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GEPPI DE LISO

  • RIFLESSIONI SU TRE POSTER
    DI CAMPAGNA ELETTORALE

    data: 05/09/2022 17:57

    Anche se oggi le opinioni politiche sono abbastanza mutevoli, credo che una campagna elettorale sposti molti più soldi che voti, perché le convinzioni politiche non si cambiano per frasi a effetto o immagini o colori, insomma per emozioni. L’adesione a una parte politica si forma nella fase adolescenziale o giovanile e raramente cambia, per studio, per influenza di docenti, o amici, o di una persona stimata. In seguito scegliamo un partito, per le decisioni che prende; ma noi sappiamo solo ciò che ci perviene attraverso la comunicazione che ci viene fatta, e dalle fonti che riteniamo più veritiere, cioè più consone alle nostre idee. Infatti, una volta formate delle convinzioni politiche, si accettano le informazioni coerenti e si respingono quelle contrarie, le dissonanze cognitive.

    Crediamo di giudicare la realtà attraverso le nostre esperienze; e soprattutto crediamo a ciò che abbiamo visto con i nostri occhi, senza pensare che quelli sono degli obiettivi che proiettano le immagini capovolte nel nostro cervello, il quale è l’unico organo che vede ribaltandole, ecc. Ma da dove conosciamo la realtà se non attraverso le parole e le immagini che accettiamo? «La realtà fisica sembra retrocedere via via che l’attività simbolica dell’uomo avanza» scrive Ernst Cassirer (Saggio sull’uomo, 1944). Ed oggi siamo sommersi da simboli. Umberto Eco afferma che «L’uomo è animale simbolico, ed in questo senso non solo il linguaggio verbale, ma la cultura tutta, i riti, le istituzioni, i rapporti sociali, il costume ecc. altro non sono che forme simboliche […] in cui esso racchiude la sua esperienza per renderla interscambiabile.» (U. Eco, Segno, 1974). Dobbiamo però distinguere fra emozioni-immagini, contrapposte a ragionamenti-parole, nella comunicazione, e specialmente in quella d’impresa o politica. Le prime servono per comunicare in superficie e sono di breve durata; magari possono concorrere a far stimare, o addirittura amare un prodotto o una marca; le seconde per cercare di persuadere ad un modo di pensare, o a un cambio di atteggiamento, e sono più durature: il mondo istintivo, interiorizzato è più facilmente raggiungibile da emozioni-immagini, mentre il mondo appreso, la cultura è più facilmente raggiungibile dalla parola. E la comunicazione elettorale a stampa è costituita da immagini e parole. E la parte del leone vien fatta dalle affissioni stradali e maggiormente con i grandi poster, ai quali si presta un’attenzione di pochi secondi. Debbono perciò avere poche parole, essere immediati, chiari, seducenti e perentori. Un’altra parte è invece costituita da dibatti, comizi, scontri televisivi o radiofonici (non molto seguiti, se non dai pasionari) nei quali si possono esplicitare idee più complesse.

    Vediamo come si sono espressi i pricipali tre partiti, Pd, FdI e M5S, nella campagna affissione stradale.

    Il Partito Democratico, di centrosinistra, ha puntato su una contrapposizione netta, con il campo bipartito in nero e rosso. Sulla parte rossa, a destra, la faccia del Segretario Enrico Letta, con un sorriso trattenuto, e una proposta programmatica in caratteri bastone leggermente inclinati, bianchi; e sul fondo nero a sinistra, la proposta dell’opposizione con gli stessi caratteri, ma grigi. In basso a destra il titolo (o slogan in inglese) Scegli invita a votare per una delle due tipologie contrapposte d’Italia: «Da un lato l’Italia che sta con Putin, dall’altro quella che sta con l’Europa. Da un lato chi precarizza il lavoro, dall’altro chi vuole il salario minimo. Da un lato i premi agli evasori, dall’altro la diminuzione delle tasse sul lavoro. Da un lato le discriminazioni, dall’altro i diritti. Da un lato le energie fossili, dall’altro le rinnovabili». Un’Italia nata dalla Resistenza al nazifascismo, ma con un governo di destra, o di sinistra. Ignorando il cosiddetto Centro, ormai molto ridotto dopo la confluenza in un unico Partito Democratico, dei Democratici di Sinistra (eredi del PCI), e del partito La Margherita (erede della DC e di altre forze riformiste). Tutto sommato una comunicazione che invita razionalmente ad una scelta.

