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OTTORINO GURGO

  • L'ITALIA HA ANCORA
    BISOGNO DI DRAGHI

    data: 11/02/2023 09:23

    I sondaggi che ne hanno decretato il vistoso successo, segnalano ora una sia pur non eclatante perdita di consensi di Giorgia Meloni e di Fratelli d'Italia che pure dopo la vittoria del 25 settembre, avevano fatto registrare un'ulteriore notevole crescita
    Sono gli stessi sondaggisti a individuare le cause dell'ipotizzato calo di voti. Che dovrà comunque essere confermato nelle elezioni regionali del Lazio e della Lombardia.
    A determinarlo sarebbe il fatto che la pubblica opinione ha la sensazione che all'indubbio attivismo della presidente del Consiglio nell'azione di governo, non farebbe riscontro una altrettanto rilevante competenza, soprattutto nel campo dell’economia che, nelle attuali contingenze,.ha rilevanza certamente notevole.
    In questa situazione l'opinione pubblica non può fare a mano di domandarsi se, lasciando da parte le divisioni ideologiche che, in realtà, non hanno ragione di esistere, non sarebbe il caso di chiamare a raccolta gli elementi migliori dei quali il paese ancora dispone. E il pensiero immediatamente corre a Mario Draghi del quale, dopo l'avvento di Giorgia Meloni alla presidenza del Consiglio, sembrano essersi perse le tracce.
    In un primo tempo era sembrato che l'ex premier fosse disponibile a dare una mano a colei che lo ha sostituito a Palazzo Chigi, ma poi le strade dei due si sono separate e Draghi ha affermato di volersi, d'ora in avanti limitare a "fare soltanto il nonno".
    Detto in tutta franchezza, nonostante le difficoltà che sta attraversando, il nostro paese non ha una classe politica particolarmente brillante. Anzi, a dirla tutta, la nostra classe politica è decisamente mediocre.
    Mario Draghi rappresenta una eccezione e non a caso tutta l’Unione europea – e non solo – lo tiene in grande considerazione.
    Alla Meloni e al suo governo, oltre ovviamente, che all'intero paese, sarebbe di notevole giovamento se Mario Draghi assumesse il ruolo di "gran consigliere" della presidente del Consiglio, si bloccherebbero oltre tutto in tal modo i tentativi di isolare il nostro paese che Francia e Germania stanno compiendo proprio in questi giorni confermando il timore che i nostri partner avrebbero avversato l’attuale capo del governo.
    Non sarà però facile convincere Draghi a rinunciare al "rifugio" che si è scelto, lontano dalle turbolenze e dalle ingratitudini della politica.
    L'unico che, forse, potrebbe riuscirvi è Sergio Mattarella, ammesso e non concesso che voglia farlo.

     

     

     

  • MA LA POLITICA
    ERA MIGLIORE
    QUANDO C'ERANO
    LE CORRENTI

    data: 04/02/2023 16:31

    C'erano una volta le correnti. Scandivano la vita dei partiti e ne caratterizzavano l’esistenza in un serrato confronto, non sempre pacifico tra l'uno e l'altro raggruppamento che molte volte si contendevano anche importanti posizioni di potere.
    Si diceva che le correnti fossero all'origine dei mali della politica è se ne auspicava lo scioglimento. Ma era un errore.
    Oggi le correnti non ci sono più. Ma. verrebbe da dire: come potrebbero esserci se non ci sono più neppure i partiti o, meglio, se essi hanno subito una radicale trasformazione.
    Il confronto che una volta si svolgeva, appunto, tra le correnti; si svolge, ormai, all'insegna di una totale personalizzazione. I leader (o presunti tali) lottano tra loro con l'unico obiettivo di conquistare posizioni di potere. Non hanno, cioè, idee da affermare e linee politiche da far prevalere.
    Ecco perché demonizzare le correnti è stato un errore e oggi arriviamo a provarne addirittura una certa nostalgia: perché, pur con i loro difetti, le correnti erano comunque portatrici di idee e di progetti che ai partiti oggi completamente mancano accentuando la sfiducia della pubblica opinione (sfiducia che, a volte, scade addirittura nell’avversione se non in un vero e proprio disprezzo verso la classe politica).
    Si ripropone, in tal modo, il confronto tra la Seconda e la Prima Repubblica che, almeno da questo punto di vista, ci sembra si concluda a tutto vantaggio di quest'ultima che certamente era piena di difetti, ma non mancava di una capacità progettuale che alla Seconda manca del tutto anche per il mediocre livello dei suoi partiti e dei suoi leader.
    Si dirà che la Prima Repubblica affondò nella corruzione e in una partitocrazia esasperata ed esasperante cosicché senza il beneplacito del partito di governo (e spesso anche dell'opposizione) nulla poteva esser fatto.
    È in massima parte vero.
    Ma non è vero forse che quelli stessi difetti della Prima Repubblica sussistono tuttora e che si siano riprodotti in egual misura senza la riproposizione degli aspetti positivi che pur caratterizzarono il regime precedente?

  • MELONI VA A GONFIE VELE
    MA IL SUO GOVERNO
    HA PIU' DI UN PROBLEMA

    data: 29/01/2023 15:16

    Soltanto uno sciocco potrebbe negare che Giorgia Meloni stia godendo di una crescente popolarità. Per rendersene conto è sufficiente aver riguardo a quel che affermano i sondaggi che danno in costante aumento i consensi per la leader di Fratelli d'Italia e per il suo partito. Ma ogni medaglia, come insegna un antico aforisma, ha il suo rovescio cosicché non è difficile constatare che molti sono i problemi che la presidente del Consiglio deve quotidianamente affrontare per far fronte ad una situazione che non è eccessivo definire incandescente e che potrebbe esplodere da un momento all’altro.
    Si può dire, infatti, che non vi sia settore della vita pubblica che non sia gravato da polemiche e contrasti.
    Nordio, ministro della Giustizia che la Meloni ha, a suo tempo, fortemente voluto nell'esecutivo è oggetto di critiche roventi non solo da parte della Magistratura, ma all'interno del suo stesso partito. Viene contestata la linea da lui assunta su questioni tutt'altro che secondarie quali i rapporti con i pubblici ministeri, il problema delle intercettazioni, le carriere dei giudici.
    Il mondo della scuola è in gran fermento con gli insegnanti che contestano il progetto del ministro Valditara soprattutto nella parte relativa a stipendi differenziati a seconda delle aree geografiche in cui operano.
    I benzinai per nulla soddisfatti di come viene gestita la politica energetica sono pronti a proclamare nuovi scioperi.
    C'è tensione, insomma, e non si può fare a meno di domandarsi fino a quando il consenso personale del quale la Meloni indubbiamente gode riuscirà a far fronte ai molti malumori che circondano il suo governo.
    Naturalmente l’inesistenza di un’autentica opposizione, con il Pd preda di una crisi profonda e con i cinquestelle che non danno alcun reale affidamento. Può aiutare il governo ha evitare crisi e rotture, ma fino a quando?

  • ARRIVA ANCHE PER MELONI
    LA STAGIONE DEI PROBLEMI

    data: 21/01/2023 10:09

    Forse la "grande marcia" di Giorgia Meloni e di Fratelli d'Italia che dal 25 settembre i sondaggi hanno dato in una crescita esponenziale, potrebbe subire una imprevedibile battuta d'arresto.
    Non è un mistero che la presidente del Consiglio, dopo un periodo di autentico trionfalismo, stia ora attraversando una fase di nervosismo.
    A causarla concorrono, in pari misura, sia il venir meno di alcuni consensi popolari, sia l'emergere di contrasti sempre più vistosi all'interno della maggioranza di centrodestra.
    Non sembra in particolare giovare alla leader di Fratelli d'Italia la politica adottata per far fronte all'aumento del prezzo del carburante. La perentorietà con la quale la Meloni, smentendo tra l’altro quello che lei stessa aveva affermato quando era all’opposizione, ha rifiutato di confermare il taglio delle accise deciso dal precedente governo Draghi, ha provocato, com'era chiaramente inevitabile, un deciso aumento del prezzo della benzina e una conseguente ondata di malumore della pubblica opinione che, ovviamente, non può non riflettersi sul governo e raggelare l'entusiasmo con il quale l'inizio della presidenza-Meloni è stata accolta dalla pubblica opinione.
    Quanto ai contrasti all'interno della coalizione di centrodestra, è pur vero che, dopo le polemiche tra Berlusconi e la premier, una tregua sembra essere stata raggiunta e il Cavaliere ha ribadito la propria volontà di andare avanti con l'attuale maggioranza, ma il fuoco continua a covare sotto la cenere e la disputa potrebbe da un momento all'altro riesplodere con negative conseguenze per la stabilità della coalizione.
    Anche nella Lega c'è fermento e non pochi militanti del Carroccio lamentano il fatto che la Meloni prenda ogni decisione autonomamente e chiedono un maggior dialogo rimproverando apertamente a Matteo Salvini una eccessiva acquiescenza nei confronti della presidente del Consiglio della quale non condividono molte decisioni.
    La mancanza di un'opposizione in grado di proporsi come una reale alternativa rende comunque imprevedibile l'ipotesi di un ribaltone a breve termine.
    Per il momento almeno il Pd appare infatti in preda ad una crisi profonda. Ma è innegabile che per la Meloni è suonato recentemente più di un campanello d'allarme e la premier non potrà non tener conto anche della grande variabilità degli umori dell'elettorato italiano che spesso fa precipitare questo o quel partito, questo o quel leader, dall’altare alla polvere.

     

     

     

     

     

     

     

     

     

     

     

     

     

     

     

     

     

     

     

  • NO, CONTE NON PUÒ ESSERE
    IL LEADER DELLA SINISTRA

    data: 14/01/2023 19:26

    Esistono ancora la destra e la sinistra? L'interrogativo non è nuovo e risale a quando è stata solennemente proclamata, con l'avvento della cosiddetta Seconda Repubblica, la morte delle ideologie che ha completamente modificato la stessa identità dei partiti, ovvero dei pochi (quasi nessuno) che sono rimasti in vita dopo lo tsunami di tangentopoli.
    Della destra e della sinistra tradizionali rimane, in realtà, molto poco.
    Ma la voce secondo la quale, in assenza di un autentico leader, gli elettori di sinistra potrebbero individuarlo in Giuseppe Conte induce a ritenere che la sinistra, almeno, non esiste più o, quantomeno, sia avviata sulla strada del tramonto.
    La sininstra - basta rileggere quanto ha scritto Norberto Bobbio nel suo fondamentale saggio "Destra e Sinistra" - non può prescindere dall'ideologia alla quale costantemente si richiama.
    Ebbene, da questo punto di vista, Conte è certamente, il nulla più assoluto. Le sue scelte politiche e quelle dello stesso movimento del quale è attualmente presidente, prescindono da ogni riferimento che non sia improntato al più totale pragmatismo, all' opportunità del momento.
    Proprio questo, del resto, spiega coma sia stato possibile che, nella passata legislatura, i cinquestelle abbiano potuto sostenere (partecipandovi) prima n governo di centrodestra, presieduto dallo stesso Conte, e poi un governo di centrosinistra e poi un governo sostanzialmente di centrosinistra, quello di Mario Draghi.
    U pur vero che i pentastellati sostennero a malincuore l'ex presidente della Banca centrale europea tanto da provocarne, poi, la caduta, ma ciò dipese soprattutto dal fatto che Conte aveva subito come un'usurpazione l'essere stato sostituito da Draghi alla guida dell'esecutivo e non aspettava che l’occasione per potersi vendicare dell’affronto che riteneva di aver subito..
    C'è da chiedersi, inoltre - e non è un interrogativo di poco conto - quanto l'alleanza con i cinquestelle, tenacemente voluta da Zingaretti e Letta, abbiano contribuito ad allontanare dal partito gli elettori del Pd e come questi potrebbero, quindi, riconoscersi in una sinistra guidata da Conte.
    Se, dunque, si dovesse compilare un decalogo su quel che il Pd deve fare per riuscire nella difficile impresa di risalire la china, porre fine ad ogni ipotesi di alleanza con i pentastellati sarebbe da porre al primo posto.
    È ben altra la strada da percorrere, insomma, per la rinascita di una sinistra che, nelle mani di Conte, sarebbe destinata al definitivo declino.

     

     

     

     

     

     

     

     

     

     

     

     

     

     

     

     

     

     

     

     

     

     

     

     


    Lettera dal Palazzo
    Per il Pd non può bastare
    il cambio della segreteria
    di Ottorino Gurgo
    Sembra ridursi ad una "gara" tra il presidente e là vicepresidente dell'Emilia Romagna la lotta già cominciata per succedere a Enrico Letta alla segreteria del Pd.
    Stefano Bonaccini e Elly Schlern si contenderanno (e già di fatto si contendono in una disputa fortemente polemica) quella che, alla luce dell’attuale situazione del partito non si può fare a meno di definire "la poltrona politica più scomoda del nostro paese".
    Al di là della pesante sconfitta subita il 25 settembre e del disastroso andamento dei sondaggi, per rendersi conto della gravità della crisi che lacera il Pd, è sufficiente aver riguardo a un dato estremamente significativo: nel 2008, quando era segretario Valter Veltroni, gli iscritti al partito erano 830mila; oggi sono all'incirca 50mila.
    La domanda che è lecito porsi è dunque questa: sono in grado i due competitori per la segreteria, Bonaccini e Schlern di invertire questa rotta a dir poco disastrosa e a realizzare quella "rivoluzione" (ché di una vera e propria "rivoluzione" si tratta) della quale il Pd sembra aver bisogno dopo anni di una gestione che non si può non giudicare scadente e priva del benché minimo mordente?
    Entrambi i candidati, in tempi di ordinaria amministrazione, sarebbero da considerarsi senza alcun dubbio ottimi segretari. Ma quelli attuali non sono davvero da considerarsi tempi di ordinaria amministrazione. E allora, probabilmente, ad una forza politica che versa nella situazione del Pd serve qualche cosa di diverso: una segreteria che cambi tutto (anche il nome del partito) e che, interpretando gli umori dei suoi potenziali elettori, sia in grado di dargli, finalmente quella identità che non ha mai avuto, neppure al momento della sua costitzione.
    Pur prendendo atto che Zingaretti è Letta non si sono rivelati all'altezza del compito loro assegnato bisogna riconoscere che le cause del tracollo del Pd sono molteplici e sarebbe assolutamente riduttivo attribuirle unicamente alla loro scarsa efficienza e alla loro mancanza di iniziativa. Così come non è pensabile che un semplice cambio alla segreteria possa risolvere come con una bacchetta magica i molti problemi che gravano sul partito.
    Occorre molto di più. Il dibattito in corso in questa fase precongressuale e gli stessi discordi di Bonaccini e della Schlern non lasciano intravedere intenzioni di sostanziale cambiamento. I programmi che vengono annunciati e i progetti illustrati ricalcano, in realtà, gli stessi programmi e gli stessi progetti del passato secondo la linea che la "vecchia guardia" predilige.
    All'insegna, insomma, del più gattopardesco "tutto cambi perché nulla cambi".
    Ottorino Gurgo


     

  • SE I CATTOLICI SE NE VANNO
    PER IL PD E' PROPRIO FINITA

    data: 07/01/2023 19:46

    Per il Pd - è proprio il caso di dirlo - i guai, come gli esami di Eduardo de Filippo, non finiscono mai. Dopo la sonora sconfitta elettorale del 25 settembre e le polemiche che accompagnano la celebrazione del prossimo congresso prende corpo, e si fa di giorno in giorno più consistente la cosiddetta "rivolta dei cattolici".
    Se ne sono fatti portavoce due esponenti di primo piano come Dario Franceschini e Pier Luigi Castagnetti, ex dirigenti democristiani, i quali hanno apertamente e polemicamente manifestato il diffuso malumore dei militanti provenienti dalle file dei cattolici democratici per la scarsa e quasi nulla considerazione in cui questa componente certamente non secondaria del Pd viene tenuta dagli attuali vertici del partito.
    La prospettiva congressuale dovrebbe, tra le altre cose, servire anche a questo: a ridare un ruolo ben preciso, all'interno del Pd ai cattolici che, a dire il vero, non hanno tutti i torti a lamentare di essere stati soprattutto dalle segreterie di Zingarett e Letta, relegati ai margini.
    Il problema, in verità. non è di oggi, ma risale alla stessa nascita del Pd che, sostanzialmente nato dall'incontro tra due realtà profondamente diverse se non addirittura antitetiche, quali la Dc e il Pci, non sono mai riusciti a darsi una precisa identità, combattuti da spinte spesso contrapposte, quali l’ultrasinistra da una parte e i liberal socialisti dall'altra che svolgono il ruolo di componente moderata.
    Ma ora, alla luce delle sortite aspramente critiche di Franceschini e Castagnetti, non siamo più in presenza come è stato sino ad ora, di un dibattito meramente accademico.
    Già si mormora, nel transatlantico di Montecitorio della costituzione, che potrebbe essere più imminente del previsto, di due gruppi parlamentari, alla Camera e al Senato, di "indIpendenti di sinistra" che dovrebbero riunire i non pochi che contestano l’attuale linea del partito-
    E, allora, non ci si può non domandare se il Pd, già in preda a tante difficoltà, sarebbe in grado di sopravvivere all'uscita dei cattolici dal partito.
    Ci sembra francamente difficile dare una risposta positiva a questo interrogativo. Quel che probabilmente sarebbe necessario è mandare al macero un partito che non è mai riuscito ad avere una propria identità e che è stato clamorosamente rifiutato dagli elettori per fondarne uno diverso, con una nuova classe dirigente formata prevalentemente da giovani.
    Soltanto con una rivoluzione di questo tipo si potrebbe dar vita alla rivoluzione che è indispensabile per costruire un'alternativa alla coalizione di centrodestra che, altrimenti, non avrà difficoltà a mantenere il potere per tutto il corso della legislatura. 

  • NO LA MELONI NON È
    LA TATCHER ITALIANA

    data: 31/12/2022 15:52

    Non da oggi Giorgia Meloni coltiva un sogno: quello di essere la Margaret Thatcher italiana, una leader capace di imprimere una svolta radicale al governo in grado di invertire in senso conservatore, non soltanto la vita politica, ma lo stesso costume, lo stesso modo di essere della nostra società.
    Ad alimentare questa aspirazione e in qualche misura anche a legittimarla è il fatto che nella storia repubblicana la guida del governo sia andata ad una donna è che, sempre per la prima volta, a conquistarla sia una esponente della destra fino a poco tempo fa tenuta ai margini
    Si tratta indubbiamente di due eventi storici che contribuiscono a dare al premierato della Meloni un carattere particolare e la induce a prediligere come modello quello della sua omologa inglese che, soprattutto per chi si ispira a principi conservatori ha impresso una significativa impronta alla vita del suo paese e le cui capacità sono state riconosciute ed apprezzate anche da chi si collocava su un’opposta sponda politica.
    Ma la Meloni ha davvero il temperamento e le caratteristiche per essere considerata "la Thatcher italiana"? Un simile appellativo le si addice ?
    Le alterne vicende che hanno accompagnato l'approvazione del bilancio e nelle quali la Meloni non ha brillato per coerenza e fermezza nelle decisioni di volta in volta assunte sembrano dimostrare il contrario, così come lo dimostra il rapporto che la nostra presidente del Consiglio mantiene con i suoi due principali alleati, Matteo Salvini e Silvio Berlusconi, con i quali si lascia andare a molte concessioni e dal cui consenso continua a dipendere pur non avendo nei loro confronti particolare considerazione e non condividendo molti dei loro punti di vista.
    Ma la fondamentale differenza tra le due è data dal fatto che mentre la Thatcher si ispirava rigidamente ai principi liberisti, la Meloni, pur proclamandosi di destra e, in taluni casi, di estrema destra, si richiama spesso ad un vago socialismo che è tutt'altra cosa.
    Non a caso, del resto, da qualcuno la nostra premier è stata definita "l'Evita Peron italiana".
    Anche questa definizione, peraltro, appare piuttosto superficiale poiché esistono differenze profonde tra le due realtà, quella italiana e quella argentina, nelle quali la Meloni e la Peron hanno dovuto operare.
    Ci sembra, dunque, di poter affermare che certi parallelismi avulsi dal contesto non sono attendibili e, quindi, che la Meloni e la Thatcher hanno tra loro ben poco in comune. 

  • L'ONDA DEL PRAGMATISMO
    HA TRAVOLTO I PARTITI

    data: 23/12/2022 18:54

    Che la politica manchi di punti di riferimento è cosa ormai nota e non da oggi. La fine traumatica delle ideologie. - diciamolo francamente - ha reso tutti più poveri e ha immiserito la stessa classe dirigente di tutte le forze politiche, di destra, di sinistra e di centro.
    Al tempo stessa ha determinato un nuovo modo di far politica tale da alternarne spesso i connotati.
    Ciò comporta il venir meno di precisi punti di riferimento ed è causa di disorientamento, per conseguenza, per chi è abituato a considerare la politica secondo vecchi schemi ormai desueti. Così per fare quello che è forse l'esempio principale, il caso di Giorgia Meloni, la presidente del Consiglio alla quale, spesso basandosi sulla base di luoghi comuni che dovrebbero considerarsi ormai superati, vengono attribuite scelte e intenzioni che, alla resa dei conti, finiscono con il rivelarsi fuorvianti e con il fornire un quadro della realità in gran parte non rispondente al vero..
    Affrontarla, come fanno la gran arte di coloro che intendono avversarla seguendo le vecchie regole, equivale a combattere con armi antiquate ed ornai del tutto inidonee.
    In realtà nella politica italiana vige, ormai, il più assoluto pragmatismo cosicché accade spesso, con sorpresa degli avversari, che da destra arrivino prese di posiziona di sinistra e viceversa.
    Nasce soprattutto da ciò, al di là della stessa fragilità della sua classe dirigente, la crisi profonda che attraverso il Pd e non lo aiuta a entrare in sintonia con l'opinione pubblica.
    Il pragmatismo è, dunque, il vero padrone della situazione politica nel nostro paese, cosicché davanti alla pubblica opinione finiscono con il fronteggiarsi sue differenti punti di vista: quello ideologico che riflette la storia di questo o quel partito, la sua formazione e le sue tradizioni e quello per così dire pragmatico, appunto, nel quale ogni forza politica affronta a modo suo e secondo le convenienze del momento le questioni sul tappeto.
    In tal modo le opzioni ideologiche perdono costantemente terreno , per due motivi soprattutto: il primo è che le scelte dei partiti rischiano di non essere aderenti alle esigenze della gente; il secondo che, costringendo a determinate prese di posizioni i loro protagonisti, le scelte ideologiche finiscono con il limitare inevitabilmente la fantasia dei partiti, vincolandoli per conseguenze a comportamenti che possono, in qualche misura, risultare scarsamente aderenti alle esigenze reali.
    Ecco perché non ci si può stupire più di tanto sé alcune scelte di questo o quel partito non sono in linea con gli orientamenti che siamo abituati ad attribuire loro e con la loro storia politica.

  • Il DOMANI DI DRAGHI
    FRA IL POSTO DI URSULA
    E QUELLO DI MATTARELLA

    data: 17/12/2022 11:36

    Filtra da Bruxelles una notizia che, se confermata, dovrebbe avere rilevante importanza anche per il nostro paese.
    È noto che l'attuale presidente della commissione europea Ursula Von der Leyen starebbe esercitando il suo ultimo mandato e, anche considerato il fatto che l’esercizio del suo mandato ha suscitato non poche critiche, non sarà riconfermata alla guida della Ue.
    Al cambio della guardia manca ancora. È vero, diverso tempo, ma - come è consuetudine - i paesi europei amano prepararsi con largo anticipo a questa importante scadenza e, stando ad insistenti indiscrezioni la questione sarebbe stata gìà affrontata in una serie di riunioni riservate dalle quali sarebbe emersa l'indicazione pressoché unanime di chiamare alla guida dell'Ue l'ex presidente italiano Mario Draghi.
    Draghi gode in tutta Europa di vastissima stima tanto che i pesi della comunità non avrebbero voluto che egli lasciasse a Giorgia Meloni la guida del governo italiano considerando il solo affidabile alleato in un paese conosciuto per le sue turbolenze.
    Peraltro non è un mistero che anche in precedenti occasioni si è parlato nella Unione europea, della eventualità di attribuire a Draghi un importante incarico a livelli comunitario.
    Due dati vanno, peraltro, tenuti presenti. Il primo è che, al di là delle intese formali, Draghi e la Von der Layen non sempre si so trovati d'accordo, soprattutto per quel che concerne la politica energetica che, a parere del nostro premier, la presidente della commissione europea non ha mai condotto con particolare efficacia.
    Un altro dato di particolare importanza attiene alla perdita di prestigio dell'Europa nei confronti delle altre due grandi potenze mondiali, la Cina e gli Stati Uniti.
    Ora i paesi dell'Ue, consapevoli dello stato di crisi in cui l'Europa versa, vedono in Draghi la personalità più idonea per accrescere il prestigio e l'autorevolezza della Comunità anche in considerazione della notevole stima che lo circonda.
    Non possiamo, tuttavia, nasconderci che dedicandosi a tempo pieno alle vicende europee. Draghi finirebbe inevitabilmente con l'allontanarsi dall'Italia e una tale eventualità suscita la preoccupazione di Sergio Mattarella e della stessa Meloni che su di lui fa assegnamento considerandolo il suo miglior consigliere
    Infine c'è chi ritiene che prima o poi, e forse più prima che poi, l’ex presidente della Banca centrale europea possa essere destinato a sostituire al Quirinale l'attuale capo dello Stato. È evidente che, in tal caso l'ipotesi del suo approdo alla UE, oggi considerata estremamente probabile, tramonterebbe.#

     

  • PUR LIBERARSI DI SALVINI
    LA LEGA RESUSCITA BOSSI

    data: 12/12/2022 21:48

    Da tempo Bossi, probabilmente, aspettava il momento di potersi prendere la rivincita nei confronti di Matteo Salvini che, senza troppi complimenti, lo aveva estromesso dalla guida della Lega.
    Ha aspettato con pazienza, seguendo il suggerimento cinese, “seduto sullle rive del fiume…” ed ora, nonostante le sue precarie condizioni di salute, sembra giunto, per il senatur. il momento tanto atteso.
    Delusi dal disastroso risultato elettorale, i militanti del Carroccio, sovrastati da Fratelli d'Italia nelle urne, i leghisti hanno visto il loro partito perdere definitivamente la leadership del centrodestra e i sondaggi seguenti al 25 settembre,li danno in progressivo calo.
    È evidente che la responsabilità è da attribuirsi al loro leader, ai suoi atteggiamenti burbanzosi, alla sua mancanza di equilibrio, all'arroganza con la quale ha gestito i r rapporti con le altre forze politiche.
    Ora il momento della resa dei conti sembra giunto e, non a caso, la base leghista si è rivolta al suo fondatore il cui carisma sembra essere rimasto intatto. E Bossi, fatto oggetto di muove attenzioni non sembra essersi fatto pregare. È già pronto a scendere in campo dando chiari segnali di voler invertire la rotta seguita da colui che lo ha relegato ai margini della vita del partito.
    Intendiamoci: Bossi, a causa delle sue non brillanti condizioni di salute non è in grado si battersi in prima persona entrando direttamente nella lotta politica. Ma può orientare. - eccome - le scelte del partito in senso diametralmente opposto a quelle sin qui seguite da Salvini e, poiché notoriamente non ama perder tempo e arde dal desiderio della rivalsa, Bossi ha già dato il via alle sue alternative. È noto che Salvini tiene in modo particolare alla regione Lombardia. Ebbene Bossi si è già mosso per dare indicazioni in favore di Letizia Moratti che si presenterà con il Terzo Polo, vale a dire in contrapposizione al candidato della lista del leader leghista. Ed è da ritenere che potrebbe schierarsi a favore di Gianfranco Giorgetti, che molti nel Carroccio ritengono potrebbe prendere a non lontana scadenza, il ruolo successore dell’attuale leader del Carroccio.
    La sorte personale di Salvini ha un interesse relativo. È tuttavia inevitabile chiedersi quali ripercussioni potrà avere sulla coalizione di centro destra un mutamento al vertice del Carroccio. Il governo non attraversa, malgrado il forte successo elettorale, un periodo di particolare tranquillità e certo non gioverebbe alla sua stabilità un sommovimento al vertice di uno dei tre partiti dell'alleanza. E forse è per questo che, negli ultimi tempi, facendo perdere di credibilità al suo governo, soprattutto a livello europeo. Giorgia Meloni ha dato l’impressione di assecondare le richieste del leader leghista.
     

