Vogliamo rendere pubbliche e condivise le spese della comunicazione dei vari leaders politici, a cominciare dai candidati alla segreteria del PD?
Quanto spende la Meloni nella pianificazione della sua comunicazione ? E Salvini? E quanto hanno messo a budget Bonaccini e la Schlein per la campagna congressuale del PD?
Le domande non allungano la lista di pretesti per accuse populiste alla politica. Riguardano ormai una mutazione di genere e di contenuto che non può rimanere nascosta nelle pieghe di bilanci sempre difficili da decifrare.
Per comunicazione oggi si intende quell’esoterica arte, affidata a sciamani digitali, che dovrebbe rendere popolare e gradito un personaggio e il suo messaggio persino a dispetto della sua qualità e credibilità.
In particolare si tratta di soluzioni che trascendono del tutto ormai le tradizionale strategie politiche di diffusione e condivisione di programmi e di interessi.
Certo rimane ancora una cornice in cui i candidati e i leaders si identificano con alcune idee forti, con messaggi targettizzati che mirano a raccogliere il consenso di gruppi e comunità.
Ma dentro questi contesti il valore aggiunto di una campagna di comunicazione si misura nella capacità di arricchire ed espandere la gittata di questi messaggi nella direzione di un pulviscolo di bersaglio individuali che vengono selezionati e colpiti direttamente.
Qui entriamo in una terra di nessuno che congiunge il dark web ai social.
Innanzitutto queste nuove modalità di comunicazione non sono pubbliche, ma vengono veicolate da flussi e canali di abbinamento digitale che collega ogni singolo messaggio ad ogni singolo utente.
Siamo in quel campo ancora insondabile in cui si profilano gli interlocutori per caratteristiche , territorio e soprattutto contendibilità, e li si raggiunge, in base a corredi di dati raccolti, il più delle volte acquistati, e elaborati da esperti per estrarre, questo è il verbo che guida tutta l’operazione, quelle forme di linguaggio che risultano affidabili e intime per ogni destinatario.
Dietro questa nuova strategia c’è il ribaltamento della logica della comunicazione di massa che aveva fondato l’opinione pubblica.
Come diceva Sherlock Holmes in una sua proverbiale battuta “l’individuo è un arcano indecifrabile, ma infilalo in una massa e diventa una certezza matematica”.
Su questo principio, che venne poi meglio ratificato da un grande guru della scienza pubblicitaria come Elmer Wheeler che nel 1933 scriveva “non puoi mai prevedere come reagirà un individuo ad una certa promozione, ma puoi dire con precisione scientifica cosa farà la media”, si è costruita tutta la civiltà di massa del secolo scorso. L’informazione era proprio il linguaggio, trasparente e condiviso, che promuoveva l’opinione pubblica come luogo della democrazia rappresentativa.
Eravamo al tempo del lavoro di massa e del consumo di massa, e di conseguenza, i media di massa, dalla stampa alla radio alla TV, creavano quello spazio pubblico della comunicazione in cui ognuno poteva sapere cosa informava il suo vicino e lo poteva discutere e contestare.
In quell’epoca la strategia comunicativa era un accessorio, uno strumento di una politica che si basava sulla rappresentanza delle forze della produzione, proprietà o lavoro.
Oggi il quadro è radicalmente mutato: l’informazione è la materia prima che genera la ricchezza e le forze politiche sono organizzate e selezionate in base ai linguaggio e ai meccanismi dell’informazione.
In questo nuovo contesto però i meccanismi di diffusione e distribuzione delle notizie non sono più prevalentemente pubblici e condivisi, ma tendono ad essere individuali e riservati.
Si rovescia l’assioma di Sherlock Holmes, e i software digitali tendono ad estrarre - torna il verbo cardine della nuova economia - dalla massa i singoli per raggiungerli con flussi altamente personalizzati.
Come la guerra in Ucraina ci ha dimostrato, in questo processo il giornalismo si confonde con la cyber security e si procede mediante elaborazione di dati sensibili.
Affidare queste operazione – elaborazione di proposte politiche e diffusione di messaggi che diventano anche modelli organizzativi del consenso - a enti o professionisti esterni ad un partito significa delegare l’azione politica, la propria strategia, i propri rapporti sociali e relazioni istituzionali ad intelligenze che agiscono per puro guadagno, lavorando per chi offre di più. E’ una scelta estremamente rischiosa, che espone il leader e il partito ad una forma di subalternità e di minaccia di eterodirezione.
Sarebbe come se nel secolo scorso partito quali la DC o il PCI avessero affidato in outsourcing la propria politica fiscale o sociale a centri di interessi di singole componenti sociali, come i commercianti o gli artigiani. Se è avvenuto, e in una certa forma qualcosa del genere abbiamo visto, lo si è fatto in maniera del tutto inconsapevole o informale.
Ora la pratica di avvalersi di queste competenze, che vengono per altro esibite come bandiere e titoli di modernità, ma non vengono documentate e condivise nelle modalità e nei costi, è talmente diffusa che si sta creando un mercato parallelo, in cui non conta più il leader o il partito ma l’agenzia di comunicazione e di strategia di marketing.
In molti casi assistiamo a veri e propri rapporti incestuosi, dove la stessa agenzia cura interessi di parti contrapposte.
Diventa così indispensabile alzare il velo e rendere tutto esplicito e trasparente. Dimmi a chi ti appoggi e ti dirò chi sei, sarebbe il caso di dire.
Per questo, ripeto: Quanto spende la Meloni nella pianificazione della sua comunicazione ? E Salvini? E quanto hanno messo a budget Bonaccini e la Schlein per la campagna congressuale del PD
Blog
MICHELE MEZZA
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E' ORA CHE TUTTI I LEADER POLITICI RENDANO PUBBLICHE LE SPESE DELLA COMUNICAZIONE
data: 07/12/2022 08:25
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SE NESSUNO PARLA
DEL VOTO IN BRASILE
E' PER ESORCIZZARE
CIO' CHE ACCADE QUIdata: 06/10/2022 17:50
La sindrome dell’amica geniale anche a Rio: un popolo povero che cerca individualmente l’emancipazione a destra e una sinistra elitaria che non diventa comunità. Il voto in Brasile, uno dei paesi candidato ad essere nei prossimi dieci anni una potenza globale, mi pare che sia stato archiviato frettolosamente. Eppure in quelle elezioni ci sono con evidenza solare tutte le componenti, ingrandite ed esasperate, che oggi incombono anche nel nostro dibattito. Perché, soprattutto a sinistra, non si discute di Brasile?
Certo che la delusione è stata non di poco conto. Lo slancio che i sondaggi accreditavano alla candidatura di Lula pareva sufficiente a regolare i conti con Bolsonaro fin dal primo turno.
Del resto non era eccessivo immaginare che la peggiore presidenza della storia moderna del paese, con risultati catastrofici in tutti i settori portanti, dall’economia, all’ambiente fino all’ordine pubblico, per non parlare dalle tragedia del covid, avrebbero inevitabilmente condannato l’amministrazione in carica.
Invece l’eccentrico e impresentabile Bolsonaro ha mostrato una resilienza imprevedibile, sia in quantità, superando di dieci punti quanto gli accreditavano i sondaggi, sia in qualità, prendendo voti in maniera distribuita da aree sociali molto diversificate, e registrando risultati imprevisti persino nelle grandi città, a partire da Rio e San Paolo.
Il tutto contro una sinistra che una volta tanto aveva un candidato universalmente riconosciuto come autorevole e condiviso, con grandi capacità di unire il fronte delle forze progressiste, credito internazionale e anche capacità di attrazione negli strati moderati.
Allora cosa non ha funzionato?
Perché in una situazione considerata ideale per caratteristiche soggettive e oggettive la sinistra non sfonda contro la peggiore destra del continente? Perché in un paese con il 35% di poveri, con fortissimi nuclei di classe operaia, con un cento medio produttivo in ascesa, con un forte movimento ambientalista, con una componente consistente di minoranze etniche discriminate, con tutto questo mosaico che doveva dare nerbo e senso ad una proposta di sinistra ancora di matrice classista e socialista, la destra non solo tiene ma tende a pescare in bacini popolari?
Come ci spiega l’ex presidente dell’istituto di geografia statistica brasiliano ai tempi di Wilma Roussief, Wasmalia Bivar, la prima donna che ha presieduto la commissione statistica dell’ONU, la mappa del voto ha aspetti sorprendenti. In particolare ci sono aree, sia nel sud del paese, dove tradizionalmente la destra è più forte fra latifondisti e grandi impresari, ma anche nel nord est e nelle città costiere, in cui Bolsonaro raccoglie i voti dei cosidetti penultimi. Le aree piùà disagiate e povere hanno votato in massa per Lula, ci conferma la professoressa Bivar, ma già nei settori appena meno esposti, lavoro precario, favelas metropolitane, zone minerarie, in cui il fronte popolare si è diviso. Da una parte un’alleanza fra reparti di classe operaia, ceto medio intellettuale e comunità diseredate e perseguitate, come in Amazzonia, dall’altra rendita finanziaria, consistenti settori della speculazione immobiliare e agro industriale tutto il mondo dell’allevamento e, componente ancora sconosciuta in Europa, comunità religiose fondamentaliste, che hanno spostato milioni di voti popolari.
Una geografia che per certi versi accomuna il Brasile a Italia e Svezia, con le ovvie caratteristiche locali. Trasversalmente infatti il tratto comune delle elezioni che si sono tenuti in questi paesi è proprio un consistente voto popolare alla destra estrema, diciamo una sorta di trumpismo esportato.
E’ qui che la sinistra non trova linguaggi e forme di ricomposizione del disagio che porta ceti disperati ad accodarsi a schieramenti plebiscitari e rancorosi.
Il collante è l’anti-elitarismo, quella forma di predestinazione che vede la borghesia progessista combattere per i diritti civili ma non mischiarsi negli equilibri sociali alle fasce inferiori. Le scuole, le frequentazioni, i lavori, le opportunità, rimangono separate fra bianchi ricchi, anche se di sinistra, e moltitudini popolari periferiche. Inoltre agisce in queste aree un processo di individualizzazione che nel caso italiano abbiamo chiamato sindrome dell’amica geniale, riferendoci ai romanzi di Elena Ferrante su Napoli, dove si ricava che ognuno vive individualmente la sua povertà e concepisce singolarmente i modi per emanciparsi. Cade in questo scenario l’elemento che distingue la destra dalla sinistra: la trasformazione collettiva della società, il movimento che muta lo stato delle cose per tutti.
Quello che nel 900 avevamo etichettato complessivamente per socialismo, un concetto in cui confluivano il rivoluzionarismo d’avanguardia con le cooperative riformiste e i movimenti conflittuali sindacali, in cui la bandiera era proprio: l’unione fa la forza. Oggi il messaggio della destra che rielabora il lutto della perdita del lavoro mediante una riconfigurazione dei processi di protagonismo sociale basati sulle nuove tecnologie digitali, in cui ogni singolo utente deve trovare un occasionale rappresentante, personale, singolo. Questa è la vandea digitale che la sinistra non riesce ad aggredire e di cui rimane vittima.
Il voto brasiliano ce lo spiega nitidamente. E altrettanto nitidamente noi lo esorcizziamo. Parlando di simboli, nomi o segretari da cambiare. -
CHE SUCCEDE IN CINA?
COLPO DI STATO CONTRO XI JINPING DOPO LA STERZATA SULL'UCRAINA?data: 25/09/2022 21:42
Ma se fosse un golpe perché non annunciarlo dopo 5 giorni? Francesco Sisci, uno dei più accreditati e riconosciuti sinologi italiani residenti in Cina, twitta il suo commento al crescendo di voci su un possibile colpo di stato contro Xi Ji Ping. Da vari giorni si infittiscono segnali ed indizi. Questa mattina l’intero traffico aereo domestico sarebbe stato bloccato in tutto il paese.
Ma - è ancora Sisci a confermarlo - la stampa nazionale, soprattutto le testate del partito non danno alcun segnale di una gerarchia mutata. Certo che l’avvicinarsi al XX° congresso del partito, che si inaughererà il 16 ottobre nella capitale, rende tutto più misterioso e incerto.
