A pochi giorni dal 27 gennaio sono stato invitato da un preside per una chiacchierata con gli studenti di una scuola media. L’occasione? La Giornata della memoria, istituita nel 2000, affinché la reminiscenza di quanto accaduto in un periodo fortemente drammatico della storia del mondo non avvizzisca e non vengano dispersi i ricordi di quegli eventi disumani, orrendi, i più cupi dell’umanità. Sei anni di sofferenze, di distruzioni, di massacri, di deportazioni, di sterminio di quello che è considerato il più grande conflitto armato.
Era il 27 gennaio del 1945 quando sono stati abbattuti, dai soldati dell’Armata rossa, i cancelli di Auschwitz, di quel campo di deportazione e di sterminio con il maggior numero di vittime. Un milione e mezzo di uomini e donne “senza capelli e senza nome / senza più forza di ricordare / vuoti gli occhi e freddo il grembo / come una rana d’inverno” (Primo Levi).
Oggi, è una ricorrenza che ci aiuta a riflettere e che ci mette in guardia facendoci capire che - ogni volta che una persona viene discriminata o perseguitata a causa della propria identità, colore della pelle, classe sociale, religione o provenienza - quella storia potrebbe ripetersi.
Cosa raccontare ai ragazzi? Faccio un giro in città. Ci sono angoli di Roma che suggeriscono episodi da narrare. Il Portico d’Ottavia, Monti, le zone più segnate dalle deportazioni, e poi il Flaminio, Prati, Trionfale… mantengono vivo il ricordo dei loro residenti deportati e assassinati ad Auschwitz, a Birkenau o alle Fosse Ardeatine. I quartieri li ricordano con le “pietre d’inciampo” (sampietrini tipici del lastricato delle strade di Roma ricoperti di ottone lucente) incastonate davanti ai portoni dove quelle persone (ebrei, partigiani, intere famiglie: uomini e donne e bambini) abitavano prima di essere inviate a morire. Davanti a un portone ne ho contate venti. Incisi su di esse nome, cognome, età, data e luogo di deportazione e la data di morte, se nota. È sera tarda. “Tace la città. Bolle la notte, con dieci e una stella. Oh notte stellata, stellata notte!” (Anne Sexton) e quelle “pietre” inserite sui marciapiedi sono stelle lucenti in una notte buia.
Ogni “pietra d’inciampo” è una storia. Un racconto da far conoscere. Ho un quaderno ricco di appunti. Pronto al collegamento video con gli alunni dell’Istituto comprensivo “Elio Vittorini” di Messina, decido per una storia più vicina al loro territorio. E racconto di quel marinaio che si chiamava Nino, vissuto a pochi passi da quella scuola. La storia di un uomo coraggioso intrecciata con la vita di molti altri uomini e donne e con l’avventura di una nave e le peripezie di un battello.
Il vecchio battello fluviale si chiamava “Pentcho” ed era partito da Bratislava con destinazione Palestina. Era un battello a ruota, nero, incerto e traballante, di forma inconsueta, inadeguato per quel viaggio. Era uno scafo nato per trasportare carbone e bestiame. Furono più di cinquecento i passeggeri a salire sul «Pentcho». 71 anni il più anziano e tre non ancora un anno di età. Avevano venduto tutte le cose preziose. Sfuggivano - quegli uomini e quelle donne - alla deportazione nei campi di sterminio.
Il battello discese il Danubio, sospinto dalla corrente. Ogni volta che il “Pentcho” cercava di avvicinarsi alle sponde veniva allontanato dalle fucilate dei popoli del fiume, dagli ungheresi, dai rumeni, dai bulgari. A guardarlo nessuno ci avrebbe scommesso un centesimo bucato. Eppure navigò il lunghissimo Danubio, solcò le onde del mar Nero e giunse incredibilmente nel Mediterraneo. Si trovò così in zona di operazioni di guerra. Schivò ancora pericoli, siluri e mine. Ma si incagliò, tra Rodi e Creta, sugli scogli dell'isola Kamila-Nisi, piccola, rocciosa e deserta e fu sommerso dal mare in tempesta.
Era l’alba del 18 ottobre del 1940 quando la nave italiana “Camogli” partì dalla base militare dell'isola di Lero, nel mar Egeo, alla ricerca dei profughi del “Pentcho”. Fu su quegli scogli, ad otto giorni dal naufragio, che affamati, stremati, impauriti, disperati li trovarono i marinai del “Camogli”. Nei loro occhi smarriti si leggeva tutta la tristezza, il tormento, l’angoscia, ma anche la follia del mondo.