  • MA I GIOVANI NEL PD
    VOGLIONO CAMBIARE TUTTO

    data: 03/12/2022 20:51

    Non appare facile per il Pd, faticosamente avviato verso il suo prossimo congresso, ritrovare la via maestra che dovrebbe portarlo ad occupare nuovamente un ruolo di protagonista nella vita politica italiana mentre, invece, stando ai sondaggi, viene addirittura superato dai cinquestelle di Giuseppe Conte nei sondaggi popolari, che pure, prima delle elezioni dl 25 settembre venivano considerati avviati verso una rotta totale.
    Stando così le cose, nei corridoi dei palazzi romani della politica ha preso consistenza, sia pure tra mille cautele, un'ipotesi: quella secondo cui, per iniziativa di un gruppo di giovani, non a torto irritati per il comportamento degli attuali dirigenti, ci si starebbe attivando per la costituzione di un partito completamente diverso, che recida i legami con il passato e dia vita ad una sorta di "nuova sinistra" capace di intercettare le esigenze delle classi popolari che dal Pd, soprattutto per le non felici gestioni di Nicola Zingaretti e di Enrico Letta, si sono sentite negli ultimi tempi tradite al punto di averlo abbandonato e di incontrare difficoltà a farvi rientro.
    Silenziosamente, a quel che sembra, l’”operazione ringiovanimento” va avanti e con prospettive che sarebbe un errore trascurare.
    C'è un aspetto non secondario che, tuttavia, deve essere ancora chiarito.
    si tratta della scelta (tutt’altro che facile) del nuovo segretario che alcuni vorrebbero provenisse dalle file dei giovani mentre altri guardano con favore, come uomo di accertata esperienza, al presidente della regione Emilia Romagna Bonacini.
    Questi, a sua volta, proprio per assecondare i desideri dei giovani ed averne il supporto, ha già fatto trapelare la voce che, qualora dovesse divenire il nuovo segretario, provvederebbe immediatamente a sostituire l'intera classe dirigente.
    C’è da fidarsi di Bonaccini? C’è chi non ha dubbi sulla sua effettiva volontà di rinnovare il partito, ma chi avanza pessimisticamente l’ipotesi che dietro di lui possa celarsi una manovra di stampo gattopardesco, all’insegna del “tutto cambi perché nulla cambi”.
    Sembra esserci comunque consapevolezza tra i giovani che il Pd potrà risorgere soltanto se sarà realmente capace di fare punto e a capo, con idee e uomini totalmente nuovi.
    Non sarà facile perché la vecchia guardia, come appare chiaro dal ritardo con cui viene convocato il congresso, appare più che mai intenzionata a difendere le proprie poltrone.

  • IL FUTURO DEL PD?
    LO DECIDONO LE REGIONI

    data: 26/11/2022 17:51

    Saranno probabilmente le elezioni regionali del prossimo mese di marzo a decidere le sorti del Pd e, a dire il vero, le prospettive per il partito di Enrico Letta (che per quel mese, forse, dovrebbe aver già lasciato ad altri il suo posto traballante e contestato che avrebbe dovuto, in verità, abbandonare all’indomani della sconfitta elettorale) non appaiono delle migliori.
    Dopo la clamorosa vittoria ottenuta nelle "politiche" dello scorso settembre che hanno portato al governo di Giorgia Meloni, il centrodestra continua a marciare con il vento in poppa e, stando ai sondaggi, dovrebbe veder crescere ulteriormente i propri consensi, nonostante i ripetuti contrasti al suo interno..
    Per contro il centro sinistra appare destinato a perdere voti al punto che dovrebbe essere addirittura essere scavalcato dai cinquestelle di Giuseppe Conte considerati prima delle elezioni condannati dalla maggioranza degli osservatori, prossimi al totale disfacimento.
    Né appare facile che colui che subentrerà a Letta e alla sua disastrosa gestione possa avere il tempo per rimediare ai danni e agli insuccessi accumulati dal suo predecessore. C’è dunque nel voto regionale, la necessità di una svolta radicale che segni, finalmente, un’inversione di tendenza.
    Al Pd servirebbe un autentico colpo di coda per ribaltare una situazione che potrebbe addirittura portare il partito (pressato dall'attacco del duo D'Alema-Conte) verso il definitivo tramonto.
    Da dove può provenire un tale colpo di coda?
    Difficile prevederlo. Ma, a volte, le "sorprese" possono venire proprio da dove ci si aspetta quella che siamo portati a considerare la normalità. Qual è, in questo caso la normalità?
    La normalità è che il Pd sia un partito della sinistra democratica, impegnato nella tutela dei diritti umani, che non devii permanentemente dalla propria linea senza cedere ad improbabili lusinghe e suggestioni (come, per venire al concreto, quelle dei cinquestelle) e che presti maggiore attenzioni ai vitali problemi dei cittadini anziché perdersi negli ideologismi e nelle troppo frequenti manovre di piccolo cabotaggio.
    Sembrerebbero questioni estremamente semplici, suggerimenti al limite della banalità, ma probabilmente non è così perché una ragione dovrà pur esservi se il Pd ha perso ogni contatto con i propri elettori e s'impone la necessità di tornare ad imboccare finalmente la giusta strada che sembra essersi già da troppo tempo smarrita.
    Da questo punto di vista le prossime elezioni regionali rappresenteranno un test fondamenta di una ritrovata capacità di dialogo non la pubblica opinione. Tenendo ben presente che se dovesse fallire difficilmente per il Pd potrà esserci ancora un futuro.

  • E' DRAGHI IL LEADER
    CHE SERVE ALL'EUROPA

    data: 19/11/2022 15:55

    Sono in molti, ora, dopo l'avvento di Giorgia Meloni alla presidenza del Consiglio, a chiedersi cosa farà Mario Draghi o, meglio, cosa sia destinato a fare in un prossimo futuro essendo assurdo che una personalità del suo calibro resti senza un incarico.
    Ebbene, basta guardare intorno per rendersi conto di quale dovrebbe essere il compito da assegnare al nostro ex premier. Mai come in questo momento (è sufficiente aver riguardo al duro, recente scontro tra l'Italia e la Francia sulla questione migranti) l'Europa appare lacerata e divisa.
    È dunque più che mai viva la necessità di una personalità autorevole ed efficiente, in grado di affrontare i molti e complessi problemi che affliggono il nostro continente. Chi godendo già di una tale stima meglio di Draghi può dare all'Unione questo contributo?
    Svolgendo un tale ruolo Draghi potrebbe operare su un duplice fronte: da un lato può sedare i contrasti che stanno creando divisioni tra i paesi della Comunità e quindi fissare una linea comune che servirà a restituire all'Europa quel prestigio che ha indubbiamente perduto rispetto alle grandi potenze mondiali (USA, Cina e Russia).
    D'altra parte è ben noto che l'ex presidente del Consiglio ha da tempo un progetto per l'Unione europea che, se chiamato ad un incarico ufficiale (e a Bruxelles già si sussurra che ciò dovrebbe accadere presto) potrebbe mettere in atto.
    Quel che è certo è, insomma, che Mario Draghi non resterà senza un lavoro. Non non a caso, a differenza di altri ha più volte tenuto a dichiarare dimostrandolo poi nei fatti, di non essere attaccato alla poltrona proprio perché le offerte non gli mancano davvero. Ed è anche per questo che è auspicabile che il governo di Giorgia Meloni che, soprattutto in politica estera mostra allarmanti segnali di sbandamento, trovi il modo di avvalersi in qualche misura è in qualche modo della collaborazione di una personalità tanto prestigiosa.
     

  • MA CONTE E D'ALEMA
    VOGLIONO ALLEARSI
    O IMPOSSESSARSI DEL PD?

    data: 12/11/2022 15:51

    Dopo il risultato non negativo registrato nelle recenti elezioni politiche (erano in molti a ritenere che il partito fosse addirittura destinato a scomparire dal panorama politico e quindi saremmo portati a considerare positivo il livello di consensi raggiunto del movimento grillino), i cinquestelle, stando ai sondaggi, fanno registrare un'ulteriore crescita, al punto che c'è chi ipotizza che, nel numero di consensi, i pentastellati potrebbero superare il Pd e qualificarsi come la seconda forza, subito dopo Fratelli d'Italia.
    Preso atto di questi dati non ci si può sottrarre a una domanda: qual è la funzione dei cinquestelle? Quali sono, cioè, gli obiettivi che il movimento si propone di conseguire?
    Questi obiettivi appaiono due, ispirati ad una stessa logica: trovare un alleato per valorizzare il proprio ruolo e, soprattutto, porsi in posizione d'attesa per far sì che, in occasione della prima crisi di governo, il presidente della Repubblica sia indotto ad affidare a Conte l'incarico di costituire un nuovo governo.
    In realtà entrambi gli obiettivi non appaiono di facile realizzazione. Il partito di Conte trova difficoltà a trovare una forza politica che lo voglia come alleato per aver dato prova, nella passata legislatura, di totale inaffidabilità.
    Ma, alla luce di quanto sta accadendo saremmo portati ad individuare il vero obiettivo di Grillo e dei suoi nel desiderio di fagocitare il sempre più debole Pd che è in profonda crisi e che Enrico Letta non è certamente in grado di condurre fuori dal guado in cui si è cacciato.
    Per perseguire questo suo obiettivo, un alleato pronto a divenire il suo "sponsor" Conte lo ha trovato. È Massimo D'Alema, rottamato a suo tempo da Matteo Renzi, ma che ha studiato ogni mezzo per tornare sulla scena.
    Insieme con il leader dei cinquestelle del quale è diventato il sostenitore e del quale si è fatto patrocinatore presso il Pd, sostenendo che si tratterebbe dell'alleato ideale, D'Alema costituisce una coppia a dir poco micidiale, in grado di mettere in ginocchio qualunque compagno di strada.
    Davvero i "dem" pensano di far leva su questo duo per risalire la china? Sarebbe un altro terribile errore.
    Conte e D'Alema hanno, in verità, due importanti punti in comune: sono entrambi assetati di potere ed entrambi preda di una forte frustrazione, legata per Conte dall’essere stato sostituito da Mario Draghi alla guida del governo e per D’Alema dall’essere stato “rottamato” e messo ai margini dal suo stesso partito.
    Più che aiutare il Pd a ricostruirsi, dunque, i due puntano – diciamolo brutalmente – a sostituirlo così da presentarsi all’elettorato come i più autentici rappresentanti del centro sinistra.
    Per chi abbia a cuore le sorti di questo partito che, comunque là si pensi, ha indubbiamente una sua storia ed un suo ruolo, non resta dunque che auspicare prenda corpo quella "alleanza dei quarantenni" della quale si parla all'interno del Pd, che preme per una rapida celebrazione del congresso e dovrebbe spazzare via in un colpo solo la vecchia guardia e liberare il partito di coloro che lo hanno in questi mesi contestato contribuendo a portarlo nella situazione nella quale attualmente si trova. 

  • TROPPPO TARDI PER IL PD
    IL CONGRESSO A MARZO

    data: 06/11/2022 13:06

    Secondo i più recenti sondaggi il post-elezioni riserverebbe una sorpresa clamorosa: il sorpasso del Pd ad opera dei cinquestelle di Giuseppe Conte che diverrebbe, in tal modo, la seconda forza del panorama politico italiano, seconda soltanto a Fratelli d'Italia della neo-presidente del Consiglio Giorgia Meloni.
    Siamo e restiamo convinti che i sondaggi vadano sempre presi con il beneficio d'inventario, ma se il "ribaltone" all'interno dell'opposizione dovesse trovare ulteriori clamorose conferme, si tratterebbe di un dato talmente sensazionale e talmente umiliante per il Pd da non poter non essere preso in seria e urgente considerazione.
    Il Pd è per sua naturale vocazione un partito destinato a essere maggioranza; i pentastellati, sino a poche settimane dal voto del 25 settembre, erano considerati una forza in via di estinzione. Che cosa è accaduto per un così sorprendente mutamento nel rapporto di forza tra ì due partiti?
    I dirigenti "dem" non possono non chiederselo e per porre rimedio ad una situazione così decisamente negativa non basta che Enrico Letta annunci che non riproporrà la sua candidatura alla segreteria al congresso, che dovrebbe svolgersi nel marzo del prossimo anno.
    Certo il cambio al vertice del partito, al punto in cui sono le cose, è indispensabile e costituisce un fatto positivo.
    Ma, quando la casa brucia, è inutile perdersi in chiacchiere. Bisogna, senza ulteriori indugi, chiamare i pompieri.
    Che la casa del Pd stia bruciando è fuori discussione. L'unico, forse, a non rendersene conto, a meno che non soffra di una forma di masochismo politico, è proprio Enrico Letta. Ma poiché non ha né la personalità né i poteri per decidere da solo, è evidentemente l'intero gruppo dirigente del partito ad essere responsabile di questa vera e propria perdita di tempo, non rendendosi conto che ogni giorno che passa fa registrare un arretramento del Pd e un calo nei consensi della pubblica opinione.
    Sorge, allora, forte il dubbio che per cercare di ricostruire il Pd non è sufficiente il solo cambio del segretario, pur assolutamente indispensabile. Occorre molto di più; occorre il cambiamento dell'attuale classe dirigente rivelatasi inadeguata, incapace di interpretare la realtà dalla quale è circondata, perduta nelle proprie beghe, nei propri rancori, nelle proprie mediocri rivalità.
    Per dirla in breve, con una metafora forse banale, i problemi del Pd non si risolvono con i pannicelli caldi, ma con una operazione chirurgica. Ed è un'operazione da affrontare senza ulteriori indugi.

  • SE LA MELONI MENTE
    OGGI SUL FASCISMO
    SU QUANTE ALTRE COSE
    MENTIRA' DOMANI?

    data: 29/10/2022 13:01

    C'era una certa curiosità per vedere come, nel discorso d'insediamento del suo governo, Giorgia Meloni avrebbe replicato alle ricorrenti accuse di filofascismo che da più parti le sono state e le sono tuttora rivolte: una sorta di leit motive sul quale i suoi oppositori basano la loro offensiva contro l’esecutivo da lei presieduto.
    La neo presidente del Consiglio non ha eluso l'argomento, ma lo ha fatto in modo - dobbiamo dirlo con tutta franchezza - che suscita qualche perplessità. La Meloni ha respinto con decisione i rilievi che le sono stati mossi a questo riguardo, spingendosi addirittura ad affermare, quando ha espresso la propria avversione per tutti i regimi non democratici, di non aver mai avuto simpatia alcuna per il fascismo.
    È comprensibile che per ragioni di opportunità, la Meloni abbia voluto, dinanzi al Parlamento, replicare alle accuse che le vengono rivolte, prendendo le distanze dal Ventennio, ma, probabilmente, facendolo con tanta perentorietà e in termini così netti, si è spinta un po' troppo in là,.
    Anche i bambini sanno, Infatti, quale legame esista e sia sempre esistito tra il partito della presidente del Consiglio (Fratelli d'Italia) e quel Movimento sociale italiano direttamente derivato dal fascismo.
    Giorgio Almirante, leader incontrastato del Msi, a chi gli chiedeva dei suoi legami con i fascismo, certamente più intensi di quelli della Meloni che alla caduta del fascismo non era neppure nata, era solito rispondere: "Cbe io sia fascista l'ho scritto in fronte. Quel che non vorrei è che vi fosse scritto: fasciasta cretino" prendendo in tal modo le distanze dall'ala più oltranzista del suo partito ed eludendo, sostanzialmente, con una battuta, la domanda che gli veniva ricolta.
    È certamente comprensibile il fastidio della Meloni, continuamente sottoposta all'accusa di fascismo, là dove sarebbe assai più congruo interrogarla sui concreti problemi della sua azione e dei suoi progetti di governo. Ma non ci sembra che negare in toto i suoi rapporti ideologici con il fascismo sia il modo migliore per sottrarsi a certe stucchevoli pressioni operate nei suoi confronti. Non a caso la sua affermazione è stata oggetto di critiche piuttosto vibranti.
    Pur comprendendo le difficoltà che possano derivarle dallo spiegare il suo controverso rapporto con il fascismo, non è a nostro avviso un giusto comportamento da parte della neopremier negare aprioristicamente, per lo più dinanzi al Parlamento ciò che non può essere negato e sinora, del resto, aveva preferito non negarlo.
    Oltre tutto non aiuta in questo modo la crescita della sua credibilità; una crescita della quale, sottoposta com’'è ad un così elevato numero di contestazioni, ha assoluto bisogno.
    Ci si chiede: se oggi, la neo premier mente sul suo rapporto con il fascismo, quante altre volte e su quali altri argomenti, la Meloni potrà mentire? E la domanda ci sembra tutt’altro che infondata.

  • BERLUSCONI-MELONI
    DOVE NASCE IL DISSIDIO

    data: 23/10/2022 20:42

    "Adesso fermati!" ha invocato Silvio Berlusconi la figlia Marina (probabilmente la prediletta). Alla veneranda età di 86 anni, avendo ottenuto ogni tipo di onori e accumulato un patrimonio di rilevante importanza, il cavaliere di Arcore non demorde, non s'attenua la sua volontà di essere protagonista della vita politica nazionale, né rinuncia a proporre la propria candidatura a nuovi, prestigiosi incarichi.
    Così l'ex premier non s'arrende, risorge come la fenice dalle ceneri smentendo clamorosamente coloro che davano per concluso il suo cursus honorum e mette a subbuglio l'ha stessa coalizione alla quale appartiene facendo addirittura dubitare che, a causa sua, Giorgia Meloni possa ottenere - cosa dai più considerata scontata - l'investitura di Sergio Mattarella per la formazione del nuovo governo postelettorale .
    In verità, a costo di essere smentiti, dobbiamo dire che, a nostro avviso, della coalizione di centrodestra e della Meloni per la quale non ha grande considerazione, a Berlusconi è sempre importato assai poco. Anzi, considera la scelta della leader di Fratelli d’Italia per la presidenza del Consiglio una vera e propria forzatura.
    Il cavaliere è un individualista, lo è sempre stato. Gioca per sé e per soddisfare le proprie ambizioni personali che non sono davvero irrilevanti. Venuto meno il suo sogno, coltivato da tempo, di succedere a Mattarella alla presidenza della Repubblica, anziché ritirarsi in buon ordine, come altri avrebbero fatto al suo posto, ha deciso di rilanciare.
    Così avendo previsto la vittoria elettorale del centrodestra ha scelto di allearsi con la Meloni e con Salvini ai quali peraltro, data la sua proclamata fama di uomo di centro, la collaborazione con Berlusconi era di palese utilità per giustificare quella denominazione - centrodestra - che altrimenti non avrebbe avuto ragion d'essere.
    Non potendo aspirare al Quirinale, Berlusconi ha puntato, allora, ad ottenere la presidenza del Senato, vale a dire la seconda carica dello stato. Ma, al momento della scelta, la Meloni gli è stato preferito Ignazio Larussa, esponente di punta di Fratelli d'Italia, legato alla leader della coalizione da antica amicizia.
    Di qui l'ira del Cavaliere che non si è limitato a esprimere giudizi estremamente pesanti nei confronti di colei che dovrebbe assumere la guida del governo prossimo venturo, ma ha lasciato chiaramente intendere che potrebbe rompere l'alleanza rimettendo tutto in discussione.
    Immediatamente, com'era scontato. si sono messi all'opera numerosi mediatori che, almeno per il momento, sono riusciti ad evitare il peggio consentendo alla Meloni di costituire il suo governo.
    È lecito tuttavia chiedersi se e quanto tempo la fase di disgelo potrà durare e, conseguentemente, quali conseguenze potrà avere per l'esecutivo, una simile condizione d'incertezza.
    Quel che comunque appare certo è che Berlusconi non è disposto a farsi da parte e ad accettare il ruolo di "padre nobile" della coalizione con il quale nel centro destra molti pensano di gratificarlo.

  • CONTE NON SA
    CHE L'AMBIZIONE
    PUO' DIVENTARE
    UN BOOMERANG

    data: 15/10/2022 09:01

    Sembra piuttosto lineare la situazione politica dopo la netta vittoria del centro destra nelle elezioni dello scorso 25 settembre. C'è una sola incognita: quella di Giuseppe Conte e dei suoi cinquestelle che non hanno ancora definitivamente chiarito se si schiereranno a sostegno del governo o sceglieranno di collocarsi all'opposizione.
    Il problema nasce dal fatto che nella scorsa legislatura i pentastellatI, con alla testa il loro leader, non hanno dato prova di affidabilità passando disinvoltamente dall'accordo con il centrodestra ad un'alleanza di tutt'altro segno, schierandosi con l'esecutivo di Mario Draghi del quale, poi, inopinatamente, hanno provocato la caduta,
    Il fatto è che I pentastellati sono fortemente condizionati dalla ambizione, in verità piuttosto smodata del loro leader e dai suoi personali risentimenti (Conte ha sempre considerato Draghi alla tregua di un usurpatore che ha occupato a palazzo Chigi una poltrona che, non si sa perché, doveva essere riservata lui).
    Allora, per dirla con Antonio Lubrano, la domanda sorge spontanea: per quale ragione centrodestra e centrosinistra dovrebbero allearsi con chi potrebbe essere, ad un certo punto, tentato di rompere l'alleanza con loro per rincorrere accordi ritenuti più convenienti?
    Il centrodestra ha già da affrontare il non facile problema della convivenza Meloni-Salvini-Berlusconi e quanto al centrosinistra le questioni che dovrà affrontare sono già di per se cosi complesse da indurre a ritenere che non sarebbe facile aggiungervi quelli legati all'alleanza con Conte.
    Conte - ed è comprensibile - si è rallegrato per aver evitato, il 25 settembre, il crollo del suo partito che i sondaggi avevano ampiamente previsto. Ma è ora inevitabile chiedersi coma potrà utilizzare i suoi voti e se non troverà sponde nelle altre forze politiche (ci sono, tuttavia, nel Pd correnti che non vogliono rinunciare ad avvalersi della collaborazione con i pentastellati).
    Se così fosse - e così probabilmente è - il voto accordato ai cinquestelle, potrebbe rientra a pieno titolo, nella categoria dei "voti inutili" e il successo di oggi (ché di successo, sia pure con consensi dimezzati, si deve comunque parlare) potrebbe trasformarsi nella sconfitta di domani.
    Ecco perché siamo indotti a credere che Conte al quale non fa difetto la furbizia rinuncerebbe a molte delle sue attuali pretese pur di trovare qualcuno disposto ad accordare al suo partito quel ruolo che attualmente non ha.
    Salvo, poi, a rimettere tutto in gioco.

     

  • SOLITA, LUNGA ATTESA
    PRIMA DI AVERE
    IL NUOVO GOVERNO

    data: 08/10/2022 17:50

    Anche l'Italia ha un record in Europa: quello, certamente non onorevole, del paese che, dopo il voto, impiega il tempo più elevato per costituire il nuovo governo.
    Non soltanto Giorgia Meloni, presidente del Consiglio in pectore, ha sollecitato come assolutamente necessario accelerare i tempi così da poter finalmente e concretamente affrontare i gravi e numerosi problemi sul tappeto, ma anche i nostri partner europei, che ci hanno aspettato con grande pazienza (destinata prima o poi a esaurirsi), ora invocano una maggiore rapidità d'azione da parte nostra.
    Purtroppo non c'è nulla da fare
    Le nostre regole impongono una gran quantità di adempimenti prima che Sergio Mattarella possa conferire l'incarico alla persona che verrà prescelta per la formazione del nuovo esecutivo: si devono costituire, a Montecitorio e a Palazzo Madama i gruppi parlamentari che devono eleggere i rispettivi capigruppo; devono essere eletti i presidenti di Camera e Senato.
    Solo successivamente il capo dello Stato potrà dare avvio alle consultazioni e, quindi, al conferimento dell'incarico e bisognerà, quindi, procedere alla stesura della lista dei ministri che, come è facile intuire, comporta non indifferenti problemi.
    È, dunque, il tempo della burocrazia che, nel momento politicamente fondamentale qual è la formazione del governo, rivela tutto il suo potere affermando, ancora una volta, la sua supremazia sulla politica.
    Siamo pienamente consapevoli di sollevare una questione che, di fatto, ha dimostrato di essere insolubile.
    Non c'è governo che, all'atto della sua presentazione alle Camere, non abbia solennemente dichiarato, nel suo programma, come impegno prioritario quello della lotta alla burocrazia. Ma, puntualmente, l'impegno non è stato onorato e tutto è rimasto come prima, con i burocrati, questa categoria di intoccabili che ha continuato e continua a farla da padrona in ogni settore della nostra vita pubblica.
    E, a costo di essere accusati di preconcetto pessimismo, non abbiamo molte speranze che Giorgia Meloni che la burocrazia continua a tenere fuori del portone di Palazzo Chigi, nonostante la sua non discutibile vittoria elettorale, possa venire a capo della questione invertendo una tendenza ormai da troppo tempo consolidata.
    Intento i problemi che richiederebbero interventi non solo efficaci, ma quanto più possibile rapidi, continuano a restare irrisolti e soltanto grazie alla buona volontà e al senso del dovere di Mario Draghi che l’Italia riesce a far fronte in qualche modo alla situazione.
    Ma quanto ancor la Meloni (e gli italiani con lei) dovrà ancora aspettare?

  • PERCHE' I CINQUESTELLE
    HANNO EVITATO IL CROLLO

    data: 01/10/2022 14:24

    Sino a qualche tempo fa era convincimento comune che dai risultati delle elezioni dello scorso 25 settembre sarebbe chiaramente emerso un forte ridimensionamento dei cinquestelle. Giuseppe Conte e il suo partito venivano considerati praticamente ai margini della vita politica, con una clamorosa inversione di tendenza rispetto al voto del 2018 che li aveva visti affermarsi come il partito con il maggior numero di consensi.
    Non è stato così. Certo i pentastellati hanno visto ridursi di molto (praticamente dimezzata) la loro percentuale, ma hanno notevolmente risalito la china, non hanno subito alcun crollo e sono lì, pronti a svolgere un ruolo non secondario nel contesto politico.
    A rendere possibile quella che può essere in qualche misura considerata una delle sorprese delle recenti elezioni è, a quel che appare, il voto del Sud grazie al quale i cinquestelle sono riusciti ad evitare il temuto tracollo.
    Sulla ragione per la quale l'Italia meridionale ha quantomeno garantito la sopravvivenza del partito, gli osservatori sono pressoché concordi nell'individuarla nella tenacia con la quale Conte e i suoi hanno difeso (e tuttora difendono) quel reddito di cittadinanza che costituisce indubbiamente la loro "arma vincente".
    Ora - con buona pace del leader pentastellato e affrancandosi da ogni forma di demagogia - è bene tener presente che almeno due fondamentali ragioni inducono ad auspicare che il nuovo governo comprenda tra i suoi impegni prioritari se non l’abrogazione, almeno la radicale modifica di una legge (quella del reddito di cittadinanza, appunto) che rischia di creare forti danni all'economia del nostro paese e soprattutto di minare alla radice l'atteggiamento dei giovani nei confronti del lavoro.
    Particolarmente significativo è - a questo riguardo - quel che sta accadendo nel mondo dell'agricoltura. Le organizzazioni del settore hanno chiaramente denunciato come sia ormai divenuto estremamente difficile il reperimento della manodopera.
    Quando un giovane viene avvicinato da un operatore agricolo per chiedergli di lavorare, la risposta che viene data alla sua richiesta è invariabilmente la stessa: "Non mi conviene. Aggiungendo al reddito di cittadinanza qualche lavoretto "in nero" guadagno di più e non pago le tasse".
    È accettabile questo sistema?
    E, allora, perché non solo viene tollerato, ma c'è una forza politica che ne fa la sua bandiera e addirittura edifica su di esso le proprie fortune elettorali?
    Non nascondiamoci dietro un dito: il reddito di cittadinanza determina un vero e proprio voto di scambio che tutti, a parole, fermamente condannano e che si configura come un'attività di stampo mafioso. È, senza alcun dubbio una forma politica di assoluta immoralità.
    Ed è in qualche misura sorprendente che a sostenerlo sia quella stessa forza politica che nacque con l'intento di moralizzare la vita pubblica.

