600 l’apparire in Francia della marchandes de modes; i tailleurs, le lingères e le couturéres sono le corporazioni dei sarti, delle venditrici di lino e canapa, delle cucitrici; il primo vero stilista fu nel 1850l’inglese Charles Worth trapiantato a Parigi che aprì il suo atelier e cominciò a produrre abiti prima ancora che glieli ordinassero. Tuttavia nel panorama mondiale della moda Milano, Firenze e Roma sono le capitali della moda non solo italiana e competono con Parigi, Londra, New York. L’ideazione, la confezione, il glamour della moda italiana è riconosciuto da tutti e da tutto il mondo convergono in Italia durante le sfilate. Ma anche qui bisogna individuare i meccanismi che hanno prodotto questa attenzione e questa fortuna della moda italiana. E’ indiscussa la creatività di fashion designers come Cappucci, Pucci, Gucci, Valentino, Armani, Versace, Fiorucci, Ferre, Krizia, Fendi, Prada, Trussardi, Cavalli, sino ai “giovani” Dolce&Gabbana: alcuni provenienti proprio dal mestiere di sarto/a, altri dal sistema di vendita, altri da scuole. Ma altrettante icone della moda possiamo trovare in Francia, in Inghilterra, in America, in Canada, in Giappone. La fortuna della moda italiana è legata – ad avviso di molti studiosi – al contesto artistico, all’humus creativo che caratterizza il nostro paese, ma anche al sistema di confezione, alla ricerca dei tessuti, all’invenzione delle forme e infine ma non ultimo, al sistema di promozione e di vendita. Forse un debito di riconoscenza dobbiamo ancora portarlo al conte Giorgini che a Palazzo Pitti a Firenze nel 1952 organizzò la prima sfilata di moda: fu una operazione di marketing ante litteram che ha fatto della esposizione di vestiti fino ad allora negli atelier per pochi intimi, in un grande fenomeno mass mediologico. Le sfilate milanesi, per dirne una, sono un insieme di eventi che uniscono spettacolo, arte, comunicazione, pubblicità, business, gossip, intrattenimento nei quali sono coinvolte migliaia di persone, ma dietro le quinte della mondanità c’è un mondo di lavoratori: creativi, sarti, stylist, pr, pubblicitari, marketing manager, amministrativi, operai e più o meno solide strutture finanziarie. Il made in Italy nel settore della moda è un marchio di “sistema” cioè di un complesso di soggetti caratterizzati da altra professionalità mista ad alta creatività.
L’architettura
C’è una immagine che ormai è diventata il logo del nostro paese: l’uomo di Vitruvio “l’homo ad circulum et ad quadratum” così come trattato nel “De architettura” di 2100 anni fa. Figura di uomo che Leonardo cinquecento anni fa riuscì ad introdurre nel cerchio ottenendo la sospirata “quadratura del cerchio”: disegno riprodotto ora sulla moneta da 1€. Lo “studio delle proporzioni dell’uomo” dell’architetto per antonomasia, il latino Marco Vitruvio Pollione, rappresenta il mondo dell’architettura italiana e, per estensione, dell’Italia tout court: un bel biglietto da visita per gli architetti! E da Vitruvio parte anche l’imperativo per l’architetto di attenersi all’ “ordinatio” e alla “symmetria”. (Anche se lo storico Bruno Zevi nella sua Controstoria dell’architettura si scaglia contro questa teoria della proporzione in quanto ostativa di ricerca di nuove forme e nuove volumetrie). Tutta l’architettura italiana dal classicismo in epoca romana alle chiese e ai castelli e al romanico del medioevo, alle città e ai palazzi signorili del rinascimento, al barocco seicentesco, al rigore illuministico, al neoclassicismo fino ad arrivare al futurismo, al modernismo e al postmoderno, è affollata di oscuri costruttori e da famose super star. Le opere più famose delle varie epoche – da un lato esaltate come genialità italica dall’altro denigrate come scenografie ambientali – ascrivibili ad architetti come Bernini, Bramante, Brunelleschi, Michelangelo, Leonardo, Leon Battista Alberti, Palladio, fanno parte ancora oggi dell’itinerario architettonico del bel paese. Ma dopo di loro il buio! Dobbiamo arrivare al Novecento per avere nuovi sprazzi di creatività: da Antonio Sant’Elia a Giuseppe Terragni (ambedue morti tragicamente, durante la 1^ guerra mondiale il primo; al ritorno dal fronte della 2^ guerra mondiale il secondo). Ma nel frattempo non mancano gli architetti che esaltano la superiorità del regime (Piacentini) che riempiono le città italiane di edifici monumentali. Una vera rinascita della cultura architettonica italiana si ha nel secondo dopoguerra, per le stesse ragioni che abbiamo citato per il design e per la moda (da qui la nostra costruzione della triade design-moda-architettura): il boom economico fa nascere una forte richiesta di modernizzazione, una classe sociale povera e rurale si inurba nelle città e acquisisce uno stile di vita “moderno”, la motorizzazione (dalla mitica vespa alla cinquecento) facilita e al tempo stesso impone una strutturazione della città e dell’abitare rivolta all’allargamento dello spazio urbano e ad una riconversione dei centri storici. La creatività italiana in architettura si manifesta con progetti fortemente dinamici e moderni come la Torre Velasca a Milano progettata dal famoso quartetto BBPR, il grattacielo Pirelli sempre a Milano progettato da Gio Ponti, la Chiesa sull’Autostrada del sole progettata da Giovanni Michelucci a Firenze. Viene avanti inoltre una nuova generazione di architetti : Aldo Rossi, Vittorio Gregotti, Paolo Portoghesi, Gae Aulenti, Renzo Piano (quest’ultimo l’architetto italiano più famoso nel mondo, vincitore del Premio Pritzker nel 1998). E proprio negli ultimi dieci, quindici anni si viene a costituire nel mondo lo star system dell’architettura (i nomi non sono pochi) da cui è esclusa, almeno in Italia, la generazione dei quarantenni. Pure, un formicaio di architetti (circa 80.000 in Italia) lavora alla costruzione di case, piazze, edifici pubblici o di culto con tentativi di globalizzazione da un lato o di ricerca di identità socio-antropologiche dall’altro: spesso utopie fuori da qualsiasi contesto, spesso avveniristici totem della società massmediale, spesso cattedrali nel deserto; ma spesso anche e soprattutto lavoro certosino di costruzione, sul terreno accidentato di un territorio profanato da speculazione e ignoranza, di luoghi abitabili, di manufatti per il ben vivere e il ben essere.
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