    Oggi il partito Fratelli d’Italia è dato vincente da molti sondaggisti. Fratelli d’Italia che ha preso il nome dal nostro inno nazionale, è il nuovo nome di Alleanza Nazionale, erede del Movimento Sociale Italiano (MSI), di estrema destra, nel quale erano confluiti personaggi che avevano collaborato col regime fascista e membri della Repubblica Sociale Italiana. L’onorevole Giorgia Meloni, Segretaria del partito, cercando di distanziarsi dal passato regime, pochi giorni fa ha pubblicato un video in inglese, francese e spagnolo nel quale spiega che il suo partito «ha consegnato il fascismo alla storia ormai da decenni, condannando senza ambiguità la privazione della democrazia e le infami leggi anti-ebraiche», ma non ha ancora spezzato i legami con movimenti dichiaratamente neofascisti e neonazisti, né eliminato dal simbolo del partito la fiamma tricolore (già del MSI e oggi del Movimento Sociale Fiamma Tricolore, fondato da Pino Rauti ed altri esponenti del MSI).
    I poster sono di colore azzurro scuro con sulla destra la bella faccia della Meloni, la quale non ha competitori dialettici alla sua pari. La sua comunicazione è infatti perentoria, senza dubbi, tanto da sembrare in grado di risolvere tutti i problemi, come rivendica il suo slogan: Pronti, con caratteri molto grandi (che rimanda a Pronti alla morte o alla risposta di un soldato ad un comando) e sotto: a risollevare l’Italia. Ma se l’Italia è caduta in basso, tanto da dover essere risollevata, lo si deve anche ai vent’anni e passa di governi di centro-destra a guida Forza Italia a cui lei stessa ha partecipato anche come Ministro. Ma i dubbi non sono patrimonio della destra pronta a difendere le nostre coste dagli arrivi, anzi dall’invasione di tante persone pronte a rischiare la morte (e tantissimi l’hanno trovata) pur di cercare una vita migliore di quella che hanno nei loro Paesi che sono stati depredati dai paesi occidentali: altro che aiutarli a casa loro, che forse non hanno più. Con una locuzione ad effetto li chiamano immigrati irregolari, come se fosse possibile non esserlo, dato che, per i decreti Salvini, per essere in regola occorrerebbe dimostrare di avere già un lavoro fisso prima di venire in Italia. Senza rendersi conto che l’Italia ha bisogno di manodopera e di nuove imprese per portare in pareggio i conti della Previdenza Sociale. Già oggi infatti una gran parte di immigrati regolarizzati versa molti contributi nelle sue casse. Pronti a difendere gli interessi del ceto più ricco con la flat tax che elimina la progressività nelle imposte, contro una giustissima legge Costituzionale che la prescrive: chi ha di più paghi di più.

    Anche i poster del Movimento 5 Stelle mostrano un bel sorriso aperto del presidente Giuseppe Conte, su uno sfondo azzurro scuro attraversato da una fascia obliqua gialla, colore del Movimento, ma che, insieme all’azzurro, ricorda la bandiera dell’Ucraina; e a caratteri molto grandi, sulla sinistra, il titolo tutto maiuscolo e in un carattere bastone molto grande, il titolo: Dalla parte Giusta, su due righe, ma, dal momento che il movimento ha sempre sostenuto di non essere né di destra, né di sinistra, non dice quale sia questa parte, forse quella di Conte, il Presidente che ha conquistato molti italiani con i suoi due governi, prima con la destra, poi con la sinistra, dimostrandosi un politico di tutto rispetto, e che a giudicare dal suo programma è di centro-sinistra. 