  • MELONI DEVE SCEGLIERE:
    CON ORBAN O CON L'EUROPA

    data: 24/09/2022 15:18

    Che Italia sarà quella che nella prossima legislatura, se domani i sondaggi troveranno conferma nelle urne, verrà governata dalla coalizione di destra guidata da Giorgia Meloni? Per rispondere a questo interrogativo potremmo dire, prendendo a prestito una frase di un racconto di Edgar Alla Poe da cui trasse un film di successo Vladimir Gardin, che "un fantasma si aggira per l'Europa". Questo "fantasma" ha un nome e un cognome. Si chiama Viktor Orban, primo ministro ungherese, rigido interprete delle teorie sovraniste e appassionato contestatore dell'Unione europea, oggi più che mai nell’occhio del ciclone.
    A lui si sentono fortemente legati sia Giorgia Meloni, presidente del Consiglio in pectore, sia Matteo Salvini, leader della Lega, tant'è che non è privo di significato il fatto che circa quindici giorni fa, la Meloni e Salvini si siano rifiutati di votare un documento nel quale l'Ungheria di Orban viene definita "una minaccia sistemica ai valori fondanti dell'Ue". E, nonostante le ripetute sollecitazioni che le sono state rivolte, la Meloni non ha mai voluto prendere le distanze dal leader magiaro.
    Appare evidente, quindi, allo stato degli atti, che il futuro governo italiano nel quale Fratelli d'Italia e Lega reciterebbero la parte del leone, dovrebbe seguire le orme del premier ungherese.
    Ora si può non nutrire simpatia per la Meloni e si può avversare la sua linea politica, ma non le si può non riconoscere una non indifferente capacità politica che l'ha portata a fare del suo partito, almeno nelle generali previsioni, il maggior partito italiano.
    Allora è lecito chiedersi: pensa davvero di poter guidare l'Italia estraniandosi dall'Unione europea e seguendo la linea di Orban? È un equivoco che la leader di Fratelli d'Italia avrebbe avuto il dovere di dissipare prima del voto anche perché, se Salvini, come abbiamo visto, sembra condividere la posizione del primo ministro ungherese, Silvio Berlusconi, almeno a parole, sembra essere di tutt'altro avviso. Ha detto espressamente non soltanto di non condividere la politica di Orban, ma di non poter dare il proprio appoggio ad un governo che non fosse allineato con l'Unione europea.
    Ora è pur vero che Forza Italia è destinata ad essere, nella coalizione di destra, la forza con il minor numero di consensi, ma è altrettanto vero che i suoi voti potrebbero essere determinanti nel garantire la maggioranza al governo prossimo venturo.
    Insomma Orban costituisce un altro "caso" destinato a rendere ancora più ingarbugliata la matassa della costituzione del nuovo esecutivo e se la campagna elettorale ha vissuto giorni caldi, non è difficile prevedere che quelli del post-elezioni saranno giorni caldissimi.
    E, dunque, non ci si può non augurare che Giorgia Meloni, prima di assumere, se le spetterà, la guida del governo, chiarisca quello che rischia di essere un equivoco tutt’altro che secondario.

  • NEL MIRINO DELLA DESTRA
    UN DIFFICILE OBIETTIVO:
    MATTARELLA E QUIRINALE

    data: 16/09/2022 16:42

    Se, come tutto lascerebbe pensare, dopo le elezioni del 25 settembre la coalizione di destra uscirà vincitrice dal confronto-scontro con le altre forze politiche, dovrebbe spettare a Giorgia Meloni di assumere la guida del nuovo esecutivo che prenderà il posto di quello guidato sinora da Mario Draghi...
    La leader di Fratelli d'Italia si troverà, quindi, a dover affrontare numerosi e spinosi problemi di governo. Ma, ancor prima di porre mano a tali questioni, sembra destinata ad assumere carattere prioritario la convivenza tra Palazzo Chigi e il Quirinale.
    Che Sergio Mattarella e la Meloni non si amino particolarmente è cosa nota a chiunque segua le vicende della nostra vita politica. Soprattutto il capo dello Stato è fortemente infastidito da quel "sovranismo" al quale là Meloni non sembra voler rinunciare e che fortemente contrasta con la visione europeistica del Presidente della Repubbica..
    Per questo, a quanto si sussurra nei corridoi dei palazzi dei partiti della destra, nell'entourage della futura presidente del Consiglio, nella certezza della vittoria, si starebbero già studiando le possibilità di trovare una nuova personalità che possa sostituire Mattarella quale primo cittadino della Repubblica: un personaggio con il quale l'intesa possa essere meno difficile.
    Si tratta di un progetto la cui realizzazione è tutt'altro che facile poiché, inevitabilmente, accentuerebbe ulteriormente la tensione con l'Ue che già appare profondamente turbata dalla sostituzione di Mario Draghi e che ora ripone piena fiducia nell'attuale capo dello Stato italiano che considera una sorta di garante del buon rapporto tra l'Europa e l'Italia e che teme che il nostro paese possa far propria la linea sostanzialmente antieuropea adottata dal presidente ungherese Orban.
    Per contro, in un centrosinistra lacerato e diviso, come si è mostrato nell'attuale campagna elettorale, la difesa di Mattarella rischia di essere l'ultima frontiera per cercare di ritrovare quella identità che sembra aver perduto e che la segreteria Letta non è riuscita a ricostruire.
    Inoltre, al momento, il capo dello Stato gode di una popolarità ancora molto vasta e, pertanto, la destra, e la Meloni in primo luogo dovrà, se davvero intende patrocinare la nomina di un mutamento al vertice della Repubblica, muoversi con molta cautela
    Tutto lascia pensare, insomma, che è attorno al palazzo del Quirinale che si svolgeranno molte partite della prossima legislatura,
     

  • I RANCORI DI LETTA
    IMPEDISCONO AL PD
    DI LOTTARE ALLE ELEZIONI
    E DI PENSARE AL FUTURO

    data: 11/09/2022 13:00

    Forse qualcuno, tra i democratici, avrebbe dovuto spiegare al segretario Enrico Letta che le elezioni del prossimo 25 settembre hanno come obiettivo quello di stabilire a quale forza politica spetterà il compito di governare il paese nella prossima legislatura e non quello di lasciarsi andare ai propri rancori per compiere le proprie vendette personali.

    Letta, infatti, sembra averlo dimenticato e tutti i suoi movimenti sembrano ispirati dalla volontà di privilegiare quest'ultimo aspetto, dando in tal modo l'impressione di considerare ormai definitivamente scontata la vittoria della destra e di guardare al dopo voto con il proposito di procedere alla inevitabile ricostruzione del partito secondo le sue preferenze e con gli uomini che più gli sono graditi..
    Dare per scontata la sconfitta, che, unanimemente viene pronosticata dai sondaggi, può anche essere un atto di realismo e può essere assolutamente legittimo preoccuparsi del futuro. Anzi, è più che mai opportuno che chi ha la responsabilità di guidare il partito pensi sin da ora a preparare il futuro.

    Ma anche in quest'ottica, quello che Letta non può dimenticare che non tutte le sconfitte sono uguali. C’è sconfitta è sconfitta e se il Pd dovesse uscire completamente umiliato dal confronto elettorale, come, secondo il parere dei sondaggisti potrebbe accadere, ben difficilmente la sua segreteria potrebbe sopravvivere.
    Inoltre, c'è da ricordare che, se davvero il suo proposito è quello di rifondare il Pd - cosa che realmente appare più che mai necessaria - la strada da seguire non è certamente quella di farlo anteponendo a tutto i propri risentimenti. Occorre, cioè, invertire la rotta che il leader dei democratici sta attualmente seguendo e tornare, per quanto possibile, alle origini..
    Qando assunse la segreteria del partito, dopo la non brillante esperienza di Nicola Zingaretti, Letta aveva da assolvere un compito ben preciso: ricostruire una forza politica compatta e coerente, in grado di riassorbire le frange che nel corso degli anni si erano allontanate. In questa direzione il segretario del Pd non ha fatto nulla. A meno che il suo reale obiettivo non sia quello di ripetere la disastrosa alleanza che i cinquestelle di Giuseppe Conte che, a nostro avviso, è una delle cause dell’insuccesso che per lui si delinea. E che le urne potrebbero certificare il prossimo 25 settembre.
    E, invece, la strada da percorrere per Letta e per chi voglia prendere il suo posto (i candidati non mancano e già bussano alla porta), rimane la stessa.
    Non è cosa facile, ma non se ne vedono altre. Letta, tuttavia, con la sua politica attuale non sta facendo nulla, ma proprio nulla, per renderla praticabile e, in tal modo, compromette non soltanto Il presente, ma anche il futuro del suo,partito che, diciamolo con franchezza, è apparso in questa campagna elettorale decisamente sbandato.

  • UNO SCONTRO ELETTORALE
    CHE RIFLETTE E ACCENTUA
    LA CRISI DELLA POLITICA

    data: 03/09/2022 15:30

    Il confronto con gli elettori è certamente il momento centrale di ogni competizione elettorale. E il comportamento dei partiti che ne sono protagonisti delinea il livello della vita politica del paese in cui i cittadini sono chiamati ad esprimere le loro preferenze. Se così è dobbiamo, purtroppo, prendere atto che il livello dell'Italia, nella fase attuale, è estremamente basso.
    Raramente - e potremmo dire forse mai - ci è capitato, infatti, di assistere ad una campagna elettorale di così scadente qualità nella quale le forze politiche in competizione tra loro - e qui davvero non facciamo differenza tra destra, sinistra, centro - non si sono assolutamente rivelate in grado di volare alto e di abbandonare le piccole, mediocri dispute che hanno fatto da contrappunto alla loro attività per l'intero corso della legislatura da poco conclusa e sulle quali continuano purtroppo ad esercitarsi con mediocre costanza anche nella fase attuale.
    Viviamo, in questo periodo, in una situazione del tutto particolare in ogni settore della vita pubblica e ciò richiederebbe, quindi, a tutti coloro che sono chiamati a governare, un impegno straordinario una altrettanto straordinaria capacità di iniziativa e di fantasia senza cui il paese rischia di andare in tempi piuttosto rapidi verso il naufragio.
    Di fatto la campagna elettorale, così come si è andata svolgendo in queste settimane, rivela invece una situazione cristallizzata, priva di contenuti reali, e va sempre più affermandosi quella che potremmo definire "la politica degli slogan" che non stimola l'interesse dell'opinione pubblica che rifiuta ogni invito alla partecipazione ad un evento, quello della campagna elettorale, appunto, nel quale non si sente coinvolta.
    Questo stato di cose ha come prima, negativa e inevitabile conseguenza, quella di far lievitare il fenomeno dell'astensionismo, nonostante gli appelli a non disertare le urne (ultimo, in ordine di tempo, quello, accorato, rivolta alla pubblica opinione da Mario Draghi dalla tribuna del recente meeting organizzato da Comunione e liberazione).
    Se proviamo a vedere il bicchiere mezzo pieno, viene da dire che questa campagna elettorale, pur così brutta e priva di appeal, a una cosa è servita: a dimostrare, cioè che la politica, nel nostro paese, ha ormai raggiunto un livello di crisi senza precedenti che, in mancanza di una svolta radicale, potrebbe divenire irreversibile.
    La domanda di fondo che, quindi, emerge è se, anche se ciò può apparire paradossale, è possibile fare a meno della politica. Stentiamo, francamente, a dare a questo quesito una risposta positiva. Ci proponiamo, tuttavia, di affrontare quanto prima il merito della questione
     

  • UN PO' PIU' DI RISPETTO
    PER IL VECCHIO BERLUSCA...

    data: 27/08/2022 19:48

    Nei giorni scorsi un quotidiano a larga tiratura (ammesso che quotidiani a larga tiratura esistano ancora) ha titolato a tutta pagina: "il ritorno di Berlusconi", quasi a lasciare intendere che il cavaliere di Arcore stia tornando ad occupare un posto di primo piano sulla scena politica.
    Purtroppo per il leader di Forza Italia non è così.
    È certamente vero che Berlusconi, nonostante l'età avanzata e i non pochi acciacchi che lo tormentano, si sta impegnando a trecentosessanta gradi nella campagna elettorale.
    Tuttavia, a differenza di quanto accaduto in passato, l'ex premier non appare destinato a operare per se stesso, ma piuttosto come supporto della candidatura di Giorgia Meloni che è la vera leader della coalizione di destra alla guida del governo prossimo venturo.
    Ci è già capitato di osservare che, pur fregiandosi della denominazione di "centrodestra", il raggruppamento guidato dalla Meloni, da Berlusconi e da Salvini ha, in realtà, ha ben poco di centro. Ebbene, la Meloni e i suoi alleati sono, per questo, impegnati, specialmente in una fase come l'attuale, a occupare tutti gli spazi possibili e, ovviamente, anche quello di centro, specialmente dopo la costituzione del cosiddetto “Terzo Polo” di Matteo Renzi e Carlo Calenda che mira, appunto, ad occupare tale spazio.
    La funzione di Berlusconi nella coalizione con la Meloni e Salvini è dunque proprio quella di rappresentare il polo di centro cosicché la destra possa chiamarsi centrodestra.
    In pratica il ruolo di Berlusconi è quello della "foglia di fico".
    Un po' poco, a dire il vero, per chi ha un passato come il suo ed è stato, per oltre un decennio, alla guida del governo.
    Ma il cavaliere, al quale fanno intravedere la possibilità di una futura presidenza del Senato o, addirittura, della presidenza della Repubblica (in caso di dimissioni di Mattarella che la destra, con una riforma presidenzialista dovrebbe addirittura sollecitare),  sembra comunque pienamente soddisfatto del compito che gli è stato assegnato anche perché con abilità e furbizia, i suoi alleati fanno di tutto per assecondare la sua notevole vanità, disposti anche a tollerare le non poche gaffes che egli continua a commettere e che certo non giovano alla credibilità della coalizione.
    Dobbiamo ammettere di non aver mai nutrito particolare simpatia per il cavaliere di Arcore. Ma ci sembra che alla sua età e con il suo passato il vecchio Berlusca meriti un po' più di rispetto (che anche lui, tuttavia, deve fare il possibile per meritare, evitando atteggiamenti purtroppo ridicoli) e non possa essergli riservato il ruolo di strumento del quale servirsi per coltivare ambizioni che non lo riguardano. 

  • "MORTE DELLE IDEOLOGIE"?
    NO, QUI ORMAI SI VA VERSO
    LA MORTE DELLA POLITICA

    data: 13/08/2022 17:40

    Anche se le indicazioni dei sondaggi sembra non lascino molti dubbi sull'esito delle elezioni del prossimo 25 settembre accordando la vittoria alla destra, non azzarderemo previsioni sull'esito del voto, consapevoli che dalle urne possono sempre scaturire risultati imprevisti.
    Quel che, tuttavia, viene considerato praticamente sicuro è che sicuri vincitori, al di là della destra e del centro sinistra saranno coloro, considerati in crescita esponenziale, che avranno scelto di disertare le urne..
    Il fatto è che nella campagna elettorale in corso - forse la più brutta della storia repubblicana - i partiti sembrano essersi accordati in modo da accrescere il disgusto della pubblica opinione nei loro confronti.
    Siamo in presenza di un vero e proprio assalto al sistema democratico e il fatto che la maggioranza degli aventi diritto al voto sia costituito da non votanti ne è plastica testimonianza se è vero che quello delle elezioni è il momento centrale di ogni democrazia.
    È un errore cercare di attribuire la responsabilità di questo stato di cose a questo o a quel partito. Qui la destra e il centrosinistra marciano davvero di pari passo, quasi avessero stipulato un accordo tra loro.
    Sembra, purtroppo, che né gli uni, né gli altri, abbiano consapevolezza che, nella drammatica situazione internazionale nella quale stiamo vivendo, occorre avere la capacità di "volare alto".
    Ci si perde, invece, in piccole e mediocri manovre dalle quali emerge, purtroppo, la pochezza di coloro che le compiono, tutti presi da problemi di natura personale.
    Così non c'è da stupirsi più di tanto se un uomo del calibro di Mario Draghi sia stato costretto a gettare la spugna. Si è parlato più volte di "morte delle ideologie". Ma la campagna elettorale tuttota in corso sta chiaramente dimostrando che anche questa fase è superata. Stiamo andando oltre; cioè verso la morte della politica e non possiamo non chiederci se andare avanti senza la politica sia in realtà possibile.
    L’alternativa verso la quale, inevitabilmente, andremo, potrebbe essere quella di un governo di tecnici? È possibile.
    Saremo forse dei sopravvissuti, ma siamo ancora legati alla vecchia regola secondo la quale un governo politico è sempre preferibile ad un governo tecnocratico. E tuttavia non possiamo fare a meno di domandarci: dove sono i politici? E, contestualmente, domandar loro: se ci siete, per favore, battete un colpo.

  • L'AMBIZIONE, MALE OSCURO
    DELLA POLITICA ITALIANA

    data: 08/08/2022 19:42

    Dobbiamo confessare di credere molto relativamente ai sondaggi. Per due ragioni soprattutto: la prima è che, nella gran parte dei casi, essi sono commissionati da chi ha interesse che abbiano un certo esito e, ovviamente, ciò finisce con il condizionarne i risultati; la seconda ragione è che poi, spesso, gli intervistati preferiscono non rivelare le loro intenzioni di voto e danno ai sondaggisti indicazioni non veritiere.
    Questa volta, tuttavia, abbiamo la netta impressione che ai sondaggi che danno alla destra la vittoria sul centrosinistra si debba prestar fede sia perché tutti concordano su questo risultato, sia perché il divario tra le due coalizioni è talmente superiore a quello del centrosinistra da non lasciar pochi dubbi su quello che sarà, il 25 settembre, l'esito del voto.
    La vittoria della destra - e lo stesso sarebbe se a vincere fosse il centrosinistra - pur considerata al momento più che ampia, non garantisce, tuttavia, una legislatura tranquilla ed un governo stabile.
    Perché?
    La ragione, a ben vedere, è la medesima che ha determinato la caduta del governo di Mario Draghi, vale a dire il conflitto tra gli interessi contrapposti dei vari leader.
    A destra la leadership di Giorgia Meloni è all'apparenza del tutto inattaccabile. Ma si può dare per scontato che Matteo Salvini abbia rinunciato definitivamente all'ambizione, coltivata per anni, di poter sedere sulla poltrona di Palazzo Chigi? E che dire di Silivio Berlusconi che, pur dichiarando di non ambire né al ruolo di premier, né a quello di presidente del Senato, si è buttato a corpo morto nella campagna elettorale, nonostante l'età avanzata dovrebbe suggerirgli una maggiore tranquillità. Realmente il cavaliere di Arcore ha rinunciato ad una ennesima edizione del "Rieccolo"?
    Come si vede le ambizioni personali sono destinate a giocare un ruolo tutt'altro che secondario nel post elezioni. E il discorso che abbiamo fatto per la destra può riproporsi, in termini non dissimili, per il centrosinistra. Enrico Letta ha enfatizzato, nei giorni scorsi, l'intesa raggiunta con Calenda. Ma chi conosce il carattere del leader di "Azione" riesce veramente a credere che egli resterà a guardare, specialmente se i risultati elettorali - come tutto lascia pensare - dovessero penalizzare il centrosinistra?
    Senza contare Giuseppe Conte la cui smisurata ambizione lo porta a credere di poter tornare alla guida del governo, non rinunciando a tramare per questo obiettivo (come ha fatto provocando la caduta del governo Draghi) nonostante il suo partito sia destinato a ridurre considerevolmente le sue dimensioni.
    La politica, quella vera, insomma, perde colpi. La sostituiscono le ambizioni personali di questo o quel presunto leader. E di questo non c'è davvero da rallegrarsene.

  • MA I PROGRAMMI
    NELLA POLITICA ITALIANA
    CONTANO SEMPRE MENO

    data: 31/07/2022 18:10

    L'ipocrisia che fa da contrappunto al confronto tra i partiti sta già dando ampia dimostrazione di sé in questa prima fase della campagna elettorale. L'esempio più eclatante è dato, a questo riguardo, dall'affermazione, comune a tutte le forze politiche alle quali - stando a quel che dicono - non interesserebbe sapere a chi spetterà guidare il governo prossimo venturo, ma i programmi che si intendono realizzare.
    È falso. Un tempo, quando i partiti erano portatori di ideologie contrapposte queste affermazioni potevano, almeno in parte, contenere qualche elemento di verità, ma oggi che, anche in considerazione della ridotta consistenza dei partiti e della limitatezza intellettuale dei loro leader, le idee scarseggiano, la lotta politica si svolge prevalentemente tra le persone. Per rendersene conto è sufficiente volgere lo sguardo in particolare a quello che sta accadendo all'interno delle due principali coalizioni, la destra e il centrosinistra,
    A destra bisogna riconoscere che Giorgia Meloni (riuscendo così, almeno per il momento, ad imporsi) è stata la sola a parlare apertamente della sua aspirazione a guidare il governo post-elettorale, e ha chiaramente avvertito i suoi partner che, se la sua candidatura dovesse essere respinta, la coalizione non avrebbe più ragione di esistere. Salvini ha tentato di tergiversare, rimandando ogni decisione a dopo il voto sperando, forse, in una assai improbabile, se non del tutto impossibile rimonta. E Berlusconi fa filtrare l'ipotesi di una presidenza Tajani con il proposito di ritirare, poi, questa "candidatura fantasma" in cambio della propria designazione alla presidenza del Senato (ma quando porrà termine alle sue spropositate ambizioni?).
    Decisamente peggiore è la situazione del centrosinistra. Qui la scelta del nuovo premier è ancor più difficile. C'è chi sostiene l'opportunità di affidare nuovamente la presidenza del Consiglio a Mario Draghi; chi prospetta una presidenza Letta e chi giunge ad autocandidarsi (è il caso, per uscire dal generico, di Carlo Calenda) rivelando un'ambizione inferiore soltanto a quella più che mai sfrenata di Giuseppe Conte che continua a sperare di poter tornare a sedere sulla poltrona di Palazzo Chigi.
    In realtà tutte queste candidature e autocandidature ci sembra portino ad un unico risultato concreto che è quello di aumentare il fastidio con il quale l'opinione pubblica guarda alle vicende della politica, finendo così con l’aumentare ulteriormente il fenomeno dell'astensionismo che è già da tempo in crescita esponenziale e che ha tutte le possibilità di rivelarsi il principale protagonista delle prossime elezioni.
     

  • FINITA L'ERA DRAGHI?
    ECCO QUELLO CHE CAMBIA

    data: 24/07/2022 17:15

    Cala il sipario sul governo di Mario Draghi, una conclusione certamente amara anche per il modo in cui si è determinata e gravida di conseguenze alcune delle quali sono, al momento, ancora imprevedibili, ma che potrebbero essere per molti versi gravi per il futuro del nostro paese. Ma, poiché, in vista delle elezioni del prossimo 25 settembre, per dirla con gli inglesi, "the show must go on", lo spettacolo deve continuare, per brutto che sia, sarà bene tener conto che la vicenda appena conclusa ci lascia una serie di non trascurabili indicazioni.
    La prima è che le grandi coalizioni, le cosiddette "ammucchiate", possono realizzarsi, con precisi limiti soltanto in alcune situazioni del tutto particolari (come, ad esempio, quella che si verificò nei famigerati “anni di piombo”). Altrimenti, come è accaduto nelle attuali circostanze, sono destinate a implodere. È impossibile, infatti, tenere insieme forze radicalmente diverse, con storie, tradizioni, progetti il più delle volte inconciliabili.
    La seconda considerazione riguarda specificamente il centrodestra. È emerso in modo quanto mai chiaro che la personalità dominante, all'interno di questa coalizione, è quella di Giorgia Meloni.
    È lei e non Salvini, destinato, tra l'altro, ad essere sempre più contestato all'interno del suo stesso partito, il punto di riferimento del gruppo, al punto che parla già come futuro presidente del Consiglio.
    La leadership della Meloni fa, inoltre, giustizia di un equivoco che si protrae da tempo e che concerne la denominazione dell'unione tra Fratelli d'Italia, Lega e Forza Italia. Definire questa unione "centrodestra" non ha alcun senso e appare, ove si abbia riguardo alle sue componenti, del tutto improprio. Qual è il centro? Non esiste. Chiamiamola, allora, più correttamente "destra" (che, sia chiaro, non è una parolaccia).
    E qui emerge la terza indicazione che riguarda Silvio Berlusconi che, da sempre, tenta di accreditarsi come leader del centro. Ma quanto è accaduto dimostra che il berlusconismo è ormai in pieno declino, come conferma l'abbandono di Forza Italia da parte di alcuni suoi esponenti di primo piano. Insomma, si può ben dire, che le continue resurrezioni politiche del Cavaliere di Arcore che facevano di lui il "rieccolo" di fanfaniana memoria, non ci saranno più. Politicamente Berlusconi, anche se sta già facendo di tutto per smentirlo, è finito. Ed è ora di prenderne atto.
    Così come della mutata situazione e degli eventi che l’hanno provocata dovrà prendere atto il Pd e, in particolare, Enrico Letta che ha fatto dell’alleanza con i cinque stelle e soprattutto on Giuseppe Conte, l’elemento fondamentale della sua segreteria.
    Questa alleanza è ormai morta e sepolta e, per affrontare il voto del 25 settembre e stipulare nuove alleanze, Letta farà bene a guardarsi intorno sin da ora.

  • I CINQUESTELLE NEL CAOS
    DI MAIO AVEVA INTUITO
    SI E' MOSSO CON DESTREZZA

    data: 17/07/2022 17:41

    È il caos l'elemento dominante nella vita politica del nostro paese ed è difficile prevedere come si concluderà la drammatica telenovela che è andata in scena giovedì scorso. Unica certezza sembra il definitivo tramonto dei cinquestelle e del loro leader Giuseppe Conte ai quali è toccata la sorte dei pifferi di montagna che andarono per suonare e furono suonati. Così, alla luce di quel che è accaduto, assume una chiara spiegazione la decisione di Luigi Di Maio di rompere con il Movimento che pure aveva contribuito a fondare.

    Diciamolo con brutale franchezza. A Di Maio non è mai stata accreditata una particolare cultura politica. È, tuttavia, pur senza considerarlo un leader di primissimo piano (ma ci sono, attualmente, in Italia, leader di questo tipo?) bisogna riconoscere a Di Maio una viva intelligenza che lo ha portato a muoversi nella giungla della politica con destrezza e capacità d’iniziativa.
    Del resto, detto in tutta sincerità, se non avesse avuto una vivida intelligenza, Di Maio non avrebbe potuto compiere il cursus honorum che ha compiuto e che lo ha portato, in un tempo relativamente breve, ad occupare la poltrona della Farnesina, partendo da una situazione quanto mai modesta..
    Ora è, probabilmente, questa stessa capacità di intuizione ad averlo indotto ad abbandonare i pentastellati, ormai avviati verso un inesorabile declino, nelle mani di Giuseppe Conte, sempre più ondivago nelle scelte da compiere e, divorato da una sfrenata ambizione, considerato sempre più inaffidabile per i suoi alleati.
    Di Maio ha intuito che c'è forte, in Italia, l'esigenza di una formazione di centro che assolva il non facile compito di equilibrare il rapporto tra i due schieramenti che attualmente si fronteggiano sulla scena politica, il centrodestra e il centrosinistra (ma cosa abbiano di centro l'uno e l'altro resta un insondabile mistero). Serve una forza che sia capace di dar vita a quella "rivoluzione riformista" che, a suo tempo, Matteo Renzi cercò di avviare, ma che venne stroncata sul nascere da coloro che avevano e hanno tuttora interesse a mantenere lo status quo.
    Per dar corpo a questo suo progetto che dovrebbe trovare concreta realizzazione in eventuali elezioni anticipate, considerate sempre più probabili, Di Maio sembra volersi ispirare al modello democristiano che, pur con i suoi limiti e i suoi difetti, ha tenuto il governo del paese per oltre un cinquantennio.
    E, non a caso, nei palazzi romani della politica circola costantemente la voce che il suo mentore sia stato Pierferdinando Casini, che tiene ad accreditarsi (ma con tutto il rispetto, ci sembra che la Dc meritasse qualcosa di più) come l’ultimo dei democristiani.
    Ė ovvio che l’operazione sognata da Di Maio passa attraverso la costituzione di un “grande centro”. Ma si tratta di un’impresa che fa tremare le vene e i polsi. Evidentemente Di Maio ci crede, ma troppi sono gli ostacoli che ne impediscono la realizzazione.
    In primo luogo la rivalità esistente tra coloro che dovrebbero esserne protagonisti. Pensiamo in particolare a Matteo Renzi e a Carlo Calenda che, pur condividendo molti punti di vista, si guardano (ma perché?) in cagnesco. Senza contare i veti e i controveti posti da Silvio Berlusconi che continua a bocciare ogni tentativo di dar vita ad una alleanza tra moderati ripetendo, novello Re Sole: “Il grande centro sono io”.
    Così il “grande centro” non decolla e fa venire alla mente l’araba fenice: "Che ci sia ciascun lo dice, dove sia nessun lo sa”.
    Se ci saranno, come sembra, avremo, dunque, le elezioni in un clima quanto mai caotico.

