Sul numero attualmente in edicola del mensile "Gardenia" ho trovato due articoli molto interessanti, che mi hanno spinto a cercare anche altre informazioni in rete, per tornare sull’argomento già toccato parlando della Gendarmenmarkt Platz di Berlino, cioè gli adattamenti delle città alle conseguenze dei cambiamenti climatici. In quel caso si trattava di una complessa opera di ingegneria con cui si costruirà, sotto la piazza, una grande vasca di raccolta delle acque piovane, che verranno stoccate, per essere filtrate e utilizzate in caso di siccità e infine restituite alle falde idriche. In questi articoli invece l’opera di mitigazione, che rallentando il flusso dell’acqua ne facilita l’assorbimento da parte del terreno in modo che possa essere reimmessa in falda, è lasciata alla natura, cioè al verde ed al terreno libero da cemento e altre pavimentazioni impermeabilizzanti. Il consumo del suolo nelle aree urbane è probabilmente l’elemento che maggiormente contribuisce ad aggravare gli effetti dei fenomeni meteorici straordinari. L’impermeabilizzazione del suolo infatti intensifica gli effetti negativi dei cambiamenti climatici alterando il naturale ciclo delle acque. Il consumo di suolo in Italia è stato quantificato in due metri quadrati al secondo, come ha detto Fabio Ciconte, direttore dell’Associazione Terra, a Sveva Sagramola nella trasmissione Geo del 17 gennaio.
Siamo abituati a pensare che la lotta ai cambiamenti climatici vada combattuta abbattendo i gas climalteranti responsabili dell’effetto serra, quindi passando dalle energie fossili a quelle rinnovabili; ovviamente è così, però ancora fatichiamo a renderci conto che questo passaggio, anche se non si perdesse più tempo e si realizzasse in tempi brevi, non sarebbe comunque più sufficiente ad arginare le conseguenze di una modificazione del clima che ormai è già in atto da anni, che non possiamo azzerare e di cui non possiamo più negare gli effetti dirompenti, che risultano tanto più dirompenti proprio laddove il terreno è più impermeabilizzato, cioè nelle città.
Come scriveva Fabrizio Fasanella in “Dimenticare l’asfalto. Le città del futuro devono essere come delle spugne” (1) : “Le città impermeabili stanno diventando anacronistiche per via degli eventi climatici estremi. La sfida urbanistica del futuro - non troppo lontano - consiste nel renderle porose come delle spugne, puntando su soluzioni nature based. Alla natura si risponde con la natura. Alle alluvioni e alle piogge torrenziali alternate a periodi di siccità – tra gli effetti più concreti dei cambiamenti climatici – si replica con alberi, tetti verdi, aiuole, parchi, stagni o laghi, ma anche con strade sterrate, sabbia e altre superfici permeabili in grado di assorbire velocemente l’acqua e di rallentare il deflusso superficiale”.
Gli articoli di Gardenia parlano proprio di questo. Il primo, a firma Margherita Lombardi, intitolato I giardini della pioggia, racconta quella che l’autrice definisce la nuova frontiera del paesaggismo urbano, che punta alla realizzazione di interventi su piccola scala capaci di mitigare le conseguenze dei cambiamenti climatici. I Rain gardens, cioè letteralmente i giardini della pioggia o, più tecnicamente, “aree di ritenzione vegetate”, sono spazi verdi progettati per accogliere temporanei accumuli di acqua piovana e tollerare brevi periodi di inondazione, così come di siccità. Fondamentale è la scelta di piante adatte a sopportare queste condizioni estreme, quindi essenzialmente specie spontanee autoctone o naturalizzate, ma molto si gioca sulla creazione di ampie aree libere dal cemento, con suolo profondo ad elevata capacità drenante, e con canali e stagni in grado di accogliere l’acqua in eccesso. Ma non è solo questo, perché i Rain gardens sono sistemi multifunzionali, che oltre a permettere di gestire in modo sostenibile e naturale i flussi meteorici, contribuiscono a depurare le acque grazie alle piante e in particolare alle loro radici, all’effetto tampone del terreno e all’attività della microflora e microfauna che li abitano, creando nello stesso tempo spazi belli dal punto di vista paesaggistico e ricchi di biodiversità, il che ne accresce la funzione ricreativa, come pure quella educativa.
Questi giardini sono nati negli Stati Uniti alla fine degli anni ottanta del secolo scorso, prima in ambito residenziale e poi pubblico, inizialmente con la prevalente funzione di filtro, per ridurre gli agenti inquinanti che le acque trasportano negli scarichi, nei fiumi ed infine negli oceani. Dagli Stati Uniti si sono rapidamente diffusi nel Centro e Nord Europa, in particolare in Germania, Polonia ed Inghilterra.