  • IL NASO DEL TEMPLARE

    data: 04/07/2022 19:11

    Quando nel 2012 il giornalista Michele Marolla mi invitò a presentare il libro Il naso del templare (Franco Cardini - Raffaele Licinio, Caratteri mobili, Bari, 2012) in una ex chiesa di Giovinazzo, ne rimasi stupito e onorato; stupito perché non mi sono mai occupato di storia medievale, onorato perché accostato a due grandi intellettuali come lo sono Cardini e Licinio che, da semplice lettore, ho sempre ammirato per la profondità dei loro studi.
    Lessi il libro e mi piacque molto, perché mi aveva proiettato nel medioevo, in mezzo alla gente, agli oggetti, alle abitudini, alle norme di gestione delle masserie, ecc., vita vera insomma, non romanzata: un medioevo ricco di fascino, altro che secoli bui. Basti pensare ai monaci amanuensi dei secoli passati che ci hanno trasmesso in splendidi libri, spesso riccamente miniati, la cultura sino ad allora accumulata.
    Una riflessione sul titolo. Giustamente Blaise Pascal, nei suoi Pensieri (libro postumo, del 1669, era morto sette anni prima, nel 1662, a soli 39 anni) aveva scritto: «Se il naso di Cleopatra fosse stato più corto, sarebbe cambiata l’intera faccia della terra.» Se avesse scritto più lungo, sarebbe stato un modo per ribadire un concetto pericolosamente stupido: che il successo di una donna, anche di una grande protagonista come Cleopatra, dipenda dal suo aspetto fisico e dalle sue prodezze di alcova. Concetto che continua a imperversare nei pettegolezzi di oggi. Il motivo del fascino di Cleopatra, troppo spesso viene attribuito alla bellezza fisica. È probabile che fosse una donna attraente, ma aveva anche ben altre doti.
    Questo pensiero di Pascal poneva la questione se i particolari possano modificare interi eventi storici. La modifica poi della frase di Pascal: il naso del templare, titolo del libro, viene da un monstrum, un errore cioè, commesso durante un esame di Storia medievale. E qui veniamo a qualcosa che ha a che fare con la mia professione.
    Non con gli errori, ma con i sogni. Perché monstrum, plurale monstra (da cui deriva mostrare) ha una doppia accezione: prodigio, fatto o fenomeno portentoso, eccezionale, in senso sia positivo: meraviglia, sogno – sia negativo: mostruosità.
    E il medioevo è carico di monstra, che nascono dalla curiòsitas, dalla sete di conoscenza, da percorsi interpretativi di tipo morale e allegorico. Esempi visivi sono tutta una serie di bestiari fantastici e di miti.
    «La funzione insieme esplicativa e occultante del simbolismo oscura il dato naturalistico» scrive Licinio.
    Nonostante il desiderio dichiarato da Federico II nel suo De arte venandi «manifestare ea quae sunt sicut sunt» vedere le cose per quello che sono, questo resterà un pio desiderio, un sogno quasi del tutto irraggiungibile.
    I miti nascono dall’esigenza di avere delle risposte alle grandi domande dell’umanità e non avendo ancora gli strumenti per dare risposte scientifiche o razionali, i filosofi antichi davano risposte interpretative, anche fantastiche. Perché? (In latino cur?) è la prima domanda che ci si pone, come fanno i bambini: Perché le stelle brillano in cielo? E ad un perché si possono dare risposte di tanti tipi, anche risposte poetiche, come questa: “Perché la Terra di notte è racchiusa in una sfera bucherellata, al di là della sfera c’è il sole e quindi noi vediamo dei puntini luminosi”, data dal filosofo cinese Confucio (551 a.C. – 479 a.C.).
    Perché gli oggetti cadono per terra? Perché le cose e la terra si amano. Deve ancora venire Galileo Galilei che pone la domanda: "come?" Come avvengono i fenomeni? Domanda che dà il via al metodo scientifico di analisi, domanda che richiede una risposta che si possa provare in laboratorio, magari riproducendo il fenomeno.
    Nell’ultimo capitolo de Il naso di Cleopatra o era il naso di un templare? Licinio scrive: «Ma grande produttore di monstra è anche il tempo in cui viviamo. Oggi anzi in una dialettica tra reale e immaginario, che può contare su simbologie e iconografie più numerose e incisive, più raffinate e seducenti (l‘industria della pubblicità ne padroneggia molte) lo spazio del monstrum che continua a presentarsi nella sua antica duplice dimensione, angosciante e fascinosa di rappresentazione dell‘ignoto, appare dilatato.» Vero, oggi siamo pieni di monstra, ma perché? Perché, secondo me, la risposta è insita nella parola stessa mito, in greco mythos, cioè parola, discorso, racconto, favola, leggenda. È infatti con la nascita della parola che il discorso si complica. Quando il nostro antenato homo erectus ha incominciato ad usare suoni significanti, che stavano al posto delle cose, al posto degli oggetti, anziché prendere in mano una pietra per indicarla, l‘ha sostituita con un suono (diciamo huuu o petra) si è perso il peso, la forma, il colore, la dimensione di quella pietra, ognuno si è figurato nella sua mente una sua pietra, il discorso da oggettivo è divenuto soggettivo. E così possono nascere equivoci, malintesi, fraintendimenti, ecc. Jonathan Swift ne I viaggi di Gulliver parla dell’isola volante di Laputa in cui i saggi decidono di rinunciare al linguaggio e di utilizzare oggetti per comunicare tra loro. (Cfr. A. Kondratov, Suoni e segni, Editori Riuniti, Roma, 1973, p. 27).
    Si pensi a cosa significhi la parola comunismo nella mente di una persona di destra o in quella di una persona di sinistra. Non si può prescindere dalle relazioni «tra emittente e destinatario, tra significante, significato e significazione, tra forma dell‘espressione e forma del contenuto, tra segni e codici.» «Un testo – scrive Umberto Eco in Lector in fabula (Bompiani, Milano, 1979) – è una macchina pigra che esige dal lettore un fiero lavoro cooperativo per riempire spazi di non-detto o di già detto rimasti per così dire in bianco.»
    E ancora: «Generare un testo significa attuare una strategia di cui fanno parte le previsioni delle mosse altrui.»
    Per questo Il nome della rosa ha questo titolo? (Umberto Eco, Il nome della rosa, Bompiani, Milano, 1980). Per molto tempo mi sono chiesto il perché del titolo, dal momento che nel libro non si parla di alcuna rosa, ma il libro inizia con una rosa nel titolo e termina con un’altra: Stat rosa pristina nomine, nomina nuda tenemus (Verso modificato dall’originale di Bernardo Cluniacense nel De contemptu mundi del XII sec. che recita: stat Roma pristina nomine, nomina nuda tenemus) perché, secondo me, egli intendeva lanciare una sfida: io ho scritto questo libro, ma chissà cosa leggerai tu lettore che lo interpreterai con un senso tuo, tu che riempirai di significati tuoi ogni parola. (Cfr. Umberto Eco, Opera aperta, Bompiani, Milano, 1962). È in questo gioco fra il detto e il ricevuto, fra il detto e il non detto che gioca il fascino della pubblicità.
    Noi moderni crediamo di essere homo sapiens mentre non ci accorgiamo di essere ancora infantili, desiderosi di miti e di sogni. Ma i miti di oggi non rispondono più alle grandi domande dell’umanità: chi ci ha creati, chi siamo, da dove veniamo, c’è vita oltre la terra?, ecc., ma a piccolissime domande: come fare per apparire – non essere – più importante, più bello/a, più ricco/a, ecc.?
    Quali sono i moderni miti? La Ferrari, il Rolex, le griffe d’alta moda, i giocatori di calcio, i cantanti, ecc.
    Ebbene le aziende produttrici di beni e servizi veicolano una comunicazione, in un certo senso mitica, per informare in modo positivo, favolistico, mitico appunto, della presenza sul mercato dei loro prodotti.
    Per far questo la comunicazione non può essere solo descrittiva, come dire veicolare l’esistenza di un prodotto, o la sua funzione o valore d’uso, come direbbe Marx, non verrebbe neanche presa in considerazione e tanto meno ricordata. È invece necessario che la comunicazione sia carica di emozione, cosa che fa divenire il prodotto, da participio passato di produrre, merce: cioè funzione più emozione. Il suo valore di scambio, sempre secondo Marx, o valore comunicativo diventa più importante. Prodotto = Funzione; Merce = Funzione + emozione comunicata. Da ciocco a Pinocchio: un personaggio. È l’emozione infatti la colla più forte per la memoria. È solo questa che ci fa ricordare i marchi (e non solo) e, talvolta, ce li fa amare. Fra la realtà e l’individuo si pone quindi la mediazione della parola e del segnale.
     

