Con il passare degli anni, il punto di vista sulle cose vissute cambia, inevitabilmente. Anche quelle che erano vicende di famiglia da ricordi assumono la dignità di testimonianze. Tanto più per chi ha avuto la ventura di nascere a cavallo della metà del XX sec. Le testimonianze contribuiscono a raccontare un’epoca, la sua accelerazione, i profondi cambiamenti che l’hanno investita. Divengono un piccolo contributo alla comprensione del presente.
Da ragazzi, negli anni Sessanta, avere amici italiani nati in Argentina rappresentava una cosa un po’ speciale, che peraltro si percepiva solo nell’accento di chi per tanti anni ha parlato spagnolo e l’italiano lo sta imparando. L’attenzione, a quell’età, è concentrata sul presente, sulla vita, sulle aspettative per il futuro.
A distanza di alcuni decenni, può capitare di ritrovarsi seduti intorno a un tavolo, nella casa del piccolo paese delle Marche dove tutto è cominciato, all’ombra del castello, trasformato oggi dagli attuali proprietari in struttura storica per l’ospitalità, e ritrovarsi a parlare di come è andata quella lontana storia, individuale eppure collettiva.
Dunque, si era nel secondo dopoguerra, anni non facili e poco lavoro. Era iniziata una forte ondata migratoria dall’Italia verso gli Stati Uniti e l’Argentina. Tutte persone che, generalmente, sono partite senza mai tornare se non per turismo, racconta Andrea, mentre cerca di rimettere ordine tra quello che i genitori hanno raccontato a lui e alla sorella Monica. Quando è partito, Guido, il padre, ha quaranta anni e lavora nella bottega di fabbro e maniscalco del padre (e, prima di lui del nonno) insieme al fratello. Non si accontenta, Guido e, nel 1950, parte per Buenos Aires.
D’altra parte, babbo Guido, classe 1910, orfano di mamma (morta durante l’epidemia di ‘spagnola’) non era nuovo a esperienze in terre lontane: aveva partecipato alla Campagna d’Africa e si era fermato a Mogadiscio, dove aveva aperto una bottega di maniscalco con un socio, con il preciso scopo di acquistare una casa in paese (ma l’affare è sfumato e, forse, ha determinato poi la decisione di partire per l’Argentina). I fratelli rimangono in Italia (anche se uno ha seguito la vocazione religiosa e, diventato frate cappuccino, è stato trasferito in Brasile per alcuni anni) ma molti suoi compaesani sono emigrati negli USA, in Canada e anche in Argentina.
Guido, arrivato in Argentina, lavora come operaio in una fabbrica italiana che produce accessori per le caldaie e le cucine a gas.
Da Buenos Aires sposa, per procura, una compaesana, Dina, accompagnata dal fratello al consolato, dove avviene la cerimonia. Così Dina, nel 1951, tra febbraio e marzo, si imbarca per Buenos Aires per raggiungerlo, accompagnata da una cugina del marito, sul transatlantico Conte Biancamano, in partenza da Genova.
Guido e Dina si conoscevano di vista, da paesani. Dina in paese lavorava come sarta. Una volta a Buenos Aires ha ripreso il suo lavoro. Hanno due figli Guido e Dina: Andrea che nasce nel 1952 e Monica che arriva nel 1954.
Il periodo argentino di Andrea (1952 – 1967) si risolve in poche frasi: per studiare viene mandato in un collegio di salesiani dove mangia malissimo e da dove scappa. Sempre con lo scopo di studiare, entra in seminario dove frequenta fino alla classe corrispondente alla IV ginnasiale (oggi, il primo anno del Liceo Classico). Si diffonde, invece, nel racconto del viaggio di ritorno: ha quasi quindici anni e, tra febbraio e marzo 1967, si imbarca con il padre sulla nave da crociera Eugenio Costa. Sulla nave c’è la piscina anche in seconda classe ma, quando riesce a intrufolarsi, utilizza quella di prima classe, meno affollata. C’è il cinema dove vede il primo film di Sergio Leone, Per un pungo di dollari. Ci sono il ping pong e la sala da ballo. La Eugenio Costa fa scalo a Montevideo, a Santos (il porto di San Paolo del Brasile), a Rio de Janeiro dove sale un corpo di ballo di samba diretto a Cannes per iniziare una tournèe in Europa che, durante il viaggio, si esibisce per intrattenere i passeggeri. Al passaggio dell’equatore c’è una grande festa. E ancora fa scalo a Lisbona, Barcellona, Cannes, Genova e Napoli. Lo scalo di Genova capitò di domenica e c’era il derby doriano tra le squadre di calcio del Genoa e della Sampdoria, racconta Andrea e, continua: “Sempre a Genova ho imparato una nuova parola in italiano: sciopero (huelga in spagnolo). La nave rimase ferma l’intera giornata, così decidemmo di visitare il transatlantico Michelangelo che insieme al gemello Raffaello rappresentavano l’orgoglio delle navi da crociera italiane. Al momento di salire sul transatlantico siamo stati fermati da un marinaio che ci ha vietato la visita causa uno sciopero dell’equipaggio … Il giorno dopo siamo arrivati a Napoli, dopo una notte di navigazione, dove ci aspettavano mia madre, mio zio Gerio (il fratello di mio padre che abitava a Roma e un signore di Monterado (Mario) anche lui residente a Roma. Perché siamo scesi a Napoli e non a Genova? Semplice perché a Roma c’erano gli zii con cui in seguito avrei convissuto”.