Su scala più ampia i Rain gardens possono estendersi fino a trasformare i centri urbani in Sponge cities, le “città spugna”, che sono l’oggetto del secondo articolo di Gardenia “Ingegnose città-spugna”, a firma Cinzia Toto. “Per ridurre il rischio alluvioni in ambiente urbano si è capito che occorre liberare il suolo da cemento e asfalto, creando aree verdi che permettano l’assorbimento delle piogge”: così introduce l’argomento l’autrice, che ci racconta che questa strategia, sperimentata in Cina, inizia ora a diffondersi anche in Italia. Alessandro Nicoloso, dottore forestale, paesaggista ed esperto di drenaggio urbano sostenibile, intervistato da Cinzia Toto spiega che “Nella maggior parte delle città solo il 20-30% della pioggia viene assorbito dal terreno, con punte minime del 5-10% in corrispondenza di superfici completamente asfaltate o cementate. Il resto finisce nelle reti fognarie. Negli ultimi anni, però, la più alta frequenza di piogge estremamente intense ha messo in evidenza il sottodimensionamento di queste reti, che oltre a essere state progettate per piogge largamente meno abbondanti, non sempre sono state adeguate all’espansione urbana. È facile capire quindi come mai le inondazioni siano diventate più frequenti, provocando sempre più vittime e danni ingenti alle infrastrutture. Fare in modo che le acque meteoriche non finiscano tutte nei tombini, intasandoli, ma siano riutilizzate attraverso la creazione di aree verdi, è una sfida e un’opportunità per avere città più belle, sicure e piacevoli da vivere”. Sempre in questo interessante articolo leggo che uno dei primi a teorizzare il concetto di città-spugna è stato già venti anni fa l’architetto paesaggista cinese Kongjian Yu, che diceva: “Usare il cemento per canalizzare e arginare l’acqua, come abbiamo fatto finora, è completamente sbagliato. Ci siamo illusi che in questo modo avremmo potuto difenderci da allagamenti e alluvioni. Di fatto le strutture in cemento hanno prodotto l’effetto contrario. Dobbiamo cambiare radicalmente approccio, diventando amici dell’acqua, dandole spazio. Come? Rimuovendo le strutture in cemento, costruendo edifici con tetti e pareti verdi, utilizzando pavimentazioni permeabili e creando terrazze in cui terra e acqua possano incontrarsi su livelli diversi”.
Kongjian Yu, attualmente professore di architettura del paesaggio all’Università di Pechino, è arrivato a concepire il concetto di città-spugna partendo da un’esperienza traumatica della sua infanzia. Quando aveva 10 anni un’alluvione lo trascinò violentemente dentro le tumultuose acque di un torrente. Fortunatamente, in un punto ricco di salici, canneti e altre piante, il flusso rallentò e il piccolo riuscì a trarsi in salvo aggrappandosi alla vegetazione: “Sono sicuro che se il fiume fosse stato come quelli di oggi, levigati con strati di cemento, sarei annegato. Perché non puoi vincere contro l’acqua: devi lasciarla proseguire”, ha raccontato in un’intervista alla BBC (1).
Il concetto alla base della città-spugna è proprio questo: passare da un centro urbano impermeabile – ricoperto di colate d’asfalto e cemento – a una città con superfici porose poste nei cosiddetti “flooding hotspots”, siti dove è più probabile che l’acqua si accumuli in caso di tempeste particolarmente violente.
Yu ha progettato oltre duecento sponge cities in Cina ed oggi sta lavorando a vari progetti in America, Russia ed Indonesia.
In Europa una delle esperienze più riuscite è a Berlino, dove l’architetto Carlo Becker sta trasformando un quartiere costruito venti anni fa in un esempio di sponge-city. Gli edifici hanno tetti e pareti verdi e l’acqua fluisce in cortili-giardino fra i palazzi, sotto i quali garage interrati sono coperti da uno strato di almeno ottanta centimetri di terra, che funziona da spugna in caso di piogge estreme. Nel quartiere non ci sono tombini né una rete fognaria tradizionale: l’acqua scorre verso zone verdi laterali, ribassate rispetto al piano stradale, per penetrare poi lentamente nel terreno. D’estate questi spazi, grazie all’evaporazione, sono piacevolmente più freschi rispetto ad altri luoghi pubblici cittadini. “In natura la pioggia è assorbita da suolo e vegetazione” spiega l’architetto, “poi la maggior parte evapora e il resto viene filtrato in profondità nel suolo. L’acqua che evapora rinfresca l’ambiente circostante. Le città interrompono questo sistema: l’acqua non viene assorbita da cemento e asfalto. E scivola via. La sponge city strategy ha lo scopo di tenere la pioggia esattamente dove cade, imitando il ciclo dell’acqua”.