  • IL COMIZIO DI PUTIN
    E L'ANTICA CIVILTA' UMANA
    DI PAROLE E DI IMMAGINI

    data: 04/04/2022 17:04

    Ha fatto molta impressione a noi occidentali vedere, il 18 marzo 2022, uno stadio gremito di popolo festoso e sventolante bandiere russe seguire il discorso di Putin alla Nazione Russa, per spiegare i motivi dell’invasione russa in Ucraina: salvare i fratelli Ucraini del Donbass dal genocidio perpetrato su di loro dai nazisti al potere. Incuranti o del tutto all’oscuro di quelle immagini di bombardamenti sugli ospedali pediatrici, sulle civili abitazioni, sulle migliaia di persone che cercavano rifugio nell’antichissimo teatro di Mariupol, andato poi completamente distrutto, sulle migliaia e migliaia di persone in fuga dai bombardamenti, disposte a lasciare tutta la loro vita e i propri familiari, per cercare scampo da una guerra assurda, all’oscuro degli stupri effettuati dai soldati russi e dai mercenari a loro servizio. Era facile riportare alla mente i popoli festanti che gremivano le piazze per ascoltare i discorsi di Hitler o di Mussolini.
    Ma come ci può essere tanta differenza nella visione della realtà? Per il complicatissimo sistema della comunicazione basato soprattuto sulla parola. Finanche Gesù, per mostrare la Verità, deve far ricorso alle parole: In verità, in verità vi dico.
    Il desiderio di comunicare è antico quanto l’uomo, che già in età paleolitica incideva segni sulle pareti delle caverne nel tentativo di comunicare la propria esistenza o il possesso del territorio (l’impronta della sua mano), o le necessità immediate e finanche i suoi sogni (un gran numero di cervi o di bisonti da cacciare). L’immagine – il disegno – è dunque il primo sistema comunicativo dell’uomo. In seguito, dal segno, inciso o tracciato, si passa al segnale, cioè si carica il segno di un significato convenuto: mentre Segno può essere qualsiasi cosa da cui si possano trarre delle informazioni soggettive, Segnale è un segno carico di un significato convenuto tra le parti. Ciò si può dire sia avvenuto con la scrittura: pian piano il disegno figurato acquista un significato convenuto o un suono e si trasforma quindi in segnale o disegno simbolico. Il simbolo visivo nasce dunque prima di quello verbale.