Il contrasto tra ciò che conosceva e ciò che ha visto e sperimentato nel viaggio di ritorno sulla Eugenio Costa, è probabilmente all’origine dei suoi numerosi viaggi in Argentina, lungo gli anni, per conoscere il paese che lo ha visto nascere e farlo conoscere agli altri. Dal 1991, infatti, Andrea unisce al suo lavoro fisso, quello di accompagnatore turistico per Nouvelles Frontieres - Avventure nel Mondo. E, durante questi viaggi, ha avuto occasione di rintracciare gli amici e di tornare nel quartiere di Buenos Aires dove è vissuto (e, in realtà, di conoscere bene anche altri paesi dell’America Latina).
All’arrivo in Italia, si inserisce nel seminario di Fossombrone per terminare il ginnasio, quindi si sposta a Roma, nel 1969, dove lo ospita zia Pina, in un portierato di via Ticino, e dove frequenta il liceo classico Giulio Cesare.
Sui banchi del Giulio Cesare inizia l’amicizia che continua fino a oggi, mentre siamo seduti tutti insieme intorno al tavolo della casa di Monterado che Guido e Dina avrebbero voluto avere per sé e i propri figli. Mentre lo ascoltiamo raccontare, siamo ben consapevoli di quanto sia speciale un amico che sa guardare al mondo da due punti di vista, lontani e differenti. Tutto per il sogno del padre: fare fortuna in terra argentina e far vivere la famiglia meglio di come, nel primo dopoguerra, avrebbe potuto vivere in un paese marchigiano. Un sogno al quale in realtà né lui né la moglie hanno saputo adattarsi. Per capire fino in fondo, dice Andrea, bisogna parlare con Monica. È proprio Monica infatti che nel 1966, a dodici anni, si imbarca insieme a mamma Dina per tornare in Italia, con il compito di verificare la fattibilità del ritorno e di un reinserimento che sicuramente non sarà indolore.
Decido così di parlare con Monica e le invio un questionario con i temi emersi durante la lunga conversazione intorno al tavolo, proponendole di parlarne a voce appena possibile. Inaspettatamente, qualche giorno fa, ho ricevuto da Monica un testo perfettamente organizzato, dal quale emerge tutta la complessità di un’esperienza che segna in profondità, soprattutto quando avviene in età adolescenziale, e che spiega la grande umanità che contraddistingue fratello e sorella, nati in Argentina nel secondo dopoguerra, consapevoli del fallimento dell’esperienza dei genitori, segnata dalla nostalgia e dalle difficoltà del ritorno, reso possibile soltanto dall’aiuto dei familiari e dall’accettazione di una prolungata separazione dai figli, ospitati l’uno dagli zii a Roma e l’altra in un paese vicino, Roncitelli, per garantire loro di frequentare gli studi.
Ecco la sua testimonianza:
Mezzo di trasporto: transatlantico Federico Costa
Date del viaggio: 15-30 maggio 1966
Itinerario di viaggio: porto di Buenos Aires - Montevideo - San Paolo - Rio de Janeiro – Genova – Napoli.
Chi viaggia: Mamma Dina (45 anni), Monica (12 anni), con Vincenza (45 anni) e le sue figlie, Cristina (18 anni) ed Elena (14 anni).