In quell’occasione il segretario generale dovrebbe riceve il rinnovo del suo mandato a Vita, equiparando la sua leadership a quella di Mao e di Deng Tsiao Ping. Ma nel frattempo si susseguono eventi che espongono comunque il potere dell’attuale dirigenza del paese ad una certa tensione. Il Vertice di Samarcanda della scorsa settimana ha visto Pechino distanziarsi dalla partnership con Mosca, seguita da India e Turchia. L’altro giorno poi una fitta agenda di incontri della diplomazia cinese con i corrispettivi occidentali, in particolare gli incontri del ministro degli esteri Wang Yi con il capo del dipartimento di stato americano Blixen e il capo della diplomazia di Kiev Kuleba, ha accreditato una sostanziale correzione di linea rispetto alla strategia di questi ultimi mesi.
Qualcuno potrebbe non essersi allineato al “contrordine compagni” sull’Ucraina o meglio potrebbe aver usato una certa delusione delle ambizioni dei settori più militaristi per incoraggiare le forze di opposizione a XI JI Ping. Non dimentichiamo che, sullo sfondo di ogni scelta in politica estera cinese, rimane il destino di Taiwan, con tutto quello che implica sia per l’orgoglio nazionale ma soprattutto per la sicurezza globale.
Poi a rendere il tutto ancora più complicato la sequenza di purghe che ancora in questi ultimi giorni ha colpito settori rilevanti della nomenklatura del paese. Anche in questo caso non sono pochi coloro che guardano ad un mandato a Vita per il segretario con una certa apprensione.
Ma tutto questo giustifica e rende praticabile un golpe? La domanda non potrà rimanere sospesa per troppo tempo. Gia i mercati asiatici questa notte dovranno trovare una risposta per dare una quotazione all’andamento dell’economia.
Fuso orario a parte, rimane da spiegare anche il relativo silenzio da parte americana. L’insieme degli osservatori e dei think tank che lavorano sulla Cina non si sono fatti sentire ancora. Incertezza o tattica?
Certo che qualora si dovesse confermare un riassetto traumatico del potere del gigante giallo sarebbe il terzo cigno nero, dopo la pandemia e la guerra, a scombussolare la nostra vita. Perfino più che le elezioni italiane, che diverrebbero folclore regionale al confronto.
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IL TURBINE DI ATTIVITA'
DI CYBER WARFARE
E CYBER CRIME
SULL'ITALIA ELETTORALEdata: 24/09/2022 13:25
"Dio ti vede Stalin no". Era lo slogan nelle elezioni del 1948 dei gruppi cattolici più integralisti che che volevano dissuadere ogni tentazione di voto al PCI. Oggi potremmo dire: "I bot russi ti accompagnano nella cabina elettorale. I partiti no".
Da settimane circolano, fra l’indifferenza persino di coloro che ne sono colpiti, allarmi per un’intromissione massiccia nella nostra campagna elettorale. Come ha documentato, in un rapporto della sua società di ricerca ed analisi della rete Swascan, Pierguido Iezzi, uno dei più accreditati cacciatore di bot in Italia. “In tutto questo susseguirsi di eventi, anche il nostro Paese, in quanto membro NATO di lungo percorso e fornitore di aiuti militari e non alla causa ucraina, si è trovato in qualche modo coinvolto nel turbine delle attività di cyber warfare e cyber crime che sembrano essere divampate a seguito degli eventi del 24 febbraio. Una metrica interessante è sicuramente quella che è stata scoperta dagli esperti del SoC team di Swascan durante i mesi estivi del 2022. Migliaia di contatti telefonici e email, informazioni di aziende private e pubbliche italiane sono finiti in vendita nel darkweb; con un incremento significativo di attività nei mesi di giugno agosto 2022 e febbraio/marzo dello stesso anno. Il motivo dell’incremento – sia di richieste sia di annunci all’interno del Dark Web – potrebbe essere facilmente collegabile anche all’aumento di utenti e traffico all’interno del Dark Web. Ma è comunque curioso osservare come quest’anno vi siano stati due picchi nell’attività dall’inizio del 2022: nel periodo dell’inizio dell’invasione russa – dove la necessità dell’anonimato è facilmente spiegabile”.
Questa ricerca spasmodica di dati identificativi degli elettori si è poi tramutata in un bombardamento proprio di quei cittadini italiani residenti nei collegi elettorali più contendibili da parte di batteria di bot, di matrice prevalentemente russa, che hanno riprodotto nel nostro paese il noto meccanismo di persuasione occulta attivato negli Stati Uniti con Cambridige Analytica.
Proprio oggi Repubblica rilancia la ricerca di Trementum Analytics, uno dei centri di monitoraggio della comunicazione politica digitale più prestigiosi, diretti da Ben Scott, che spiega come si sia attuato l’assedio agli elettori italiani. Centinaia di bot, di sistemi automatici che producono messaggi in rete, hanno diffuso migliaia e migliaia di post con notizie e commenti del tutto falsi, combinati con notizie vere. In particolare sono stati, soprattutto negli ultimi giorni, bersagliati direttamente i partiti e i loro dirigenti, le cui uscite in rete venivano accerchiate immediatamente da uno stillicidio di commenti negativi. Il 70% ha colpito l’attività del PD, mentre Fratelli d’Italia ha avuto contro il 6% dei messaggi. Quasi niente Lega e 5S, di cui venivano valorizzate le uscite contro la politica occidentale di sostegno alla resistenza ucraina.
Non meno insidiosi sono stati gli influenzer che si schieravano direttamente con le posizioni di Mosca, secondo il noto ISD (Istitute for Strategic Dialogue), sulla base dei dati raccolti da NewsGuard, una storica testata dell’informazione di qualità statunitense: quasi la metà dei più di 500 opinionisti filo russi attivi sulla rete in italiano risultano inesistenti, sono veri e propri troll, dispositivi automatici che sparano informazioni inquinate.
Su questo fronte appare davvero sconsolante lo stato di impotenza e indifferenza del sistema della comunicazione. L'Agcom non ha ritenuto di intervenire minimamente, confermando la propria impotenza gia manifestata nel corso delle scorse elezioni nel 2018. Non di più ha fatto il garante della privacy dinanzi al mercato delle identità in rete denunciato da Iezzi. Ma, forse ancora più sorprendente, è proprio la sordità dei partiti che sono stati bersaglio di questa strategia che non hanno minimamente sollevato nemmeno il problema, quasi offrendosi come vittime sacrificali. Persino la vicina Svizzera, dove agisce dal lontano 2004 una formidabile ed attrezzata agenzia denominata Melanidi per l’ascolto e il controllo dell’informazione in rete, ci ha allertato, informandoci che i server usati da società russe lavoravano verso l’Italia producendo masse anomale di informazioni.
Ma evidentemente si comincia a perdere quando si è complici della propria sconfitta. -
E' ARRIVATO IL TELEVISORE
CHE CI GUARDA,
CI CONTROLlA
E POTREBBE ANCHE VOTARE
MA NESSUNO DICE NIENTEdata: 21/09/2022 14:16
Su Sky Glass niente da chiedere da parte di sindacati e consumatori? Da settimane i 500 canali Sky stanno pompando il lancio del nuovo televisore SkyGlass, Il televisore che ci guarda, ci controlla e potrebbe anche votare. Decine di spot al giorno con una cinguettante Laura Pausini che sollevata dall’incombenza di cantare Bella Ciao, si dedica anima e corpo a promuovere il nuovo apparecchio della tv satellitare.
Tutto si può dire del nuovo evento meno che non sia noto. Sky spiega dettagliatamente che il televisore avrà una grande potenze intrusiva nelle nostre case grazie ad una dotazione di intelligenza artificiale in grado di poter selezionare e classificare ogni nostra emozione o movimenti che si compia attorno ad esso. Potrà memorizzare e combinare i dati sulle nostre scelte di visione: tipologia di programmi, durata di utenza, interruzioni, e soddisfazione o meno per lo spettacolo. Inoltre essendo un dispositivo a comando vocale potrà anche interpretare dal tono e timbro delle voci che ascolterà quanti siano davanti alla televisione e quali relazioni hanno fra di loro. Un vero elettrocardiogramma emotivo del nostro tempo libero.
Insomma una tv peggio di Alexa che non si farà i fatti suoi. Che ci guarderà con più attenzione e malizia di quanto le riserveremo noi.
Ma poi, tutta questa roba che fine farà? Dove andrà a finire la massa di dati che verranno raccolti? In quale server? Attraverso quale cloud? Con quali regole e garanzie?
Nonostante lo strobazzamento pubblicitario nessuno al momento ha mostrato di essere interessato a queste domande.
Non l’Agcom che dovrebbe valutare l’impatto del nuovo apparecchio sul pluralismo mediatico. Infatti Sky, essendo proprietaria del televisore, di una parte dei programmi e anche dei sistemi di connessione inevitabilmente si propone con un soggetto incumbent, come dicono quelli che sanno, sul mercato. Potrà, avendo esclusivo accesso a dati rilevanti e sensibili del pubblico, ricavare informazione preziosissime per intuire le preferenze e le predisposizioni degli utenti ai diversi format.
Soprattutto se il televisore fosse molto diffuso, e Sky manovrando i diversi servizi, come appunto l’abbonamento ai programmi e il servizio WiFi, potrebbe renderlo molto conveniente e popolare, la piattaforma satellitare potrebbe comodamente soppiantare Auditel, diventando il titolare dei dati di ascolto più fedeli e attendibili. Dunque si ipotizza anche una violazione alle leggi della concorrenza che la relativa Autority dovrebbe vagliare. Sarebbe come dare in appalto ad un privato la zecca di Stato.
Ma il dato più macroscopico riguarda proprio la privacy: avere nel proprio salotto un grande orecchio che possa combinare i nostri comportamenti digitali con quanto esprimiamo attraverso le nostre conversazioni sarebbe una evidente minaccia per ogni riservatezza domestica.
Inoltre, potendo registrare la nostra voce il televisore, evidentemente a sua insaputa immagino, si troverebbe anche a disporre di campioni vocali con i quali qualche malintenzionato che riuscisse a forzarne l’accesso ai server, potrebbe prelevare per entrare di soppiatto nei dispositivi privati azionati da password vocali appunto.
Siamo dinanzi ad una mossa del cavallo di Sky che sovverte tutta la gerarchia del mercato mediatico, rimettendo dopo mezzo secolo al centro del sistema proprio il segmento considerato più superato e vetusto come appunto sembrava l’elettrodomestico. Dopo il telecomando, il decoder e lo streaming, l’accesso all’abbondanza dell’offerta audiovisiva sarebbe guidato dal televisore.
Una mossa che dovrebbe suscitare almeno la curiosità, se non l’iniziativa, da parte di componenti sociali, politiche e istituzionali che dovrebbero bilanciare il potere della proprietà del sistema con gli interessi degli utenti. Sindacati e associazioni dei consumatori dovrebbe chiedere un confronto per capire come si intendano assicurare quelle garanzie che l’Europa ha fissato nei suoi ultimi provvedimenti, come il Digital Service Act e il Digital market Act, oltre il gia collaudato DGPR sulla gestione dei dati.
Sono questi soggetti, in particolare consumatori e sindacati, a dover attivare le autorità di garanzie per definire paletti e regole allo strapotere prefigurato dal nuovo circuito mediatico che Sky mette in campo.
La questione dovrebbe interessare anche il mondo dell’informazione, innanzitutto i giornalisti e i loro organismi di rappresentanza, perché è evidente che si ipotizza un’alterazione delle dinamiche e della trasparenza nel flusso comunicativo. Sapere esattamente come si comportano e cosa pensano i propri utenti, elaborando riservatamente dati personali modifica la relazione fra produttori e utenti delle informazioni, delineando un modello personalizzato, diretto e rischioso ai fini di una manipolazione individuale dell’offerta di notizie. La campagna elettorale non è forse l’occasione migliore per intervenire. Ma fra una settimana, dopo il voto, sarebbe il caso di capire cosa sta succedendo, anche perchè la prossima consultazione potrebbe risolversi automaticamente in una raccolta di dati vocali direttamente estratti da Sky.