  • ADESSO QUEL CHE SERVE
    E' LA TERZA REPUBBLICA

    data: 10/07/2022 16:28

    Con i suoi partiti e i suoi leader, la Prima Repubblica è stata travolta dal ciclone di tangentopoli. Ha ceduto il posto alla Seconda Repubblica che, nel comune convincimento, avrebbe dovuto guarire il paese dai molti mali che aveva accumulato nel corso degli anni.
    Non è stato così. E questo - crediamo lo si possa dire senza tema di smentite – non soltanto perché la Seconda Repubblica non ha conseguito gli obiettivi prefissati, ma perché, in effetti, la Prima Repubblica ha dimostrato di poter ancora mettere fuori gioco coloro che avrebbero dovuto succederle.
    Gli stop imposti agli uomini della Seconda Repubblica sono stati soprattutto due.
    Il primo è stato opera di Giorgio Napolitano, la cui appartenenza alla Prima Repubblica non può essere messa in discussione, quando ha deciso di porre termine allo straripante potere di Silvio Berlusconi chiamando alla guida del governo Mario Monti. Questi non fornì, ad onor del vero, una prova eccezionale, ma il suo avvento alla presidenza del Consiglio ebbe, comunque, una funzione importante in quanto servì ad evitare che Palazzo Chigi divenisse "proprietà" esclusiva del Cavaliere di Arcore che da allora, nonostante la sua straordinaria capacità di riemergere dalle ceneri e di tornare alla ribalta, ha cominciato un inesorabile declino politico; lo stesso declino subito dal suo partito che era, e continua ad essere, un “partito personale”.
    La stessa cosa sembra stia accadendo con Sergio Mattarella, anch'egli esponente di primo piano della Prima Repubblica, che è riuscito a ridimensionare, soprattutto con la scelta di Mario Draghi alla presidenza del Consiglio, la figura e l'opera di Matteo Salvini che veniva considerato l'astro nascente della vita politica italiana e che, stando ai sondaggi, sembrava destinato ad ottenere in tempi rapidi la guida del governo.
    Si va compiendo, insomma, una sorta di nemesi in virtù della quale la Prima Repubblica, grazie alle migliori qualità politiche dei suoi rappresentanti, si sta prendendo la sua rivincita.
    Ma ci sembra sia giunta ormai l'ora di porre finalmente fine a questa disputa. L'Italia ha bisogno di andare avanti anziché continuare a marciare con lo sguardo rivolto all'indietro. Ha bisogno, cioè, di aprire una nuova fase della sua storia ed è maturo il tempo per dar vita ad una Terza Repubblica che, facendo tesoro degli errori compiuti,faccia del nostro un paese autenticamente riformista e, inserito a pieno titolo nel contesto europeo.
    Non è un'impresa facile. Molte sono le resistenze da vincere. Ma non è più consentito indugiare.
     

  • LETTA DEVE SCEGLIERE
    TRA CONTE E DI MAIO

    data: 02/07/2022 13:06

    Com'era inevitabile la scissione dei cinquestelle si ripercuote sul quadro politico generale e in particolare sul Pd che dei pentastellati è stato ed è l'alleato principale.Enrico Letta, pur subendo la contestazione di una parte del suo partito esasperato dalla turbolenza grillina, ha fatto di questa alleanza l'elemento caratterizzante della sua segreteria. Ora, dopo la rottura tra Giuseppe Conte e Luigi Di Maio, è lecito chiedersi quali sviluppi avrà l’intesa tra democratici e grillini.
    È certamente vero che il senso di responsabilità impone al Pd di evitare scossoni che, nell'attuale fase politica è a un anno dalle elezioni, provocando la caduta del governo, precipitando il paese nel caos. È altrettanto vero, tuttavia, che questo stesso senso di responsabilità deve suggerire a Letta che il suo partito, avendo tra l'altro ottenuto nel test amministrativo la maggioranza dei consensi, non può sottrarsi ad una scelta.
    Sino ad ora Letta ha fatto conto sull'unità, per quanto turbolenta, dei suoi alleati preferiti e sul fatto che, ora, anche da separati, Conte e Di Maio non hanno interesse a provocare la caduta del governo. E continueranno a sostenere Mario Draghi sino alle elezioni politiche del prossimo anno, anche se nei corridoi dei palazzi della politica si continua a sussurrare che Conte non sarebbe contrario a rompere con il governo o, magari, a garantire soltanto un appoggio esterno ma Grillo non sarebbe dello stesso avviso.
    Ma se vuole essere realmente il partito guida che si propone di essere, il Pd deve necessariamente operare una scelta e questa scelta non può non essere ispirata dall'affinità con la linea politica dei suoi interlocutori.
    È ancora indubbiamente presto per esprimere un giudizio sulla linea delle formazioni guidate da Giuseppe Conte e da Luigi Di Maio. Finora i cinquestelle non hanno espresso una politica, ma ogni loro comportamento è stato dettato dall'ansia di occupare il maggior numero possibile di poltrone.
    La scissione dovrebbe ora consentire probabilmente a Conte e a Di Maio di dare un'identità ai rispettivi partiti e, a quel che appare, è stato il ministro degli Esteri a manifestare un orientamento più in linea con quello del governo.
    Ecco, dunque, che Letta non può sottrarsi ad una scelta. La "pigrizia" che ha caratterizzato la segreteria del Pd non può protrarsi ulteriormente. Detto brutalmente, Letta deve darsi una scossa e vincere remore paralizzanti che gli hanno impedito di riassorbire la diaspora di Matteo Renzi e Carlo Calenda.
    Insomma è giunta l'ora che Il leader del Pd dia un senso alla sua segreteria e scelga gli alleati idonei a portare avanti un progetto politico.
    Altrimenti non servirà a nulla accumulare consensi.


     

  • C'E' PERFINO L'IPOTESI
    CHE CONTE E DI MAIO
    SIANO D'ACCORDO...

    data: 25/06/2022 20:41

    Nelle acque stagnanti della politica italiana qualcosa si muove: la scissione dei cinquestelle, che si è resa inevitabile dopo la rissa (ché di autentica rissa si è trattato) tra Giuseppe Conte e Luigi Di Maio.
    Motivo scatenante della rottura è stato il diverso atteggiamento dell'ex presidente del Consiglio e del ministro degli Esteri sulla vicenda ucraina (con il primo contrario all'invio di nuove armi a Kiev e il secondo sostenitore della piena adesione alla linea della NATO e dei partner europei).
    La rottura, inoltre è clamorosamente esplosa all'indomani della disastrosa sconfitta fatta registrare dai pentastellati nel test amministrativo svoltosi lo scorso 12 giugno.
    Al fondo del contrasto c'è, peraltro, l'insofferenza di Di Maio per una leadership, quella di Conte, che il ministro degli Esteri ha sempre considerato imposto dall'alto, estraneo al movimento, ai suoi principi e alla sua fondazione alla quale non partecipò.
    I due, costretti a convivere, guardandosi in cagnesco, nello stesso pollaio, si sono beccati, più di una volta e, alla fine, tanto tuonò che piovve anche perché molti dei parlamentari pentastellati sono consapevoli - ecco il secondo motivo della scissione - che sarà per loro molto difficile confermare il proprio seggio, sia perché il Movimento è in caduta libera, sia perché la nuova normativa ha ridotto considerevolmente il numero di coloro che saranno eletti.
    Proprio la consapevolezza, maturata negli stessi cinquestelle, che le prossime elezioni sanciranno la loro disfatta e che i seggi a loro disposizione saranno notevolmente ridotti rispetto agli attuali, ha alimentato, nei corridoi dei palazzi romani della politica, le voci, frutto probabilmente di acrobazie dietrologiche, secondo cui in realtà la scissione sarebbe il frutto di un'intesa fra i due schieramenti che si fronteggiano nel partito perché, presentandosi divisi al giudizio degli elettori, in virtù di qualche marchingegno consentito dalla legge elettorale sarà possibile attenuare - ma solo attenuare - la sconfitta.
    Ė soltanto un’ipotesi, ovviamente, ma che, comunque, va tenuta in una qualche considerazione.
    Resta comunque aperto più di un problema: che cosa rappresentano i pentastellati e gli scissionisti? Qual è il loro contributo alla vita politica del paese? E quale sarà la loro collocazione nel prossimo Parlamento dato l'ondivago atteggiamento tenuto nell'attuale legislatura?
    Sono tutte domande alle quali né gli uni né gli altri, preoccupati esclusivamente di mantenere per quanto possibile le loro poltrone, sembrano in grado di offrire garanzie.

  • LA MAGGIORANZA E' COME
    "L'ISOLA CHE NON C'E'"

    data: 18/06/2022 11:37

    Prendendo a prestito il titolo di un noto film di Ettore Scola possiamo chiederci, osservando il comportamento dei partiti della maggioranza che sostiene il governo di Mario Draghi, se l’attuale esecutivo riuscirà a portare a termine la legislatura e se essa esiste realmente.
    Non è facile dare a questa domanda una risposta positiva. Su entrambi gli interrogativi, infatti, siamo propensi a esprimere i nostri dubbi. Per molte ragioni. Una soprattutto: che, di fatto, tale maggioranza non esiste già più. E, per rendersene conto, è sufficiente aver riguardo a quello che accade non soltanto nel nostro paese, ma soprattutto nel Parlamento europeo.
    Significativo è quello che si è verificato recentemente alla riunione di Strasburgo dedicata alla discussione del "pacchetto legislativo" per combattere il cambiamento climatico.
    I partiti dell'attuale maggioranza si sono profondamente divisi tra loro (il Pd addirittura al suo stesso interno) dimostrando l'assoluta mancanza di compattezza.
    Da quanto è accaduto in questa circostanza (e non è certamente l'unica visti i numerosi analoghi precedenti) derivano due conseguenze: la prima è che, alla prova dei fatti concreti, questa maggioranza si sbriciola rivelando tutta la sua inadeguatezza e l'assoluta mancanza di quella "cultura dello stare insieme" dalla quale se si vuol dar corpo ad una reale alleanza che non sia dettata esclusivamente da ragioni opportunistiche, non si può prescindere.
    È il fatto che la disunione della coalizione di governo avvenga, tra l'altro, in Europa, su argomenti relativi alla vita comunitaria, è, ci sembra, di particolare gravità.
    La seconda considerazione riguarda l'opinione che di noi possono farsi (e forse si sono già fatta) i nostri partner. Da tempo, purtroppo, non godiamo di buona fama e soltanto grazie al prestigio personale del quale gode il presidente del Consiglio siamo riusciti a risalire la china.
    Ma come può continuare a esser visto con favore un governo sorretto da una maggioranza che non sta in piedi e che vive in una condizione di precarietà soltanto per evitare una crisi dalla quale saprebbe estremamente difficile poter uscire?
    Insomma, osservando la maggioranza attuale, non può non venire alla mente il titolo di una nota canzone di Edoardo Bennato: ”L’isola che non c'è”.
     

  • ABBONDANO I POLITICANTI
    MA MANCANO GLI STATISTI

    data: 11/06/2022 17:03

    Sono in molti, in Italia, a "far politica" o, per dirla con meno benevolenza, a far della politica lo strumento della loro attività. Potremmo dire, con asprezza, che la gran parte di coloro che si dedicano ad un'attività politica lo fa con l'intento di "tirare quattro paghe per il lesso". Ma quel che si stenta a individuare sono quei politici che si rivelano capaci di trasformarsi in statisti.
    Alcide De Gasperi, che alla categoria degli statisti certamente apparteneva a pieno titolo, era solito dire che la differenza tra un politico e uno statista è che "mentre un politico guarda alle prossime elezioni, uno statista guarda alle prossime generazioni” (secondo alcuni la frase sarebbe da attribuire all'ex presidente americano James Freeman Clarke e fu poi certamente ripresa anche da Winston Churchill).
    Si tratta di un'affermazione che, per il nostro paese, è di stringente attualità e di notevole importanza poiché, nella situazione nella quale ci troviamo ci sarebbe bisogno - eccome! - di statisti.
    A giudizio di qualcuno, in realtà, uno statista c'è e sarebbe Mario Draghi che, in effetti, deve essere considerato un politico "anomalo", un economista prestato alla politica. Non tutti, peraltro,apprezzano sino in fondo la personalità dell’ex governatore della Banca centrale europea, oggetto, dall’interno della sua stessa maggioranza di quotidiane “punture di spillo”.
    Perché, dunque, nel nostro paese di statisti non ne nascono più? La risposta a questo interrogativo è certamente assai complessa perché statisti non si nasce, si diventa.
    Se è così, infatti - ed è così - bisogna, evidentemente, ripristinare molti valori dei quali si è persa la traccia, primo fra tutti il senso del dovere e la connessa capacità di far prevalere ad ogni costo, sugli interessi personali, gli interessi generali del paese.
    Si tratta di valori che, con il trascorrere del tempo, sono andati in massima parte scomparendo anche perché i partiti che dovrebbero esserne i sostenitori e i propugnatori, hanno ormai da tempo abdicato al loro ruolo, trasformandosi in macchine di potere il cui unico obiettivo è quello di occupare il maggior numero possibile di poltrone.
    Ci sembra giusto, peraltro, rimarcare - in nome della cosiddetta completezza dell'informazione - che la "scomparsa" degli statisti non è un fenomeno soltanto italiano, ma investe moti altri paesi, soprattutto in Europa.
    Dove sono i Churchill, gli Adenauer, i De Gaulle?
    Ma l'essere in compagnia non ci consola, convinti come siamo che non vi sia maggior menzogna di quella contenuta nel proverbio secondo cui "aver compagni al duol scema la pena".

  • UNA CAMPAGNA ELETTORALE
    INTERMINABILE E DANNOSA

    data: 04/06/2022 19:53

    È purtroppo una consolidata abitudine italiana quella di dare avvio con largo anticipo alla campagna elettorale. Ed è un'abitudine, questa, decisamente dannosa poiché produce conseguenze paralizzanti e finisce con l'alterare considerevolmente il quadro politico. Questa volta, tuttavia, e per molteplici ragioni, la campagna elettorale si sta già rivelando ancor più lunga del passato, con tutto quello che ne consegue anche perché essa sarà per così dire "arricchita", in autunno, da un importante intermezzo elettorale amministrativo piuttosto ampio e non privo, quindi, di significative indicazioni.
    Due elementi concorrono, inoltre a complicare la situazione. Il primo è certamente costituito dalla pesante crisi economica che ha investito non soltanto il nostro paese a seguito della guerra in Ucraina e che non accenna in alcun modo ad attenuarsi. Si tratta di un conflitto che richiede a tutti i governi continue e rilevanti decisioni che non tollerano incertezze e distinguo come quelli che derivano dallo scontro tra le forze politiche che, inevitabilmente, fanno registrare tutte le competizioni elettorali.
    Il secondo elemento che contribuisce a turbare e ad avvelenare notevolmente il clima politico è costituito dal fatto che le due coalizioni (centrodestra e centrosinistra), che sulla carta si fronteggiano, appaiono al loro interno profondamente divise, squassate da scelte politiche tra loro non coincidenti e suscitatrici di quotidiane polemiche (Pd e Cinquestelle) e da rivalità personali che si inaspriscono ogni giorno di più (come quelle tra Giorgia Meloni e Matteo Salvini).
    Un anno - quanto ancora manca alle prossime elezioni politiche - è lungo da passare, gravato, come abbiamo detto, da problemi di rilevante entità che richiedono interventi rapidi e non rinviabili.
    Non facilita la situazione l'incertezza sulle intenzioni personali di Mario Draghi. Non è un mistero che egli avrebbe preferito lasciare la presidenza del Consiglio per trasferirsi al Quirinale. È stato praticamente "costretto" a restare al suo posto, così come Mattarella è stato costretto a rimanere al suo.
    Ma per quanto tempo ancora l’ex presidente della Banca centrale europea resisterà alle continue punture di spillo di coloro che dovrebbero sostenerlo e che, per chiudergli la porta della presidenza della Repubblica, hanno, tra l'altro, addotto la necessità ch'egli continuasse la sua opera al governo?
    Siamo condannati ad un anno di precarietà e di incertezze. Senza neppure sapere che cosa ci riserverà il domani.
    È se non fossimo in grado di sopportarlo? 

  • RIECCO BERLUSCONI
    MA RISCHIA DI RIMANERE
    IN MEZZO AL GUADO

    data: 29/05/2022 11:43

    Per l'ennesima volta Silvio Berlusconi ha riproposto, da Napoli, la sua candidatura alla guida della coalizione di centrodestra, sostenendo che Forza Italia ha ormai raggiunto una elevata percentuale di consensi che supera il venti per cento (in verità i sondaggi più recenti indicano che, non senza fatica, riuscirebbe a raggiungere il sette per cento).
    L'autocandidatura berlusconiana non ha ricevuto dai suoi partner un'accoglienza particolarmente benevola. Ma, evidentemente, il Cavaliere insiste facendo assegnamento più che sui voti popolari, sul persistere della accesa rivalità tra Giorgia Meloni e Matteo Salvini, una rivalità che va facendosi sempre più accesa e sembra destinata a riproporsi anche nel breve termine, quanto più si approsima la consultazione elettorale (gà si parla di divergenze in vista delle amministrative d’autunno). Berlusconi potrebbe, perciò, divenire così una sorta di candidato di mediazione tra i due contendenti per mantenere l’unità della coalizione che vacilla ad ogni pie’ sospinto.
    Il problema, tuttavia, al di là della scelta del leader, per quanto controversa essa sia, concerne soprattutto la linea politica da adottare che, almeno sulla carta, dovrebbe vedere Barlusconi schierato su tutt’altro fronte rispetto a quello sostanzialmente antieuropeista degli altri due.
    Può il leader di Forza Italia - ci si chiede all'interno dello stesso centrodestra - aderire acriticamente alle indicazioni che vengono fornite quotidianamente dalla Meloni e da Salvini?
    Negli ultimi tempi, Berlusconi si è sforzato, pur di ottenere l'adesione dei partiti alleati (in particolare della Lega) alla sua leadership, sintonizzandosi sulle loro posizioni. Ma non sembra che essi siano comunque disposti ad affidargli lo scettro del comando.
    Così il centrodestra sembra destinato a caratterizzarsi come una forza quasi esclusivamente di destra nella quale la connotazione di centro è appena sfumata.
    Essere alla guida di una formazione di centro è la reale aspirazione di Berlusconi, ma si tratta all'insegna di un sogno che si svolge all'insegna del "vorrei, ma non posso".
    Del resto, la volontà di dar vita ad un "grande centro", che probabilmente potrebbe anche essere di una qualche utilità per il nostro paese, si è, alla fine, risolta in un fallimento soprattutto a causa della rivalità tra le forze che avrebbero dovuto comporlo.
    Diversi partiti sono rimasti in mezzo al guado non riuscendo a dare concreta attuazione al loro progetto.
    È in mezzo al guado rischia di restare anche Silvio Berlusconi che, tra l'altro, per la prima volta da quando, diversi anni fa, ha deciso di darsi alla politica, é stato contestato all'interno del suo partito (Gelmini) per le affermazioni filo Putin.

     

  • PD, CRESCE LA STANCHEZZA
    PER L'ALLEANZA CON I 5S

    data: 21/05/2022 22:12

    Tanto tuonò che piovve. La gran parte del gruppo dirigente del Pd non sembra più disposta a mantenere l'alleanza con i cinquestelle e preme sul segretario Enrico Letta affinché decida di porre termine a un'intesa che rischia di danneggiare pesantemente il partito agli occhi della pubblica opinione e a dividerlo al proprio interno..
    Non é da oggi che tra i militanti del Pd affiorano malumori sempre più forti nei confronti di un alleato con il quale - viene fatto rilevare - non esiste alcuna affinità. Anzi, l’emergere di contrasti tra i due partiti fa regitrare, di giorno in giorni nuovi e più pesanti contrasti.,
    Fino ad ora, tuttavia, Letta ha resistito ad ogni pressione, nel convincimento che, senza i pentastellati, sarebbe impossibile evitare che il paese finisca nelle mani della coalizione di centrodestra.
    Ma adesso a far traboccare il vaso dell’insofferenza è l'atteggiamento sempre più arrogante assunto da Giuseppe Conte nei confronti di Mario Draghi che l'ex presidente del Consiglio e attuale leader grillino mette sul banco degli imputati sostenendo che è giunta l’ora di sospendere gli aiuti militari concessi dal nostro paese all'Ucraina.
    Su questa strada i democratici non sembano disposti a seguirlo. Per il Pd Draghi è un irrinunciabile punto di riferimento e abbandonarlo avrebbe due conseguenze entrambe fortemente negative,
    La prima sarebbe quella di allontanarci dall'Europa e dalla Nato, ponendo in tal modo il nostro paese in una posizione di totale isolamento e infliggendo un duro colpo alla nostra permanenza nell’Unione europea. . La seconda, che colpisce direttamente i democratici, sarebbe quella di costringerli a rinunciare alla loro aspirazione di essere il partito guida della politica italiana, riducendosi, di fatto, a una appendice dei pentastellati e a subirne gli umori che sono, come gli eventi dell'attuale legislatura stanno ampiamente dimostrando, ondivaghi sino alla inaffidabilità.
    La condotta di Conte e dei suoi sembra dimostrare, sempre di più, una prepotenza (basti pensare il "niet" al termovalorizzatore di Roma) che non lascia prevedere nulla di buono.
    In queste condizioni era inevitabile che nel Pd prendesse ulteriormente quota il numero di coloro che sono ormai stanchi di un'alleanza mortificante e priva di prospettive.
    Di fronte alle pressioni che gli provengono dall'interno del suo partito, Letta comincia a vacillare. Non sembra ancora disposto ad abbandonare al loro destino i cinquestelle ma, pur tentando di resistere, comincia forse ad acquisire consapevolezza che, insistendo, rischia di mettere in gioco la sua segreteria.

  • CINQUESTELLE A PEZZI
    GRILLO "DESAPARECIDO"

    data: 15/05/2022 10:51

    Con chi sta Beppe Grillo? L'interrogativo non è privo di una sua valenza se si considera che, nonostante l'annunciato ridimensionamento, i pentastellati continueranno, anche nella prossima legislatura, ad esercitare un ruolo non secondario nel determinare i rapporti di forza in Parlamento. Clò in virtù di una legge elettorale che consente loro di usufruire della cosiddetta “rendita d posizione”.
    L'ex comico genovese, fondatore del movimento, non può non rendersi conto che il suo partito è a pezzi, ma profondamente spaccato tra quanti, come Giuseppe Conte, puntano a sostituire Mario Draghi alla guida del governo e quanti, Luigi Di Maio in testa, non ritengono opportuno sostituire l'attuale presidente del Consiglio e sono tuttora intenzionati a non abbandonare l'alleanza con il Partito democratico di Enrico Letta...
    Nell'approssimarsi della campagna elettorale i cinquestelle dovranno, tuttavia, pur far conoscere quale sia la loro posizione.
    Conte e Di Maio non si sono mai amati. Il ministro degli Esteri ha sempre considerato l'ex premier come una sorta di corpo estraneo, catapultato dall'esterno alla guida del movimento e ha badato a coltivare la base del movimento che sembra essere dalla sua parte e, prima o poi, dovrebbe consentirgli di conquistare il bastone del comando.
    Siamo, dunque in presenza di una contrapposizione non solo tra due personaggi, ma tra due diverse linee politiche.
    Così è difficile capire quale sia, in realtà, la collocazione del movimento come è difficile capire con quale volto si presenterà al giudizio degli elettori , con quale, cioè, dei due schieramenti - centrodestra o centrosinistra – punterà ad allearsi all'indomani delle elezioni..
    Certamente la diatriba interna non reca giovamento alle già fragilissime fortune del partito.
    Decisiva perciò sarà il giudizio di Beppe Grillo che del movimento pentastellato è il leader naturale. Con il trascorrere del tempo, Grillon ha perso, in verità, una parte considerevole del suo carisma, ma è ancora in grado di orientare le scelte dei militanti e dei dirigenti, tanto più che in questi anni non sono emerse, all'interno, personalità di particolare spessore.
    Per il momento, Grillo è una specie di "desaparecido". Come le tre scimmiette, non sente, non vede e non parla. Si è sforzato, evitando di prendere una possono decisa, di mantenere i piedi in due staffe, nella speranza che la situazione si chiarisse da sola. Ma così non è stato e prolungare l'attuale stato di incertezza, in una formazione politica che dà evidenti segnali di sbandamento, non puô che accelerarne la dissoluzione. É questo ció che Grillo, che dicono essere profondamente deluso dalla sua esperienza politica, in realtà vuole?

     

  • SE LE FORZE POLITICHE
    INCAPACI DI COSTRUIRE
    SANNO SOLO RESPINGERE
    LE AZIONI DELLE ALTRE

    data: 07/05/2022 21:25

    Il fondamentale compito della politica è certamente quello di costruire, elaborare strategie, mettere a punto progetti tesi a migliorare le condizioni di vita dei cittadini. A questo dovrebbero dedicarsi i partiti e gli uomini che sono preposti a guidarli. In Italia questo - e ne abbiamo quotidiana testimonianza - purtroppo non accade; anzi, accade esattamente il contrario. Le forze politiche del mostro paese, più che a costruire e a mettere a punto, come si conviene, strategie vincenti, appaiono cioè impegnate a distruggere le iniziative altrui.
    Se questo tipo di raffronto ci è consentito, potremmo paragonare il loro comportamento a quello di una squadra di calcio che non assume mai iniziative, ma sceglie di asserragliarsi in difesa per respingere gli attacchi delle altre squadre, subendone il gioco. Analogamente si comporta la politica, venendo meno alla sua funzione principale e, in tal modo, la vita pubblica si immiserisce.
    Il fatto è, come abbiamo avuto modo di ribadire in più di una occasione, che stante quanto diceva il vecchio Pietro Nenni, la politica cammina sulle gambe degli uomini e quindi, restando alla metafora calcistica, se una squadra è composta da giocatori di modesta qualità, non può fare altro che attestarsi su posizioni arretrate, cercando di bloccare le iniziative dell'avversario, restando in posizione d'attesa e astenendosi dal proporne di proprie.
    Poiché questa è la situazione nella quale il nostro paese si trova, appare sempre più evidente la necessità di mantenersi in stretto collegamento con i partner europei che, più di noi, appaiono in grado di elaborare idee e progetti ai quali possiamo attingere.
    Derivano da questo stato di cose due inevitabili conseguenze: la prima è l'assoluta illegittimità delle posizioni “sovraniste” che ci collocherebbero in una posizione di isolamento; la seconda è che è proprio questa incapacità di avanzare proposte e di elaborare progetti e strategie a rendere il paese ingovernabile e ad accentuarne la conflittualità.
    Ecco perché, dunque, pur prendendo atto che quella dell'"uomo solo al comando" non è la condizione ideale di una corretta democrazia, siamo portati a comprendere la posizione di Mario Draghi che spesso prescinde dalla collaborazione con i partiti e assume iniziative in proprio suscitando l’irritazione dei propri partner.