    Però si dice che la storia incominci con la scrittura. Il resto è preistoria. Credo invece che si possa dire che il pensiero dell’uomo inizi con la verbalizzazione: il tentativo di capire il reale e in qualche modo di impossessarsene attraverso l’attribuzione di nomi alle cose. È con le parole che interpretiamo il mondo e lo realizziamo. Tutte le forme comunicative, immagini, gesti, musica, scrittura, ecc. infatti non possono fare a meno di un riferimento verbale che definisca e nomini il loro senso: «E' la parola che manifesta il suo potere, non l’immagine», scrive Umberto Eco ne La misteriosa fiamma della regina Loana (Bompiani, Milano, 2004, p. 273). Sono le parole che concorrono alla formazione del pensiero. Solo le parole contano, il resto sono chiacchiere, sentenziava ironicamente Eugène Ionesco. Se le cose che vediamo non hanno un nome, non le comprendiamo. Sono ineffabili: cioè non si possono esprimere con parole. La nostra, dice Roland Barthes, più che una civiltà delle immagini è una civiltà della scrittura, che rimanda ogni forma comunicativa a quel sistema di segni complesso e totalizzante che è la lingua. Inoltre «L’uomo è un animale simbolico, ed in questo senso non solo il linguaggio verbale, ma la cultura tutta, i riti, le istituzioni, i rapporti sociali, il costume, altro non sono che forme simboliche [...] in cui esso racchiude la sua esperienza per renderla interscambiabile: si instaura umanità quando si instaura società, ma si instaura società quando vi è commercio di segni» scrive Umberto Eco in Segno (Enciclopedia filosofica Isedi, Milano, 1973, p. 92).

    I rapporti tra gli uomini dunque si fondano sullo scambio continuo di senso, o meglio, come l’ha definito Eco, su un “commercio di segni”, nel senso di scambio. Ma il simbolo ha finito col prevalere su gran parte della comunicazione, su gran parte del linguaggio. Già nel 1944, infatti, il filosofo tedesco Ernst Cassirer scriveva: «La realtà fisica sembra retrocedere via via che l’attività simbolica dell’uomo avanza. Invece di avere a che fare con le cose stesse, in un certo senso l’uomo è continuamente a colloquio con se medesimo. Si è circondato di forme linguistiche, di immagini artistiche, di simboli mitici e di riti religiosi, a tal segno da non poter vedere e conoscere più nulla se non per il tramite di questa artificiale mediazione.» Ernst Cassirer, Saggio sull’uomo, in Michele Rizzi, La pubblicità è una cosa seria, Sperling & Kupfer, Milano, 1987, p. 24.
    La realtà fisica sembra retrocedere perché anziché avere a che fare con gli oggetti reali li sostituiamo con dei simboli: parole e immagini. A colloquio con se medesimo perché ogni volta che si incontra un simbolo – e anche le parole lo sono – è necessario fare i conti con la propria esperienza, per capire quale significato si dà loro. Ecco dunque che la realtà esiste solo nelle parole che abbiamo, e quindi esistono tante verità, una per ciascuno. Per questo i despoti, i tiranni hanno sempre controllato la comunicazione di massa, in modo da veicolare solo quella in sintonia col loro pensiero, eliminando il resto. E Putin ha eliminato non solo i mezzi dissidenti, ma anche alcuni giornalisti, col carcere o col polonio. Ma in tempi di comunicazione elettronica che corre alla velocità della luce sui cellulari è possibile zittire tutte le fonti?

    La sera della stessa giornata Diego Bianchi, nel suo programma Propaganda live, ha dato una risposta molto documentata. Ha infatti mandato in onda diversi filmati postati da Ucraini su Tik Tok ed altri social network che mostravano il loro punto di vista sugli eventi e la brutalità della guerra. Altro che “Operazione militare”! Ma allora, se non tutte, gran parte di quelle persone festanti nello stadio sapevano e approvavano le brutalità che i Russi stavano operando in Ucraina! Bombardare ospedali anche pediatrici, scuole, condomini e colonne di persone in marcia su corridoi umanitari! Altro che “liberazione dei fratelli del Donbass”. Altro che Non sapevano o Non potevano sapere. Le dittature sono possibili quando le masse non vogliono sapere altre versioni di verità.

  • LA PRODUZIONE DI BENI
    INFLUENZA LA NOSTRA VITA
    PIU' DI QUANTO CREDIAMO

    data: 29/10/2021 17:12

    La produzione di beni, tanto quelli durevoli che quelli di consumo, ha un effetto secondario che spesso sfugge al produttore, intento com’è alle tecniche di produzione e di marketing: la produzione di cultura. Ogni oggetto infatti comunica, di per sé, per il solo fatto di esistere, ogni volta che viene in presenza di un osservatore. Solo che questa comunicazione, essendo incontrollata, naturale, naïve, può essere favorevole all’oggetto o sfavorevole, gradevole o sgradevole: troppo rischiosa insomma per chi deve porla sul mercato. Ecco quindi che l’oggetto prodotto necessita di un messaggio, di una comunicazione controllata dal produttore, che la incorpora nel prodotto stesso. Questa “comunicazione di parte” è linguaggio, cultura, senza della quale i prodotti sarebbero dotati tutt’al più di valore funzionale.