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COSI' LA GOLDEN SHARE
IN EDITORIA PER TUTELARE L'INFORMAZIONE
DA BLITZ FINANZIARI ESTERIdata: 08/06/2022 13:01
Il passaggio di proprietà del gruppo L’espresso, ceduto dalla finanziaria della Fiat Exor all’editore campano Domenico Iervolino, è al momento sospeso, in attesa, sembra, del completamento dell’istruttoria da parte del governo. Infatti l’editoria è rientrata, al momento nel silenzio generale compreso i giornalisti, nei settori in cui l’esecutivo ha la facoltà di opporre la sua golden share.
La cosi detta golden share è una tipica misura che protegge il patrimonio sensibile di un paese dal punto di vista della proprietà industriale e nei servizi proprio per sventare azioni di colonialismo economico.
In altri paesi europei, come la Francia o la Spagna o l’Inghilterra, questo istituto ha radici e tradizioni molto forti e viene esercitato con grande attenzione e rigore da parte delle istituzioni governative.
In Italia invece mancano precedenti forti.
Pensiamo a cosa accadde negli anni 60, con il saccheggio che ci fu dei grandi asset tecnologici del nostro paese, dalla divisione elettronica dell’Olivetti al sistema elettronucleare del CNEN, alla plastica fine. E ancora successivamente, quante aziende strategiche nei settori dell’alimentare o della moda, o, negli anni 90, della meccanica di precisione, o ancora negli anni 90 a quella frenetica svendita dei gruppi di telecomunicazione mobile che trasformò uno dei paesi guida del mercato degli smartphone in una colonia altrui.
Ancora più scandaloso fu quel maldestro scippo che sottrasse al comparto tecnologico italiano quel vitale settore dei cavi sottomarini in cui il nostro paese si trovava, quasi inconsapevolmente, insediato in una posizione di vertice. La Pirelli per pure esigenze di cassa cedette alla Goldman Sachs la sua divisione cavi che insieme alla Sparkle di Telecom controllava la ragnatela di cavi sottomarini che rappresenta il cuore di Internet.
Sempre negli anni 90 venne ridisegnato il sistema della Pay tv italiana da parte di gruppi finanziari esteri, come i francesi di Canal Plus e il gruppo Murdoch proprietario di Sky, nell’indifferenza generale.
Piattaforme tv e telefonini rappresentavano due tessere fondamentali di quel domino multimediale che oggi costituisce una parte strategica della stessa logistica militare, come vediamo in Ucraina.
Proprio in occasione dei maneggi attorno al settore televisivo, che coinvolgevano anche Mediaset, sia la sinistra che il sindacato sollecitarono più volte il parlamento e l’esecutivo ad introdurre ed esercitare i poteri di controllo della Golden share.
Nel passaggio di consegne fra il governo Conti 2 e quello presieduto da Draghi, venne varata una norma che prevedeva esplicitamente il ruolo di controllo dell’esecutivo nelle acquisizioni finanziarie che coinvolgessero imprese e attività di importanza strategica per il paese, e l’editoria inevitabilmente rientra in questa sfera.
Ora il punto non è quello di denunciare intromissioni in un’operazione commerciale che tocca una testata di grande pregio e tradizione, quali l’Espresso, quanto sollecitare il parlamento a richiedere regole e fissare principi trasparenti per assicurarsi che i poteri di controllo dell’esecutivo tutelino realmente gli interessi nazionali, proteggendo da incursioni di gruppi esteri, proprio quegli assett che assicurano valore e lavoro all’insieme degli apparati economici italiani.
L’informazione oggi è diventata un elemento fondamentale di questa autonomia nazionale e vediamo come la guerra in Ucraina stia debordando proprio nel settore mediatico dove la Russia di Putin attacca direttamente i processi di formazione dell’opinione pubblica connettendo le incursione degli hacker contro i server di imprese occidentali alla gestione di flussi di informazioni e contenuti che arrivano direttamente e individualmente a migliaia di utenti dei sistemi informativi locali.
Per questo le associazioni professionali e sindacali dei giornalisti devono intervenire per controllare il modo in cui la golden share deve essere gestita aumentando il valore degli apparati informativi e spingendo il governo ad assicurare anche pieno supporto alle redazioni per reggere la concorrenza professionale e tecnologica globale. -
FACEBOOK MI HA SOSPESO
E NON SI CAPISCE PERCHE'
SERVE UNA NUOVA CARTA
DEI DIRITTI DIGITALIdata: 04/04/2022 22:09
Svegliarsi in un ghetto, in cui ti trovi escluso da uno dei flussi ordinari delle tue relazioni. Può capitare ad un utente di Facebook che all’improvviso, senza potersene rendere conto, si trova dietro alla lavagna. Lo sappiamo da tempo ormai. Il caso Trump ha fatto scuola: un algoritmo più la conferma di un passacarte spegne la vita virtuale di un individuo. Ma sperimentarlo sulla tua pelle è sempre un’altra cosa.
Un breve annuncio: il tuo posto ha violato i nostri standard. Sei d’accordo? No? Ci dispiace.
Questo lo scarno e spietato carteggio. Ti rimane l’umiliazione di trovarti all’indice. Il danno di non poter continuare le conversazioni che avevi imbastito, non sempre futili, non solo personali. Soprattutto ti riempie una rabbia per l’impotenza. Ti trovi recintato da un muro di vetro che ti fa vedere cosa accade fuori, puoi leggere lo scorrere dei post sulla piattaforma ma non ti puoi far sentire. Come se fossi chiuso in una gabbia insonorizzata.
Ma come è possibile che accada e soprattutto come è possibile che non ci siano conseguenze?
Non si tratta di rivendicare privilegi di casta. Sono un giornalista, ma questo è solo un ulteriore aggiunta allo sfregio di cui è vittima il cittadino.
Risolvo subito l’eventuale curiosità sul merito. Rispondendo ad un interlocutore, un amico per altro con cui baccagliamo da anni senza malanimo e cattiveria reciproche, che instaurava un ardito, a mio parere, parallelo fra le manifestazioni anti-imperialiste sul Vietnam degli anni 60 e 70 con le proteste per la guerra in Ucraina, precisavo che allora si andava in piazza in nome di una democrazia e libertà maggiore di quanto non fosse concessa dal modello che gli americani volevano imporre nel sud est asiatico, mentre oggi ci troviamo schiacciati sull’alleanza atlantica perchè dall’altra parte c’è un modello ancora più autoritario e dispotico e concludevo, per rispondere al verso di una nota canzone del movimento anti americano di quell’epoca (buttiamo a mare le basi americane) con la battuta “buttiamo a mare i fascisti “.
Non voglio aprire una disquisizione ideologica o storica. Possa aver avuto ragione o meno, ma sul terreno prettamente aderente ad una correttezza semantica e ad un galateo relazionale non credo proprio di aver infranto né regole di senso comune né i richiamati standard di Facebook. Su cosa invece l’algoritmo della piattaforma, validato, a posteriori, da una sbrigativa occhiata del passacarte, ha rinvenuto una trasgressione? Dove avrei violato regole che impongono di non instillare odio o minacce? La mia considerazione era simmetrica a quella del mio interlocutore: buttiamo a mare quelli che non ci piacciono. Il tono e il senso era palesemente metaforico. Nessun altro segno o riferimento poteva tradire intendimenti reali.
Allora perché l’arbitrio di escludermi per 24 ore da ogni attività e intimarmi che per un mese i miei post saranno in fondo a tutte le conversazioni?
Qui si affaccia anche il giornalista: anche e non principalmente. In queste 24 ore potrei avere la necessita di relazioni e comunicazioni professionali, così come, cosa per altro vera, nel mese prossimo avrò la necessità di comunicare tempestivamente con gli studenti del mio corso e alcune testate di cui sono collaboratore su Facebook.
Ad esempio non potrò condividere questo articolo sulla mia bacheca e pubblicarlo sui siti con cui collaboro.
Congiungendo i due profili: il cittadino messo all’indice, e il giornalista emarginato e limitato professionalmente chiedo: ma in nome di cosa?
Chi si erge in questa maniera del tutto incongrua e inefficiente a misurare in real time toni e contenuti di una platea sterminata? Chi ignora che intere comunità facciano esibizione della loro nostalgia per il terzo Reich o annuncino, come accade, attività paramilitari, e minaccino categorie quali medici o giornalisti impunemente e poi sospendono me per una battutaccia forse insulsa ma certo non materialmente minacciosa?
Ma veniamo poi al nodo vero: questi signori, i proprietari di queste piattaforme - Facebook ma anche Twitter o Istagram - sono postini o editori?
Sono cioè puramente vettori di un sistema di comunicazione che congiunge spazi attivati individualmente, come le nostre bacheche, che diventano per la loro frequentazione luogo pubblico come sono di fatto tutte le chat? Oppure sono a pieno titolo organizzatori e selettori, nonché promotori, dei contenuti che vengono ospitati, incentivati, promossi e addirittura commercializzati mediante diverse forme di sponsorizzazione?
Nel primo caso non tocca a loro permettersi di sindacare il merito intimo di contenuti che trasportano ma solo agevolare la selezione mostrando il carattere automatico dei contenuti prodotti da robot rispetto a quelli umani che devono essere rintracciabili per poter essere individualmente responsabilizzati.
In caso invece si opti per la responsabilità editoriale, allora si tratta di imprese che esercitano universalmente e localmente l’attività di editori con responsabilità sia deontologiche che economiche relative.
L’unica cosa che non è più accettabile è quella di permettere a questi signori di usare di volta in volta la fisionomia più conveniente.
Di conseguenza, come è stato fatto per l’evasione fiscale, bisogna che in sede europea, e nel frattempo, attivando ogni autority del settore, si costringa questi soggetti ad acquisire responsabilità pertinenti al ruolo che intendono svolgere, imponendo loro procedure paritarie nella contestazione di eventuali violazioni.
Il ministero degli interni e l’Agcom in Italia hanno strumenti e ragioni per poter subito fronteggiare questa emergenza. Il sindacato dei giornalisti potrebbe ai diversi livelli intervenire come parte negoziale, costringendo Facebook a rispondere ai quesiti che individualmente un cittadino non riesce a porre, e parte civile rivendicando i diritti di professionisti che subiscono danni senza poter minimamente tutelarsi.
La guerra ci costringerà a rivedere radicalmente il profilo di questo mondo che ha definitivamente perso sia l’innocenza, diventando parte del conflitto, con un impegno certo meritorio, ma che non potrà poi essere rimosso quando si dovrà ripristinare il carattere di extraterritorialità che rivendicano, sia la vocazione universalistica con la balcanizzazione che Russia e Cina hanno imposto ai circuiti globali.
In questa chiave sarebbe urgente che soggetti quali il mondo del giornalismo e quello dei servizi urbani o ancora il network delle università, che sono i grandi utenti collettivi di questi spazi pubblici intervenissero per co-determinare una nuova carta dei diritti e delle libertà digitali su cui riconfigurare la vita on line.
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CI SONO GLI ALGORITMI
ECCO PERCHE' E' URGENTE
REINVENTARE
IL GIORNALISMOdata: 08/01/2022 14:40
L’acquisto da parte del New York Times del sito The Atlhetic per oltre mezzo miliardo di dollari chiude definitivamente la lunga e lamentosa querelle sulla contrapposizione fra giornalismo e informazione digitale. Dopo almeno tre decenni è andato in scena un rito di voodoo psicanalitico del mondo dell’informazione, in cui i più autorevoli e prestigiosi giornalisti, di fronte ad una transizione che stava mutando i caratteri e la dinamica del modo stesso di informare più che il luogo e la modalità di pubblicazione, hanno reagito come Venerdi, dinanzi a Robinson Crusoe nell’isola del naufragio. Dinanzi allo tsunami che montava implacabile, sgretolando primati e rendite di posizione, con numeri inoppugnabili, che dimostravano come ognuno che moriva era un lettore di carta stampata e ognuno che nasceva non avrebbe mai incontrato un’edicola in vita sua, l’intera categoria dei pretenziosi mediatori di news hanno prima snobbato, negli anni 90, poi, a cavallo del 2000, demonizzato, successivamente hanno giocato la carta disperata della scomunica, attorno al primo decennio del millennio, ed oggi, infine, si sono rassegnati, a trovare posto su qualche scialuppa del Titanic di carta che affonda.
