Svegliarsi in un ghetto, in cui ti trovi escluso da uno dei flussi ordinari delle tue relazioni. Può capitare ad un utente di Facebook che all’improvviso, senza potersene rendere conto, si trova dietro alla lavagna. Lo sappiamo da tempo ormai. Il caso Trump ha fatto scuola: un algoritmo più la conferma di un passacarte spegne la vita virtuale di un individuo. Ma sperimentarlo sulla tua pelle è sempre un’altra cosa.
Un breve annuncio: il tuo posto ha violato i nostri standard. Sei d’accordo? No? Ci dispiace.
Questo lo scarno e spietato carteggio. Ti rimane l’umiliazione di trovarti all’indice. Il danno di non poter continuare le conversazioni che avevi imbastito, non sempre futili, non solo personali. Soprattutto ti riempie una rabbia per l’impotenza. Ti trovi recintato da un muro di vetro che ti fa vedere cosa accade fuori, puoi leggere lo scorrere dei post sulla piattaforma ma non ti puoi far sentire. Come se fossi chiuso in una gabbia insonorizzata.
Ma come è possibile che accada e soprattutto come è possibile che non ci siano conseguenze?
Non si tratta di rivendicare privilegi di casta. Sono un giornalista, ma questo è solo un ulteriore aggiunta allo sfregio di cui è vittima il cittadino.
Risolvo subito l’eventuale curiosità sul merito. Rispondendo ad un interlocutore, un amico per altro con cui baccagliamo da anni senza malanimo e cattiveria reciproche, che instaurava un ardito, a mio parere, parallelo fra le manifestazioni anti-imperialiste sul Vietnam degli anni 60 e 70 con le proteste per la guerra in Ucraina, precisavo che allora si andava in piazza in nome di una democrazia e libertà maggiore di quanto non fosse concessa dal modello che gli americani volevano imporre nel sud est asiatico, mentre oggi ci troviamo schiacciati sull’alleanza atlantica perchè dall’altra parte c’è un modello ancora più autoritario e dispotico e concludevo, per rispondere al verso di una nota canzone del movimento anti americano di quell’epoca (buttiamo a mare le basi americane) con la battuta “buttiamo a mare i fascisti “.
Non voglio aprire una disquisizione ideologica o storica. Possa aver avuto ragione o meno, ma sul terreno prettamente aderente ad una correttezza semantica e ad un galateo relazionale non credo proprio di aver infranto né regole di senso comune né i richiamati standard di Facebook. Su cosa invece l’algoritmo della piattaforma, validato, a posteriori, da una sbrigativa occhiata del passacarte, ha rinvenuto una trasgressione? Dove avrei violato regole che impongono di non instillare odio o minacce? La mia considerazione era simmetrica a quella del mio interlocutore: buttiamo a mare quelli che non ci piacciono. Il tono e il senso era palesemente metaforico. Nessun altro segno o riferimento poteva tradire intendimenti reali.
Allora perché l’arbitrio di escludermi per 24 ore da ogni attività e intimarmi che per un mese i miei post saranno in fondo a tutte le conversazioni?
Qui si affaccia anche il giornalista: anche e non principalmente. In queste 24 ore potrei avere la necessita di relazioni e comunicazioni professionali, così come, cosa per altro vera, nel mese prossimo avrò la necessità di comunicare tempestivamente con gli studenti del mio corso e alcune testate di cui sono collaboratore su Facebook.
Ad esempio non potrò condividere questo articolo sulla mia bacheca e pubblicarlo sui siti con cui collaboro.
Congiungendo i due profili: il cittadino messo all’indice, e il giornalista emarginato e limitato professionalmente chiedo: ma in nome di cosa?
Chi si erge in questa maniera del tutto incongrua e inefficiente a misurare in real time toni e contenuti di una platea sterminata? Chi ignora che intere comunità facciano esibizione della loro nostalgia per il terzo Reich o annuncino, come accade, attività paramilitari, e minaccino categorie quali medici o giornalisti impunemente e poi sospendono me per una battutaccia forse insulsa ma certo non materialmente minacciosa?
Ma veniamo poi al nodo vero: questi signori, i proprietari di queste piattaforme - Facebook ma anche Twitter o Istagram - sono postini o editori?
Sono cioè puramente vettori di un sistema di comunicazione che congiunge spazi attivati individualmente, come le nostre bacheche, che diventano per la loro frequentazione luogo pubblico come sono di fatto tutte le chat? Oppure sono a pieno titolo organizzatori e selettori, nonché promotori, dei contenuti che vengono ospitati, incentivati, promossi e addirittura commercializzati mediante diverse forme di sponsorizzazione?
Nel primo caso non tocca a loro permettersi di sindacare il merito intimo di contenuti che trasportano ma solo agevolare la selezione mostrando il carattere automatico dei contenuti prodotti da robot rispetto a quelli umani che devono essere rintracciabili per poter essere individualmente responsabilizzati.
In caso invece si opti per la responsabilità editoriale, allora si tratta di imprese che esercitano universalmente e localmente l’attività di editori con responsabilità sia deontologiche che economiche relative.
L’unica cosa che non è più accettabile è quella di permettere a questi signori di usare di volta in volta la fisionomia più conveniente.
Di conseguenza, come è stato fatto per l’evasione fiscale, bisogna che in sede europea, e nel frattempo, attivando ogni autority del settore, si costringa questi soggetti ad acquisire responsabilità pertinenti al ruolo che intendono svolgere, imponendo loro procedure paritarie nella contestazione di eventuali violazioni.
Il ministero degli interni e l’Agcom in Italia hanno strumenti e ragioni per poter subito fronteggiare questa emergenza. Il sindacato dei giornalisti potrebbe ai diversi livelli intervenire come parte negoziale, costringendo Facebook a rispondere ai quesiti che individualmente un cittadino non riesce a porre, e parte civile rivendicando i diritti di professionisti che subiscono danni senza poter minimamente tutelarsi.
La guerra ci costringerà a rivedere radicalmente il profilo di questo mondo che ha definitivamente perso sia l’innocenza, diventando parte del conflitto, con un impegno certo meritorio, ma che non potrà poi essere rimosso quando si dovrà ripristinare il carattere di extraterritorialità che rivendicano, sia la vocazione universalistica con la balcanizzazione che Russia e Cina hanno imposto ai circuiti globali.
In questa chiave sarebbe urgente che soggetti quali il mondo del giornalismo e quello dei servizi urbani o ancora il network delle università, che sono i grandi utenti collettivi di questi spazi pubblici intervenissero per co-determinare una nuova carta dei diritti e delle libertà digitali su cui riconfigurare la vita on line.