    Mentre è vero che "l’attuale società chiede, vuole, sogna, compra, consuma essenzialmente linguaggio, simboli, immagine. Quel quid immateriale che solo la pubblicità riesce (quando riesce) a produrre, creando un circuito ininterrotto di comunicazione che rende unicum ogni prodotto standard. La produzione di linguaggio conta dunque almeno quanto quella materiale, ed in certi casi risulta addirittura più determinante".

    Così acutamente scrive Michele Rizzi, in La pubblicità è una cosa seria (Sperling & Kupfer, 1987). Inoltre, l’azienda, il prodotto, il personale aziendale, i distributori, comunicano solo quando riescono a contattare i possibili clienti; solo contatti personali, altamente costosi e per molti versi rischiosi. La comunicazione, invece (tanto quella tradizionale, che continuiamo a chiamare pubblicità, quanto quella derivata dalle tecniche del marketing diretto), essendo organizzata da professionisti è meno rischiosa e costa meno, se ne calcoliamo il costo per contatto.
    La comunicazione aziendale, insomma, è vitale per la produzione di beni: comunico perciò esisto non è altro che il punto di vista del “fronte della produzione”, il modo tutto particolare che ha di leggere la famosa asserzione esistiamo perché comunichiamo, di Kriwet, un artista (e studioso) del movimento Fluxus; il quale a sua volta aveva socializzato il cogito ergo sum cartesiano, sia con un soggetto plurale, sia cambiando il verbo, che da egocentrico (cogito) diventa pluricentrico (comunichiamo). In tanto gli oggetti esistono, o resistono, sul mercato in quanto comunicano in un certo modo, la logica della produzione e del mercato, e nel far questo, in parte, la modificano, come sempre avviene in uno scambio comunicativo. 
    Si prende dalla cultura del mercato e insieme la si orienta, si fondano nuovi simboli, nuovi sogni, nuova cultura di massa.
    Come si spiegherebbero altrimenti fenomeni come quelli derivati dal mito della griffe? Tanti consumatori trasformati in uomini-sandwich che portano in giro indumenti con vistose firme stampate? Perché il consumo di prodotti è divenuto consumo di comunicazione, ed il consumo di comunicazione è prevalentemente consumo di mode e di miti.
    Qual è allora il ruolo dei comunicatori di professione: i “creativi”, gli art e i copy, i grafici e i pubblicitari-autori ? È certamente quello di studiare e cercare di risolvere le esigenze del cliente, che non sempre si possono genericamente indicare con il voler vender di più; ma prima ancora di quelle esigenze, gli autori-responsabili della comunicazione debbono curare la deontologia, la morale: quella del “buon padre di famiglia”, prevista anche dalla giurisprudenza. Purtroppo però oggi si parla di morale sempre e soltanto in senso negativo. Ma perché siamo arrivati a questo?
    Perché la cultura del mercato non accetta limiti, imposizioni, né parsimonia, né conservazione. Il consumismo è vitale per la produzione, è necessario per la sostituzione delle merci, dal momento che molti mercati sono ormai saturi: chi non possiede oggi un televisore, o un’automobile, una lavatrice, ecc.?
    Va da sé che chi non riesce a spendere si senta fuori dalla società. La frase che più induce a spendere è: “ce l’hanno tutti” e simili.
    È comprensibile allora che da un’inchiesta condotta nell’ambito del convegno Il bambino fuorigioco, è risultato che ciò che i bambini considerano oggi il male peggiore è la povertà. Ma di quale povertà si parla? Quella di “avere meno dei più ricchi”, non della miseria in genere.

    Gaspare Barbiellini Amidei ha scritto: "Ai bambini di oggi è stata negata la nozione della ricchezza di stare insieme senza fare di conto, scambiandosi oggetti non comprati, oggetti buoni anche per volersi bene. Sono davvero generazioni povere queste, allevate a temere soltanto la povertà economica e a cercare solo per sé e per i propri vicini la ricchezza economica..."

    «I bambini ci guardano», avvertiva una campagna sulla pubblicità, nella quale si sollecitavano i colleghi ad essere meno ovvii, più intelligenti e responsabili (Agenzia Fca/Sabbatini Baldoni Panzeri). Ma ci guardano anche le fasce sociali meno abbienti: pare infatti che i diciottomila Albanesi che sbarcarono a Bari con la Vlora, la nave dolce, nell'agosto del 1991, avevano visto la nostra tv, e l’Italia era sembrata il paese della felicità, perché vista attraverso la pubblicità e gli spettacoli di evasione, piuttosto che attraverso i telegiornali. 
    Ma senza uscire dai nostri confini, basta guardarsi veramente intorno per capire la grande differenza fra il mondo roseo, libero da qualsiasi condizionamento, descritto dalla pubblicità e il paese reale, che fa i conti con i soldi della spesa.
    “Assolutamente d’obbligo... Per molti, ma non per tutti... Brilla la vita”.
     