All’origine dell’abbaglio sempre il solito riflesso condizionato che portò Luigi XVI, al tramonto del 14 luglio del 1789, a scrivere nel suo diario: oggi giornata tranquilla, niente da segnalare. La rivoluzione viene sempre esorcizzata dai rivoluzionati.
Eppure i segnali erano consistenti e robusti. Come scriveva Zygmunth Bauman a metà degli anni 90: come potrebbe sopravvivere il sistema dei mass media in un mondo in cui i due motori della cultura di massa, come il lavoro e il consumo, si sono frantumati e individualizzati?
Non ci voleva certo l’ossessione per il materialismo scientifico ad intuire che la marcia trionfale del personal computer avrebbe riclassificato l’intera economia dell’informazione, a partire proprio dal ruolo fra mediatore e mediato.
Già dagli anni 60, sulla costa occidentale degli Stati Uniti, in quella California che incubò il movimento degli studenti che poi animò la stagione del 68 globale, l’intreccio fra il free speech e il free soft indicava come stava prendendo forma non una moda, e nemmeno una cultura ma, antropologicamente, una nuova marca di capitalismo che spostava proprio sull’individuo il baricentro della produzione di ricchezza, innestando quello che poi Manuel Castells avrebbe definito l’informazionalismo, ossia “la produzione di informazione mediante informazione”.
L’occhio di questo uragano, che arrivo in Europa a metà degli anni 80, con l’esplozione dei personal computer della Apple e i software della Microsoft, era proprio l’inversione gerarchica fra consumatore e mediatore di informazione. Si completava così quella mutazione che il genio di Walter Benjamin nel suo celeberrimo saggio L’Opera d’arte nell’Epoca della sua riproducibilità tecnica, a metà degli anni 30, intuì analizzando le prime rubriche di lettere al direttore che cominciavano a pubblicare i grandi quotidiani francesi. Lungo questo percorso, scriveva Benjamin “il lettore si sarebbe seduto accanto al direttore".
Questa è la rivoluzione che non viene annotata nel diario dei giornalisti, che continuano, fino ancora ad oggi, a misurare le dinamiche del web con le stesse categorie del sistema editoriale tradizionale, basato su credibilità, prestigio, audience, valore di scambio, del ruolo del produttore di informazione. Mentre, nel nuovo scenario che Baumann definisce di “individualizzazione della singola notizia”, conta invece la scelta di chi ascolta e non l’aura di chi parla. In questo cambio di paradigma si sono infilati i grandi service provider che hanno imposto il dominio dei distributori sull’aristocrazia dei produttori: Google, Facebook, Amazon. Sono loro non i nuovi editori, come, seppur tardivamente, i giornalisti si sono rassegnati a considerarli, ma i nuovi impresari di spazi in cui ognuno di noi trova soddisfazione nella personalizzazione della fruizione dei sistemi dell’informazione.
La mutazione genetica delle testate globali in centro servizi avviene più o meno attorno all’inizio del secondo decennio del 2000, come documenta Mercanti di verità, il saggio di Jill Abramson, l’ex direttore del New York Times, che con il privilegiato punto di vista dell’insider, di documenta i passaggio della mediamorfosi che porta testate come appunto il New York Times, il Washington Post, ma anche il Guardian o Le Monde, ad unificare direzione editoriale, giornalistica e marketing, in una corsa sfrenata alla digital comunity.
Le redazioni non sono più austeri centri di sapere contemporaneo che scelgono e spiegano le notizie, ma semplici centri servizi che accumulano attenzione per distribuire una mole infinita di singole merci altamente personalizzate. E’ il tasso di personalizzazione, e non l’autorevolezza della credibilità, che determina la volontà d’acquisto, la scelta di entrare in quella comunità di abbonati che ogni testata sta cercando ora di aggregare per avere masse critiche su cui costruire un proprio mercato interno della comunicazione.
L’altro elemento che attribuisce valore al servizio editoriale distribuito dalle testate è l’originalità e competitività dei corredi di algoritmi e sistemi intelligenti. Nel momento in cui - questa è la lezione che viene dalle esperienze del mercato editoriale statunitense per come ce lo racconto la Abramson - si attiva una concorrenza diretta con le piattaforme digitali, per i grandi quotidiani diventa essenziale disporre di memorie e intelligenze autonome, in grado di intermediare le relazioni con ogni singolo utente e organizzare senza interferenze l’offerta personalizzata.
Ed infatti vediamo come i bilanci di New York Times o Washington Post destinano almeno il 40% dei profitti proprio allo sviluppo di software proprietari indipendenti dal dominio degli over The Top.
Così come notiamo che sia del tutto decaduta l’ansia degli editori americani a stipulare intese con Facebook o Google, come invece accadeva qualche lustro fa. La lezione del lupo travestito da agnello la si è imparata a proprie spese con le esperienze disastrose di Instant Articles, di Facebook, o dei seducenti ma paralizzanti progetti innovativi finanziati da Google.
In questa logica l’acquisto di Atlhetic da parte del grande quotidiano di New York mostra esplicitamente quale sia oggi la strategia che guida oggi i gruppi editoriali: acquisire una vasta base di abbonamenti non mediante il pregio dell’offerta giornalistica centrale, ma federando infiniti frammenti del mercato informazionalista, dove ognuno di noi ha permanentemente bisogno di sapere una notizia più del suo collega o concorrente per primeggiare. E’ il servizio personalizzato che lega ogni singolo utente al brand editoriale: la singola news letter specializzata, l’offerta di formazione o consulenze specifiche, la fornitura di informazioni territoriali dettagliate, la disponibilità di navigatori per turismo o mobilità professionale.
Il più celebre quotidiano del mondo, con i suoi 1700 giornalisti, più o meno quanti ne dispone il servizio pubblico della RAI, con i suoi inviati in tutti i teatri di informazione del mondo, i suoi autorevolissimi commentatori, i reportage e i premi Pulitzer che ogni anno danno lustro alla testata, vive e prospera per quello shopping center immateriale che propone nel suo sito: 50 news letter, ulteriormente personalizzabili, decine e decine rubriche di cucina o di moda, servizi audiovisivi, app radiofoniche, collegamenti con singoli esperti in tutti gli scacchieri territoriali. E’ da questo mosaico di pulviscolari bisogni soddisfatti che il giornale, lo documenta dettagliatamente la Abramson, ha ricevuto quella spinta per uscire dal tunnel nei primi anni del 2000.
Il suo risiko si allunga ora aggiungendo ai suoi circa 8,5 milioni di abbonamenti il milione e duecentomila degli affiliati al sito di cronache sportive Athletic, profili distribuiti geograficamente ed anagraficamente in maniera ottimale, secondo il marketing del New York Times, che già intravvede sinergie virtuose e progressive.
Lo stesso sta facendo l’austero Le Monde, che ha affidato ad un gruppo di scatenati operatori del web il rilancio della propria testata digitale, moltiplicando offerte e servizi.
In Italia rintracciamo la medesima tendenze nelle acrobazie commerciali sia del gruppo RCS/Cairo che della Gedi, gestione Fiat. In entrambi i casi assistiamo ad un logorarsi delle due portaerei di carta, sia il Corriere della sera che Repubblica, benchè a velocità diverse, stanno regolarmente perdendo copie in edicola, arrivando oggi a vendere un quarto di quanto era denunciato solo sette anni fa, entrambi sotto le duecento mila copie comunque. Mentre risultano in gran spolvero i bilanci digitali, con masse di utenti unici ai rispettivi siti che arrivano ai 30 milioni mese.
Lo stesso, con quantità diverse, si osserva nei gruppi minori, come ad esempio il Messaggero o le testate della galassia appenninica Riffeser.
Questa asimmetria, data da un edicola che piange e un web che ride, non può non portare a strutturali modificazioni sia dell’architettura editoriale che dei profili professionali delle redazioni. Esemplare da questo punto di vista è l’analisi dei curricula dei nuovi assunti nelle testate americane che abbiamo già analizzato rispetto a coloro che vengono pensionati: escono letterati entrano idraulici del web.
Una tendenza che vediamo riprodursi anche nelle nostre redazioni. Ora, proprio seguendo questi profili dei nuovi giornalisti, ci troviamo dinanzi a figure in cui si combinano, senza alcuna chiara distinzioni, funzioni editoriali con attività informatiche, promozionali e pubblicitarie. Proprio l’idea di distribuire, in maniera altamente profilata, servizi, di cui le news sono semplicemente emblema e pretesto, porta ai nuovi componenti le redazioni digitali ad acquisire la massima autonomia operativa, diventanto multitasking. Abbiamo così dinanzi redattori capaci di raccogliere ed analizzare i big data, sia di eventi che di utenti, editare contenuti in diversi formati, destinare chirurgicamente informazioni e istruzioni nominativamente. Funzioni che inevitabilmente li rende sempre più bersaglio della pretesa dell’editore, ma ancora di più, direttamente delle piattaforme e dei sistemi di software che usano, di produrre attività commerciali esplicite con il linguaggio e la forma del giornalismo. Dalla native advertising arriviamo cosi alla pubblicità narrativa, che sostituisce e non affianca più direttamente i contenuti editoriali.
Chiave di volta di questa tendenza è proprio la relazione con i sistemi intelligenti: quale consapevolezza, visione critica, capacita di gestione, ambizione di riprogrammazione oggi spinge una redazione a rimodellare e autorizzare gli automatismi che stanno, gradualmente, installandosi proprio nell’ultimo miglio del sistema editoriale?
Su questa domanda si giocherà la partita nei prossimi mesi.
La pandemia ci ha già parlato di una spinta autonoma del mondo della scienza ad autorappresentarsi. E ci ha proposto scenari in cui la dipendenza da saperi e competenze diventa sempre più stretta.
A questo punto, combinando le dinamiche strutturali che trasformano la redazione in centro servizi, con le spinte antropologiche, che portano ognuno dei cittadini ad usare spezzoni di saperi e di informazione per la propria sopravvivenza, i media diventano veri e propri laboratori di consapevolezza. In sostanza si riproduce, in maniera non truffaldina e illegale, il meccanismo di Cambridge Analytica, il sistema che ha interferito sull’arbitrio elettorale in varie occasioni negli Usa e in Inghilterra, sulla base della decifrazione automatica di milioni di identità e personalità degli elettori a cui offrire flussi di informazioni manipolate. Oggi quel meccanismo, che è alla portata di ogni economia di scala, diventa materia in base alla quale negoziare profili di cittadinanza comunicativa in trasparenza.
Ogni redazione, in competizione con le piattaforme, autonomamente dovrà, e potrà costruire questi percorsi individualizzati per i propri utenti. I giornalisti saranno i garanti e i testimoni della trasparenza e della rispondenza del gioco di profilazione con le regole di cittadinanza. Ma chi certifica la trasparenza delle intelligenze che usano i giornalisti? attorno a questo quesito si ricostruisce una dinamica sindacale e contrattuale che potrebbe dare un esito non subalterno e declinante ad un mestiere che, a differenza da quanto scriveva Baudelaire, se non ci fosse andrebbe comunque reinventato. -
CON IL "PEER REVIEW"
SCATTA LA NUOVA ERA
DELL'INFORMAZIONEdata: 11/05/2021 12:11
La differenza fra l’informazione tradizionale e quella scientifica è il peer review. Si tratta di quel metodo che espone ogni articolo dei grandi magazine del settore ad un’analisi pubblica, dove ogni addetto ai lavori può valutare e confutare i passaggi logici e le basi documentali di un saggio scientifico.
La puntata di lunedi 10 maggio di Report ha colmato questa lacuna. Al netto delle singole tematiche trattate e dei personaggi coinvolti, la redazione che si è vista contestata e attaccata da esponenti politici e testate diverse, ha messo in piazza le sue ragioni, condividendo anche le critiche e le accuse che le erano rivolte. Con un lavoro trasparente, i colleghi di Report hanno ripercorso i singoli passaggi delle loro inchieste e li hanno sovrapposti alle osservazioni e alle controdeduzione dei loro accusatori, offrendo agli utenti del servizio pubblico un’ampia gamma di materiali da valutare.
Non sempre la redazione ne esce intonsa. L’uso di testimoni coperti, che ha ammesso, oppure il contatto con personaggi di dubbia reputazione, anche questi riconosciuti, rendono meno indiscutibile il lavoro svolto.