Ricordi di viaggio: Di tutto il viaggio ricordo poco, comprese le soste che venivano fatte lungo la rotta della nave. Forse il fatto che con noi non ci fosse un uomo, rendeva mamma e Vincenza poco sicure, in particolare quando scendevamo dalla nave per visitare i luoghi, se la sosta lo permetteva. Elena ed io stavamo sempre molto vicine alle nostre mamme, mentre Cristina, più grande di noi, si allontanava ogni tanto e faceva qualche conoscenza sulla nave, come quel bel marinaio che, in seguito, è venuto a Monterado a trovarla, durante una sosta della sua nave in un porto vicino. Grazie a Cristina abbiamo conosciuto una ragazza sui 20 anni che viaggiava in prima classe, in una bellissima cabina da sola, mentre noi stavamo in uno scomparto con cinque letti a castello. Sul grande letto all’interno della cabina, aveva sistemato tutte le sue numerose e bellissime bambole. Le bambole sono sempre state una mia passione e ricordo che il primo bambolotto che ho avuto mi è arrivato dall'Italia, dono di zia Maria, una sorella di mia madre. Era bellissimo e mamma gli aveva fatto tanti begli abitini. Poi ho avuto altre bambole che ho portato in Italia, tranne una che la mia amichetta Silvia mi ha chiesto come ricordo, prima della mia partenza per l'Italia. Silvia, che abitava accanto alla nostra casa, non usciva mai fuori a giocare né poteva ricevere amici nella sua casa perché la sua mamma aveva paura della sporcizia, tanto che puliva continuamente la sua casa e il suo patio. L’unica bambina alla quale era consentito entrare in quella casa ero io, forse perché la sua mamma pensava che, essendo italiani, eravamo una famiglia pulita (lei era di origine spagnola). Ricordo che Silvia mi confessò che la sua mamma le puliva con acqua e sapone le suole delle scarpe quando rientrava da fuori. Di tutte le amichette che ho avuto a Buenos Aires, Silvia è l'unica che ho avuto la fortuna di rivedere quando nel 2006, dopo 40 anni, sono tornata a Buenos Aires. Le altre avevano cambiato quartiere e non erano facilmente rintracciabili.
Periodo argentino: Babbo Guido, originario di Monterado in provincia di Ancona, è arrivato a Buenos Aires nel 1950. Ha sposato per procura mamma Dina, anche lei di Monterado, che lo ha raggiunto nel 1951 a Buenos Aires, nella casa in affitto a via Añasco, nel quartiere Tablada, all’inizio della provincia di Baires, dove abbiamo sempre vissuto fino al nostro definitivo rientro in Italia. Nel 1952 è nato mio fratello Andrea e nel 1954 sono nata io. Mi è sempre piaciuta quella casa che aveva davanti un piccolo giardino e dietro un patio e un grande terreno dove mamma e babbo facevano l'orto, c’erano conigli liberi (peccato che i conigli che tenevo in braccio e coccolavo poi sparivano) e piccioni in una grande gabbia. Dato che c'era tanto spazio esterno, mamma preferiva che non andassi a giocare fuori o a casa dei miei amici e mi chiedeva di far venire gli amici da me. Io in realtà amavo andare dalla mia amica Alicia che abitava in una grande casa, a pochi metri dalla mia, con i suoi genitori, i suoi fratelli, i suoi nonni e uno zio. C'era un grande cortile ombreggiato dove la famiglia si riuniva nel pomeriggio “para chupar mate” (per prendere il mate) e, quando ero presente, mi invitavano a unirmi a loro. Ricordo che mamma non era molto contenta che prendessi il mate perché considerava poco igienico il fatto che la “bombilla” (cannuccia con filtro) passasse da una bocca all’altra. Ho ancora adesso un bellissimo ricordo di quei pomeriggi e di quella famiglia. Mi piaceva anche andare da un'altra amichetta che abitava in un "ranchito" (abitazione di favela). Mi sorprendeva notare la pulizia e l'ordine in una casa così povera. Quanta dignità ho visto in quella famiglia!
In Argentina gli italiani sono stati sempre considerati persone molto civili, dei gran lavoratori e sempre visti con gran riguardo. Ricordo che quando salutai le mie amichette, prima della mia partenza per l’Italia, una bambina mi disse che ero molto fortunata a trasferirmi in Italia e che anche lei da grande avrebbe voluto vivere in Europa (non ricordo il nome di quella bambina ma spero che sia riuscita a realizzare il suo sogno).
Ogni tanto penso alle umiliazioni che hanno dovuto subire invece gli italiani che, in quegli stessi anni, sono emigrati verso altri paesi europei o nei paesi del nord America, anche se magari alcuni hanno “fatto fortuna” in quei paesi.