  • SALVINI, CONTE, MELONI
    E BERLUSCONI: COSI' DA NOI
    IL PARTITO DI PUTIN

    data: 30/04/2022 18:58

    Incredibile a dirsi, ma Vladimir Putin ha un ruolo non irrilevante nella vita politica italiana. Esiste, infatti, nel nostro paese, quello che potremmo definire "il partito di Putin", composto da quanti, pur evitando di manifestare troppo apertamente la loro posizione nel timore della impopolarità che ne deriverebbe, danno il loro sostegno al leader russo e ne sostengono le ragioni nel conflitto ucraino.
    Gli esponenti più in vista di questo "che potremmo definire il partito putiniano" sono, in piena concordanza, il leader della Lega Matteo Salvini e quello dei cinquestelle Giuseppe Conte.
    A questi due, nonostante pubbliche e formali prese di distanza, si aggiungono Silvio Berlusconi e Giorgia Meloni a conferma che la destra e non soltanto in Italia (basta far riferimento alla linea di Marina Le Pen in Francia) guarda con favore all'ex capo del KGB.
    Quali siano le ragioni di questa non sempre dichiarata, ma più che evidente predilezione non è chiaro, anche se queste ragioni possono, in parte, essere ricercate nel fascino che "l'uomo forte" esercita da sempre nei confronti della destra.
    È, tuttavia innegabile che questa predilezione comporta due conseguenze, entrambe negative: la prima è quella di indebolire la posizione dell'Italia in Europa, già non particolarmente brillante e oggetto di diffidenza che non manca di manifestarsi in ogni occasione.
    Già nell'Ue, infatti, si guarda con malcelato sospetto al nostro paese. Soltanto la presenza di Mario Draghi, che in Europa gode di una vasta e più volte ribadita stima, alla guida del governo riesce a dare assicurazioni sulla fedeltà italiana all'alleanza.
    La seconda conseguenza negativa è il "vulnus" che l'atteggiamento dei "putiniani" infligge alla già fragile coalizione di governo che, pur deve sopravvivere almeno per un anno ancora, fino alle elezioni della primavera 2023
    È così ancora una volta confermato, anche in vista della prossima legislatura, la necessità di dar vita ad una alleanza organica in grado sia di restare fermamente ancorata all'Europa, sia di esprimere una posizione unitaria almeno sui principali argomenti sul tappeto.


     

  • E' L'INCAPACITA' DEI PARTITI
    A CREARE VERE ALLEANZE
    CHE GENERA INSTABILITA'

    data: 24/04/2022 13:02

    C'è un male oscuro che caratterizza e condiziona pesantemente la vita politica italiana, ne altera i connotati e costituisce uno dei principali motivi della sua permanente instabilità. Questo male è l’estrema difficoltà di trovare partiti in grado di stringere tra loro durevoli e coerenti alleanze. Si naviga a vista e a far la parte del padrone è, alla resa dei conti, uno sfrenato opportunismo.
    Ciascuno persegue il proprio tornaconto o quello che ritiene essere più conveniente per la sua causa. E ciò determina una duplice conseguenza: da un lato produce uno stato di generale precarietà dei governi e dall'altra impedisce l'elaborazione di un progetto comune.
    Esempio di questa precarietà è la politica del movimento Cinquestelle che, privo com'è di punti di riferimento ideologici e di obiettivi ideali, dopo il successo conseguito nelle elezioni del 2018, è stato praticamente determinante nelle due diverse formule di governo che si sono alternate nel corso della legislatura, prima il centro destra e poi il centrosinistra.
    La loro "rivoluzione copernicana" i discepoli di Beppe Grillo l'hanno realizzata senza battere ciglio. Pur di restare attaccati alle loro poltrone, hanno rivelato di essere disponibili per qualunque voltafaccia. Intendiamoci: la politica vive e si sviluppa anche, e potremmo dire soprattutto, attraverso una vivace polemica tra partiti che pure hanno scelto di allearsi. Basti pensare agli scontri, talvolta clamorosi, tra Democrazia cristiana e Partito socialista (che toccarono il culmine con la contrapposizione tra Ciriaco De Mita e Bettino Craxi) che hanno fatto da contrappunto a tutta la stagione del centrosinistra (quello vero).
    Ma l'alleanza Dc-PSI è stata comunque, per molti anni, l'asse portante della nostra vita politica producendo, in molti così, risultati che non possono essere definiti negativi.
    Non si può dire la stessa cosa per le attuali alleanze che vivono all'insegna della più totale inaffidabilità. Ed è questa, a ben vedere, una delle grandi contraddizioni che caratterizzano la vita pubblica del nostro paese. Perché se è impossibile governare senza accordi tra partiti diversi, è altrettanto vero che questi accordi, quando vengono posti in essere, si rivelano estremamente fragili.
    Per risolvere una così spinosa questione, appelli e richiami al buon senso e all'interesse nazionale sono del tutto inutili. Esisterebbe, in realtà, una soluzione: quella di realizzare una riforma costituzionale in grado di garantire una più sicura governabilità. Ma senza un accordo tra le forze politiche portarla avanti sarebbe impossibile. È ritorniamo al punto di partenza, come in un drammatico "gioco dell'oca".
     

  • UN FRONTE ANTI-DRAGHI PER UNIRE
    IL CENTRODESTRA

    data: 18/04/2022 16:39

    Emerge, nella coalizione di centrodestra la consapevolezza che se nel prossimo anno, i partiti che la compongono (Lega, Fratelli d'Italia e Forza Italia) dovessero presentarsi al giudizio dell'elettorato, divisi e in polemica tra loro, così come sono attualmente, il centro sinistra non avrebbe difficoltà a vincere la partita, in barba ai sondaggi che, sino a qualche tempo fa, davano per scontata la vittoria del centrodestra.
    Di qui la necessità di trovare una motivazione che valga a ristabilire quel clima unitario che è venuto meno a seguito dei contrasti emersi in occasione della riconferma di Sergio Mattarella alla presidenza della Repubblica e, prima ancora, con la costituzione del governo presieduti da Mario Draghi..
    I mediatori sono, per all'opera per ricucire lo strappo e negli ultimi tempi con soddisfazione soprattutto di Giorgia Meloni, sembra con qualche successo. Il motivo unificante sembra, infatti, trovato nell'avversione nei confronti di Mario Draghi e del suo governo.
    Si a chiaro: Salvini, Berlusconi e la Meloni non pensano di provocare una crisi di governo nell'attuale situazione e quindi prima delle prossime elezioni. Ma i tre contano sul fattore tempo che dovrebbe migliorare la situazione internazionale è progressivamente favorire una distensione nei rapporti personali tra la Meloni e Salvini.
    È stato quest'ultimo, secondo l'opinione corrente, a convincere Berlusconi ad aderire al fronte anti Draghi. Finora il leader di Forza Italia aveva sempre mostrato piena fiducia nel presidente del Consiglio, consapevole che, contrastandolo, si sarebbe attirato le critiche dei partner europei che già non lo amano in modo particolare.. Ma Salvini (in politica conta anche questo) è riuscito a far cambiare opinione a Berlusconi attraverso una serie di lusinghe alle quali il Cavaliere non si è mostrato insensibile. Inoltre Berlusconi ha preso decisamente posizione in favore del leader della Lega nel contrasto che oppone questi alla Meloni.
    Per rafforzare la propria strategia anti Draghi, il centrodestra fa assegnamento, tra l'altro, sullo scarso, scarsissimo feeling tra Giuseppe Conte e il capo del governo che dovrebbe creare fratture tra i cinquestelle e il Pd indebolendo, in questo modo la coalizione avversaria.
    Il leder leghista h infatti capito che l’idea di “far fuori” dalla guida del governo l’ex presidente della Banca centrale europea, è motivo di sicuro stimolo er il presidente pentastellato. Anche qesta operazione, peraltro, ha le sue complicazioni poiché tra i cinque stelle (Di Maio in testa) non sono pochi coloro che, rispetto ad un’alleanza con la destra privilegiano il rapporto con il Pd di Enrico Letta.

  • C'E' ALLE PORTE UN TEST
    CARICO DI INCERTEZZE

    data: 02/04/2022 18:30

    C'è un test imminente (dovrebbe svolgersi, a meno di rinvii, il prossimo 12 giugno, insieme con il referendum sulla giustizia) che i partiti sembrano dimenticare o, più precisamente, che appaiono intenzionati a rimuovere forse perché sia quelli di centrodestra, sia quelli di centrosinistra, non sono, probabilmente pronti ad affrontarlo.
    Si tratta di un test che, per almeno due motivi, riveste, soprattutto in questo momento della vita nazionale, una particolare importanza: in primo luogo perché è l’ultimo test prima delle elezioni politiche del 2023 e, quindi, servirà a dare il polso del rapporto di forze tra i partiti; in secondo luogo perché la consultazione coinvolge una serie di importanti capoluoghi: come Parma, Verona, Piacenza, Genova, La Spezia, L'Aquila, Catanzaro, Palermo.
    Da Nord a Sud, questo voto amministrativo fornisce, dunque, l'occasione per un monitoraggio tutt'altro che irrilevante. Si tratterà di un vero e proprio spaccato della condizione nella quale si trovano i partiti e delle loro prospettive in vista della prossima legislatura.
    Alla luce di questa realtà, non ci si può non domandare, allora, quali siano oggi le condizioni nelle quali le forze politiche si preparino di affrontare le prossima competizione. Se osserviamo il panorama politico che ci circonda, non possiamo non notare che i due schieramenti si presentano al voto profondamente divisi al loro interno.

    Per quel che riguarda il centrodestra basta far riferimento a quel che accade in due centri importanti come Palermo e Verona. Nel capoluogo siciliano la coalizione che fa capo a Giorgia Meloni, a Silvio Berlusconi e a Matteo Salvini, per la scelta del nuovo sindaco, è divisa fra tre candidati e accordarsi sul nome di un esponente unitario appare estremamente difficile. A Verona la destra è ugualmente spaccata e, del resto, non c'è città tra quelle in cui si voterà, nella quale non vi siano tensioni e contrasti.
    Non è migliore la situazione nel centrosinistra, apparso recentemente lacerato dal voto sull’aumento delle spese militari per le quali il governo ha addirittura aderito ad un ordine del giorno di Fratelli d’Italia. Crea incertezza soprattutto lo stato di confusione nel quale versano i cinquestelle che, nonostante la rielezione "bulgara" di Giuseppe Conte alla guida del partito, appaiono tutt'altro che uniti anche perché Beppe Grillo sembra aver perso gran parte del carisma che gli consentiva di mantenere compatto il movimento. Quanto al Pd, la fragile personalità di Letta non ne garantisce certo l'unità.

    C’è, insomma, una generale frammentazione che il prossimo test amministrativo sta già mettendo in evidenza. In che misura questa frammentazione potrà incidere sulle alleanze delle elezioni politiche?


     

  • GIORGETTI SILENZIOSO
    PERCHE' SI PREPARA
    A SOSTITUIRE SALVINI?

    data: 27/03/2022 19:30

    Se proviamo ad osservare la parabola discendente di Matteo Salvini, non possiamo fare a meno di pensare a quanto effimeri siano i successi della politica. Sino a non molto tempo fa il leader della Lega era unanimemente considerato un politico vincente, destinato a guidare la coalizione di centrodestra alla quale, in caso di elezioni, i sondaggi attribuivano una larga maggioranza. Tutto questo, purtroppo per Salvini che sembrava viaggiare verso la guida di un governo prossimo venturo, è durato lo spazio di un mattino.
    La prima ad intaccare la sua leadership è stata Giorgia Meloni che, con Fratelli d'Italia, ha sorprendentemente scalato la "hit parade" della politica mettendo in discussione il diritto del leader leghista a guidare la coalizione della quale insieme (ma per quanto tempo ancora?) fanno parte.
    È stato per Salvini, quello infertogli dalla Meloni, con la quale sono anche volate parole grosse, il primo colpo, pesante quanto inatteso.
    Ad aggravare notevolmente la situazione di Salvini sta ora certamente contribuendo l'attacco di Putin all'Ucraina. Sono note da tempo le "simpatie" dell'ex ministro degli Interni per il dittatore russo ed è altrettanto noto il suo euroscetticismo che, in più di una occasione, ha assunto i connotati di un vero e proprio antieuropeismo. Ma adesso, consapevole della impopolarità di entrambe queste posizioni, Salvini sta cercando di imprimere al partito del quale continua ad essere alla guida una nuova rotta che, tuttavia, dentro e fuori la Lega, appare scarsamente credibile.
    Non convince, inoltre, il suo tentativo di fare della Lega un partito "di lotta e di governo" che, nella sostanza, si realizza con il mantenere i piedi in due staffe, uno al governo e uno all'opposizione, finendo con il rivelarsi "a Dio spiacente e a li nemici sui".
    Insomma Salvini sembra aver imboccato la strada del tramonto e non gli è di grande aiuto il tentativo strumentale e in verità piuttosto patetico di lusingare, come quotidianamente fa, Silvio Berlusconi nella speranza di risalire in tal modo la china all'interno della coalizione.
    In questa situazione non stupisce che dai palazzi della politica filtri la voce secondo la quale, sotterraneamente, ci sarebbero diversi leghisti impegnati a fare il possibile per portare alla guida del partito Giancarlo Giorgetti. E, in tale contesto, non stupisce il fatto che Giorgetti, intervenuto più volte in passato per esprimere il proprio dissenso, abbia ora scelto il silenzio.

     

     

  • DICIAMOLO, 30 ANNI DOPO:
    "MANI PULITE" NON E' STATA
    UTILE AL PAESE

    data: 20/03/2022 15:31

    Non senza enfasi è stato nei giorni scorsi celebrato il trentesimo anniversario della nascita di "Mani pulite". Trent'anni sono un tempo lungo, lunghissimo e forse possono consentire un primo, non convenzionale bilancio di quell'evento, scevro da ogni retorica. Per farlo riteniamo che sia opportuno partire dalle parole di colui che di "Mani pulite" può essere considerato il padre, vale a dire il magistrato Francesco Saverio Borrelli, che fu alla guida del “pool", venuto a mancare poco meno di due anni or sono.
    Intervenendo alla presentazione di un libro, Borrelli, ripensando all’operato della squadra della quale era a capo, disse: "Non valeva la pena buttare all'aria il mondo precedente per avere, poi, quello attuale". È proprio a queste parole, pronunciate da chi più di ogni altro era in grado di valutarne la portata, considerato il suo ruolo nella lotta alla corruzione politica, che crediamo di poterci richiamare per dire, senza remore, finalmente, dopo trent'anni, che l'operazione "Mani pulite", contrariamente a quello che la maggioranza degli italiani ha creduto e crede e in contrasto con una certa retorica largamente diffusa, non è stata un bene per il nostro paese. E, per rendersene conto, è opportuno valutare gli effetti che sono stati prodotti.
    Sia chiaro: che i partiti, divenuti onnivori protagonisti della politica e non solo, andassero in qualche misura ricondotti ad una diversa condizione è fuori discussione. Ed è fuori discussione che la corruzione avesse raggiunto livelli di assoluta intollerabilità ai quali andava posto rimedio. Sarebbe assurdo e sciocco negarlo.
    Ma, al di là di ogni ipocrisia, dopo trent'anni, è probabilmente arrivata l'ora di dire, senza nascondersi dietro i luoghi comuni, che, proprio come in un momento di particolare tensione ebbe a dire Francesco Saverio Borrelli, l'operato dei magistrati milanesi non ha giovato al paese, soprattutto per il modo in cui si è svolto, decapitando in un solo colpo un'intera classe politica e tutti i partiti tradizionali..
    Bisogna riconoscere, infatti, che il paese non era preparato al trauma che ha dovuto subire cosicché ai partiti e ai leader che lo governavano, sono subentrati - diciamolo in tutta franchezza - partiti e leader di un livello così scadente che più scadente non si può. Il rinnovamento della classe politica è così divenuto uno dei problemi centrali da affrontare. Ma non è cosa facile perché è poco probabile che coloro che dovrebbero porre mano a questo rinnovamento riconoscano le loro insufficienze.

     

     

  • MA SENZA L'APPORTO
    DEGLI INTELLETTUALI
    LA POLITICA VA IN TILT

    data: 12/03/2022 19:49

    Il mondo dei media ha dedicato ampio rilievo, nei giorni scorsi, al centesimo anniversario della nascita di Pier Paolo Pasolini. C'è una spiegazione per il risalto con cui questo evento è stato ricordato. Ed è che mai, come nel momento attuale, emerge la mancanza di quegli intellettuali che, per lungo tempo, sono stati gli ispiratori della nostra vita politica e dei quali si auspica il ritorno, quanto prima possibile, sulla scena.
    Pensiamo, oltre che a Pasolini, a personaggi come Leonardo Sciascia, Umberto Eco, Norberto Bobbio, Italo Calvino e - perché no? - di giornalisti che sono stati degli autentici maîtres à penser, come Indro Montanelli, Eugenio Scalfari, Oriana Fallaci, tanto per citarne alcuni, e senza parlare di Benedetto Croce che, sia detto per inciso, sostenne che senza il supporto del mondo della cultura la politica entra in crisi..
    La realtà è, invece, che politica e cultura sembrano ora guardarsi in cagnesco o, meglio, che la prima, per una sorta di complesso d'inferiorità nei confronti della seconda, voglia prescindere completamente dalla cultura e che quest'ultima, specialmente a seguito di quanto è accaduto con Tangentopoli, voglia evitare di "sporcarsi le mani" avendo a che fare con un mondo che considera totalmente screditato..
    A determinare questo "distacco" contribuisce anche, certamente, il tramonto delle ideologie che ha "intaccato" il prestigio dei partiti trasformati in organismi caratterizzati da un pragmatismo che quasi sempre sfocia nell'opportunismo che non li nobilita.
    Intendiamoci: quelli che hanno ispirato, in passato, la politica, non erano degli intellettuali compiacenti, pronti ad assecondare il potere politico e a mettersi al suo servizio. Tutt'altro.
    Merita di sottolineare, al riguardo. proprio l'esempio di Pier Paolo Pasolini che abbiamo citato all'inizio; un esempio che non esiteremmo a definire illuminante. Se vi fu, infatti, un intellettuale contestatore del potere, anche quando fu espresso in termini molto duri (il che accadeva spesso) che contribuì, comunque, a stimolare la politica, a indurla a riflettere e anche in più di una occasione, a correggere i propri errori, questo intellettuale fu proprio lui (e solo ora, con molto ritardo gli viene riconosciuto).
    Senza le sollecitazioni degli intellettuali (oltre che delle ideologie che costituivano il loro riferimento) e senza il loro ausilio, i partiti si sono progressivamente immiseriti. È dunque da auspicare un'inversione di tendenza che, tuttavia, appare sempre più difficile anche - diciamolo francamente - per la qualità non particolarmente brillante delle classi dirigenti.

     

  • MA TRA SALVINI E MELONI
    NON BASTA UN ARMISTIZIO

    data: 05/03/2022 17:43

    La drammatica vicenda ucraina sembra aver contribuito, almeno in parte, a ricucire i rapporti nel centrodestra che i contrasti verificatisi nella coalizione tra Lega e Fratelli d’Italia, in occasione della conferma di Sergio Mattarella alla presidenza della Repubblica, avevano portato ai limiti di una rottura apparsa pressoché irreversibile.
    Ad allentare la tensione ha notevolmente contribuito la consapevolezza, acquisita in particolare da Matteo Salvini, che soprattutto in politica estera, quando la situazione diventa drammatica divisioni e distinguo non sono più possibili e che, quindi, le sue simpatie per il leader russo Putin devono essere accantonate per lasciare il posto ad una politica comune con gli altri partner sia a livello europeo che nazionale... Del resto la stessa Giorgia Meloni, che pure è una tenace oppositrice del governo di Mario Draghi, appare condividere, nelle attuali circostanze, la linea governativa.
    Le tensioni tra la Lega e Fratelli d'Italia vanno così stemperandosi e ciò può, a giudizio di alcuni, costituire la premessa quantomeno per una ripresa del dialogo che, nel centrodestra, sembrava essersi bruscamente interrotto.
    Certo, ricostruire l'unità della coalizione è impresa tutt'altro che facile e si fa strada il legittimo dubbio che le recenti vicende, comunque, abbiano dimostrato che in realtà la destra nel nostro paese non esiste più, almeno nella forma in cui si è tradizionalmente espressa.
    Pensiamo, per fare un esempio alla destra del partito liberale di Giovanni Malagodi (ché di destra, in realtà, si trattò anche se il leader del Pli teneva a dichiararsi di centro). I giovani, probabilmente, non sanno neppure chi sia Malagodi, ma per una destra correttamente questo leader deve essere considerato un punto di riferimenti.
    Quella che va emergendo, infatti, nulla ha a che vedere con la destra tradizionale, non ha gli stessi valorI ma, alternando fasi di bonaccia e fasi di polemica anche violenta, vive all'insegna di un pragmatismo che, proprio perché non ha principi ai quali richiamarsi, inevitabilmente determina situazioni di conflittualità tra le sue componenti.
    Sorgono, da questo stato di cose due interrogativi: con quale volto, tra un anno, questo centrodestra si presenterà, tra un anno, al giudizio degli elettori? La vicenda ucraina ha realmente ripristinato l'unità della coalizione?
    Il nostro futuro dipende in gran parte dalla risposta a questi interrogativi anche perché l'apparente ricomposizione del dissidio tra Salvini e la Meloni non può avvenire con un armistizio al quale, secondo una regola che vale per tutti gli armistizi, spesso non segue la pace, ma un conflitto più aspro.

  • MA PER UNA VERA ALLEANZA
    CARO CALENDA, SERVE
    UN PROGETTO COMUNE

    data: 26/02/2022 16:51

    Carlo Calenda guida un piccolo partito - "Azione" - che, per la scarsa consistenza dei consensi che i sondaggi gli accreditano, non è tenuto in particolare considerazione dalle forze maggiori. Eppure proprio da Calenda e dal suo "minipartito" che, recentemente ha tenuto il primo congresso della sua breve storia, è venuta l'unica concreta proposta di scomposizione dell'attuale quadro politico con l'invito al Pd di farsi promotore di una nuova alleanza dalla quale dovrebbero essere esclusi soltanto due forze politiche: i cinquestelle e Fratelli d'Italia.
    Vale la pena tornare sull’argomento anche se, intendiamoci, le esclusioni pregiudiziali non ci sono mai piaciute e la demonizzazione di coloro che non la pensano come noi non è il modo migliore di far politica.
    Ma al di là di questo, pur riconoscendo a Calenda il non trascurabile merito di aver gettato un sasso in grado di smuovere in qualche misura le acque stagnanti dell'attuale vita politica, non possiamo non chiederci se quella illustrata al congresso di "Azione" sia da considerarsi una proposta realistica o sia soltanto utopistica.
    Il dubbio, al riguardo, è legittimo per un duplice ordine di motivi.
    Il primo è che un'alleanza, a meno che non nasca da una situazione di particolare emergenza come quella dalla quale è nato, ad esempio, il governo Draghi, per essere realmente tale deve essere espressione di una omogeneità o quantomeno di una compatibilità tra coloro che ne fanno parte.
    Entriamo nel concreto: un'alleanza come quella proposta da Calenda, non potrebbe prescindere da Matteo Salvini. E il leader della Lega sarebbe un alleato affidabile? Se guardiamo a come i leghisti si stanno comportando proprio in questi giorni in Parlamento nei confronti di Mario Draghi, facciamo qualche fatica a considerare la Lega un alleato affidabile.
    Salvini, in realtà, sembra voler scimmiottare la formula cara a Enrico Berlinguer del "partito di lotta e di governo", ma a prescindere dal fatto che essere "partito di lotta e di governo" è in sé una contraddizione, ci sembra del tutto assurda qualsiasi equiparazione tra Salvini e Berlinguer.
    Il secondo elemento che rende fragile la proposta di Calenda, rivelandola pressoché impraticabile, è che essa sembra fondarsi esclusivamente su equilibri di potere, su una somma di numeri che potrebbero rivelarsi un’accozzaglia, priva, com'è, di un progetto comune che del resto risulterebbe ben difficile da individuare in una coalizione composta da alleati che, come abbiamo visto, sono tutt'altro che omogenei.
    Una solida alleanza per il governo che dovrà nascere nella prossima legislatura è, dunque, certamente auspicabile, anzi è assolutamente indispensabile, quale che sia il risultato del voto, ma non ci sembra che, per realizzarla, il metodo proposto da Calenda sia quello più idoneo.
     

  • MUTA IL QUADRO POLITICO
    IL DECLINO GRILLINO

    data: 19/02/2022 19:41

    La crisi del Movimento Cinquestelle è certamente uno dei "casi" che incidono più pesantemente sulla vicenda politica del nostro paese. Quello che quattro anni fa, dopo un clamoroso successo elettorale, veniva considerata una sorta di “invincibile armata”, è in rotta e si può dire che ad ogni sondaggio i seguaci di Beppe Grillo facciano registrare un calo anche vistoso. In queste condizioni i pentastellati appaiono sempre più come un esercito alla deriva, travolti da dissidi interni e da ogni genere di traversie.
    In realtà non c'è da stupirsene più di tanto poiché quella dei cinquestelle fa tornare alla memoria l'inevitabile sorte dei movimenti qualunquisti, quella dell’Uomo qualunque, fondato da Guglielmo Giannini nel 1946 e dissolto nel 1949 e quella del Movimento poujadista, fondato da Piere Poujade, in Francia, nel 1956 e sparito dalla scena nel 1958. Entrambi, sia il movimento italiano di Giannini, sia quello frances di Poujade, hanno seguito la stessa parabola: una fiammata iniziale e poi la caduta verticale dalla quale non si sono più ripressi.
    È inevitabile chiedersi, allora, quali conseguenze determinerà l'annunciato ridimensionamento dei cinquestelle. Nell'attuale legislatura, infatti, i pentastellati, sulla base dei risultati elettorali del 2018, hanno occupato un ruolo centrale, tanto da far parte delle coalizioni che si sono succedute al governo del paese.. Stando alle previsioni le elezioni del prossimo anno dovrebbero portare il loro partito (in realtà, nonostante continuino a proclamarsi "Movimento" sono un vero e proprio partito, con tutto ciò che questo comporta) dal primo al quarto posto, sorpassato da Fratelli d'Italia, Lega e Pd in quale ordine non è, al momento ancora dato sapere.
    Come non chiedersi, allora, in qual modo questo mutamento dei rapporti di forza tra i partiti, potrà modificare il quadro politico complessivo?
    Enrico Letta, ad esempio, sembra aver basato la sua strategia su una stretta alleanza con il partito di Giuseppe Conte e Luigi Di Maio (non è ancora ben chiaro, peraltro, chi dei due ne sarà il leader). Né è pensabile che tutti gli elettori che abbandoneranno i cinquestelle si trasferiranno nel Pd, come forse spererebbe il segretario democratico..
    Se queste previsioni, come è probabile, dovessero essere confermate dall'esito del voto, la maggioranza dovrebbe andare alla coalizione di centrodestra. Ma dopo i forti contrasti che si sono verificati durante l'elezione del presidente della Repubblica, il centrodestra attraversa una pesantissima crisi ed è tutto da ricostruire. Non sarà facile, come ha esplicitamente ammesso la stessa Giorgia Meloni in polemica sempre più aspra on la Lega.
    Alla luce di queste considerazioni, dunque, non è difficile prevedere che anche dopo il voto del prossimo anno la politica italiana continuerà a vivere nello stato confusionale che oggi la caratterizza.
     