Quello che diventa indiscutibile è il salto di qualità che si è registrato con la decisione di Report e del suo responsabile, Sigfrido Ranucci, nel rendere pubblico e condivisibile l’intera matassa degli intrighi, anche a costo a esporsi ad inevitabili critiche o anche a possibili denunce.
Chiedere ad un parlamentare come possa aver presentato interrogazioni alla Camera dei deputati sulla base di notizie che non erano pubbliche, oppure documentare la reazione diretta di un leader politico che, trovato in rapporti non naturali con un componente dei servizi di sicurezza, si difende adombrando accuse e alludendo a ritorsioni contro la testata che lo ha incastrato, rende lo scenario politico istituzionale del paese più decifrabile. Informazione non è solo dare notizie, ma rendere contesti, diciamo sempre. Report ha costruito una macchina giornalistica che da oggi in poi non potrà sempre, ad ogni singolo passaggio, rendere chiaro e pubblico il gioco delle parti che sottintende ad ogni notizia che darà.
E’ una vera svolta, al tempo della rete.
I mediatori diventano uno dei tanti stakeholder dell’informazione, scendono dal piedistallo e si propongono come uno degli agenti della complessa e a volte contraddittoria macchina della verità.
Una vera rivoluzione copernicana. Non è il giornalista il centro della scena ma è la notizia, attorno a cui giostrano i singoli attori del fatto raccontato. Soprattutto ogni notizia non si conclude nel momento della rivelazione, ma continua come racconto progressivo. Non a caso le puntate di report sono ormai collegate l’una all’altra dall’evoluzione dell’informazione data. Si procede per integrazioni, correzioni, aggiunte e confronti. Esattamente come la rete ha imposto all’intero sistema relazionale. Ogni singola affermazione è solo l’inizio di un percorso, non chiude mai l’argomento con l’ultima parola.
E’ questo il motore di quel processo che sta riclassificando il mondo del giornalismo, trasformando le redazioni da comunità deliberanti della notizia, in hub di snodo e smistamento continuo dei contenuti, lungo tutte le 24 ore. Quando inizia e quando finisce la giornata di una testata? Anche dai nuovi modelli organizzativi si comprende che la giostra ormai gira permanentemente, la versione cartacera è solo uno dei momenti in cui viene cristallizzato, momentaneamente, il senso comune dell’informazione, per poi riprendere ad essere ruminato nella rete.
E’ il regno ormai della sesta w del giornalismo: while.
Il mentre scorrono gli eventi, si incrociano i pareri e le opinioni, si combinano i documenti e le notizie, il giornalismo diventa filmato e non più istantanea, che segue e accompagna lo scorrere della cronaca che a volte diventa storia. E Report ci ha mostrato come e per mano di chi.
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"LA REPUBBLICA" DIGITALE UN PRIMATO DA RENDERE PIU' TRASPARENTE
data: 10/04/2021 12:44
Il primato di Repubblica sul mercato digitale, sventolato legittimamente sul quotidiano fondato nel 1976 da Scalfari, dovrebbe suggerirci anche qualche riflessione più complessiva sulle tendenze del sistema editoriale. Magari anche sollecitando qualche dato che non viene fornito nella lunga serie di informazioni che si esibiscono a supporto del proprio successo nel sito del giornale.
Innanzitutto vediamo quello che ci viene proposto.
I dati più indicativi di tendenze che parlano a tutti, oltre che lusingare i proprietari della testata, mi sembrano due, che esplicitamente indicano le tendenze generali: circa il 25% del pubblico che cerca informazione firmata si rivolge al dominio digitale di Repubblica; secondo, e forse ancora più esplicito, il dato che indica come il 68% del bacino di utenza complessivo della rete in Italia (siamo attorno ai 40 milioni giorno) frequenta l’eco sistema del gruppo Gedi di cui Repubblica è bandiera ma non certo esclusiva proposta.
L’intreccio fra questi due numeri intanto rimette al suo posto l’identità dell’utente digitale. Si tratta mediamente di una massa di individui guidati dal bisogno continuo di informazione autorevole e verificabile, che la testata di un grande giornale certifica e permette di documentare.
Siamo lontanissimi dalla vulgata del popolo plebeo affamato di fake news. La complessità dell’aggregato dei navigatori digitali conferma di provenire, nel suo zoccolo duro, dal mondo dell’informazione cartacea, che ora viene superato e incrementato con una domanda di maggiore personalizzazione e tempestività nel rifornirsi di notizie.
Per questo dall’edicola ci si sposta alla rete.
Qui affiorano le carenze nei numeri che vengono pubblicati da Repubblica.
Infatti per capire la logica e lo spessore dell’utente medio delle pagine digitali del quotidiano romano sarebbe utile tracciarne i movimenti, e comprendere la bussola di navigazione. Una testata on line, a differenza di una cartacea o di un’emittente TV generalista non agisce con il modello broadcast, da uno a tanti, con l’obbiettivo di conservare il più a lungo possibile l’attenzione del proprio utente, quanto con il modello browsing, di navigazione, in cui si ambisce ad essere il riferimento primario di percorsi che comunque combinano e integrano diverse fonti e approcci anche opposti a volte sullo stesso tema.
Sarebbe ad esempio molto utile capire come si comporta il navigatore del gruppo Gedi e come si combina - questo è forse il vero dato che Repubblica non ci da e che sarebbe preziosissimo - con altre fonti e altri spazi web con cui elabora quello che si definisce ormai il proprio palinsesto multimediale.
Proprio questa intraprendenza ci da l’indicatore di interattività che modifica radicalmente il legame con la testata del suo vecchio lettore.
Siamo dinanzi ad una trasformazione sociale prima che tecnologica. Non è la rete che profila forme di utenti cibernetici, ma è la nuova ambizione di tutti gli individui ad avere di più, a pretendere informazioni più aderenti e specifiche per il proprio fabbisogno, a spingere il mondo dell’informazione ad evolversi da semplice redazione di una testata a macchina digitale di contenuti on demand.
In questo processo - questa è l’altra considerazione che rimane sullo sfondo nella proclamazione del successo di Repubblica.it - centrale diventa l’arbitraggio dell’algoritmo. Il punto è capire con quali strumenti tecnologici, ancora meglio: con quali intelligenze si realizzano questi nuovi servizi on demand. Si tratta di rendere trasparenti e condivise le scelte che vedono ormai con un ruolo rilevante in ogni redazione sistemi di ottimizzazione e selezione automatica delle informazioni e soprattutto software che guidano le modalità di pubblicazione on line. Accanto ai dati di diffusione dovrebbe essere ormai indispensabile aggiungere l’indice di automaticità del lavoro e la tipologia delle soluzione tecnologiche adottate. Ogni utente deve sapere e comprendere con quale combinazione fra lavoro artigianale e sistemi di intelligenza artificiale vengono elaborati e prodotti i flussi di contenuti che sono diretti specificatamente a lui.
Di conseguenza il mondo del giornalismo dovrebbe porsi il tema di capire come intervenire su questa rivoluzione strisciante che sposta il valore dalla testata al gruppo editoriale, dalla redazione agli apparati tecnologici nella diversificazione dei prodotti. Si tratta di affermare procedure e pratiche di negoziazione professionale di questo adattamento antropologico ad una domanda di informazione sempre più veloce e differenziata che sfugge a ogni capacità di presidio umano ma non deve essere sottratta alla pretesa di ritrovare anche in questa nuova forma di giornalismo valori e garanzie che ancora devono giustificare il nostro mestiere.
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L'ACCORDO CON 13 TESTATE:
E SARA' GOOGLE A DECIDERE
CHI LASCIARE A SECCOdata: 24/03/2021 12:24
L’accordo di Google con i magnifici 13 (Sole 24Ore, Gruppo Monrif, Caltagirone Editore, il Fatto Quotidiano, Libero, Il Foglio, Il Giornale, Il Tempo, Ciaopeople, Edinet, Gruppo Corriere, Citynews e Varese web), ossia i gruppi editoriali, più Il Corriere della sera, nazionali e locali, che il motore di ricerca ha scelto di privilegiare assicurandogli una rendita nuziale, toglie così ogni alibi dallo scenario editoriale.
Ora nessuno potrà più dire che bisogna regolare il settore e spingere le piattaforme ad attuare la normastiva europea sul Copyright. In attesa di Showcase, la soluzione con cui saranno fruibili i contenuti giornalistici in uno spazio dedicato, e che per il momento è riservata al mercato anglo americano. Dove comunque ha già fatto capire che non ci sia trippa per gatti, anche lì, Google ci ha fatto vedere come si interpreta quella normativa: faso tuto mi, si dice a Milano.
In sostanza Mountain View si arroga il diritto di decidere quali siano le testate amiche e quali quelle da lasciare a secco. Contrattando semmai successivamente attenzioni e indulgenze.
Siamo ad una versione rinnovata della antica Sacis. Forse qualche collega più anziano ricorderà. Si trattava della consociata della Rai che gestiva appunto le inserzioni pubblicitarie ambitissime. Siamo negli anni 60/70. Ancora non è esploso il vulcano pubblicitario, innestato da Berlusconi. Gli spazi sono merce rara. Vengono centellinati. Pensiamo che nel 1974 la pubblicità televisiva ammontava complessivamente a circa 90 miliardi. 10 anni dopo sarebbe impennata a 4.500 miliardi. Una vera rivoluzione che cambiò la pancia e la testa del paese. Ma questa è un’altra storia. Ci serve a capire che chi gestisce le sollecitazioni promozionali, diciamo oggi la native Advertising, gestisce il sistema dei consumi e le conseguenti relazioni sociali.
Torniamo alla Sacis: allora gli spazi erano davvero minimi, Carosello e poco più. La fila dei pretendenti era lunga, l’Italia era il paese delle piccole e medie aziende che provavano a cimentarsi con il mercato della comunicazione di massa. Allora la Sacis batteva moneta.
Gestiva gli esigui spazi pubblicitari in una logica clientelare, cercando da una parte di favorire le aziende più vicine al partito-Stato che allora era la DC, e dall’altra mirava a ricavare risorse non tanto per la Rai, quanto per i giornali amici. Infatti vendeva i famosi caroselli con il metodo del traino: ti permetto di compare un carosello se però acquisti anche pagine promozionali sui giornali dei partiti di governo o dei gruppi affini. Il Popolo, L’Avanti, la Voce repubblicana, La Giustizia, ma poi anche l’Unità, nomi che evocano quasi suggestioni risorgimentali, venivano così sostenuti dal mercato televisivo.
Oggi Google si candida a rinnovare quest’azione di privilegiare testate amiche o comunque non ostili, che possano favorire, sia nazionalmente che localmente, la strategia di inserimento di Google nel mercato della connettività e dei servizi digitali, diventando partner e guida della modernizzazioni della P.A. e delle smart cities.
Su questo sdarebbe scandaloso se ci si limitasse a qualche timida domanda. La FNSI, l’Ordine dei Giornalisti devono aprire un caso nazionale. Google non può sostituirsi alle strategie nazionali, diventando l’unica banca dei giornali e delle TV, finanziando la loro digitalizzazione, e vincolandone la loro azione sul territorio. Google non vende solo influenza, vende anche vocabolari, linguaggi, bio-tecnologie. Google è stato uno dei due sistemi operativi che hanno affossato Immuni, costringendola a non usufruire del GPS per darci informazioni più georeferenziate sulla nostra sicurezza, nel silenzio generale, che oggi comprendiamo come motivato.
Bisogna imporre una logica territoriale per negoziare la condivisione dei contenuti giornalistici. Così come bisogna sostenere le piccole testate che con un potere contrattuale minore, si vedono del tutto esautorate nella gestione con i propri utenti, i cui dati vengono confiscati dalla piattaforma. Infine i criteri di impaginazione. Certo, si dice, ogni testata proporrà le proprie notizie con titoli e posizioni autonomamente scelte ma oggi si sa che Google news precostituisce una propria gerarchia, sganciandola sempre più dalla cronologia. Esattamente come fece Instant Articles, l’intesa pionieristica con cui già qualche anno fa Facebook ingabbiò testate nazionali ed europee, assicurandosi il diritto a gestire le notizie senza vincoli temporali. Quella fu una delle cause di Cambridge Analytica. Ora cosa accadrà?
