Ci sono momenti in cui è particolarmente difficile districarsi tra le informazioni. Per vari motivi. Perché si affastellano. Perché non fanno in tempo a decantare, trasformandosi da cronaca a informazione vera e propria. Perché spesso rimangono a livello di cronaca passando direttamente a quello del dibattito sulla cronaca. In questo modo, troppo spesso, diventano propaganda o peggio ancora, auto-propaganda.
Al centro non c’è più, in tal modo, la notizia illustrata nel modo più chiaro e documentato possibile al destinatario dello scritto (ossia l’informazione basata sulla conoscenza diretta o mediata - ma verificata - di un fatto accaduto nonché sulla competenza dello scrivente quanto più possibile basata anche sulla formazione specifica).
Curiosamente, la notizia passa in secondo piano, rispetto all’opinione che lo scrivente ha su questo o quell’avvenimento.
Ora, la notizia (ossia ciò che lo scrivente informato di un fatto può scrivere, osservandolo senza porre in campo la propria opinione in merito) e la conoscenza sono strettamente correlate. Scrivere notizie comporta avere conoscenza del fatto, sulla base di una documentazione visiva (essere presente nel luogo dove il fatto è accaduto), di una documentazione storica (ossia sulla base della conoscenza dei precedenti di quel fatto), di una documentazione archivistica (essere a conoscenza di scritti precedenti, di varia provenienza, tali da fornire un quadro complessivo della situazione in cui il fatto si inserisce).
L’opinione è altro. Nella migliore delle ipotesi, significa esprimere in forma scritta o verbale quello che lo scrivente ritiene più opportuno in quel determinato momento e in una determinata situazione per uno scopo preciso (orientare il destinatario sulla posizione da prendere per fare proseliti, ottenere l’attenzione del pubblico e mantenerla il più a lungo possibile, trasformare la propria opinione in notizia essa stessa).
La notizia e l’opinione sono antitetiche.
La prima si colloca nella sfera lessicale della conoscenza e, di conseguenza, è volta a fare informazione e, dunque, conoscenza.
La seconda si colloca nella sfera lessicale dell’apparenza (sembianza/parvenza).
Dunque, non ha nulla a che fare con la conoscenza, molto con la spettacolarizzazione di qualcosa che vagamente somiglia alla notizia, moltissimo con l’autopromozione dello scrivente (o del ‘parlante’).
Dal momento che, in questi tempi non certo facili, gli opinionisti e le loro opinioni – mutevoli, interessate, finalizzate, ecc. - sono troppo spesso alla ribalta, ho sviluppato una forte tendenza a guardare indietro, a recuperare vecchi testi ancora recuperabili per capire, a partire da accadimenti ormai – almeno apparentemente - conclusi.
Sono convinta che il presente ha bisogno del passato per essere decodificato, un passato che, lo si voglia o no, è ancora molto vicino e che, in modo semplicistico, si tende a liquidare come ormai superato nei fatti, nella presuntuosa convinzione di procedere nella direzione giusta e, soprattutto, di dovere progredire senza incertezze verso un futuro che la ‘conoscenza’ (quella basata sulle notizie provenienti dai vari settori del mondo scientifico, specializzato, ecc.) sa e dice essere sempre più a rischio.
Peggio ancora, se ciò avviene nell’oltremodo presuntuosa convinzione che il (proprio) presente sia l’unica cosa che conta nel panorama storico-culturale del momento.
Per contrastare queste tendenze, mi rifugio nei libri. In particolare, saggi dedicati ad avvenimenti del passato, dai quali è possibile risalire alla documentazione coeva.
Tra questi si colloca 24 maggio 1915 (Laterza 2019) di Elena Bacchin. L’autrice, in venti brevi capitoli, ciascuno seguito da un ricco apparato bibliografico (una vera miniera per individuare altri libri da leggere con profitto), ripercorre da angolazioni diverse e da differenti località in giro per il territorio italiano, gli accadimenti del giorno che corrispose all’entrata in guerra dell’Italia. E lo fa dedicando l’incipit di ogni capitolo a una situazione locale o a un attore della vicenda, spesso secondario e, magari, suo malgrado. Pur frutto del lavoro di uno storico, è leggibile anche per chi, come me, non ha una formazione da storico. Vale la pena leggerlo per ripercorrere in modo scevro da retorica quel che accadde. Non da studioso, da semplice cittadino (italiano, europeo e, in generale, del mondo).
Ci sono poi libri che, in realtà, contengono le riflessioni e le opinioni di protagonisti del passato (raccolte di articoli, ad esempio; oppure memorie, diari, ecc.), particolarmente quelli relativi alle vicende della Prima guerra mondiale (e agli immediati dintorni).