Ma “al cambiamento climatico si può rispondere con soluzioni nature based, spesso a basso costo e applicabili anche in corso d’opera: non per forza in fase di pianificazione”, così Elena Granata, docente di urbanistica al Politecnico di Milano, ci spiega che una città-spugna “si può ottenere a buon mercato togliendo l’asfalto dalle strade, tramite quel processo che viene chiamato de-pavimentazione. Consiste nell’idea che basta lasciare suolo libero e terra battuta, senza avere effetti impermeabilizzanti, per far respirare la città: così il suolo torna a fare il suo mestiere. Meglio un parcheggio a sterro che un parcheggio ad asfalto. Meglio togliere l’asfalto dalle strade secondarie piuttosto che lasciarlo. La de-pavimentazione è semplice e alla portata di tutte le amministrazioni, con effetti immediati”.
In Italia però siamo ancora lontani dal rendere le nostre città “spugnose” e a prova di alluvioni, nonostante le continue avvisaglie provenienti da una natura che abbiamo reso imprevedibile. “Se in Cina vanno le città spugna, da noi vanno le città impermeabili: in Italia abbiamo impermeabilizzato i suoli in maniera sistematica. Ad esempio, non abbiamo strade che sono lasciate a sterro, come invece succede a Parigi. L’asfalto e il cemento impediscono la porosità e la spugnosità delle nostre città. La città impermeabile, che ai tempi ci sembrava più sicura, più pulita e più asettica, oggi diventa pericolosa perché non assorbe le piogge”, aggiunge la professoressa Granata.
In Italia una delle amministrazioni che secondo Granata sta cogliendo l’importanza di “diventare spugnosi” è quella di Bergamo, grazie a qualche esperimento mirato di de-pavimentazione dell’asfalto. E un progetto analogo si sta studiando a Vercelli. “Tuttavia”, afferma, “le città del nostro Paese risultano ancora arretrate e morbosamente affezionate a una ormai anacronistica cementificazione: non lo facciamo perché non c’è la cultura delle soluzioni ispirate alla natura. Il messaggio culturale da assimilare e trasmettere è che alla natura si risponde con la natura. È una filosofia, un cambio di paradigma molto rassicurante per le nuove generazioni: anziché disperarci pensando al cambiamento climatico, possiamo gestirlo a livello micro e macro. Chiunque di noi abbia un campo o un prato può fare qualcosa”.
Sempre in Italia la città metropolitana di Milano si è aggiudicata un finanziamento del PNRR di cinquanta milioni di euro grazie ad un progetto che prevede novanta opere in 32 Comuni per riqualificare 530.000 metri quadri di territorio attraverso opere di drenaggio urbano. Sono questi i punti cardine di “Milano Città Spugna”, l’articolato piano di interventi di riqualificazione per prevenire gli allagamenti, contrastare l’erosione del suolo e gli effetti del cambiamento climatico su tutto l’hinterland milanese: è prevista la de-impermeabilizzazione di 52 ettari di parcheggi, strade e piazze e poi drenaggio urbano sostenibile, aree verdi ribassate dove far defluire l’acqua, miglioramento della rete idrica e potenziamento della rete fognaria per contrastare gli eventi meteorici eccezionali e preservare il territorio.
La vicesindaca metropolitana Michela Palestra sostiene il progetto Spugna, dicendo che “si tratta di una occasione unica per rinforzare l’ecosistema della Città metropolitana di Milano, favorendo l’assorbimento dell’acqua piovana, riducendo i danni economici e ambientali delle piogge intense, le famose bombe d’acqua, stimolare la riqualificazione e la vivibilità degli spazi con il contenimento delle isole di calore e il sostegno alla biodiversità. Uno sguardo al territorio in termini di conservazione e riuso. Con Spugna, la Città metropolitana mette a sistema tutti gli strumenti a sua disposizione con l'obiettivo di diminuire la vulnerabilità dei sistemi naturali e socioeconomici e di rafforzare la capacità di resilienza del territorio, soprattutto per le zone caratterizzate da elevati livelli di impermeabilizzazione e alta densità urbanistica. Un tassello importante dei nostri Piani Integrati, che hanno permesso, grazie ad un’importante sinergia col territorio, di intercettare importanti risorse del Piano Nazionale di Ripresa e Resilienza” (2).