  • SISTEMA "PROPORZIONALE"
    O "MAGGIORITARIO"?
    TORNA L'ANTICO DILEMMA

    data: 13/02/2022 17:47

    Confermato Sergio Mattarella alla presidenza della Repubblica, i partiti (o quel che resta di loro) sono attesi ad un appuntamento di primaria importanza: la riforma della legge elettorale, resa indispensabile dalla riduzione del numero dei parlamentari e dalla scadenza della legislatura tra un anno o poco più. Le due coalizioni (centrodestra e centrosinistra) vi giungono tutt'altro che preparate, logorate, lacerate e divise tra loro e al loro interno.
    Ė un interrogativo, non nuovo, ma sempre attuale, domina su tutti: è preferibile orientarsi verso un sistema proporzionale o maggioritario? Il mondo politico ne ha discusso a lungo, sin dai tempi della Costituente, senza ovviamente giungere ad una risposta defiitiva.
    Sostengono i fautori del maggioritario che esso garantisce una più ampia governabilità impedendo quella instabilità dell'esecutivo che da sempre affligge la vita politica nel nostro paese; affermano i sostenitori del proporzionale che il loro sistema consente una maggiore rappresentatività e evita il rischio di "ammucchiate" che, alla resa dei conti, finiscono con il rivelarsi paralizzanti poiché una reale unità di intenti non potrà mai essere raggiunte tra forze tenute insieme soltanto da motivi di opportunità.
    Ci sono stati, nel corso degli anni, a più riprese, tentativi di fondere i due sistemi (ad esempio con il proporzionale corretto da un premio di maggioranza o con lo stabilire una soglia minima di consensi per poter essere rappresentati in Parlamento) ma non hanno dato risultati particolarmente brillanti.
    Resta, dunque, l'interrogativo di fondo su quale dei due sistemi sia da preferire. Anche qui i partiti appaiono profondamente divisi al punto che c’è chi dice che raggiungere un accordo sul sistema da adottare è praticamente impossibile e che, alla fine, tutto dovrà restare così com’è.
    Sembrano favorevoli allo status quo sia la Lega sia Fratelli d'Italia, mentre Forza Italia e il Pd appaiono ancora incerti e i rispettivi leader si trovano a dover mediare tra opinioni contrapposte anche se Enrico Letta, volendo legare sempre più al suo partito pentastellati e moderati (che dovrebbero con il Pd costituire una sorta di nuovo Ulivo) sembrerebbe propendere per il maggioritario; sono invece favorevoli al proporzionale molti dei cinquestelle e, naturalmente, i partiti minori che rischierebbero di essere esclusi dal futuro Parlamentare se non riuscissero ad “accasarsi” in una formazione maggiore.
    Non è difficile prevedere, insomma, che nelle settimane a venire il tema della riforma elettorale sia destinato a divenire il principale oggetto delle attenzione dei partiti e che, proprio su questo tema si possano delineare nuove alleanze o rafforzare quelle attualmente esistenti..


     

  • COSI' MATTARELLA
    HA RIPORTATO LA POLITICA
    IN PARLAMENTO

    data: 06/02/2022 18:44

    Qualcuno ha inquadrato il discorso pronunciato giovedì scorso da Sergio Mattarella di fronte al Parlamento in seduta congiunta nel consueto rituale dei discorsi di insediamento pronunciati dopo l’elezione, dai presidenti della Repubblica in occasione del loro giuramento; discorsi pieni di belle parole, ma privi di autentici contenuti. Non è stato così. Perché l'intervento del capo dello Stato - ed è stato questo il suo profondo e più significativo elemento - può essere considerato in qualche misura rivoluzionario (non appaia questo aggettivo fuori luogo ed eccessivamente enfatico) poiché ha segnato il ritorno alla Politica, con la "P" maiuscola, in una assemblea che, negli ultimi tempi (le cause sono più d’una, ma non staremo qui ad indicarle), sembra averla dimenticata.
    Tutte le esortazioni rivolte da Mattarella ai suoi interlocutori sono apparse ispirate ad un suggerimento di fondo: occorre cambiare ritmo, saper "volare alto", riconoscersi in un progetto di ampio respiro e non perdersi, come purtroppo quotidianamente accade, in dispute occasionali e mediocri che hanno allontanato l’opinione pubblica dal mondo politico come ampiamente dimostra la crescita esponenziale dell’assenteismo in ogni elezione.
    Insomma, tra elettori ed eletti sembra davvero che il circuito si sia interrotto tant’è che la gente guarda con profondo disprezzo alla politica considerandola – ed è assurdo – come qualcosa di corrotto da cui tenersi quanto più possibile alla larga.
    Non è per caso, allora, che Mattarella non abbia fatto alcun cenno alle polemiche che hanno preceduto, accompagnato e seguito la sua elezione, ma abbia indicato con forza, vorremmo dire con passione, una strada da seguire facendo espresso riferimento a una serie di valori dai quali il mondo politico sembra essersi allontanato.
    Emerge, rileggendo a freddo l'intervento del Presidente, una duplice indicazione. Da un lato egli è sembrato rivolgere al Parlamento il rimprovero di aver tralasciato o quantomeno dimenticato questi valori, primo fra tutti quello della dignità in ogni sua forma sulla quale il suo discorso è stato in gran parte incentrato (dicono gli amanti delle statistiche che l'ha pronunciata per ben sedici volte); dall'altro ha affermato con piena convinzione la centralità del Parlamento quale elemento essenziale di ogni democrazia degna di questo nome.
    Le parole di Mattarella (ecco di nuovo gli innamorati della statistica) sono state interrotte per cinquantacinque volte dagli applausi di deputati e senatori, un'autentica standing ovation. È il segno della convinta adesione alle parole di Mattarella da parte di coloro ai quali quelle parole erano rivolte? O, come il nostro congenito pessimismo ci induce a sospettare, gli applausi facevano parte - queste sì - di un vano rituale, destinato a restare senza seguito?

  • RINGRAZIAMO MATTARELLA
    MA IL SISTEMA E' IN ROTTA

    data: 31/01/2022 15:39

    Bisogna dire grazie a Sergio Mattarella per non essersi sottratto, con forte sacrificio personale all'invito (sia pur tardivo) delle forze politiche a restare al suo posto evitando, in tal modo, che il paese precipitasse verso il caos al quale lo stava condannando una classe politica che per l’occasione si è rivelata quanto mai insipiente e irresponsabile.
    Il rinnovo del mandato di Mattarella, certamente positivo, non risolve tuttavia i numerosi e gravi problemi sul tappeto, primo fra tutti quello di decidere se, con il nuovo settennato, le Camere dovrebbero essere sciolte e si dovrebbe andare ad elezioni anticipate.
    Del resto crediamo di poter dire che il contrasto tra fautori di nuove elezioni e quanti avversano questa ipotesi ha contribuito a rendere le elezioni presidenziali appena concluse più difficili e confuse di quanto sia mai accaduto nella storia della nostra Repubblica
    Ed è da ritenere che le riserve sul nome di Mario Draghi sono state, almeno in parte, determinate dall'incertezza su quel che sarebbe potuto accadere qualora l'ex presidente della Banca centrale europea si fosse dovuto trasferire da Palazzo Chigi al Quirinale.
    Ma, al di là di questi problemi, certamente importanti, ma che potremmo comunque definire "contingenti", la sconcertante settimana vissuta a Montecitorio ha posto l'accento su una questione di fondo che non può essere ulteriormente elusa.
    Quanto è accaduto, infatti, ha inequivocabilmente dimostrato che l'attuale sistema politico non tiene più.
    Intendiamoci: siamo personalmente convinti che il sistema parlamentare sia, in linea teorica, il migliore. Ma deve avere "a monte" per poter funzionare correttamente e dispiegare tutte le sue rilevanti potenzialità, una classe politica degna di questo nome, competente, efficiente e responsabile del proprio ruolo e dei propri doveri.
    Purtroppo, diciamolo senza infingimenti - gli avvenimenti recenti lo hanno evidenziato in modo inconfutabile - questa classe politica non c'è o, almeno, non c'è più non avendo ereditato nulla da quella cosiddetta Prima Repubblica che, pur con tutti i suoi difetti, era di un livello politico e intellettuale di prim'ordine e nettamente superiore all'attuale.
    Al nostro paese rimangono due politici di prim’ordine: Sergio Mattarella e Mario Draghi. Tutto il resto è poca cosa.
    E, allora, nella situazione data, non può essere considerata una bestemmia nei confronti della democrazia (forse la Francia non è un paese democratico?) pensare di adottare un sistema presidenziale in luogo di quello parlamentare che, privo di uomini in grado di gestirlo con la dovuta efficienza, rischia di avere effetti paralizzanti.

     

  • MA IL NUOVO PRESIDENTE
    DEVE INDIRE
    ELEZIONI ANTICIPATE?

    data: 22/01/2022 15:31

    Individuare il nome della personalità più idonea per succedere a Sergio Mattarella non basta. A complicare le cose, per molti versi e oseremmo dire soprattutto, è la necessità di stabilire quel che dovrà accadere dopo l'elezione del nuovo inquilino del Quirinale.
    Si tratta di una questione estremamente complessa.
    In primo luogo perché le forze politiche si dividono tra quelle secondo le quali con l'avvento del nuovo presidente della Repubblica si renderebbe necessario il ricorso allo scioglimento delle Camere e, conseguentemente, a elezioni anticipate e quelle a parere delle quali, per contro, la legislatura deve continuare sino alla sua scadenza naturale.
    Probabilmente è il contrasto tra queste due ipotesi a complicare l'intesa per la designazione del nuovo capo dello Stato. Ed è per questo che la scelta di Mario Draghi, qualche settimana considerata scontata, ha subito una battuta d'arresto nonostante i sondaggi indichino in lui la personalità che l'opinione pubblica vedrebbe con maggior favore al posto di Mattarella.
    In discussione dunque, non è soltanto il nome del prossimo presidente della Repubblica, ma anche il dopo voto che comporta - come abbiamo sottolineato - la decisione sullo scioglimento o meno delle Camere da parte del capo dello Stato eletto, ma anche – e si tratta di una questione spinosissima - il varo di una nuova legge elettorale, resa indispensabile dalla riduzione del numero dei parlamentari.
    Non solo, ma si dovrà anche provvedere alla gestione della lotta alla pandemia e all’utilizzazione dei fondi messi a disposizione dall’Unione europea. Tutte questioni sulle quali esistono forti divaricazioni tra le forze politiche.
    Senza contare che, qualora Draghi dovesse trasferirsi da Palazzo Chigi al Quirinale, si dovrebbe trovare un’intesa sul nome di colui che dovrebbe succedergli alla presidenza del Consiglio.
    In questa situazione elezioni politiche anticipate, anche, tra l’altro, per una questione di tempo che appare estremamente ristretto, suscitano più di una perplessità..
    I problemi sul tappeto, come si vede, non sono pochi e siamo ormai all’immediata vigilia del voto per la presidenza della Repubblica; il che induce a pensare che i problemi connessi a questa elezione, non avendo finora trovato una soluzione, ben difficilmente potranno trovarla in tempi brevi.
    Avventurarsi in pronostici su quel che potrà accadere appare sconsigliabile. Ma è lecito nutrire più di una preoccupazione al riguardo. E tra queste non è esclusa anche considerata - diciamolo senza infingimenti - quella che alla fine, pur di giungere ad una soluzione, si giunga ad eleggere un candidato di basso profilo, cioè “innocuo", che possa essere accettato, sia pure senza alcun entusiasmo, da tutte le forze politiche.
    Non è a caso, forse, che negli ultimi giorni è andato assumendo una certa consistenza la candidatura di Pierferdinando Casini che, pur essendo un “politico di professione” (non gli si riconosce alcuna altra attività) non è rapportabile ad nessuno dei due schieramenti in campo.

  • QUELL'ASSURDA DISPUTA
    TRA LEGA CALCIO E ASL

    data: 15/01/2022 18:53

    Forse è opportuno distogliere per un momento l'attenzione dalla sempre più ingarbugliata vicenda dell'ormai imminente elezione del capo dello Stato per concentrarsi su un'altra vicenda della quale pure, in questi giorni, si parla con insistenza. Ci riferiamo alla disputa in atto tra la Lega calcio e le ASL alla quale si guarda con una certa superficialità probabilmente perché concerne un gioco, quello del football, che spesso viene scioccamente rinchiuso in una dimensione esclusivamente ludica.
    Per comprendere il significato del "conflitto" è bene ricordare l'articolo 25 della nostra carta costituzionale che testualmente recita: "Nessuno può essere distolto dal giudice naturale precostituito per legge".
    Per collegare la norma della Costituzione alla polemica Lega calcio-ASL è utile esaminare la natura dei due enti e rispondere a un duplice interrogativo: che cos'è la Lega calcio? Che cosa sono le ASL?
    La Lega calcio è, per definizione, un organismo associativo non riconosciuto, di cui fanno parte, in forma privatistica, le federazioni affiliate alla Federazione italiana giuoco calcio (FIGC) .
    Per contro le ASL sono aziende con personalità giuridica pubblica e autonomia imprenditoriale che ha attribuito loro la natura di ente pubblico economico.
    Ora questi due organismi - Lega calcio e ASL - si scontrano perché le ASL vietano alle squadre con giocatori che hanno il Covid di scendere in campo mentre la Lega calcio impone loro di farlo prevedendo sanzioni pesanti per chi non si attiene alle sue disposizioni.
    È lecito chiedersi a chi le società calcistiche debbano dare ascolto. Francamente non ci sembra ci siano dubbi.
    Citiamo questo caso per le sue implicazioni. È emblematico, infatti, di una caratteristica tipica del nostro paese: quella per cui ogni categoria ritiene di essere autorizzata a disporre proprie norme, imponendo ai propri associati di attenervisi.
    Si ignora, cioè, l'esistenza di norme - come quelle costituzionali (che,tra l’altro, sono scritte in un italiano impeccabile che gli attuali legislatori hanno completamente dimenticato) - alle quali tutti devono attenersi e dalle quali non è dato prescindere.
    Disattendere questo principio genera confusione e disordine ed è una delle ragioni del caos dal quale siamo circondati.
    Ecco, allora, una riforma che non costa nulla e che sarebbe rivoluzionaria: far sì che a tutti sia imposto di mantenere il proprio ruolo, di non "allargarsi troppo", di stare al posto che gli compete.
    Sembra facile...

  • LUNGO BRACCIO DI FERRO
    O SUBITO UN PRESIDENTE
    CHE VADA BENE A TUTTI?

    data: 08/01/2022 13:43

    È noto che, da sempre, l'elezione del capo dello Stato è caratterizzata dal fenomeno dei "franchi tiratori". Sono stati spesso questi ribelli alle indicazioni dei rispettivi partiti a determinare successi e insuccessi dei vari candidati. Forse dovremo aver nostalgia anche di loro come di molte altre cose della tanto vituperata Prima Repubblica.
    Questa volta, infatti, l'elezione del futuro inquilino del Quirinale, ormai alle porte, potrebbe essere contraddistinta da un nuovo evento: i parlamentari-elettori si presenteranno con ogni probabilità al voto non nascondendo, in partenza, il punto di vista ufficiale delle forze politiche alle quali appartengono. Via libera, dunque, alla “campagna acquisti” degli elettori.
    Così già si sa che nel Pd non saranno pochissimi a dare ascolto alle disposizioni del segretario Letta. Il caso del Pd potrebbe essere il più eclatante poiché inevitabilmente si è indotti a ricordare il monolitismo del PCI da cui, in qualche misura, il partito di Letta deriva, ove non si muoveva foglia che il partito non volesse. Ancor più espliciti sono i dissensi tra i cinquestelle. Giuseppe Conte, infatti, sembra destinato a predicare al vento e sono in molti, nel suo movimento, che si presenteranno alle urne decidendo di testa loro a chi accordare la preferenza.
    La situazione, peraltro, non è più tranquilla nel centrodestra.
    Sullo sfondo c'è sempre la rivalità tra la Lega e Fratelli d'Italia che si contendono la leadership della coalizione. Ma chiaramente la vita del centrodestra è fortemente condizionata dalla determinazione con la quale Silvio Berlusconi persegue la propria ambizione di salire al Colle.
    È noto che in parecchi, nella Lega e in Fratelli d'Italia (ma qualcuno c'è anche in Forza Italia) non condividono la scelta del Cavaliere e si dissocierebbero dalla maggioranza dei propri partiti se la loro indicazione dovesse essere per Berlusconi.
    Ma la reazione di quest'ultimo, di fronte ad una simile ipotesi, è stata duplice e risoluta: da un lato si è impegnato - pratica, in verità, piuttosto mortificante - a studiare un metodo per controllare il voto dei grandi elettori del centro destra: dall'altro ha avvertito i propri partner che se i voti del centrodestra dovessero mancargli egli non esiterebbe ad abbandonare la coalizione.
    Tutto può ancora accadere e non è ancora da escludere che, alla fine, si possa giungere a una soluzione condivisa. Ma, allo stato, le prospettive appaiono tutt'altro che rassicuranti.
    Perciò, proprio. a causa delle divisioni all'interno dei partiti, si profilano due ipotesi, entrambe negative: o dovremo assistere a un estenuante braccio di ferro di incalcolabile durata, o ci si dovrà adattare a una soluzione di basso profilo che possa accontentare tutti e nessuno.

  • DISCORSO DI MATTARELLA
    SERIO E INECCEPIBILE
    MA MANCAVA DI DUE COSE

    data: 02/01/2022 17:00

    Com'era prevedibile l'attenzione del mondo politico si è incentrata sul discorso di fine mandato di Sergio Mattarella e - incredibile a dirsi - la stragrande maggioranza di partiti e leader si è trovata d'accordo nel riconoscersi nelle parole del capo dello Stato. È questo un fatto certamente positivo, ma se ci è consentito fare stecca nel coro, vorremmo lasciarci andare ad una notazione critica.
    Intendiamoci. L'intervento del presidente è stato, nel merito, anche questa volta ineccepibile e pregevole, ma abbiamo avuto l'impressione che esso potesse riferirsi ad un paese per così dire "normale" e che il giudizio sulla situazione nella quale l'Italia si trova - senza, ovviamente, perdere di vista il dramma della pandemia - sia sostanzialmente positivo.
    Dal discorso di Mattarella emerge, infatti, un paese nel quale ognuno è impegnato a svolgere efficacemente il proprio ruolo, la politica adempie ai propri compiti e le istituzioni, come si conviene, sono ordinate, efficienti e adeguate alle esigenze dei cittadini.
    Non vorremmo recitare la parte di coloro che vedono, ad ogni costo, tutto nero e fare nostro il motto bartaliano secondo cui “è tutto sbagliato, tutto da rifare”, ma ci sembra, francamente, che le cose non stiano esattamente così perché l'Italia tutto è fuorché un paese "normale" e piuttosto utopistico ci sembra sostenere che ciascuno svolge correttamente il proprio ruolo.
    Dovendo tracciare un bilancio del settennato di Mattarella non si possono non esprimere parole di totale apprezzamento. Grazie a lui il Quirinale ha rappresentato un punto di riferimento costante e ineludibile, un argine al deprimente declino di una classe politica che, soltanto compiendo uno sforzo di generosità, si può definire mediocre. Mattarella ne ha colmato spesso le lacune e ha bloccato la deriva verso la quale il paese rischiava di essere inevitabilmente avviato.
    Forse sbagliamo, ma proprio per questo ci saremmo aspettati che dal discorso con il quale ha concluso il proprio mandato, fossero scaturite due cose che sono, invece, mancate: la prima è la non radicale esclusione di un ripensamento sulla sua, sia pur temporanea, uscita di scena volta ad evitare che la prossima elezione presidenziale si trasformi in un improponibile rodeo tra le forze politiche. Il senso dello Stato del quale Mattarella ha dato prove tanto ripetute, avrebbe potuto indurlo a lasciare uno spiraglio alla sua riconferma in caso di grave deterioramento della situazione.
    Il secondo rilievo è che ci aspettavamo un invito deciso al Parlamento affinché ponga finalmente è coraggiosamente mano ad un vasto progetto riformatore che coinvolga anche le istituzioni e senza il quale l'Italia rischia di sprofondare nelle sabbie mobili, impossibilitata a liberarsene.
    Le due cose che speravamo di sentire, purtroppo, non ci sono state.
     

  • ECCO DUNQUE I 6 SCALATORI
    CHE PUNTANO AL COLLE

    data: 27/12/2021 15:48

    Pandemia permettendo, l'elezione del nuovo presidente della Repubblica in programma per il prossimo febbraio appare destinata a concentrare l'attenzione dei partiti nelle settimane a venire.
    Pur essendo estremamente difficile, al momento, prevedere chi sarà il futuro inquilino del Quirinale e non dimenticando l'antico detto secondo cui "chi entra Papà in conclave ne esce cardinale", ci sembra di poter individuare sei candidati che al momento sembrano godere delle maggiori chances:
    MARIO DRAGHI. L'attuale presidente del Consiglio sarebbe il candidato naturale per la successione a Sergio Mattarella e potrebbe ottenere il consenso di entrambi gli schieramenti. Nella conferenza stampa di fine anno, peraltro, ha fatto capire la sua disponibilità all’incarico. Per la sua designazione esiste, tuttavia, un ostacolo: se Draghi lasciasse Palazzo Chigi per il Quirinale, si interromperebbe un lavoro che sta ottenendo risultati assolutamente positivi. A questa controindicazione si collega il "no" della Lega alla sua candidatura.
    SILVIO BERLUSCONI. Il leader di Forza Italia è da tempo impegnato in una operazione personale per ottenere l’incarico. Formalmente il centrodestra è impegnato a sostenerlo, ma sul suo nome non sarebbe possibile la convergenza di Pd e Cinquestelle. Inoltre è probabile che la sua candidatura provocherebbe il riapparire del fenomeno dei franchi tiratori poiché non pochi nello stesso centrodestra non condividono l’ipotesi di una sua ascesa al Colle.
    PIERFERDINANDO CASINI. L'ex presidente della Camera potrebbe forse ottenere una maggioranza trasversale. Ma nel centrosinistra esistono forti perplessità sul suo nome e la sua candidatura viene, comunque, considerata di basso profilo. La sua elezione, della quale il principale sostenitore sembra essere Matteo Renzi, potrebbe avvenire in extremis, dopo una lunga serie di votazioni a vuoto.
    GIULIANO AMATO. Più volte, anche in passato, è stato fatto il suo nome per il Quirinale. È certamente preparato sul piano giuridico ed economico e sarebbe sostenuto da Berlusconi se non riuscisse ad imporre la sua candidatura. Ma Amato manca di appeal ed è contestato, a destra e a sinistra, anche per il comportamento che tenne a suo tempo nei confronti di Bettino Craxi, che abbandonò quando questi si trovò in difficoltà.
    MARTA CARTABIA. L'ex presidente della Corte costituzionale e attuale ministro della Giustizia, non avendo una spiccata connotazione politica, potrebbe essere la prima donna a salire al Colle. Sul suo nome, gradito in particolare dal centrosinistra esiste, peraltro, una certa diffidenza della destra. La favorisce, peraltro, la sua cultura istituzionale unanimemente riconosciuta e apprezzata.
    PAOLO GENTILONI. Ex presidente del Consiglio e attuale rappresentante dell'Italia nella commissione europea, Gentiloni, pur militando nel Pd, potrebbe ottenere consensi anche in altre forze politiche avendo sempre privilegiato una linea moderata. È, inoltre, certamente un politico competente e stimato e non è mai stato al centro di polemiche, salvo quella con Matteo Renzi con il quale si è recentemente riconciliato.

  • SULL'ELEZIONE DEL NUOVO
    CAPO DELLO STATO
    LETTA SI GIOCA TUTTO

    data: 18/12/2021 16:21

    C'è gran fermento nel mondo politico in vista dell'ormai prossima elezione del successore di Sergio Mattarella. I partiti studiano le mosse da compiere e i leader si incontrano, ufficialmente e segretamente, mettendo a punto le rispettive strategie.
    Molto attivo appare, in questo contesto, il centrodestra che guarda con particolare interesse a quello che potrebbe accadere dopo che il nuovo capo dello Stato si sarà insediato al Quirinale sperando che il cambio della guardia alla presidenza della Repubblica porti allo scioglimento delle Camere e a nuove elezioni dalle quali conta di uscire vittorioso e, quindi, di conquistare il diritto a guidare il governo prossimo venturo.
    Per contro il Pd di Enrico Letta appare fermo, statico e privo d'iniziativa rischiando, in questo modo, di rimanere isolato, avulso dalla realtà che lo circonda.
    Al momento Letta sembra, infatti, non essere riuscito a stipulare, in vista dell'elezione di febbraio, un patto di alleanza neppure con il suo partner prediletto, vale a dire il Movimento Cinquestelle, affannosamente proteso alla ricerca di una propria identità
    Proprio per non turbare i rapporti con Giuseppe Conte e la sua sfilacciata e decadente squadra, Letta sta inasprendo i rapporti con Carlo Calenda e ha regalato al centrodestra Matteo Renzi (sulla cui coerenza, peraltro, è lecito nutrire più di un dubbio).
    È vero che i sondaggi fanno registrare una crescita (non particolarmente esaltante, ma comunque abbastanza consistente) del suo Pd, ma i preparativi in corso per l'elezione presidenziale del prossimo febbraio, dimostrano che il Pd non è in grado di esercitare quel ruolo di leadership che competerebbe a un partito della sua caratura.
    Per svolgere un tale ruolo il Pd dovrebbe definire la propria identità, assumere una linea dichiaratamente riformista e farsi promotore di un preciso progetto in questo senso. Altrimenti i positivi risultati ottenuti nel voto si riveleranno effimeri e i suoi successi saranno simili alla vittoria di Pirro.
    Del resto, una delle caratteristiche dell'elettorato della Seconda Repubblica è l'estrema mobilità per cui - ma non vogliamo essere uccelli di cattivo augurio - il successo di oggi può trasformarsi nella disfatta di domani.
    E dunque, in vista dell'appuntamento di febbraio, un appuntamento destinato ad influenzare nei prossimi mesi tutta la vita politica, il Pd non può continuare ad andare a rimorchio delle decisioni altrui. Oseremmo dire che sarà proprio l'elezione del nuovo capo dello Stato, assai più di quanto possa essere stato il successo nel turno elettorale amministrativo, il vero banco di prova per la segreteria Letta, quello che ne sancirà il destino. 

  • PERCHÉ NON È OPPORTUNO
    ANTICIPARE LE ELEZIONI

    data: 11/12/2021 13:16

    C'è un interrogativo legato alla prossima elezione del successore di Sergio Mattarella: l'eletto, dopo che si sarà insediato al Quirinale, dovrà sciogliere le Camere e indire nuove elezioni? Il centrodestra, soprattutto per bocca di Giorgia Meloni, sembra premere per il voto. E Silvio Berlusconi aggiunge un codicillo: le elezioni saranno, a suo avviso,
    assolutamente indispensabili se a salire al Colle dovesse essere l'attuale presidente del Consiglio Mario Draghi.

    Una tale tesi ha una precisa spiegazione. Il cavaliere di Arcore, in questo momento, non ha che un obiettivo: quello di essere il futuro capo dello Stato e su questo obiettivo concentra ogni sua energia.

    Perciò, poiché vede nell'ex presidente della Banca centrale europea il suo principale "concorrente", mira a indurre i parlamentari elettori a non concedergli la loro
    preferenza in quanto, a suo giudizio, se Draghi dovesse trasferirsi da Palazzo Chigi al Quirinale, gli attuali deputati e senatori dovrebbero fare le valige e tornarsene a casa.
    Ma lo scioglimento delle Camere sarà realmente necessario dopo l'elezione di febbraio? Francamente abbiamo più di un dubbio sulla sua opportunità e non soltanto perché nessuna norma lo prevede. È evidente, infatti, che le elezioni anticipate comporterebbero, inevitabilmente, uno stop di ogni attività di governo poiché la politica sarebbe dominata dalla campagna elettorale che finirebbe con il
    condizionare, comunque, ogni scelta.
    Possiamo permettercelo in una fase come l'attuale che impone scelte non differibili anche e soprattutto nella gestione dei fondi messi a disposizione dall'Unione europea?
    Al di là di quelli che possono essere gli interessi di parte di coloro che sperano di poter rafforzare, attraverso il ricorso alle urne, la loro posizione, crediamo che i partiti, tutti i partiti, dovrebbero rendersi conto che, nella situazione nella quale ci
    troviamo. Non si può non dare preminenza all'interesse generale.
    C'è, inoltre, da chiedersi se davvero Draghi dovesse trasferirsi al Quirinale, non esisterebbe una personalità in grado di sostituirlo a Palazzo Chigi.  