  • MA LA PUBBLICITA' FA BENE
    ANCHE ALLA LIBERTA'
    E ALLA DEMOCRAZIA

    data: 20/10/2021 15:48

    La pubblicità non la cerchiamo, ci si presenta non richiesta, nei giornali, in radio, in tv, per strada, ecc. è un’intrusa. E spesso quando è troppa diventa insopportabile. “Gli annunci pubblicitari sono oggi così numerosi che sono letti con molta negligenza” scriveva Samuel Johnson nel suo giornale «The Idler» già nel 1758. Ma in verità anche solo due annunci in un giornale di due o quattro pagine erano troppi. Oggi che la pubblicità ci invade da tantissimi mezzi siamo giunti al limite della sopportazione. Spesso si trovano affissi sui portoni cartelli sui quali è scritto: “La pubblicità non è gradita in questo condominio”.
    Facciamo allora una dimostrazione per assurdo: fingiamo che la pubblicità non sia mai esistita, e che i prodotti siano quindi esposti in contenitori bianchi senza marca né altre decorazioni, in un improbabile supermarket. La qualità dei prodotti la si può constatare (se se ne è capaci) solo dopo l’acquisto e l’uso. Ma più spesso è solo la sensazione della qualità ciò che percepiamo, se non la simpatia. Cosa sappiamo del litio, del calcio, del sodio o dello stronzio, contenuti nell’acqua minerale? Fanno bene o male? Non siamo chimici. Fa differenza una minima percentuale in più o in meno di sodio? Ma mangeremmo pane o carne senza sale?
    Solo il prezzo (anch’esso pregno di comunicazione) resterebbe a distinguere i prodotti, e precisamente tre fasce di prezzo: alto, medio e basso. Cosa accadrebbe? Che i prodotti a prezzo medio sarebbero i più venduti, mentre gli altri prodotti o si adeguerebbero al prezzo medio (ma allora non vi sarebbe più distinzione) o uscirebbero dal mercato. Il che significa fallimento per la maggior parte delle imprese produttrici, e quindi fallimento per un’intera nazione.
    “Senza pubblicità non vi sarebbero interruzioni. Ma forse non vi sarebbero più i programmi. E non vi sarebbero i Canali. E forse non vi sarebbe più neanche la radio”, recitava uno spot radiofonico dell’International Advertising Association nell’estate del 1993. Anche la cultura veicolata sui mezzi di comunicazione di massa quindi ne sarebbe danneggiata. Senza pubblicità insomma i prodotti avrebbero una vita molto difficile. Mentre la pubblicità, quando funziona bene, crea una magia che li fa resistere sul mercato indipendentemente dalle loro qualità, o dalla capacità di soddisfare bisogni materiali: la loro funzione d’uso. La pubblicità, immettendo un’anima nei prodotti (valori, storie, simpatie, ecc.) riesce a trasformare ”un’unità fisica in un’unità segnica: un ciocco in un Pinocchio, un prodotto assolutamente standard in un unicum”, come dice Gian Paolo Ceserani (Persuasori & Persuasi, Il Millimetro, 1983). Ed essendo unici non sono più confrontabili con la concorrenza. Diventano prodotti di marca: griffe, in certa misura mitici. Non si valutano le prestazioni d’uso, il prezzo o i consumi di una Ferrari, o il rapporto precisione/prezzo di un Rolex, o prezzo/materiali di una borsa in plastica se è firmata Luis Vitton. Sono molto più importanti le loro capacità comunicative. “La funzione vera della pubblicità consiste nel vestire i prodotti con significati simbolici, unendo allo loro funzione pratica inespressiva e muta, un valore linguistico di comunicazione sociale e culturale” dice inoltre Michele Rizzi (La pubblicità è una cosa seria, Sperling & Kupfler, 1987). E questo non vale solo per i prodotti leader, ma, in certa minore, per tutti. Ed è il marchio che si imbeve dei valori dell’azienda o del prodotto. È il marchio il bene più importante di un’azienda. Per questo bisogna costruire, nel tempo, sì valori di qualità, di buone performance, di buona distribuzione, ecc., cioè di buon marketing, ma insieme a promesse mantenute, a sogni raggiungibili, con una storia di comunicazione di lunga durata.
    Il signor Revlon, l’inventore mondiale della Revlon diceva: “Nelle fabbriche produciamo prodotti di bellezza, ma nei negozi vendiamo speranze.” Il pubblicitario Lorenzo Marini afferma che “la creatività pubblicitaria consiste nel trasformare una merce in sogno.” E l’irrazionalità “estende la razionalità” scrive Pier Paolo Pasolini. Gran parte della cultura infatti è irrazionale: la poesia, la musica, il cinema, non solo le favole ma molta letteratura, ecc. sono razionali? “Il mondo visibile non è più una realtà, e il mondo invisibile non è più un sogno” scrive William Butler Yeats.
    Insomma i prodotti che vendono di più parlano di più e meglio, raccontano storie credibili di successo.
    Ma come è potuto accadere che gli oggetti parlassero con e per noi? Perchè come dice Ernst Cassirer (Saggio sull’uomo, 1944), fra noi e la realtà fisica si sono introdotti i linguaggi: parola e immagine: “La realtà fisica sembra retrocedere via via che l’attività simbolica dell’uomo avanza. Invece di avere a che fare con le cose stesse, in un certo senso l’uomo è continuamente a colloquio con se medesimo. Si è circondato di forme linguistiche, di immagini artistiche, di simboli mitici e di riti religiosi a tal segno da non poter vedere e conoscere più nulla se non per il tramite di questa artificiale mediazione”.
    Ma allora l’uomo della civiltà industriale avanzata che si dice homo sapiens parla con e attraverso gli oggetti, come le bambine che giocano con le bambole? Questo assurdo fu già notato da Herbert Marcuse (L’uomo a una dimensione, Einaudi, 1968): ”Uno degli aspetti più inquietanti della civiltà industriale avanzata: il carattere razionale della sua irrazionalità.”
    In conclusione l’industria produce funzione (prodotti come participio passato del verbo produrre), la pubblicità crea linguaggi (introducendo nei prodotti valori e simbologie), la società consuma oggetti funzionali che comunicano simbolicamente (merci = funzione + comunicazione) ma negando la loro natura semantica, cioè comunicativa: non ho comprato una Mercedes per far vedere chi sono, ma perché mi durerà di più, o, quando la rivenderò avrà ancora un buon valore, ecc.
    La pubblicità, quindi, contribuendo alla vita delle imprese è fondamento indispensabile dell’economia di mercato. E nel mercato vi sono anche i prodotti culturali: libri, film, giornali, tv, ecc. per cui si può anche affermare che la comunicazione d’impresa, o di prodotto, contribuisce alla diffusione delle idee, alla libertà di pensiero e quindi anche alla democrazia di un paese.
     