Uno degli studi più importanti sulle città-spugna è stato condotto da Arup, una multinazionale che presta servizi di design, architettura e ingegneria. Nel suo “Global Sponge Cities Snapshot”, la società con sede a Londra ha assegnato una percentuale di “spugnosità” a sette metropoli: Auckland (35%), Nairobi (34%), Singapore (30%), New York (30%), Mumbai (30%), Shanghai (28%) e Londra (22%). Il punteggio variava a seconda dei seguenti fattori: la quantità di spazi verdi e blu che assorbono l’acqua, come l’erba, gli alberi, i laghi e gli stagni; la tipologia di suolo e di vegetazione; i sistemi urbani per il deflusso dell’acqua. Auckland, in Nuova Zelanda, ha ottenuto un punteggio elevato grazie alla presenza di enormi parchi e a un moderno sistema di gestione dell’acqua piovana. Nairobi, in Kenya, è al secondo posto per via delle notevoli porzioni di terra permeabile (terriccio, sabbia) ai margini dell’area urbana. Londra è finita in fondo alla classifica in quanto posta su un terreno ricco di argilla, che notoriamente trattiene meno facilmente l’acqua. La capitale inglese, ispirandosi all’australiana Melbourne, ha però annunciato un piano per realizzare centinaia di rain gardens, ossia aiuole posizionate in punti strategici della città. Questi piccoli giardini di terreno drenante, caratterizzati da una leggera depressione, trattengono l’acqua piovana per poi rilasciarla pian piano nelle fogne, riducendo il rischio di allagamento.
Le città italiane che hanno bisogno di interventi per incrementare il loro “tasso di spugnosità” sono quelle in cui si verificano forti escursioni termiche tra inverno ed estate, come per esempio Milano; oppure le città costiere, situate in una posizione geografica penalizzante. “Ma in realtà”, puntualizza Granata, “ogni città dovrebbe muoversi verso questa direzione. Questa cosa la stanno già facendo a Barcellona, in Messico e in tante altre zone dell’America Latina”. In più “sono progetti che possono anche contrastare la calura estiva. Ancora non sappiamo come dovremo razionare l’energia, come evolverà il conflitto in Ucraina. L’alternativa ai climatizzatori deve essere naturalista: lo dobbiamo fare anche per una questione geopolitica, non più solo climatica”.
La città-spugna non si limita alla de-pavimentazione e alla realizzazione di aree verdi capaci di assorbire l’acqua. Tunnel sotterranei e bacini di raccolta possono aiutare non solo a reagire agli eventi climatici estremi, ma anche alla siccità: “Le piogge improvvise dopo lunghi periodi di siccità possono essere una catastrofe, oppure una manna. Quando piove, ci sono città che non possono sprecare neanche un goccio d’acqua: ecco perché devono essere trasformate in grandi invasi che assorbono l’acqua, per poi sfruttarla durante i periodi di emergenza idrica. Per quali funzioni? Per pulire la strada, per l’agricoltura urbana, per i servizi di pulizia. È un uso più intelligente delle risorse”, sostiene Elena Granata (1).
“Ora più che mai” ha affermato il professor Kongjian Yu “di fronte al cambiamento climatico globale e alle tecnologie industriali distruttive, dobbiamo ripensare il modo in cui costruiamo le nostre città, il modo in cui trattiamo l’acqua e la natura e persino il modo in cui definiamo la civiltà. Le Sponge Cities sono ispirate all’antica saggezza dell’agricoltura e della gestione dell’acqua che usano strumenti semplici per trasformare la superficie globale su vasta scala in modo sostenibile”.
Ritengo che questi meritevoli progetti vadano supportati, soprattutto nel nostro Paese, da adeguate campagne di comunicazione ed informazione rivolte ai cittadini, che in genere sono abituati a considerare degrado tutto ciò che è naturale e non addomesticato dell’uomo. Sarà un retaggio culturale frutto della tradizione del Giardino all’italiana oppure semplicemente molta ignoranza in campo scientifico unita alla tendenza ad essere diffidenti nei confronti dei cambiamenti? Lascio ai lettori l’ardua sentenza.
(1) linkiesta.it /2022/05/urbanistica-verde-climate-change
(2) rinnovabili.it/greenbuilding/smart-city/milano-citta-spugn-drenaggio-urbano-smart-allagamenti