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LE STRATEGIE
GOOGLE/FACEBOOK
E LA VARIANTE
AUSTRALIANAdata: 19/02/2021 19:38
È davvero un paradosso che il governo più conservatore della recente storia australiana sia diventato un campione della lotta ai monopoli? Così come era davvero inspiegabile che la presidenza Trump costringesse le grandi piattaforme digitali ad un’intesa con gli editori? Dinanzi all’esplosione di entusiasmo di editori (comprensibile) e giornalisti, a tutte le latitudini culturali e politiche, forse sarebbe opportuno riflettere su queste domande.
L’antefatto è noto. Il governo australiano, guidato dall’ex poliziotto Scott Morrison, sulla scia di quanto annunciato anche dall’Unione Europea, annuncia una legge che obbliga le grandi piattaforme a retribuire link e citazioni on line delle notizie prelevate dai siti delle testate giornalistiche. Dopo una prima scaramuccia polemica - mentre facebook annuncia il boicottaggio dell’editoria australiana, ritirandosi dal mercato di quel paese - Google fa un passo di lato, annunciando a sua volta un’intesa con il gruppo prevalente sul mercato australiano dell’informazione, di proprietà del magnate Murdoch, proprietario negli USA anche di numerose testate e della rete conservatrice Fox News.
In realtà Google, come spesso al momento ancora gli capita, riesce a pigliare due piccioni con una sola fava. Da una parte ribadisce la sua insindacabile potenza sulla scena nel decidere chi pagare e chi no, scegliendo un altro monopolista, oltre che lobbista di influenza rilevante in Australia, come appunto il gruppo News Corporation come partner; dall’altra, spinge il governo a rallentare l’iter della legge e a ribadire che comunque - anche se si dovesse arrivare a rendere generalmente obbligato il pagamento per ogni produttore di news - l’intesa con Murdoch, che prevede la titolarità di tutti i dati prodotti dagli utenti delle informazioni on line. Essi rimarrebbero esclusiva del più potente motore di ricerca del mondo.
A questo punto i sorrisi e i brindisi che hanno salutato la svolta australiana diventano smorfie di delusione, forse. Infatti sembra confermarsi una strategia che vede da una parte le forze conservatrici assumere la rappresentanza degli interessi nazionali, contro lo strapotere delle piattaforme, e dall’altra - dopo aver intimorito i grandi brands della Silicon Valley - la ricerca di un’intesa al ribasso, che privilegia sia i gruppi editoriali più vicini alle posizioni di destra, sia le strategie delle piattaforme che tendono a salvaguardare innanzitutto il controllo sui big data. Facebook, che rispetto a Google ha un modello di business più legato alla pubblicità e dunque più esposto alla competizione con i gruppi editoriali, cerca la prova di forza, per stroncare una reazione a catena che potrebbe metterla in ginocchio se si dovesse estendere viralmente il contagio dall’Australia. Google invece - ormai proteso ad una riconversione sulle forme applicative dell’intelligenza artificiale, soprattutto in direzione di bio tecnologie e servizi neurali diretti - sembra più disinvolto.
In questa partita che deciderà dei rapporti di forza sullo scenario giornalistico dei prossimi anni, sembrano proprio assenti i giornalisti, tutti protesi a contabilizzare la percentuale di quel piatto di lenticchie che Google potrebbe investire per avere mano libera con gli editori.
L’evoluzione del mercato ci dice che le testate sono ormai tutte tese ad una sorta di mediamorfosi verso modelli di service provider, in cui diventano produttori e distributori di servizi individuali. Il New York Times o il Guardian sono ormai macchine digitali basate sullo sviluppo autonomo di algoritmi per rendere ogni singolo contenuto personalizzabile. Tendono a diventare più o meno come Netflix, con il suo sistema di profilazione che osserva e profila ognuno dei suoi 200 milioni di abbonati.
I dati diventano dunque food for mind. For artificial mind; per quelle intelligenze artificiali che sono centrali nelle nuove redazioni multimediali e che smistano e misurano ogni minima affinità di ogni notizia con ogni lettore. Se i dati rimangono confiscasti da Google allora il gioco diventa monco, e le redazioni si troveranno subalterne alle piattaforme ancora più di ieri.
Non a caso in Europa la commissaria alla competizione Margarita Vestager ha annunciato due provvedimenti strategici per riordinare le relazioni digitali – il Digital Service Act e il Digital market Act - che fra l’altro prevedono per chi processa dati sensibili di rendere trasparenti e condivisi non solo la tracciabilità dei dati ma anche la struttura degli algoritmi che li elaborano.
Questo è il punto sensibile, su cui Google annuncia guerra senza frontiere. La esclusiva proprieta della potenza di calcolo è lo scettro dell’impero della corporation di Mountain View, come per Amazon o Apple. Mentre giornalisti, ma anche medici, giuristi, pubblici amministratori si trovano a dover attendere che le piattaforme decidano come e se farli accomodare al loro interno per promuovere app o soluzioni digitali rivolte al mercato.
Rendere dati e algoritmi beni condivisi e trasparenti, come appunto i vaccini, è la vera battaglia del secolo digitale. E su questo attendiamo di sapere cosa pensino Trump e il prode Morrison, oltre che la Fnsi e l’Ordine dei Giornalisti. -
I MEZZI DI MASSA IDEOLOGIA?
NO, SONO DIVENTATI
ESSI STESSI SOCIETA'data: 05/02/2021 17:30
Circa 60 anni fa, nel 1964, Umberto Eco pubblicava il suo emblematico testo Apocalittici e integrati, in cui scriveva - eravamo nel pieno della stagione di Carosello - che “i mezzi di massa non trasportano un’ideologia, sono essi stessi ideologia”. Oggi, in un'era mediatica sideralmente lontana da allora, il rapporto di Mediobanca sui consumi televisivi
(https://mediobanca.com/it/hp-media/eventi-iniziative/TV-1.html) ci conferma che i mezzi di comunicazione non sono più di massa e da ideologia sono diventati società.
La frammentazione che si osserva nelle platee televisive, sempre più addensate attorno a piattaforme che scompongono i palinsesti e connettono direttamente il singolo utente al singolo programma, a prescindere dai brand delle compagnie o delle reti televisive, è caratterizzata da un’ansia di differenziazione, di separazione dal gregge. Voglio vedere, fare, mangiare cose diverse, che poi ricompongo nel caleidoscopio dei social.
Questa tendenza si intreccia e rigenera nella spinta alla disintermediazione delle competenze. La pandemia ha messo in primo piano scienziati e ricercatori, mostrando con evidenza quanto gli osservatori del dibattito scientifico, come ad esempio il compianto Pietro Greco, ci aveva già anticipato: la scienza è sempre più articolazione del dibattito sociale, rappresentato direttamente dagli scienziati.
Lo stesso sembra riproporsi nelle comunità politiche e d’impresa. Aziende e partiti sono sempre più proiettati ad una comunicazione diretta, gestita personalmente dai vertici, senza intercapedini consulenziali.
La comunicazione infatti non è solo la confezione primaria del prodotto o servizio, ne è il contenuto stesso: si produce mediante comunicazione, spiegava nel lontano 2000 Manuel Castells, ed oggi siamo all’evidenza. Ed oggi Mary Adams, una delle più prestigiose esperte di marketing, sostiene che il valore di un prodotto non coincide con il suo contenuto ma con la sua narrazione. Si comunica perché si organizza e si gestisce. Un’impresa, un apparato amministrativo, un’associazione, un media, un governo mediante l’abilitazione diversificata ai diversi livelli di informazione. Sia interna, organizzando lungo la catena gerarchica la consapevolezza utile per l’azienda, sia esterna, coinvolgendo clienti e fornitori in una comunicazione attiva che li integra nelle risorse aziendali. Un processo complesso che diventa complicato per la velocità che si impone come inevitabile. In real time la distribuzione e selezione delle informazioni pregiati e sensibili non può che essere gestita automaticamente in base ad intelligenze artificoali validate dal vertice del sistema.
Cambiano le geometria e i percorsi del sapere gestionale.
Dopo aver assistito alla disintermediazione dei media prima, della politica poi, della scienza infine, oggi abbiamo dinanzi uno sganciamento dei decisori dagli esperti.
Le competenze multimediali diventano skills primari del top management, che si afferma proprio accorciando le catene del valore della narrazione aziendale o politica.
Berlusconi, Renzi, Salvini sono gli ultimi epifenomeni di sistemi esperti esterni, il cui back office guida il front office. Lo stesso vale per i responsabili delle grandi aziende o banche o sistemi amministrativi.
Un processo che viene accelerato dalla pretesa sociale di relazione diretta con i decisori.
Un percorso che segna l’evoluzione umana, dall’agricoltura ai passaggi successivi degli imperi militari, alle città professionali, ai sistemi di mediazione finanziaria. Nel suo storico saggio "L’opera d’arte al tempo della riproducibilità tecnica", Walter Benjamin intuisce che con le prime rubriche di lettere al direttore sulla stampa si apre un varco nella separatezza dei giornalisti dalla società, e prevede genialmente che “in un prossimo futuro ogni lettore potrà sedersi accanto al direttore (del giornale )”. Da quel varco ormai si riversa una fiumana di nani che voglio competere con i giganti, controllandoli e misurandone ogni respiro.
La rete è stata strumento e risposta alla domanda sociale di protagonismo e condivisione che in questo ultimo passaggio di secolo è tracimata da ogni contenitore sociale. Un fenomeno che sta ridisegnando autorità e titolarietà delle competenze e dei primati decisionali, indebolendo le elites di mediazione - dal giornalista all’amministratore pubblico, allo stesso medico fino al giurista, per arrivare al leader politico - sempre più accerchiate e contestate, sia da destra che da sinistra. Il brusio della rete sale in questa fase ancora scomposto e confusionario, ma inarrestabile, e apre la strada a fiumi carsici che riordinano gli assetti sociali accorciando ogni distanza fra decisioni e cittadini.
In questa direzione appare singolare ritenere che l’unico scoglio che possa ergersi a baluardo rispetto alla marea di disintermediazione siano le competenze tecnosociali che sostengono le figure dei consulenti e degli esperti. Come può essere, se un vaccino oggi è materia di discussione al mercato, a torto o a ragione, e un piano di comunicazione viene elaborato da sacerdoti esoterici dei linguaggi di connessione sociale?
La traiettoria dei fenomeni di evoluzione della specie sembra univocamente andare proprio nella direzione del decentramento e della condizione di ogni sapere e scienza. Internet è stato il paradigma di questa nuova marca della storia umana dove si raccoglie la lenta ma inesorabile espansione delle forme di cooperazione sociale fin dal Simposio di Platone dove il filoso traccia la più straordinaria descrizione della rete: “Sarebbe davvero bello Agatone se la sapienza fosse in grado di scorrere dal più pieno al più vuoto di noi, solo che ci mettessimo in contatto l'un con l'altro, come l'acqua che scorre nelle coppe attraverso un filo di lana, da quella più piena a quella più vuota”.
Secolo dopo secolo la civiltà è stata scandita dall’avvicinamento della società ai vertici delle decisioni, disintermediando imperi, religioni, eserciti, stati, scienze e economie. In questo gorgo si degrada la centralità del giornalista, che come aveva previsto Benjamin si trova a condividere il suo primato con utenti e lettori, come il dominio del leader politico, o per lui del moderno principe che era il partito organizzato, sempre più accessorio rispetto all’autorganizzazione dei suoi aderenti, ed infine la scienza che si trova oggi nel pieno del tornante del virus a dover condividere con popolazioni intere senso e obbiettivi della ricerca più sofisticata.
Una vera tempesta perfetta che sottrae credibilità e stabilità ad ogni gerarchia tradizionale, a partire dal mercato se un manipolo di straccioni, nel senso dell’esercito rivoluzionario di Valmy che salvò la rivluzione francese dall’attacco dei nobili prussiani, ha potuto sfidare i più poderosi Hedge Fund di Wall Street e farli piangere per perdite di circa 40 miliardi di dollari. La stessa rivoluzione copernicana si intravvede negli organigrammi aziendali.
Clubhouse, la nuova app che furoreggia con i suoi post audio in diretta, è l’emblema ed il totem di questa tendenza. Un ping pong di microregistrazioni sonore che sostituiscono i testi.