  • TUTTO QUELLO CHE E' UTILE
    SAPERE SUI MARCHI

    data: 16/10/2021 20:03

    “Marchi. Tutto quello che è utile sapere”. Il libro di Geppi De Liso (Lupetti editore, Milano, dic. 2020) sarà presentato giovedì 28 ottobre 2021 alle 18,30 nello Spazio Murat (Bari, piazza del Ferrarese) da Patrizia Calefato, docente di sociologia della Cultura e della Comunicazione, Università di Bari, e da Giuseppe Santoro, graphic designer. Modererà Giusy Ottonelli, responsabile Spazio Murat.
    “Marchi” già edito nel 2009, è stato completamente aggiornato, ampliato ed arricchito con un’Antologia di saggi sul marchio, scritti su richiesta dell’autore da alcuni fra i più importanti studiosi italiani di grafica.
    Hanno scritto su "Marchi", fra gli altri, Mario Cresci, Andrea Rauch e Francesco Dondina.
    Mario Cresci (Bergamo, 30 dicembre 2020): “Tutto quello che è utile sapere per conoscere la cultura del progetto di un autore che ha sempre studiato e amato il senso del comunicare attraverso il mestiere del grafico i valori della ricerca e quelli di un’etica professionale unica nel Mezzogiorno italiano. Grazie Geppi per questo tuo libro che andrebbe adottato nelle scuole e nelle università”.
    Andrea Rauch (San Giovanni Valdarno, AR, 10 gennaio 2021): “Quasi quattrocento pagine sui marchi aziendali e istituzionali. Un numero ‘spaventoso’ di immagini. Uno strumento prezioso per chi voglia conoscere, capire o progettare immagini istituzionali. Il librone che Geppi De Liso ha appena licenziato per la Lupetti è, al tempo stesso, un saggio teorico e un manuale pratico, con l’autore che si districa da par suo tra questa dicotomia. Saggio lucido, notazioni aneddotiche preziose, curiosità, ma poi anche un occhio interno alla professione, perché De Liso è un progettista di vaglia, profondamente inserito in quella “grafica del sud” che non può fare a meno di rifarsi costantemente alla dimensione storica e antropologica del progetto, da collocare sempre in una via mediana tra la teoria e la pratica. De Liso si sporca continuamente le mani, vien quasi da dire, e entra nel contesto a pie’ pari, altra metafora, restituendo sempre alla progettazione il suo sapore umano, l’odore del sudore del lavoro e della fatica, ma anche il profumo del pane e della festa. Un libro essenziale, resta solo da aggiungere, immancabile negli scaffali di chi voglia intendere “il mestiere del grafico”, non solo come modo di mettere insieme il pranzo con la cena, ma anche restituirgli un suo ruolo preciso all’interno delle logiche della comunità.
    Francesco Dondina (Milano, 13 gennaio 20219: “Un concentrato di saperi sulla cultura del progetto assolutamente necessario. Grazie a Geppi De Liso per questo lavoro poderoso.”