E fu lì, in quel giorno orribile, che si scrisse una bella pagina di umanità. Ne fu protagonista il marinaio Nino. Fu lì che Nino divenne eroe. Non fu facile salvare gli ebrei del “Pentcho”. Il mare era minato. Il mare era in burrasca. La nave non poteva avvicinarsi all’isola e le scialuppe neppure.
Nino - fino al limite fisico, spossato, sfiancato, sfinito - portò in salvo, tra mine e vortici insidiosi, molti di quei naufraghi. Cominciò dalle donne e dai bambini. L’operazione richiese più di una settimana.
La Palestina, a quei naufraghi, fu però negata. Vennero trasportati a Rodi (e poi al Ferramonti di Tarsia e in altri campi di concentramento).
La guerra fu ancora lunga. Nino continuò a navigare e fu naufrago egli stesso. Alla fine tornò a Messina con mezzi di fortuna. Un viaggio all’Ndria Cambria dell’Orcynus Orca di Stefano D’Arrigo.
Dei naufraghi del “Pentcho” Nino non seppe più nulla. Quei momenti non furono però cancellati. Quegli uomini, quelle donne non dimenticarono. I sopravvissuti del “Pentcho” non dimenticarono. Cercarono Nino con tenacia e lo ritrovarono dopo alcuni decenni. Un giorno dell’estate del 1972 un gruppo di loro arrivò in Italia da Israele e bussò alla porta della casa di Nino per invitarlo nel loro nuovo antico paese, la Palestina ritrovata, dove fu festeggiato.
Nino, persona schiva e riservata, non raccontò mai questa storia. La ricompensa più grande per lui sono state le lettere dei superstiti del “Pentcho” che elogiavano il suo gesto e rendevano omaggio al nostro Paese. «Esiste ancora», gli scrissero, «tra la razza umana un popolo degno del suo passato: gli Italiani». Nino era mio padre.
Il mio racconto ha commosso ragazzi e professori della scuola “Vittorini”. La reazione mi incoraggia e passo ad una seconda vicenda, indubbiamente più dura, che a me è stata raccontata da una insegnante (Teresa Lazzaro). È la storia di venti bambini – giovani farfalle pronte a levarsi in volo per vivere la loro primavera – caduti nella rete fitta dell’orco nazista. Venti piccoli innocenti ingannati, portati via dalle loro case in Francia, in Olanda, in Polonia, in Iugoslavia, in Italia. Creature violentemente sottratte alle famiglie. Quei bimbi sono oggi rose bianche che dal giardino di Bullenhuser Damm invitano a meditare. I loro sogni sono stati lacerati dal fischio del treno impregnato di terrore che li portava ad Auschwitz Birkenau, a Neuengamme, ad Amburgo. Niente più favole, bambole, corse in bicicletta. Ma corpi seviziati e occhi esausti per le lacrime versate. Ad Auschwitz i feroci artigli dello spietato orco nazista misero una stella gialla su quei gracili petti. Venti stelle che i forni, nella ancora gelida notte di una primavera che non voleva arrivare, non riuscirono a spegnere e che ancora adesso brillano di luce intensa nel cielo del mondo.
Consegnata alla storia peggiore quella follia distruttiva, che ha rappresentato il culmine del declino di un genere umano convinto di potere essere onnipotente, è nata una coscienza senza confini che vuole ridare dignità all’umanità.
Si può dimenticare tutto questo? No. «Coltivare la Memoria è ancora oggi un vaccino prezioso contro l’indifferenza e ci aiuta in un mondo così pieno di ingiustizia e di sofferenze e ricordare che ciascuno di noi ha una coscienza e la può usare» (Liliana Segre).
Ai poeti e agli scrittori, ma anche a tutti i cittadini, il compito di vigilare per combattere prontamente anche il più leggero soffio di autoritarismo, ogni tentativo di prevaricazione, di intolleranza, di razzismo, di violazione dei diritti umani, di trasgressione delle regole della convivenza civile, di profanazione dei sacri luoghi della memoria.
(*) “Nuova Armonia”, Rai Senior N°1/2022
(Nella foto: Nino Marchetti)