    Azzardiamo due nomi: quelli di Daniele Franco e di Marta Cartabia, rispettivamente ministri dell'Economia e della Giustizia. Sarebbero entrambi all'altezza del compito e, privi come sono di precisi connotati politici potrebbero raccogliere il consenso di
    un vasto schieramento parlamentare.
    Dopo tutto, una volta eletto il capo dello Stato, alla naturale scadenza della legislatura mancherebbe un anno o poco più e anziché attardarsi ora in una
    campagna elettorale gravida di tensioni, i partiti potrebbero (e dovrebbero) concentrare la loro attenzione su come utilizzare al meglio, e senza speculazioni, le risorse provenienti dall'Unione europea.

  • ROMA RIMANE SPORCA
    GUALTIERI COME RAGGI?

    data: 04/12/2021 17:21

    Manca meno di un mese al Natale. "Entro Natale - aveva garantito il neo sindaco Roberto Gualtieri - Roma sarà completamente pulita".
    Non è così. La capitale continua ad essere sporchissima, la più sporca città d'Italia, molto più sporca di quando era sindaca Virginia Raggi la cui mancata rielezione è stata in parte dovuta proprio alle penose condizioni igieniche nelle quali aveva lasciato che Roma si riducesse.
    Gualtieri non ha, quindi, mantenuto la sua promessa e dunque non si è presentato con un buon biglietto da visita, il che non solo non gli rende onore, ma costituisce un'onta per l'intera coalizione che ne ha patrocinato l'elezione (e la dice lunga sulle ragioni che alimentano il distacco dell'opinione pubblica dal mondo della politica).
    Si dirà: diamo tempo al tempo. È impossibile che un problema annoso e complesso qual è la pulizia di Roma, trascurata per anni, possa essere risolto con un colpo di bacchetta magica.
    Tutto vero. Ma quel che non riusciamo a perdonare a Gualtieri è la sua mancata promessa. Delle due l'una: o il sindaco era consapevole delle difficoltà alle quali andava incontro e ha voluto dare una prova di efficienza che si è rivelata come un inganno agli elettori, o non ne era consapevole e credeva davvero di poter risolvere il problema in tempi rapidi.
    In tutti e due i casi il suo comportamento è da censurare.
    Ma, al di là di Gualtieri e delle sue responsabilità, che sono, comunque, notevoli, la situazione è ormai giunta ad un tale livello di degrado da non poter essere ulteriormente trascurata.
    Non si tratta di assecondare una sorta di campanilismo romanocentrico, ma di tener conto che, lo si voglia o meno, il suo volto è il volto della Nazione. C'è, inoltre, nel decadimento di Roma, un risvolto economico tutt'altro che trascurabile.
    Roma è in una situazione economica certamente allarmante che è una delle cause che bloccano il suo sviluppo. Ed è noto che una delle principali (se non la principale) risorse di cui dispone è il turismo.
    È lecito chiedersi, allora, che ne sarà dell'economia di Roma se ai danni che le sono stati causati dalla pandemia si aggiungeranno quelli provocati dal mancato arrivo di turisti che non possono essere attratti da quella che è stata definita "la città più sporca d'Europa".
    A Virginia Raggi della quale Gualtieri sembra essere divenuta il clone, fu giustamente rimproverato di aver scelto, per evitare possibili corruzioni, la politica del "non fare". Meglio "non fare", che "far male" fu, sostanzialmente il suo motto. Non vorremmo che questo motto Gualtieri volesse farlo suo, comportandosi di conseguenza. Roma resterebbe nella disastrosa stuazione nella quale si trova.
    E lui non andrebbe lontano.
     

  • QUIRINALE: SONO GIA' 5
    I CANDIDATI DI RENZI...

    data: 28/11/2021 10:48

    "Fai attenzione Giulio - disse Bettino Craxi a Giulio Andreotti, impegnato in una delle sue esercitazioni d'astuzia - perché le volpi, prima o poi, finiscono in pellicceria". L'avvertimento di Craxi potrebbe essere oggi ripetuto per Matteo Renzi. Per rilanciarsi e dare maggior vigore al suo anemico partito, l'ex presidente del Consiglio sembra ora voler puntare tutte le sue carte sull'ormai prossima elezione del successore di Sergio Mattarella.
    A Renzi viene unanimemente riconosciuta la capacità di riuscire a rendersi determinante in questo tipo di "operazioni". Gliene hanno dato atto i suoi stessi avversari. Renzi riuscì a svolgere un ruolo determinante quando favorì, essendo alla guida del Pd, l'elezione di Mattarella alla presidenza della Repubblica; lo è stato, pur potendo disporre soltanto di un piccolo gruppo di parlamentari, per la designazione di Mario Draghi alla guida del governo al posto di Giuseppe Conte.
    Ora Renzi vuole ripetere una "impresa" analoga nelle elezioni presidenziali del prossimo febbraio.
    Ma, consapevole che questa volta, in virtù del suo decrescente peso politico, il suo "gioco" è più difficile delle volte precedenti, il leader di "Italia viva" fa ricorso ad una furbesca manovra: giocare su più tavoli, sostenendo più candidati in maniera che chiunque risulterà eletto, i voti dei suoi parlamentari potranno essere considerati decisivi.
    Così Renzi ha avallato una tale ipotesi lasciando intendere di essere disposto a sostenere la candidatura del Cavaliere di Arcore facendosi al tempo stesso sponsor di Pierferdinando Casini che, come Berlusconi è sin d'ora impegnatissimo nel cercare consensi in tutti i settori.Non pago il leader di Italia viva ha fatto capire che non disdegnerebbe affatto l'ipotesi Draghi. Senza escludere, ovviamente, la possibilità che,determinandosene le condizioni, Sergio Mattarella possa ripensarci e restare almeno pro tempore, al suo posto. E, recentemente, riconciliandosi con lui dopo un lungo periodo di ostilità Renzi ha teso la mano anche a Paolo Gentiloni.
    La "caccia al candidato" che Renzi, operando con una certa spregiudicatezza su più fronti, sta portando avanti, ha un duplice obiettivo da un lato quello di confermare per il suo partito, al di là del numero di consensi che è in grado di ottenere, il ruolo di "ago della bilancia" che si è assegnato esplicitamente nel recente convegno della Leopolda"; dall'altro quello di acquisire la benevolenza del nuovo capo dello Stato, chiunque esso sia.

  • NON E' DA ESCLUDERE
    CHE MATTARELLA
    CI POSSA RIPENSARE

    data: 21/11/2021 15:20

    A giudizio dei più Sergio Mattarella ha ormai posto la pietra tombale sulla possibilità di una sua rielezione alla presidenza della Repubblica. Non è la prima volta, del resto, che l'attuale capo dello Stato fa sapere di non essere disponibile ad un rinnovo del suo mandato, ma il suo no, pronunciato con molta determinazione nei giorni scorsi, è apparso questa volta ancor più netto dei precedenti considerato anche l'approssimarsi della elezione di colui che dovrà succedergli come prossimo inquilino del Quirinale.
    Ma davvero l'ipotesi di un Mattarella bis deve considerarsi definitivamente da escludere?
    Un dubbio, sia pur piccolo, rimane. E per più di una ragione; non soltanto perché in politica è più che mai valida la vecchia regola del "mai dire mai" che anche questa volta potrebbe essere applicata.
    Non può non tornare alla memoria, in proposito, quel 20 aprile del 2013 in cui - caso unico nella storia del nostro paese - Giorgio Napolitano venne rieletto per la seconda volta alla presidenza della Repubblica, accettando la richiesta di un vasto schieramento che andava dalla destra, alla sinistra, al centro.
    Apparve, quella della conferma di Napolitano, come l'unica soluzione possibile per evitare che, con grave danno per il paese, si determinasse una insuperabile situazione di stallo.
    Poi, con cinque anni di anticipo sulla data di conclusione del suo mandato, Napolitano presentò le dimissioni.
    Ora è lecito chiedersi cosa farebbe Mattarella se, anche questa volta, il mancato accordo tra le forze politiche dovesse bloccare l'elezione o si creassero le condizioni per un'elezione di basso profilo? Si tratta di un'ipotesi tutt'altro che improbabile, nonostante continuino ad emergere candidature (o, più frequentemente autocandidature e il riferimento a Silvio Berlusconi non è casuale) di aspiranti presidenti. Potrebbe in tal caso, Mattarella dire ancora no ad una sua riconferma, magari a termine, o recederebbe dal suo proposito di abbandono facendo prevalere quel senso del dovere e dello Stato così forti in lui è così noti che lo hanno sempre caratterizzato?
    Ecco, dunque, che la possibilità di un nuovo mandato a Mattarella non è ancora, malgrado tutto da escludere irreversibilmente.
    È vero. I candidati (o, lo ripetiamo, gli autocandidati) sono molti e già sono impegnati, anche sotterraneamente, nella caccia ai voti che dovrebbero portarli all’elezione. Ma tutto è ancora incerto anche perché, come l'esperienza dimostra che in questo tipo di votazioni, non si può dimenticare il vecchio detto secondo cui chi entra Papa in Conclave, il più delle volte, ne esce cardinale.


     

  • LA PANDEMIA DIMOSTRA
    CHE VI SONO DUE ITALIE

    data: 13/11/2021 19:59

    Le reazioni alla pandemia, sempre più drammatica (con la concreta prospettiva di una "quarta ondata") aiutano a capire meglio, al di là di qualsiasi analisi sociologica, la reale natura degli italiani.
    Più volte abbiamo lamentato la nostra difficoltà ad essere comunità, a superare, cioè, gli egoismi personali e ad essere parte di un progetto comune. Ebbene, il fenomeno dei "no vax" con la spaccatura tra quanti rifiutano il vaccino e quanti vi aderiscono senza esitazioni, dimostra proprio questo: che esistono due tipi di italiani, quelli - e per fortuna sono la maggioranza, che avvertono la necessità di sentirsi parte di una collettività, comportandosi di conseguenza, e quelli, per contro, che non avvertono questa necessità e si rifugiano nel loro "bunker personale".
    L'adesione alla campagna in favore della vaccinazione, infatti, non è motivata soltanto dalla volontà di preservare se stessi dal covid 19, ma da quella di non contagiare il nostro prossimo. Di non essere portatori del virus.
    Al di là di ogni retorica rivendicazione di libertà, la "filosofia" che ispira i "no vax" è dettata da uno spirito egoistico che male si concilia con l'appartenenza ad una comunità.
    Stefano Rodotà definiva la solidarietà come "un'utopia necessaria", sostenendo che l'assenza di solidarietà impedisce il funzionamento di una democrazia e minerebbe dalle fondamenta lo Stato di diritto.
    È qui, dunque, a prescindere da ogni altra motivazione, che si gioca la vera partita tra quanti contestano la vaccinazione e quanti la sostengono giungendo ad auspicarne l'obbligatorietà.
    Si tratta, perciò, di una scelta indispensabile per definire la nostra identità nazionale.
    I "no vax" sono esponenti di un individualismo che può anche avere diritto di cittadinanza, ma che male si concilia con la realizzazione di un progetto comune al quale deve associarsi ogni cittadino se è vero, come afferma quello che può essere considerato come un vero e proprio assioma, che "se vuoi arrivare primo corri da solo, ma se vuoi arrivare lontano, cammina insieme".
    Dovrà pure contare qualcosa, comunque, il duplice avvertimento emergente all'interno dell'Unione europea: il primo nasce dallo spirito di solidarietà che sembra ispirare i rapporti tra gli Stati; il secondo, che al primo in qualche misura si collega, è il crescente rifiuto del cosiddetto sovranismo, con buona pace di Giorgia Meloni che ne ha fatto la bandiera del suo partito. 

  • AMBIZIONI E CONTRASTI
    SULLA SALITA AL QUIRINALE

    data: 07/11/2021 12:27

    È vero che, stando ai sondaggi, i cinquestelle sono considerati una forza politica in forte declino, ma è altrettanto vero che, attualmente, sulla base dei risultati conseguiti nelle elezioni del 2018, essi dispongono di una rappresentanza parlamentare tutt'altro che irrilevante. Ciò dovrebbe consentire a Giuseppe Conte, insediatosi alla guida del Movimento, di esercitare un ruolo da protagonista nella elezione del nuovo presidente della Repubblica in programma per l'inizio del prossimo febbraio.
    Sia chiaro: non crediamo che l'ex premier, orfano della guida del governo, miri a proporre la propria candidatura anche se, ambizioso com'è, ancora amareggiato per aver dovuto lasciare Palazzo Chigi, può anche aver fatto un pensierino al Quirinale. Il numero di parlamentari dei quali dispone, lo induce, però, a ritenere di poter svolgere nella scelta del capo dello Stato per il prossimo settennato, un ruolo determinante.
    Conte dovrà, tuttavia riuscire - cosa non facile - a comporre le divisioni che agitano il suo gruppo, spaccato in due, come ha dimostrato il fallimento registrato nell'elezione del nuovo presidente dei senatori del movimento, divisi tra l'uscente Ettore Licheri, contiano, e la sua sfidante Mariolina Castellone che, alla fine, ha finito con il prevalere, mettendo sostanzialmente l’ex presidente del Consiglio in minoranza.
    Se i pentastellati sono, dunque, in palese dissenso tra loro, lo stesso deve dirsi per la Lega, nella quale, nonostante le ricorrenti pacificazioni di facciata e di rinvio in rinvio, non si riesce a comporre il contrasto che oppone Giancarlo Giorgetti a Matteo Salvini; un contrasto che non è soltanto personale, ma soprattutto di linea politica.
    Non è, pertanto, difficile prevedere che all'appuntamento del 3 febbraio, quando si dovrà scegliere il successore di Sergio Mattarella, i cinquestelle e i leghisti non si presenteranno uniti al loro interno. Ed è assai probabile che, anche nelle altre forze politiche, covino, sotto la cenere, punti di vista non coincidenti che verranno a galla nelle prossime presidenziali.
    Ciò spiega, del resto, perché non passi giorno senza che si profilino all'orizzonte nuove candidature il che induce a pensare che prima di giungere all'elezione del nuovo capo dello Stato dovranno essere superati non pochi ostacoli.
    Occorrerebbe, come accaduto in precedenti occasioni un mediatore in grado di trovare una sintesi tra le varie posizioni, ma non si vede una personalità che abbia l'autorevolezza necessaria per svolgere un tale compito.
    Potrebbe essere Mario Draghi, ma l'attuale presidente del Consiglio è troppo coinvolto in prima persona nella designazione del nuovo presidente della Repubblica per pensare ad un suo intervento. E, dunque, con ogni probabilità, si navigherà a vista.

     

  • QUIRINALE: SI ANNUNCIANO
    CANDIDATURE INADEGUATE

    data: 30/10/2021 18:02

    Con il trascorrere dei giorni l'attenzione del mondo politico va sempre più concentrandosi, ormai, sulla elezione, prevista per l’inizio del prossimo febbraio, del successore di Sergio Mattarella; un’elezione destinata a condizionare sin d'ora scelte e comportamenti dei partiti.
    Mentre appare sempre meno probabile, nonostante sia auspicata da molti, la conferma, sia pure pro tempore, dell'attuale inquilino del Quirinale, i partiti tendono a restare "al coperto", per non bruciare i propri candidati, operando magari sotterraneamente. Chi non si fa scrupolo di porre apertamente la propria candidatura al Colle è, invece, Silvio Berlusconi.
    Il leader di Forza Italia si fa forte della recente assoluzione al processo Ruby ter di Siena, ma l'età avanzata e una salute piuttosto malferma sconsiglierebbero, detto francamente, la sua elezione anche se essa viene sponsorizzata con forza da Matteo Salvini.
    Non a caso, peraltro, per eliminarlo dal novero dei possibili “rivali”, il cavaliere di Arcore non perde occasione per sostenere l'opportunità di una conferma di Mario Draghi alla guida del governo.
    Ma, nonostante Berlusconi sia convinto di potercela fare, la sua elezione ci sembra, francamente piuttosto improbabile (tra l'altro non risulterebbe assolutamente gradita all'interno dell'Unione europea ed è questo un argomento che, quando si tratterà di scegliere, le forze politiche dovranno pur tenere nel debito conto).
    Assai più adatto e utile sembra essere, per lui, il ruolo di moderatore delle turbolenze che agitano la coalizione di centrodestra dove è ormai nettamente esplosa la rivalità tra Salvini e la Meloni; una rivalità formalmente negata, ma indiscutibile.
    Debolissima, con altre motivazioni, almeno sul piano della rappresentatività, appare un'altra candidatura emersa in queste ore, quella di Pierluigi Casini, sostenuto da Matteo Renzi, indubbiamente abile nel destreggiarsi in elezioni come quella presidenziale. Lo stesso Renzi, che fu, a suo tempo, il principale sponsor della candidatura di Sergio Mattarella, dovrebbe avere la capacità di compiere un confronto tra i due e trarne le debite conseguenze.
    Decisamente preferibili sia rispetto all'ipotesi Berlusconi sia all'ipotesi Casini, appaiono le eventuali candidature di Marta Cartabia, ministro della Giustizia ed ex presidente della Corte costituzionale e di Paolo Gentiloni, ex presidente del Consiglio ed attuale commissario europeo. La prima gode di una indubbia autorevolezza e conosce in profondità le problematiche istituzionali; il secondo è ben conosciuto e stimato nell'ambito della Ue.
    Azzardare previsioni è tuttavia impossibile, per una ragione soprattutto: che questo tipo di elezioni mai o quasi mai avvengono facendo riferimento alla ragione, ma piuttosto ad umori e ad interessi e che ogni pronostico finisce con il rivelarsi inutile poiché è più che mai valida l’antica regola secondo cui chi entra in Conclave Papa, ne esce cardinale. 

  • MA IL PD NON DEVE
    ILLUDERSI: LA STRADA
    E' ANCORA LUNGA

    data: 23/10/2021 18:53

    Ci sembra che il test elettorale amministrativo e l'esito dei ballottaggi di domenica e lunedì scorsi meritino qualche ulteriore riflessione oltre alle molte già fatte sui mass media in questa settimana. È fuor di dubbio che si sia verificata una svolta nel panorama politico che non esiteremmo a definire radicale. Da mesi i sondaggi insistentemente avvertivano che il centrodestra godeva di consensi decisamente superiori a quelli sui quali poteva fare affidamento il centrosinistra, cosicché l'unica incertezza avrebbe riguardato chi, tra la Lega di Matteo Salvini e Fratelli d'Italia di Giorgia Meloni, avrebbe ottenuto la palma di primo partito.
    Improvvisamente la situazione si è ribaltata: il voto, infatti, ha sancito l'indiscutibile vittoria della coalizione di centrosinistra che ha conquistato i sindaci di quasi tutti i capoluoghi e a beneficiarne è stato in primo luogo il Pd cosicché Enrico Letta e i suoi appaiono a dir poco galvanizzati dal risultato ottenuto.
    Ma devono fare attenzione per almeno tre ragioni: la prima è che un'elezione amministrativa è sempre diversa da un'elezione politica; la seconda è che l'astensionismo, notevolissimo, ha indubbiamente influito sul risultato; la terza è che l'elettorato italiano ha rivelato, ancora una volta, una grande mobilità per cui non è detto che un successo ottenuto oggi sia destinato a ripetersi domani.
    Ma, soprattutto, il buon esito del test amministrativo deve indurre il Pd a domandarsi il perché del buon esito di queste elezioni e, in base alla risposta che darà a questa domanda, adeguare la propria strategia e i propri comportamenti.
    È evidente che l'opinione pubblica, non avendo fiducia nei partiti, ha guardato soprattutto alla caratura degli uomini sottoposti al suo giudizio.
    La ragione principale per la quale il centrosinistra ha vinto è che i suoi candidati sono apparsi agli elettori più credibili di quelli proposti dal centrodestra. Di qui la necessità di concentrare la propria attenzione su una sempre più accurata selezione dei propri rappresentanti.
    Forse è eccessivo auspicare un radicale cambiamento dell'attuale classe dirigente (cambiamento che, in verità, dovrebbe riguardare anche il centrodestra) attingendo a quelli esponenti locali che hanno dato prova positiva.
    Questa esigenza si salda con l'altra, di sviluppare una politica del territorio più vicina alle necessità della gente. La "grande politica" non si addice a personaggi che non sono in grado di interpretarla e si rivela, di fatto, una manifestazione di opportunismo che, come si è potuto constatare nella recente tornata amministrativa, inevitabilmente allontana gli elettori dalla politica.
    Insomma se Enrico Letta pensasse di aver raggiunto il proprio obiettivo con il recente successo, commetterebbe un micidiale errore.
    Per il Pd è cominciato un percorso che s'annuncia ancora irto di ostacoli. La vittoria elettorale è, per ora, soltanto un episodio che potrebbe anche restare tale. Non è un punto di arrivo, ma di partenza.
     

     

     

  • FORSE NON E' SBAGLIATO
    FONDARE UN NUOVO ULIVO

    data: 16/10/2021 19:45

    Mentre ansiosamente si attendono (in particolare a Roma) i risultati dei ballottaggi di domenica e lunedì prossimi che completeranno il quadro della tornata amministrativa, i partiti si sforzano di mettere a punto le rispettive strategie per i mesi a venire.
    Enrico Letta, "caricato" dall'esito complessivamente positivo del voto per il suo Pd, ha un'idea.
    Non si tratta, per la verità, di una trovata particolarmente originale, ma anche in politica vale l'antica regola secondo cui sotto il sole non c'è mai nulla di nuovo.
    L'idea maturata dal segretario democratico è di dar vita ad un nuovo Ulivo, la coalizione tra le forze che si proclamano progressiste a suo tempo voluta, non senza successo, da Romano Prodi. In sostanza si tratterebbe di realizzare formalmente e ufficialmente, l'alleanza tra democratici, cinquestelle, Italia viva e Azione di Carlo Calenda.
    Tra "dem" e pentastellati l'accordo per procedere insieme ha già prodotto risultati positivi nelle elezioni di Bologna e di Napoli. Estendere un tale accordo ad altre forze politiche porterebbe indubbiamente a risultati positivi già nelle elezioni per la presidenza della Repubblica.
    Non a caso, nei corridoi dei palazzi della politica (ma francamente facciamo qualche fatica a ritenerla un'ipotesi realizzabile) si sussurra che, qualora si dovesse optare per la permanenza di Mario Draghi alla presidenza del Consiglio, potrebbe prendere quota la possibilità di eleggere al Quirinale Romano Prodi che dell'Ulivo è stato il fondatore e il leader, ripagandolo in tal modo dell’affronto subito nelle precedenti elezioni presidenziali, quando la sua candidatura che sembrava destinata al successo venne sabotata da oltre cento franchi tiratori.
    Intendiamoci. Quella di Enrico Letta non è un'idea particolarmente originale. Ma se davvero il segretario del Pd si adoperasse per un'iniziativa di questo tipo, ciò comporterebbe, finalmente, l'uscita di questo partito dallo stato di inerzia nel quale è precipitato, prima con la segreteria di Nicola Zingaretti e quindi nella prima fase della segreteria Letta.
    Anche per questo, non condividiamo la posizione assunta da Matteo Renzi che ha bocciato l'ipotesi di una rinascita dell'Ulivo sostenendo che si tratterebbe, in realtà, della riesumazione di una formula sconfitta.
    Ora, a prescindere dal fatto che, per ben due volte, l'Ulivo sconfisse Berlusconi, impresa di non poco conto se si considera che il Berlusconi di allora era assai più forte del Berlusconi attuale: era un leader, cioè, accreditato di un vastissimo seguito.
    Certo, i tempi sono cambiati e riproporre sic et simpliciter l'Ulivo di allora, sarebbe un errore. Ma qualcosa Il centrosinistra deve pur fare se vuole sperare di fronteggiare con qualche possibilità di successo l'accoppiata Salvini-Meloni. Altrimenti il buon risultato ottenuto nel recente test amministrativo potrebbe rivelarsi del tutto effimero.

     

  • ECCO COME DRAGHI
    TIENE A BADA I PARTITI

    data: 09/10/2021 17:49

    Che Mario Draghi non abbia in grande considerazione i partiti è largamente noto. In linea di principio (soprattutto in un regime non presidenziale qual è il nostro) il capo dell'esecutivo non dovrebbe prescindere dalle indicazioni di coloro che gli garantiscono la maggioranza. Nel caso specifico, tuttavia, considerato il livello delle nostre forze politiche e, soprattutto, il fatto che le loro prese di posizione hanno un carattere prevalentemente strumentale, il “presidenzialismo” di Draghi trova evidenti giustificazioni.
    Draghi, inoltre, sa perfettamente che lui e le sue proposte avrebbero inevitabilmente vita breve se bocciasse senza possibilità d'appello le richieste dei partiti che lo sostengono. Al primo voto in Parlamento, rischierebbe di finire in minoranza.
    Consapevole di questa ineludibili realtà e perseguendo un obiettivo che vuole ad ogni costo portare a termine - quello, cioè, di risanare l’economia nazionale - il premier sembra aver deciso di adottare un metodo per così dire "soft" per dare comunque attuazione, senza provocare traumi, ai propri progetti.
    Per chiarire meglio il nostro pensiero, prendiamo ad esempio, il "caso green pass".
    È evidente che Draghi sarebbe favorevole a rendere il vaccino obbligatorio per tutti, ma all'interno della maggioranza c'è chi - la Lega in primo luogo - si oppone ad una simile eventualità.
    Probabilmente, battendo i pugni sul tavolo, il presidente del Consiglio avrebbe piegato Salvini (al quale non gioverebbe certamente una crisi di governo nel momento di difficoltà che sta attraversando) e quanti la pensano come lui. Va infatti rimarcato che molti dei politici che si sono arruolai nelle file dei "no vax" sono mossi unicamente dalla volontà di "catturare" voti anche perché nel merito non hanno competenza alcuna..
    Ma Draghi, per far prevalere il proprio punto di vista, ha preferito evitare complicazioni e seguire un altro metodo: quello di introdurre l'obbligatorietà della vaccinazione in modo graduale, introducendola, cioè, ora per questa, ora per quella categoria (statali, insegnanti ecc.).
    Alla fine si giungerà a rendere, di fatto, il vaccino obbligatorio per tutti o quasi e sarà stato più facile far "ingoiare il rospo", senza provocare traumi, a quanti contestano una simile eventualità.
    È una tattica, questa, che giova anche a chi, come Salvini, ha l'esigenza di tenere a freno, all'interno del proprio partito i “no vax" più fanaticamente attestati sulle loro posizioni.
    Non sappiamo se il metodo di Draghi avrà successo. Ma non possiamo non prendere atto che, al momento sta funzionando.
     