Babbo lavorava in una fabbrica, la "Dante Martiri", che produceva scaldabagni, cucine e altre apparecchiature a gas e, per far quadrare il bilancio familiare, nel pomeriggio, dopo l’orario di lavoro in fabbrica, provvedeva alla manutenzione delle apparecchiature a gas dei clienti che lo chiamavano. Si spostava sempre in bicicletta e qualche volta nel pomeriggio, quando sapeva che nella casa in cui si recava c'erano delle bambine con le quali potevo giocare, mi chiedeva di accompagnarlo e mi faceva salire sulla canna della sua bicicletta. Ho così potuto conoscere un bel quartiere, sempre nella provincia di Baires, con tante bellissime villette.
Mamma Dina faceva la casalinga e contribuiva al bilancio familiare facendo la sarta e confezionando per sé e per i figli abiti, partendo da stoffe ricavate da vestiti dismessi che venivano forniti dallo "zio ricco", zio Gino, un fratello della mia nonna paterna, che aveva sposato una ricca argentina grazie alla quale era stato nominato tesoriere presso l'Ospedale Italiano a Buenos Aires. Lo zio Gino, la moglie e la sorella della moglie vivevano in un bellissimo appartamento in un quartiere centrale di Buenos Aires (Palermo). Ricordo che spesso la domenica mattina, babbo ed io, con i nostri vestiti migliori, partivamo da casa nostra e con vari autobus andavano a trovare questo zio ricco. Ricordo l'odore "dolce" dell'appartamento e la squisita torta che la sorella della moglie di zio Gino ci offriva. Mamma non veniva mai, forse perché aveva tanto da fare (non avevamo la lavatrice e mamma lavava i panni nelle vasche che erano presenti in un locale separato dalla casa), e Andrea non poteva venire perché era in collegio dai salesiani, dove nel pomeriggio della domenica andavamo tutti e tre a trovarlo. Mamma Dina gli portava qualche cosa di buono e stavamo nel cortile del collegio a chiacchierare. Una volta mi sono messa a correre e forse la gonna si è sollevata facendo vedere le gambe di una bambina di 10 anni. Questo episodio deve aver scosso un sacerdote che ha detto ad Andrea di riferirmi di non correre più!
Io ho frequentato inizialmente una scuola privata di suore perché mamma pensava che l'ambiente fosse migliore rispetto alla scuola statale. In realtà, anche se piccola, ho subito notato una mancanza di empatia da parte di qualche suora, come quando una domenica con mamma siamo arrivate in ritardo alla messa, durante la quale avrebbero celebrato la comunione di alcuni bambini e io, che avevo fatto la comunione l'anno precedente, dovevo indossare le ali e l'abito di un angioletto per accompagnare i bambini all'altare. Una suora furiosa per il ritardo mi strappò dalle mani di mamma per portarmi a vestire e, nel mettermi le ali, mi strinse così forte il cordone delle ali che ricordo ancora il dolore e il segno che mi rimase. Dopo quell’episodio, ho chiesto a mamma di farmi andare in un'altra scuola. Devo dire che non ho trovato troppi ostacoli, visto che la retta della scuola di suore era piuttosto alta, per il nostro standard di vita.
Con la scuola pubblica ho avuto modo di conoscere un'altra realtà: al posto della messa e della comunione tutte le mattine, l'alza bandiera e l'inno argentino. Ho anche fatto una gita a Rosario.
Durante la nostra vita a Buenos Aires non abbiamo avuto la possibilità di viaggiare; l'unico posto dove ricordo di essere andata è Mar del Plata, una famosa località turistica sull’Oceano Atlantico a circa 600 km da Buenos Aires, dove aveva una villa lo "zio ricco". Qualche volta la domenica zia Alice e zio Orlando (cugini di babbo), con i rispettivi coniugi zio Pancho e zia Carmen, mi venivano a prendere per portami con loro a fare il bagno al fiume. Per me era bello ma poco divertente visto che non c'erano altri bambini con cui giocare.
Anche quando in qualche casa si riunivano tutti gli amici italiani del quartiere, mamma preferiva rimanere a casa a riposarsi, così andavamo io e babbo, dato che Andrea era sempre in collegio.
Penso che mamma e babbo non siano mai stati contenti di essersi trasferiti in Argentina. Posso solo cercare una spiegazione attraverso quello che mi diceva mia madre, l’unica che mi parlava cercando di farmi capire. Mi diceva che babbo si aspettava di fare fortuna o almeno di avere una vita agiata; invece, era costretto a fare un doppio lavoro per mantenere la sua famiglia. Di lei mi diceva che si aspettava di rimanere in Argentina poco tempo (nei 15 anni che ha trascorso in Argentina, ogni anno mi diceva che l’anno successivo saremmo tornati in Italia!). Sentiva nostalgia della sua famiglia di origine, in particolare di nonno Domenico, suo padre, al quale era molto legata. Inoltre, voleva occuparsi dei suoi due fratelli che avevano problemi di salute.