Il passare del tempo ha fatto sì che ciò che contengono sia ‘decantato’ e che, di conseguenza, sia più agevole riconoscere e isolare le opinioni dal resoconto dei fatti e dalle riflessioni. Il tempo, inoltre, ha fatto sì che sia facile individuare il pensiero politico che ispira lo scrivente e sul quale si fondano, inevitabilmente, le opinioni che esprime e la sua interpretazione dei fatti. Di conseguenza, permette di comprendere la differenza tra un ‘pensatore’, un ‘politico’ e un ‘opinionista’. I testi che rientrano in questa categoria sono numerosi, la selezione può dipendere dall’occasione, dagli interessi, dalla curiosità o, magari, dal desiderio di confrontare posizioni diverse rispetto alle stesse vicende. In alcuni casi si può trattare di opere narrative (come Mio figlio ferroviere di Ugo Ojetti o Diario sentimentale della guerra di Alfredo Panzini, cfr. Riflessioni dal passato sulla guerra).
In altri casi si tratta di brevi saggi o articoli scritti in un arco di tempo corrispondente alla guerra o al dopoguerra e poi raccolti in volume. In quest’ultima categoria rientrano, tra i tanti, Conversazioni della guerra di Olindo Malagodi (1870-1934) e Da fiume a Roma di Guglielmo Ferrero (1871- 1942).
Il primo raccoglie le conversazioni di Olindo Malagodi, di orientamento socialista prima e liberale conservatore poi, con i politici e i protagonisti degli avvenimenti tra il 1914 e il 1919, frutto del lavoro scrupoloso del suo essere giornalista per il quotidiano romano La Tribuna, uscito di scena quando fu interrotta l’attività del quotidiano all’avvento del fascismo. Raccolte in volume e pubblicate postume a cura di Brunello Vigezzi nel 1960 (Riccardo Ricciardi Editore) rappresentano una ricostruzione in presa diretta di quegli anni. L’introduzione chiarisce in modo esemplare il metodo di lavoro dell’autore, testimoniando con immediatezza la distanza dalla ponderatezza nell’uso della parola di allora rispetto alla parola di oggi che, trasferita dall’uso di carta e penna (e dunque, dall’abitudine a preparare scrupolosamente l’intervista) ad una pletora di talk-show dove diviene deliberatamente, da parte dei responsabili, proclama, polemica, urlo, gesto, lite, e via dicendo, giungendo, ripresa e amplificata in ogni modo, anche a chi ha deciso ormai da qualche anno, di fare a meno dello strumento televisivo per ripiegare sul libro e, in generale, sulla parola scritta.
Il secondo, Da Fiume a Roma, è la raccolta degli interventi scritti da Guglielmo Ferrero all’indomani della fine della guerra, tra l’inizio dell’impresa di Fiume (settembre 1919) e la marcia su Roma (ottobre 1922), curata dall’autore stesso allo scopo di costruire una cornice in grado di fornire al lettore il contesto di riferimento e il legame tra un intervento e l’altro. L’autore, laureato in giurisprudenza e lettere, è stato protagonista del dibattito culturale da posizioni repubblicane radicali, si dichiarò interventista, riconoscendo successivamente di avere fatto un errore ad assumere questa posizione, e dedicando ai lettori la raccolta con queste parole:
Questo libro è stato scritto per coloro, i quali credono che l’intelligenza e il sapere hanno ancora qualche diritto nel mondo. Perciò è stato scritto “sine ira et studio”. L’autore non ha nulla da temere né sperare dai nuovi dominatori, come nessun bene e nessun male potevano fargli gli antichi. Se non è infallibile, è disinteressato nel conflitto d’interessi e di passioni che devasta da dieci anni l’Italia. Auguro a coloro, che bersaglieranno questi scritti delle loro invettive, di poter dire altrettanto! Poiché purtroppo, se non si è ostentato mai il patriottismo nei discorsi e nelle cerimonie come in questi tempi, non furono mai così rari, come ora, coloro che servono la patria senza chiedere in cambio né onori, né potere, né ricchezze. Il lettore non cerchi l’ispirazione del patriottismo, che invece di servire si fa servire, nelle pagine del libro che si accinge a leggere. G. F.
1 ottobre 1923
Come questi e moltissimi altri scritti testimoniano, le guerre, con i loro strascichi nell’immediato, negli anni e nei decenni successivi, sono inevitabili, dolorose e sempre pronte a riaccendersi per questioni economiche e geo-politiche. Anche se nascono da interessi locali possono assumere implicazioni più vaste. E dovrebbero essere al centro dell’attenzione dovunque si verifichino, indipendentemente dalla ‘vicinanza’.
Ogni guerra, dovunque accada, è una cosa maledettamente seria. Evitarla – con la ragionevolezza, con gli accordi diplomatici, con l’umanità – dovrebbe essere la priorità. Non sempre è possibile, per difendere la democrazia e gli accordi internazionali, nel momento in cui sono deliberatamente violati e da qualsiasi parte provenga la violazione.
Ma, quando una guerra avviene, il fatto che la parola – quella pubblica, di quanti sono addetti a informare – divenga essa stessa un mero sfoggio di vis polemica per motivi personalistici, arrivando nelle case di un pubblico che non ha nessun diritto di replica ma quello di ricevere un’informazione seria, documentata e commenti scevri da personalismi e atteggiamenti da ‘primadonna’, arrivando a travisare la storia sulla pelle di chi muore e di chi subisce patimenti inimmaginabili, è cosa assai disdicevole e non depone a favore dello stato dell’informazione in un paese che si dice e dovrebbe essere civile.