Ad un messaggio audio di un utente o cliente o iscritto all’organizzazione, non può che rispondere, subito, il titolare del brand a cui è diretto, sia esso il CEO o il segretario generale o il responsabile del settore citato. Non c’è più spazio per Rocco Casalino e le sue barocche architetture di persuasione maccheronica. Il real time e la disintermediazione gerarchica marginalizzano ogni supporto consulenziale: tocca al responsabile, al leader, al capo doversi esporre, con la sua voce. Non c’è gostwriter che tenga. Quella che già si chiama la dittatura degli esperti sembra volgere al termine e preludere ad una nuova tornata di classe dirigente dove il coordinamento di saperi momentanei e la relazione con i propri utenti e consumatori prevale sulla tecnicalità di persuasione delle strategie decise a monte.
Si apre così una stagione dove deliberazioni, saperi e opinione pubblica diventano fattori di un unico triangolo istituzionale che abilita la rappresentanza dei governanti rispetti ai governati. Un solo principio di autorità intimamente sovversivo e totalitario, come scrive il matematico Paolo Zellini, sopravvive a questa livella della storia: la potenza di calcolo.
E’ proprio rispetto a questa nuova scienza esoterica, che automatizza sentimenti e volontà, si delinea un nuovo spazio di competenze e di saperi tecnici di supporto a decisioni e ai poteri politici e d’impresa. Come rendere trasparenti, condivisi e negoziabili questi agenti intelligenti che ormai tendono ad uniformare le soluzioni singole è oggi la vera strategia competitiva dove aziende e democrazia si trovano a far quadrare la relazione fra calcolanti e calcolati, sostituendo la vecchia e desueta gerarchia fra mediatori e mediati, oltre che sostituire radicalmente quella fra proprietari e produttori.
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L'INTESA GOOGLE-STAMPA
UNA BEFFA IN FRANCIA
E POI TOCCA ALL'ITALIAdata: 21/01/2021 14:25
Un piatto di lenticchie che non sarà nemmeno consumato. L’accordo fra Google e gli editori in Francia si annuncia come l’ennesima beffa ai danni dei produttori artigiani di informazione. Il monopolista sul mercato delle ricerche infatti ha imposto di poter negoziare singolarmente, con ogni testata o società editoriale, le condizioni d’uso delle notizie trasmesse. Una trappola che esporrà l’intero sistema giornalistico francese ad intese capestro sui due punti nodali come sono la gestione dei dati e la condivisione degli algoritmi. Su questi punti, come forse qualcuno ricorderà, si consumò la truffa di Instant Articles, l’intesa che vide alcuni gruppi editoriali europei, in prima fila in Italia La Stampa e il Corriere della sera, poi si accodò Repubblica, che consegnò a facebook la distribuzione discrezionale delle news in tutto il mondo. Addirittura i giornali allora accettarono di sganciare le notizie dalla cronologia, permettendo a Facebook di usarle e distribuirle a suo insidacabile giudizio. Questo fu poi la base di Cambridge Analytica. Infatti, se si separa una notizia dal suo tempo, si permette al service provider di usarla senza contesto e giustificazione giornalistica, come una clava.
Come fu appunto nel corso delle precedenti elezioni presidenziali negli USA.
Ora in Francia si ricomincia.
Google, che si sente nell’occhio del ciclone negli USA e in Europa, dove è accerchiato da inchieste e istruttorie per posizione dominante, cerca di rompere l’assedio comprandosi il consenso di segmenti sensibili del mercato, come sono editori e giornalisti. L’accordo di cui si ha notizia in Francia assolve esattamente a questa funzione, in cambio di un classico piatto di lenticchie che non verrà nemmeno consumato dai giornalisti. Infatti contrattare testata per testata significa mandare al macello la stragrande maggioranza di redazioni minori, permettendo a poche eccezioni, come Le Monde o Le Figaro, di strappare qualche soldo, al costo però di svendere tutte le relazioni con i clienti finali dei giornali, i cui dati saranno controllati esclusivamente da Google. In più quest’intesa serve anche a frenare, se non proprio boicottare, quanto sta per essere deliberato in sede Europea.
La commissaria alla concorrenza Vestager ha già annunciato due provvedimenti, uno sui dati, il DSA (Digital service Act), e l’altro su algoritmi e piattaforme, il DMA (Digital market Act), che dovranno disciplinare rigidamente il potere discrezionale dei monopolisti imponendo la trasparenza e tracciabilità nell’uso dei dati degli utenti e costringendo le piattaforme a condividere gli algoritmi semantici che gestiscono le informazioni.
Siamo dunque ad una stretta. Il prossimo laboratorio sarà proprio l’Italia, dove si annunciano già disponibilità e compiacenze politiche, nel vertice dei 5S, tradizionalmente sensibili agli interessi degli OTT, ed editoriali come il gruppo Gedi che si è gia candidato ad essere il vettore delle strategie di Google e Facebook in Italia. Ora la FNSI e l’Ordine dei giornalisti devono porre paletti, concordando con la FIEG intese-quadro complessive , dove siano applicati i vincoli europei e agganciate le attività dei social ai criteri di condivisione e negozialità di ogni cambio tecnologico,
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NASCE LA TERZA GAMBA
FRA GOOGLE E STATI:
IL SINDACATO INGEGNERIdata: 05/01/2021 17:18
Poche centinaia di ingegneri e programmatori, su un totale di 260 mila dipendenti, eppure sembra davvero un terremoto quello che scuote la Silicon Valley. Per la prima volta nel cuore del sistema tecnologico, nel segmento più pregiato e riservato, lo sviluppo dei sistemi di intelligenza artificiale di Google, si insedia un sindacato. Si chiama Alphabet Workers Union, riferendosi ai dipendenti di tutto il gruppo di cui Google fa parte.
Più che il numero a fare rumore sono le ambizioni e soprattutto le circostanze che hanno reso possibile il colpo di scena. Dopo anni di brusio, con impennate e indignazioni, questa volta si è passati alle vie di fatto. Non un manipolo di diseredati, super sfruttati, ma direttamente la figura professionale cardine, quali appunti gli architetti del software, promuovono un sindacato che si propone, più che contrattare salari e ferie, di “controllare ciò su cui lavoriamo e come viene utilizzato. Garantiremo che le nostre condizioni di lavoro siano inclusive ed eque. Non c'è posto per molestie, fanatismo, discriminazione o ritorsione. Diamo la priorità ai bisogni e alle preoccupazioni degli emarginati e dei vulnerabili. I lavoratori sono essenziali per il business. La diversità delle nostre voci ci rende più forti”, come scrivono nel loro manifesto di fondazione.
Un’ambizione forte che tocca il buco nero della società digitale: il potere di condizionare comportamenti e decisioni con i sistemi intelligenti. I professionisti di Google colgono questa domanda sociale che viene dalla rete e si propongono come tutori dell’etica pubblica. Infatti scrivono ancora nel loro documento: “Garantiremo che Alphabet agisca in modo etico e nel migliore interesse della società e dell'ambiente. Siamo responsabili della tecnologia che portiamo nel mondo e riconosciamo che le sue implicazioni vanno ben oltre Alphabet. Lavoreremo con le persone interessate dalla nostra tecnologia per assicurarci che serva il bene pubblico". Ma anche l’intervento dello Stato si presta a dubbi e diffidenze: spostare da pochi privati a pochi Etica e interesse pubblico sono i due concetti che aprono un nuovo scenario. Non sono più i proprietari delle piattaforme i capitalisti della sorveglianza, come li ha definita Shoshanna Zuboff nel suo saggio omonimo, a garantire efficienza e correttezza dei sistemi che commercializzano. Hanno troppo potere per essere liberi, aggiungeva ancora la Zuboff. E per questo si erano mossi gli Stati. Sia in una versione autoritaria, come in Cina e Russia, dove si sono formati veri e propri Algoritmo-nazione, in cui il potere statale coincide perfettamente con il controllo della potenza di calcolo, oppure, in Europa e Stati Uniti, si agiva mediante le normative antitrust che cercano di contenere il gigantismo di questi poderosi monopoli, che stanno, come denunciano proprio gli USA, “inquinando l’eco sistema dell’informazione".
Ma l’intervento degli Stati non risolve certo il problema, e per certi versi lo aggrava: nel dualismo fra monopoli privati e sistemi politici sono ancora i gruppi della Silicon Valley ad avere in mano la bandiera della libertà. Ora con la discesa in campo di una terza gamba del tavolo - ossia i dipendenti delle piattaforme stesse e gli esperti del software che possono rappresentare legittimamente forme di controllo pubblico sulla natura dei sistemi automatici - il gioco si allarga.
Insieme a questo nuovo sindacato infatti il ruolo di soggetti come le città, impegnate nella digitalizzazione della propria vita, o le Università, che testano e usano i sistemi digitali in massa, e le professioni, come sanità e informazione, può finalmente diventare realmente negoziale. Non a caso il nuovo sindacato è stato sostenuto e affiancato dalla prestigiosa CWA, che organizza i lavoratori e i dipendenti delle aziende editoriali e dei giornali. Proprio il mondo del giornalismo infatti si vede accerchiato e pressato dai processi di automatizzazione che tendono ormai a sostituire direttamente le attività artigiane. Il nodo dell’etica riapre i giochi, costringendo Google, ma anche Amazon o Facebook a dover fare i conti con una domanda di trasparenza e di condivisibilità del sistema tecnologico. L’esperienza che sta maturando a Google parla anche al nostro paese, dove si sta rattrappendo l’intera organizzazione editoriale, con una crisi verticale delle strutture professionali dei giornalisti, pensiamo al fallimento in pectore dell’INPGI, l’Istituto previdenziale. Non si tratta di congiuntura negativa o di un inesorabile destino che vede appunto la fabbricazione delle informazioni assorbita dalle piattaforme profilanti. Ora con una nuova stagione in cui proprio le piattaforme diventano materia di contesa e controllo, una nuova leva di professionisti dell’informazione in grado di garantire trasparenza e corretteza dei sistemi intelligenti potrebbe ridare smalto e funzione al mestiere, guidando anche altre professioni, pensiamo alla sanità, in piena pandemia, verso una nuova dinamica autonoma e consapevole dei titolari del servizio rispetto ai fornitori delle potenze di calcvolo. La ruota riprende così a girare. -
MA PERCHE' ABBIAMO DOVUTO ASPETTARE NETFLIX PER IL RACCONTO DI SAN PATRIGNANO?
data: 02/01/2021 15:34
Non bisogna stare dalla parte del flagello quando il flagello uccide, urla nel suo epocale romanzo La peste Albert Camus. Vincenzo Muccioli non stava certo dalla parte della droga nella guerra contro il flagello della scimmia sulla spalla di tanti giovani. Ma da che parte stava?
Questa domanda è rimasta racchiusa in un bolla di reticenza, o di rancorosa denuncia, ma fino ad ora non è mai stata materia di un’analisi approfondita, complessa, completa, spietata. Fino a quando Netflix non ha deciso di essere anche servizio pubblico, e colmare una macchia bianca della storia di questo paese.
Sanpa: luci e tenebre di san Patrignano, diretta da Cosima Spender, 5 puntate di un moderno reportage giornalistico, è una straordinaria, lucida, pacata e dettagliatissima anatomia di un sistema che stava troppo in alto per essere alla portata delle testate italiane, tanto più per una Rai che si è sentita troppo legata in quegli anni 90 alla cautela e discrezione su quei temi.
Il lavoro di Netflix va visto tutto di seguito. 5 ore di un racconto scandito da decine di testimonianze, ognuna delle quali per lunghi tratti non si capisce da che parte stiano: ma quello è a favore o contro? La vera risposta è che sono tutti dentro.
Questo reportage infatti è una vera immersione nel mondo di San Patrignano, un casolare sulle colline riminesi, diventato in una ventina di anni, una città che muoveva valore per circa 200 milioni di euro. Tutto viene analizzato e osservato con il punto di vista di chi ha vissuto, condiviso, partecipato, dentro quel microcosmo. Il tratto più ammaliante del lavoro è proprio l’evoluzione dei racconti che ti fa vivere in diretta la storia, l’intensità, i contrasti, il dolore che si provava dentro quel sistema.