Ritorno in Italia (tra Marche e Roma): al porto di Genova sono venuti a prenderci mia zia Maria (la sorella di mamma) e il marito, zio Armando. Zia Maria, che si era sposata in seconde nozze con zio Armando, dopo essere rimasta vedova, non aveva figli e, nelle lunghe lettere che scambiava con mamma, le ha sempre detto che si sarebbe occupata di me e che già mi stava preparando il corredo.
La prima cosa che hanno deciso è stato il mio nome. Premetto che mi chiamo Monica Virginia, due nomi perché mamma e babbo non si mettevano d'accordo (mamma voleva chiamarmi Virginia, mentre babbo Monica). Durante tutto il mio periodo argentino sono stata chiamata Virginia o Titina, la semplificazione di Virginia in quanto Andrea da piccolo non riusciva a pronunciarlo. In Italia i miei zii hanno deciso che mi sarei chiamata Monica.
I primi mesi dopo il mio arrivo in Italia, sono vissuta a Monterado nella casa di mia nonna Emma, la mamma della mia mamma.
Quando stavamo a Buenos Aires, mamma ha sempre parlato dell'Italia, o meglio di quel poco che conosceva e cioè Monterado e dintorni, con la nostalgia di chi ha dovuto lasciare il posto in cui è nato. Tutte le sue descrizioni erano meravigliose. Per me invece è stata una grande delusione: il paese piccolissimo, la casa della nonna vecchia e poco confortevole...
Comunque, ormai eravamo in Italia e mi dovevo adattare. Dovevo subito andare a ripetizione durante tutto l'estate, per imparare bene l'italiano, dato che a ottobre dovevo andare a scuola. Dovevo essere brava perché tutti se lo aspettavano. Ho cercato con tutte le forze non solo di imparare a scrivere e leggere bene l'italiano ma anche a parlarlo senza inflessioni, tanto da dimenticare ben presto la mia lingua madre. Una cosa che non mi perdonerò mai. Ma le sorprese per me non erano finite: sarei dovuta andare a vivere da mia zia Maria, in un altro paese (Roncitelli) a pochi chilometri da Monterado, dato che sarebbero stati i miei zii a pensare alla mia istruzione e al mio sostentamento.
Nel frattempo, Andrea e babbo stavano ancora a Buenos Aires e sarebbero tornati in Italia solo l'anno successivo. Al loro arrivo in ltalia, babbo inizia a lavorare presso la bottega di fabbro a Monterado e Andrea va in collegio a Fossombrone per continuare gli studi iniziati in Argentina. Ben presto, per loro le cose cambiano in quanto il lavoro di fabbro di babbo non si rivela produttivo, e da fabbro e maniscalco si ricicla in operaio presso una ditta idraulica e manutentore di prodotti a gas.
Andrea chiede di poter lasciare il collegio e di andare a finire il liceo a Roma, ospite presso un'altra sorella di mamma, zia Pina, sposata con un fratello di babbo, zio Gerio.
Per 10 anni siamo stati separati. Vedevo mamma, babbo e Andrea durante l'estate. Durante il resto dell'anno cercavo di concentrarmi solo nello studio, più per dovere che per passione, e rimandavo continuamente di riflettere sulla mia situazione. Solo una volta ho detto a mia madre che volevo tornare a vivere con lei. Ma forse né io né lei eravamo pronte ...
Solo nel 1974, con l'inizio del mio primo anno di università, la famiglia ha iniziato a riunirsi. È stata Roma che ci ha visti insieme dal 1974 al 1981, in un piccolo appartamento di un portierato a Via Magliano Sabina.
Lascio agli eventuali lettori tutte le possibili riflessioni su queste esperienze, dalle quali sono passati, complessivamente, poco più di settanta anni. Ma sono stati settanta anni cruciali, per i singoli protagonisti, per le comunità, per l’umanità intera. Sono indispensabili come monito per il futuro perché se non si tiene conto di come si viveva, dell’importanza che si dava all’istruzione, del poco che si aveva per vivere ecc., è impossibile comprendere come e perché stiamo mettendo a rischio la vita delle future generazioni. Per questo è bene serbarne e tramandarne la memoria.