Muccioli chi era? Il tormentone di tanti titoli di giornale in quei tempi qui torna in una versione più articolata e più vera: Muccioli cosa era diventato? Infatti la storia non denuncia un complotto, non celebra un miracolo, ma descrive una vicenda umana, profondamente umana, il cui testimonial - Vincenzo Muccioli - è stato strumento e motore di una domanda sociale a cui lo Stato non dava risposta. In quello spazio che vedeva le istituzioni assenti, incapaci di parlare a un mondo che si stava gonfiando di disperazione, si è incuneato un avventuroso e carismatico personaggio in cerca di autore.
Una delle testimonianze più illuminanti dell’inchiesta è quella del fratello di Vincenzo Muccioli che ne descrive lo stato d’animo di un ragazzo che fuori dalla scuola, trova nel suo carisma il capitale per muoversi nel mondo: fisico imponente, sguardo magnetico, voce affabulante. Si comincia con prime pratiche esoteriche che rendono il casolare avuto in gestione dalla famiglia un primo approdo di un’umanità irrequieta. Vincenzo coglie l’opportunità di trasformare il podere in ricovero e capisce che i giovani tossicodipendenti stanno aumentando e nessuno si cura di loro.
Ma come è possibile che senza ne arte ne parte ci si possa improvvisare terapeuta? Siamo in un paese che lascia ampie zone di confine senza controllo pubblico nei nuovi ambiti delle relazioni umane.
San Patrignano comincia ad essere un deposito di disperazione, per le famiglie dei ragazzi drogati una possibilità di sollievo. La fiumana comincia ad ingrossarsi. Il Casolare diventa comunità, i tribunali affidano a Muccioli i tossici arrestati. In questo gorgo si alternano le storie buone e cattive: molti si salvano, quelli che scappano vengono ripresi, chi non è ripreso fa una brutta fine, e per non fargliela fare Muccioli usa le maniere forti.
Arrivano i carabinieri, il guru viene arrestato. Il programma riesce a raccontare benissimo il modo in cui i ragazzi - erano circa una sessantina allora che rimangono a San Patrignano - salvano la comunità rimboccandosi le maniche e aspettando la liberazione del fondatore. Sono loro che salvano il sogno di Muccioli e anche lo stesso sognatore che esce indenne dalle inchieste.
Da quel momento scatta un meccanismo complesso che vede lo Stato usare San Patrignano per sostituire un’assistenza pubblica che non c’è, e un fiume di denaro privato arriva a Muccioli per ricoverare i figli dei ricchi, con i cui soldi si assistono anche i figli di molti poveri. Il casolare diventa città, poi mausoleo, a cui arrivano in pellegrinaggio capi di Stato e potenti industriali, fra cui la famiglia Moratti che, in più di 20 anni ,conferisce a San patrignano più di 200 milioni di euro, che diventano ogni ben di Dio: case, ospedale, scuderie, allevamenti, coltivazioni pregiate: un vero impero.
E qui il sogno diventa incubo: tutto può cadere per qualche maltrattamento? Per qualche insofferenza? per qualche disinvoltura contabile. Fuori si alza il fuoco nemico: Pannella e il Manifesto sparano ad alzo zero contro questo santone di regime. E come accade spesso, la fortezza si chiude nel senso di accerchiamento: o con me o contro di me è l’ammonimento di Muccioli. Si susseguono incidenti, fino ai morti: una ragazza, e poi, nel 93, il caso Maranzano, un ragazzo della comunità, trovato morto, pestato a sangue, in una discarica vicino Napoli. Non siamo più agli schiaffoni, ma si comincia a morire per difendere l’impero.
Le irrequietezze diventano diserzioni: i più stretti collaboratori cominciano a chiedersi come tagliare il cordone ombelicale e liberarsi dalla stretta del salvatore. Minacce, accuse, processi. Ogni sussulto si rivede nei toni, nelle emozioni, nelle lacrime dei testimoni. Nessuno e bianco o nero. Tutti mostrano le sfaccettature di storie vere, potenti, contraddittorie. Il tossico diventato dottore, il ragazzo sbandato che fa da guardia del corpo di Muccioli, il ragazzo in crisi che diventa addetto stampa e poi fugge non senza rompere in lacrime alla morte del guru.
Una vera Divina Commedia, con tutti che passano dal paradiso all’inferno, e dimostrano come anche i santi siano alla lunga corrotti dal potere. Ma che anche i demoni hanno l’opportunità di essere santi.Ma perché abbiamo dovuto aspettare Netflix, 25 anni dopo, per farci raccontare una storia vera?
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INTELLIGENZA ARTIFICIALE:
COSI' L'IRRUZIONE IN ATTO
NEI PROCESSI
DELL'INFORMAZIONEdata: 31/12/2020 11:44
30 mila streaming, 34 newsletters, 200 mila iscritti. Sono i numeri che sbandiera Repubblica per documentare la sua transizione al digitale. Non solo giornale, anche se, si dice, senza giornale tutto questo non ci sarebbe. Ma davvero sono questi i numeri dell’informazione? davvero possiamo pensare che la digitalizzazione è solo una distribuzione più capillare e mirata? La fabbrica del giornale, la catena di montaggio di quell’infinità di bit che vengono composti e ricomposti nei flussi che partono dalle redazioni chi li governa o come?
Negli anni 70 e 80 la qualità di una redazione era data dalla sua proprietà, dall’autorevolezza e autonomia della sua direzione, dal controllo sul prodotto della redazione, dalla separatezza della pubblicità e del marketing dalla linea editoriale. I fatti separati dalle opinioni, recitava un fortunato slogan di Panorama, di Lamberto Sechi. Le notizie separate dagli interessi, urlava il comitato di redazione del Corriere della sera degli anni 80, affogato fra P2 e le lobbies finanziarie che tentarono la conquista.
Il back office è il vero cuore di una testata, non il delivery che consegna le notizie ai singoli utenti. Immaginate se negli anni 90, nella guerra delle Tv, la Fininvest di Berlusconi si fosse limitata a dettagliare quanti canali produceva, quante ore di trasmissione, quante notizie e quanti spot pubblicitari, senza precisare di appartenere alla famiglia del presidente del Consiglio, e di annoverare nei propri ranghi l’intero stato maggiore dei un partito. Un giornale nel digitale è essenzialmente la sua intelligenza artificiale, il resto è intendenza che, come diceva Napoleone, segue.
Proprio ieri mattina, nella tradizionale conferenza stampa di fine anno del presidente del Consiglio Conte, il presidente dell’Ordine nazionale dei giornalisti Carlo Verna ha regalato al premier un opuscolo con una ricerca svolta dall’Ordine insieme all’Università Federico II di Napoli sui processi tecnologici che attraversano le redazioni. In particolare sull’automatizzazione della produzione giornalistica. In quelle pagine troviamo i veri numeri che devono documentare la qualità di un giornale. Il 64 % delle testate europee sta automatizzando le funzioni di scrittura. Circa la metà delle redazioni che producono on line sono composte da figure non iscritte all’Ordine dei giornalisti: web master, informatici, programmatori, marketing, data analyst. In Italia la quasi totalità dei quotidiani affida le proprie memorie e i propri software editoriali a centri esterni, che fanno capo a pochi gruppi multinazionali, fra cui primeggiano Google, Amazon, Facebook. Il 94% dei processi digitali nei gruppi editoriali delle testate italiane sono finanziati, e dunque controllati, da Google.
Sarebbe interessante sapere da Repubblica questi dati: come vengono gestite le newsletters? Come vengono profilati gli utenti? I dati sono di proprio esclusivo dominio o condivisi con Google e Amazon?
Come si produce alla pubblicazione on line? Si utilizzano intelligenze artificiali che scelgono il momento, il social, la formulazione del titolo e la struttura semantica della notizia o no?
Chi seleziona queste intelligenze? figure della redazione o del management? la testata è proprietaria dei propri software e dei propri data base o usa in appalto intelligenze concedendo all’esterno i propri dati sensibili e quelli dei propri lettori?
Sono queste le domande che identificano la qualità di una testata. Il 25 % dei ricavi del New York Times sono investiti nello sviluppo di algoritmi proprietari. Quanto spendono le testate italiane per essere proprietarie delle intelligenze e delle memorie che utilizzano?
Proprio la circolarità che vanta Repubblica nella sua produzione, con una riformulazione dei contenuti a matrice che dal desk centrale via via rifluiscono nei contenitori verticali ed orizzontali, alimentando tutta quel caleidoscopico catalogo di prodotti mirati indica la centralità di funzioni di intelligenza artificiale semantica che analizzano, riorganizzano, impaginano e selezionano ogni singolo contenuto.
E’ esattemente questa la funzione che produce valore in una testata: i prodotti ad utilità ripetuta. Spremere valore da un singola notizia reimpaginandola in contesti e con senso diverso nelle più specifiche offerte personalizzabili. Questa funzione viene gestita ormai sempre più automaticamente da software che guidano e sistemano i pacchetti di informazioni che si depositano negli infiniti spazi del catalogo digitale. Come sono progettati questi sistemi fondamentali? Con quale concorso della redazione? con quali figure professionali?
Arriviamo qui a individuare la linea d’ombra che deve diventare trasparente e condivisa: quali corredo di etica e deontologia professionale vengono riversati nei suoi sistemi automatizzati? Attorno a questa domanda bisogna che cresca una nuova cultura professionale e una nuova pratica sindacale dei giornalisti.
Negoziare l’algoritmo, espressione che solo qualche anno fa suonava cervellotica e astratta, oggi è pratica corrente, per i riders di Amazon, per i medici che curano il Covid, per i giornalisti.
Bisogna pretendere che un giornale indichi quali algoritmi utilizza, quali accordi ha sancito con le grandi piattaforme, quali alleanze e integrazioni ha promosso: senza queste informazioni le testate diventano buchi neri riempiti solo dagli algoritmi di Google e Facebook.
Ma questo ragionamento non può limitarsi solo ad una nuova stagione di diritti di cittadinanza dell’informazione. Bisogna riflettere sulla materialità del mestiere. Quale giornalismo oggi è possibile senza una dipendenza strutturale da competenze ed esperienze digitali? Ricerca, selezione, analisi, composizione, edizione e pubblicazione di contenuti sono attività concepibili senza essere condizionato da dispositivi digitali di cui si rischia di non conoscere il meccanismo e soprattutto la volontà? Perché ogni dispositivo digitale è corredato di una volontà. Non della macchina ma del programmatore.
Ancora il presidente dell’Ordine Verna, nel corso dell’incontro stampa di cui abbiamo parlato, ha fatto un riferimento importante che mi pare sfuggito ai più: l’informazione deve tornare ad essere intelligenza, ha detto riferendosi al fatto che in molte lingue i due termini sono sinonimi. Credo intendesse dire che siamo ad uno spartiacque in cui riscrivere le identità e i contenuti dell’intelligenza che oggi è indispensabile per produrre un’informazione libera. Dinanzi a noi sta il salto delle nuove modalità di irruzione in redazione dell’intelligenza artificiale e di come renderla strumento e non padrona della notizia.
Dunque si pone il nodo di nuove competenze che devono essere integrate in redazione: sistemisti, web master, data analyst. Informazione è spostare un contenuto da un punto all’altro dello spazio, scriveva nel dopo guerra Claude Shannon, il grande matematico che con Alan Turing aveva decrittato Enigma, la macchina di codifica dello spionaggio nazista.
Ebbene oggi questi contenuti si muovono istantaneamente grazie a saperi e conoscenze diverse, di cui il mestiere tradizionale di giornalista è solo una delle componenti che tende ad essere anche le meno pregiata. In questa chiave io credo possa essere inquadrato il tema dell’INPGI, l’istituto di previdenza dei giornalisti.
Al netto della riserva pubblica che deve almeno tamponare le prestazioni extra previdenziali che l’INPGI ha assicurato ai colleghi in cassa integrazione, è indispensabile adeguare la base impositiva alla nuova realtà del giornalismo: circa 80 mila figure di informatica più complessa oggi determinano la dinamica delle notizie. Integrare nelle redazioni e dunque in capitoli specifici di un nuovo contratto di lavoro che disciplini queste nuove personalità professionali significa dare forza negoziale alle redazioni e arricchire le culture dell’informazione, assicurando autonomia e sovranità a chi, come diceva appunto Shannon, muove i contenuti da un punto all’altro dello spazio.