  • MA RIUSCIRA' L'ITALIA
    A MANTENERE GLI IMPEGNI
    ASSUNTI CON LA UE?

    data: 02/10/2021 17:24

    Forse Mario Draghi deve ora affrontare il compito per lui più difficile da quando ha assunto la guida del governo: quello di dare concreta attuazione al “recovery plan”, vale a dire al complesso di riforme che l’Unione europea ci chiede di realizzare per consentirci di poter usufruire dei finanziamenti atti a garantire la ripresa economica dopo la pandemia.
    Il piano, approvato dal governo, prevede investimenti per 222,1 miliardi, ma è necessario che, entro la fine dell’anno, sia stata varata una serie di importanti riforme senza le quali i finanziamenti rischiano di saltare. A tali riforme si dovranno, contemporaneamente unire una serie di decreti attuativi ai quali sarà compito dei ministeri interessati dare attuazione. Ė estremamente difficile ritenere che l’Ue - malgrado il vasto prestigio del quale gode, in ambito comunitario, il nostro presidente del Consiglio - sia disposta ad accettare rinvii e ritardi nel rispetto degli impegni assunti dal governo.
    E qui sorge il quesito destinato a segnare, nelle prossime settimane, la vita politica italiana: è in grado, l’attuale esecutivo di mantenere tali impegni?
    Gli ostacoli che si frappongono al rispetto delle assicurazioni fornite a questo riguardo sono molti.
    Non sarò facile, infatti, per Draghi, aver ragione della rissosità dei partiti, nonostante li abbia invitati, senza mezzi termini, ad accantonare, per il momento, ogni disputa in atto, a partire da quella sul nome di colui che dovrebbe succedere a Mattarella alla presidenza della Repubblica per concentrare la loro attenzione alle riforme. “Non ci si immagini - ha detto con evidenti intenti polemici - che si possono rinviare le cose da fare”. E, avvertendo che su questa linea l’intero governo è con lui, ha lasciato addirittura intravedere la possibilità (eventualità che sarebbe gravissima) di un conflitto governo-partiti.
    Ma questi ultimi hanno priorità diverse che, peraltro, quasi mai coincidono tra loro e nel merito di ogni riforma esistono (spesso all’interno delle stesse forze politiche) diversi punti di vista. Non è certamente un caso che nonostante da anni viene sostenuta la necessità di dar corpo a un vasto piano di riforme, nulla di concreto è stato possibile realizzare e la situazione sia rimasta allo status quo.
    A questo ostacolo un altro se ne aggiunge: quello costituito dal freno imposto da sempre alle riforme dal formidabile apparato burocratico - probabilmente il più forte esistente nell’Unione europea – che da sempre blocca qualsiasi iniziativa innovativa.
    Estirpare quello che è stato definito “il cancro della burocrazia” è l'obiettivo che, sin dalla sua costituzione, il governo si è proposto di realizzare. Ma non sembra che, su questa strada, si siano compiuti passi avanti.
    Per ora, dunque, ubriachiamoci di analisi sui risultati delle elezioni amministrative, ma non dimentichiamo che, dietro l’angolo, l’Italia è attesa ad un appuntamento ancora più importante, al quale non può in alcun modo permettersi di mancare.
     

     

  • C'ERA UNA VOLTA SALVINI
    CAPO LEGA INCONTRASTATO

    data: 25/09/2021 18:02

    “Les dieux s’en vont”, avvertono i francesi. Gli dei se ne vanno. Come dire che anche coloro che sedevano nell’Olimpo dal quale sembrava non dovessero mai discendere, sono destinati a dover lasciare anche quando meno se lo aspettano, il loro posto. Il proverbio, trasferito nella vita politica italiana, sembra in qualche misura illustrare la sorte alla quale appare destinato Matteo Salvini. Può darsi che il leader del Carroccio riesca a superare le contestazioni attuali, ma mai come in questa fase è attaccato all’interno del suo stesso partito dove sembra sorgere l’astro di Giancarlo Giorgetti che, al di là delle smentite di prammatica, si propone quotidianamente, per assumere, prima o poi, e più prima che poi, la guida del partito.
    Non da oggi Giorgetti si pone come possibile alternativa all’attuale leader del quale non intende assolutamente essere gregario. Ha proprie idee e proprie ambizioni (come chiaramente ha confermato la disputa tra i due, sul tema del “green pass”).
    Il fatto è che l’appoggio al governo di Mario Draghi ha creato a Salvini molti problemi. La sua decisione è stata ispirata, evidentemente, dalla necessità di qualificarsi come un politico più moderato e responsabile, così da potersi candidare alla guida del governo prossimo venturo che è, da sempre, il suo obiettivo. Ma ha dovuto, per questo, fare i conti con una base riottosa, votata più all’opposizione che al governo e con la concorrenza di Giorgia Meloni e di Fratelli d’Italia che hanno scelto di non sostenere Draghi.
    Avrebbe potuto optare per questa seconda opzione, ma ha cercato di far suo, in qualche misura, il modello berlingueriano, trasformando la Lega in un “partito di lotta e di governo”. Ma, poiché non è Berlinguer, non ha, cioè, lo spessore per poter portare avanti una linea così difficile da perseguire, la Lega è divenuta un partito che “non è né carne né pesce”, scontentando sia quanti sostengono l’opportunità di entrare definitivamente e a pieno titolo nell’ambito governativo, sia coloro che vorrebbero tenerlo fuori dalla maggioranza.
    Ecco, dunque, proporsi Giorgetti che, a differenza di Salvini, la sua scelta sembra averla fatta schierandosi definitivamente, anche a costo di dover affrontare apertamente una dura battaglia interna.
    Salvini ostenta sicurezza: “Quanti puntano a dividere la Lega - dice - dovranno aspettare almeno trent’anni". Ma, per quanti sforzi faccia, non può più negare che la sua navigazione non sia più tranquilla come una volta e che incombe sulla sua leadership, lo spettro di Giorgetti il quale non sembra più appagato dalla carica di ministro dello Sviluppo. Punta al partito. E conferma che i tempi in cui la Lega era gestita monoliticamente, appartiene ormai al passato.

     

  • PERCHE' ADESSO SALVINI
    VUOLE DRAGHI AL COLLE

    data: 18/09/2021 12:31

    Molti problemi con l'indicazione delle loro possibili e quasi mai coincidenti soluzioni affollano le scrivanie dei leader politici e viva è l'attesa per il prossimo test amministrativo che coinvolge le principali città italiane, da Roma a Napoli, da Milano a Torino. Ma così numerosi e importanti impegni non fanno dimenticare ai partiti e ai loro dirigenti il grande appuntamento di febbraio quando Camera e Senato, in seduta congiunta, saranno chiamati a eleggere il successore di Sergio Mattarella; un'elezione dalla quale dipenderà in gran parte il futuro della nostra vita politica.
    Per adesso, ovviamente, non filtrano rumors sulle intenzioni delle forze politiche, ma poiché mantenere un silenzio assoluto sulle intenzioni dei leader è sempre difficile se non addirittura impossibile, nei corridoi dei palazzi romani della politica cominciano ad emergere alcune indiscrezioni.
    La prima concerne la posizione della Lega e in particolare di Matteo Salvini che sembra orientarsi in favore della elezione di Mario Draghi a capo dello Stato. Il capo del Cary, infatti, sembra essersi reso conto che il fattore tempo può giocare un ruolo determinante nella cosiddetta "questione governo".
    Esistono almeno due ragioni che spingono Salvini a serrare i tempi: in primo luogo non è detto che alla fine della legislatura, il centrodestra conservi ancora quella maggioranza di consensi che i sondaggi gli attribuiscono; inoltre, continuando il trend attuale, Fratelli d'Italia e Giorgia Meloni potrebbero affermarsi come primo partito della coalizione scavalcando la Lega mettendone, quindi, in discussione la leadership.
    L'elezione di Draghi alla presidenza della Repubblica renderebbe molto probabile il ricorso ad elezioni politiche anticipate e forse la Lega riuscirebbe a mantenere Il primato nella coalizione di centrodestra così da proporre il proprio leader per la guida del governo prossimo venturo.
    Non è invece da escludere che, se l'attuale esecutivo dovesse durare sino alla naturale conclusione della legislatura, possa giungere a compimento quella "operazione sorpasso" che Fratelli d'Italia ha già da tempo avviato nei confronti della Lega. E, in tal caso, non sarebbe facile per Salvini porre la propria candidatura alla presidenza del Consiglio.
    Per questo, anche se s'affollano i problemi che le forze politiche devono affrontare e risolvere nell'immediato e l'elezione del nuovo capo dello Stato appare (ma non lo è) ancora lontana, sotterraneamente ferve il lavorio, che impegna gli stati maggiori dei partiti per cercare una soluzione che eviti di giungere "al buio" all'appuntamento di febbraio.

     

  • DISISTIMA E DIFFIDENZA
    ECCO LA MALAPIANTA
    CHE BLOCCA I RAPPORTI
    FRA PARTITI E NEI PARTITI

    data: 11/09/2021 19:23

    C'è una parola che ben definisce i rapporti tra leader e forze politiche nel nostro paese. Questa parola è "diffidenza", vale a dire una reciproca mancanza di fiducia determinata dal sospetto di essere ingannati. Questo fenomeno non riguarda soltanto i rapporti tra i partiti, ma si verifica anche al loro stesso interno, provocando spesso effetti paralizzanti e bloccando sul nascere iniziative e progetti.
    Potremmo parlare, in proposito, di "politica del sospetto" che concerne, indistintamente, il centrodestra e il centrosinistra. C'è diffidenza, ad esempio, tra Matteo Salvini e Giorgia Meloni, che si contendono la guida della coalizione alla quale appartengono così come c'è, sul fronte opposto, tra Enrico Letta e Giuseppe Conte, ciascuno dei quali vorrebbe che spettasse al proprio partito la guida del raggruppamento al quale appartengono.
    Perché questa permanente conflittualità che diviene elemento determinante e caratterizzante della vita politica italiana?
    Alla base c'è, a nostro avviso, una mancanza di stima. È difficile, infatti, diffidare di coloro che si stimano poiché tra gli elementi che determinano la stima c'è, certamente, il riconoscimento di una lealtà che genera fiducia che è l'antitesi della diffidenza.
    Ciò non vuol dire - sia ben chiaro - connivenza.
    Un esempio fra tanti. Alcide De Gasperi e Palmiro Togliatti furono indiscutibilmente avversari e lo furono in modo decisamente aspro. Si contrastarono con durezza e il loro fu tutt'altro che un idillio. Basti pensare a quel che accadde prima, durante e dopo le elezioni del 1948, che costituirono una sorta di pietra miliare nella storia politica italiana.
    Eppure, sia De Gasperi, sia Togliatti, pur combattendo senza mezzi termini colui che era il proprio avversario al quale non fecero mai sconti, non diffidarono di lui poiché alla base del loro rapporto c'era, appunto, una stima profonda che non lasciava spazio alla diffidenza.
    Adesso, invece, politici e partiti si guardano con sospetto perché, al fondo, si disistimano.
    Nascono da questa "diffidenza-disistima" due conseguenze: la prima è che gli uni ritengono di poter facilmente, non diciamo imbrogliare, che è un brutto termine, ma farsi gioco dell'altro; la seconda è che tutto si svolge con lentezza estrema, attraverso trattative spesso estenuanti, che la gran parte delle volte producono risultati che non possono non essere considerati scadenti.
    È possibile estirpare la malapianta della diffidenza? Ci sia consentito di esprimere, al riguardo, un forte scetticismo che nasce proprio dalla considerazione dello scarso livello del nostro cosiddetto personale politico.

     

  • VIETNAM E AFGHANISTAN
    DUE "CASI" DIFFERENTI

    data: 04/09/2021 19:57

    Non c'è dubbio che, a prima vista, si può avere l’impressione che la vicenda dell'Afghanistan e quella del Vietnam siano tra loro comparabili. A determinare questa impressione è il fatto che entrambi gli eventi hanno segnato una clamorosa debacle del colosso americano. Ancora una volta il piccolo Davide ha sconfitto il gigante Golia.
    Ma mettere sullo stesso piano vietcong e talebani è, in realtà, un formidabile errore perché, al di là delle apparenze, la caduta di Saigon e quella di Kabul sono “casi” ben differenti tra loro..
    Se osserviamo quel che oggi è diventato il Vietnam unificato, non possiamo non constatare che il paese, nato dopo una lunga guerra con gli americani, si è perfettamente organizzato ed è addirittura all'avanguardia nel continente asiatico non solo dal punto di vista politico, ma anche da quello economico e sociale come dimostrano, tra l'altro, i brillanti risultati conseguiti da questo paese nella lotta al Covid.
    La situazione afghana è completamente diversa e molti dubbi esistono sulla possibilità che i talebani, pressati come sono da organizzazioni terroristiche come Al Qaeda e, soprattutto l'Isis, possano in un prossimo futuro "normalizzarsi".
    Il fatto è che nella situazione dell'Afghanistan pesa notevolmente quel fondamentalismo religioso che nella vicenda vietnamita non esisteva.
    Così i talebani e i loro alleati si muovono secondo le norme di un islamismo esasperato da essi creato e che nulla ha a che vedere con la vera religione musulmana, basato com'è sull'odio e sulla mancanza di rispetto per la vita umana.
    E proprio per questo appare assolutamente disdicevole lo sconcertante silenzio dei paesi islamici nella vicenda afghana e la loro mancata condanna delle idee e del comportamento dei talebani che danno al mondo un'idea dell'Islam orrenda quanto falsata.
    Se, dunque, ad un primo impatto l'equiparazione tra vietcong e talebani, per la clamorosa sconfitta inferta dagli uni e dagli altri agli americani, può essere comprensibile, ad una analisi solo un poco più attenta non si può non convincersi che una simile equiparazione sarebbe un micidiale errore.
    I vietcong agivano in attuazione del principio dell'autodeterminazione dei popoli che supera ogni incrostazione ideologica. Il principio - se principio si può chiamare - che ispira i talebani è un altro: è quello di dar vita ad uno Stato islamico nel quale la parola "islamico" può tranquillamente essere sostituita dalla parola "terrorista".
    Saigon e Kabul sono cose ben diverse. Attenzione a non dimenticarlo e a non cadere nella trappola di paragoni impropri.
     

  • PERCHE' GIORGIA MELONI
    NON SARA' PRIMO MINISTRO

    data: 28/08/2021 18:15

    Non v'è dubbio che Giorgia Meloni, qualunque opinione si abbia di lei e del suo partito, sia il personaggio politico del momento. Per chi abbia dubbi al riguardo è sufficiente far riferimento alle più recenti classifiche sulla vendita dei libri di saggistica che vedono al primo posto il suo "Io sono Giorgia". Un interesse certamente provocato più dalla curiosità per colei che ne è l'autrice che dalle sue qualità letterarie.
    Ma, preso atto di questo, è naturale chiedersi se la Meloni possa realisticamente pensare - obiettivo comune a tutti i più ambiziosi leader politici e che lei stessa ha dichiarato di perseguire - alla guida del governo prossimo venturo.
    Perché ciò sia possibile occorre che si verifichino due condizioni preliminari: che Fratelli d'Italia sia il partito più votato all'interno della coalizione di centrodestra e che la stessa coalizione risulti maggioritaria rispetto a quella di centrosinistra.
    Entrambe queste condizioni sono possibili se non addirittura - stando ai sondaggi - probabili. E, tuttavia, non basta.
    Per ottenere l'incarico dal presidente della Repubblica e dare vita ad un nuovo esecutivo, la Meloni dovrebbe poter disporre di una maggioranza in Parlamento. Con i consensi di quali forze politiche potrebbe ottenerla?
    Scontato il "no" del Pd, è molto improbabile che su di lei possano convergere i voti di Matteo Salvini e della Lega.
    Dopo il "patto d'acciaio" stipulato con Silvio Berlusconi (sempre alla ricerca di un punto d'appoggio per una sua improbabile rinascita politica) il capo del Carroccio è favorevole ad un'intesa elettorale a tre con Fratelli d'Italia, ma finalizzata a portare lui alla guida del governo e non certamente la Meloni, per la quale non ha alcuna simpatia considerandola la sua principale rivale.
    Questa rivalità si è, negli ultimi tempi, ulteriormente accentuata essendosi la leader di Fratelli d'Italia impegnata in una sorta di "campagna acquisti" nei confronti di quei parlamentari leghisti che non condividono l'appoggio a Mario Draghi.
    Stando così le cose, non crediamo proprio che Salvini sarebbe disposto a dire il proprio "si" ad una presidenza di Giorgia Meloni. Ed è da pensare che ancor più perentorio sarebbe il "no" del Pd.
    Quanto ai cinquestelle (che dal prossimo turno elettorale dovrebbero comunque uscire fortemente ridimensionati) i rapporti con Fratelli d'Italia sono a dir poco pessimi. È pur vero che, con i pentastellati, tutto è sempre possibile, ma un loro appoggio alla Meloni sarebbe del tutto sconcertante.
    Se è dunque vero, per dirla con Otto von Bismarck, che "la politica è l'arte del possibile" , bisogna ritenere irrealizzabile l'ipotesi di un governo affidato alla leader di Fratelli d'Italia, anche perché è da tener presente - e la cosa non è da sottovalutare - che la sua avversione alla UE e il suo sovranismo esasperato, ci relegherebbero ai margini dell'Europa. Il che non è certo, in questo momento, auspicabile.
     

  • ALLE ELEZIONI D'AUTUNNO
    LETTA SI GIOCA TUTTO

    data: 22/08/2021 12:58

    L'esito dei sondaggi più recenti non è di particolare conforto per Enrico Letta. Ma la vera svolta per il segretario del Pd - quella da cui probabilmente dipenderà la sua permanenza alla guida del partito - è legata ad una ben precisa scadenza: quella del 4 ottobre prossimo, quando saranno noti i risultati dell'importante tornata elettorale amministrativa e delle elezioni suppletive di Siena alle quali Letta si è candidato per poter tornare alla Camera dei deputati. In questo duplice test il segretario del Pd gioca gran parte della sua credibilità e sarà chiamato a verificare la bontà delle scelte da lui compiute in questi ultimi mesi.

    Quando, succedendo a Nicola Zingaretti, assunse la leadership del partito, Letta aveva di fronte a sé due obiettivi: riassorbire la diaspora che aveva provocato una sorta di spezzettamento del partito e stipulare una solida alleanza per fronteggiare, con qualche speranza di successo, la coalizione di centrodestra che le previsioni danno per "grande favorita". Finora Letta non è riuscito a conciliare i due obiettivi che hanno finito con il rivelarsi addirittura antitetici tra loro.

    I gruppi "ribelli" del partito, infatti, non gradiscono le concessioni, in verità a volte eccessive, del segretario nei confronti dei pentastellati e Letta sembra, per contro, meno aperto al dialogo di quanto ci si potesse aspettare nei confronti dei suoi ex compagni.

    Un esempio per tutti, quello di Siena. Letta ha decisamente rifiutato ogni possibilità di alleanza con Matteo Renzi che, nonostante la demonizzazione della quale è stato fatto oggetto, in Toscana è probabilmente in grado di esercitare ancora qualche influenza.

    Né Letta ha reso possibile - proprio a causa della sua predilezione per i pentastellati - il ritorno nel partito di Pier Luigi Bersani, che pure aveva manifestato una certa disponibilità a ricongiungersi con quella che, a suo tempo, definì "la ditta" che era un modo per accreditarla come "la casa di appartenenza".

    È lecito chiedersi che cosa accadrà nel caso in cui il leader democratico dovesse uscire sconfitto dal test di ottobre. Potrebbe il partito affrontare le importanti scadenze che aspettano il paese con un leader con il piombo nell'ala? E, d'altra parte, è mai possibile sostituire in questa fase il segretario?

    Una cosa è certa: qualunque sia il risultato delle elezioni di ottobre, Letta dovrà cambiare passo, imporre alla sua leadership quel ritmo e quella capacità d'iniziativa che sono finora mancati.
     

  • L'EQUILIBRISMO DI SALVINI
    TRA LA SUA BASE E DRAGHI

    data: 14/08/2021 19:06

    Una vignetta pubblicata nei giorni scorsi da un quotidiano a larga tiratura ci sembra fotografi in modo ineccepibile l'attuale situazione della Lega e spieghi il comportamento del suo leader, Matteo Salvini. Nella vignetta un interlocutore dice all'altro:"Decisivo l'atteggiamento della Lega sul green pass". E l'altro risponde: "O si fa come dico io oppure come dice Draghi". C'è, in questo scambio di battute, tutto l'equilibrismo al quale Salvini è costretto a far ricorso, in bilico tra la linea oltranzista della Lega e quella più moderata di Mario Draghi.
    Che Salvini miri a succedere all'attuale presidente del Consiglio a Palazzo Chigi non è un mistero per nessuno. Ma, per sperare di raggiungere questo obiettivo, il leader del Carroccio ha assoluta necessità di riuscire a contemperare due esigenze che sono, almeno all'apparenza, incompatibili: quella di consolidare il suo legame con la base dura e pura della Lega e quella di accreditarsi come il più affidabile tra i leader della coalizione di centrodestra.
    Salvini è convinto che Berlusconi faccia di tutto per dare l'impressione di essersi perfettamente ripreso dai problemi di salute che lo hanno recentemente afflitto, rilasciando un giorno sì e l'altro pure interviste per dare di sé l'immagine di un leader moderato e liberale, ma che non potrà più assumere incarichi di governo. E quanto a Giorgia Meloni, che è certamente la sua concorrente più insidiosa, non le può assolutamente giovare la linea seguita, cioè quella di collocarsi all'opposizione di Draghi e di avversare l'Unione europea e le sue decisioni.
    Ma Salvini sa anche che la condizione principale perché egli possa, con speranza di successo, porre la sua candidatura alla guida del governo è che la sua Lega si accrediti nelle prossime elezioni come la forza in grado di ottenere il più elevato numero di consensi superando sia Fratelli d'Italia sia il Pd.
    Per conseguire questo obiettivo, tuttavia, Salvini non deve perdere neppure un voto nei territori tradizionalmente leghisti e conquistare nuovi spazi nel centro sud.
    Non è un'impresa facile perché i leghisti del nord, formatisi sotto la guida di Umberto Bossi, non hanno rinunciato al populismo, al sovranismo, all'antieuropeismo e alla loro avversione per coloro ai quali, sprezzantemente, riservano l'appellativo di "terroni": tutte caratteristiche della loro linea politica che male si conciliano con l'appartenenza ad uno schieramento che si riconosca nelle posizioni di Draghi!
    Ecco perché, per assecondare le proprie ambizioni e rendere credibile la propria candidatura alla guida del governo, Salvini è costretto a trasformarsi in una sorta di equilibrista, facendo forza alla propria natura.

  • MA RESTA IL PROBLEMA:
    CHI COMANDA NEL M5S?

    data: 09/08/2021 11:16

    Può apparire strano. Ma mai come nell'attuale fase politica, che lo vede destinato ad un forte ridimensionamento dopo le prossime elezioni, il movimento Cinquestelle sta vivendo una situazione di assoluta tensione per stabilire chi sia il suo reale leader suscitando, nel contempo, l'attenzione delle altre forze politiche.
    A contendersi la leadership sono almeno in tre: Beppe Grillo, Luigi Di Maio e Giuseppe Conte
    Non inganni, infatti, la maggioranza bulgara con la quale quest'ultimo è stato eletto alla presidenza del partito (oltre il novanta per cento). Il problema resta: chi comanda nel partito?
    Detto brutalmente, si potrebbe essere indotti a liquidare la faccenda con una battutaccia: "Fatti loro".
    Ma, malgrado i pentastellati siano in uno stato di decadenza a prima vista irreversibile, continuano a far leva su una "rendita di posizione" che consente loro, come fu per il Psi craxiano, di essere determinanti per la formazione o meno di una coalizione maggioritaria (ed è proprio per questo che Letta e il Pd, nella convinzione che senza i cinquestelle non riuscirebbero a battere la concorrenza del centrodestra, continuano a blandirli).
    In questa situazione, mentre Grillo mira a esercitare il ruolo di "grande guru" del movimento, anche se, negli ultimi tempi, il suo carisma è apparso fortemente appannato, Di Maio e Conte sono espressione di due diverse linee politiche.
    Di Maio sembra più che mai deciso a sostenere il governo Draghi. Particolarmente attivo nel mantenere i rapporti con i mass media, il ministro degli Esteri ha ribadito con forza, a più riprese, il proprio impegno in questo senso, differenziandosi così dalla posizione del suo presidente.
    Ufficialmente Di Maio tiene a rimarcare di essere assolutamente allineato con Conte ma lascia, tuttavia, chiaramente intendere di differenziarsi da lui.
    Conte, peraltro, non nasconde di guardare al suo successore con molta diffidenza e di avere nei confronti del suo governo più di una riserva.
    Bisogna, tuttavia, prendere atto di una realtà e cioè che, nonostante il loro declino, i cinquestelle continuano ad esercitare un loro fascino; un fascino al quale sembra non riuscire a sottrarsi neppure Mario Draghi.
    Il presidente del Consiglio, infatti, non snobba minimamente i pentastellati, tant'è che, proprio in questi giorni, ha avviato con loro, come ha rivelato il presidente della Camera Roberto Fico, una trattativa per migliorare quel "reddito di cittadinanza" che essi considerano il loro "fiore all'occhiello" e che, invece, secondo altri (Renzi, ad esempio), considerati i molti danni che ha provocato, andrebbe del tutto abolito.

     

  • CONFERMA DI MATTARELLA:
    E' PROPRIO DA ESCLUDERE?

    data: 02/08/2021 18:14

    Non c'è bookmaker disposto a scommettere sulla possibilità di una conferma di Sergio Mattarella al Quirinale dopo che lo stesso diretto interessato ha escluso, con perentoria determinazione, l'ipotesi di poter accettare un rinnovo del suo mandato.
    Eppure, nei corridoi dei palazzi romani della politica, dove si ricorda che, in politica, vige la regola del "mai dire mai", la voce secondo cui l'attuale Presidente potrebbe alla fine, messo alle strette, accettare, sia pure a termine, la riconferma alla presidenza della Repubblica, così come fece il suo predecessore Giorgio Napolitano, continua a circolare.
    A dar forza ad una simile eventualità, è soprattutto una considerazione logica.
    È opinione largamente diffusa, infatti, che il candidato più idoneo a succedere a Mattarella, sarebbe Mario Draghi. Proprio a lui, del resto, si era pensato sin da quando aveva lasciato la presidenza della Banca centrale europea. Il suo nome come futuro inquilino del Quirinale era sulla bocca di tutti.
    Ma i positivi risultati conseguiti dal governo sotto la sua guida, e il gradimento manifestato dall'opinione pubblica e dall'Unione europea per il lavoro svolto dal suo esecutivo, hanno indotto politici e osservatori a ritenere, in larga maggioranza, che il paese potrebbe subire un trauma nel caso in cui egli lasciasse la presidenza del Consiglio.
    È tuttavia evidente che sulla designazione di un altro candidato al Quirinale ben difficilmente sarebbe possibile raggiungere un accordo tra le due coalizioni e al loro stesso interno.
    Si rischierebbe, quindi, di dar vita, come accaduto in precedenti, analoghe occasioni ad un lungo periodo - destinato a durare per chissà quanto tempo - di scontri e di tensioni, con il moltiplicarsi dei "franchi tiratori ", che come si sa nelle elezioni presidenziali affiorano sempre in gran numero.
    Tutto questo, certo, non gioverebbe al paese in un periodo delicato come l'attuale.
    Insomma, quella che si prospetta è una situazione complessa che richiede un collettivo esercizio di senso di responsabilità.
    Ecco perché i partiti cominciano a domandarsi se non sia davvero possibile che Mattarella ritorni sui suoi passi e accetti di veder rinnovato il suo mandato.
    A far pensare che ciò sia possibile è, al di là di tutte le pressioni che potranno essere esercitate su di lui in questi mesi dalle forze politiche, è la constatazione che tutto il settennato di Mattarella è stato caratterizzato da un profondo senso dello Stato. Ed è proprio il senso dello Stato l'arma sulla quale fanno leva coloro - e sono in molti - che sperano ch'egli resti al suo posto almeno sino alla fine della legislatura.

     

  • RIFORMA DELLA GIUSTIZIA:
    SCIOGLIERA' MOLTI NODI

    data: 24/07/2021 17:50

    Sulla scrivania di Mario Draghi non ci sono soltanto i dossier sul Covid e sulle modalità da seguire per far fronte a questo virus maledetto, ma la ingombrano, da qualche tempo, anche quelli relativi alla riforma della giustizia penale della quale, recentemente, il Consiglio dei ministri ha esaminato gli emendamenti e che, prossimamente, dovrà essere discussa in Parlamento.
    Il fatto che il voto del Consiglio dei ministri sia stato unanime, non deve creare illusioni. Contrasti ce ne sono ancora, e molti, tra i partiti e nei partiti (e perplessità sono già state manifestate dall'Avvocatura dello Stato e dall'associazione dei magistrati) cosicché, per il premier, condurre in porto questa riforma è compito tutt'altro che facile. I nodi da sciogliere sono ancora molti e molte sono le implicazioni che l'approvazione o meno della riforma comporta.
    In primo luogo queste implicazioni concernono il movimento Cinquestelle, già profondamente lacerato al suo interno e che sul tema della giustizia rischia di esplodere clamorosamente. È pur vero che, incontrando Draghi a Palazzo Chigi, Conte ha assicurato al suo successore la piena collaborazione del suo partito sulla giustizia. Ma chi gli è vicino non nasconde che le perplessità dell'ex presidente del Consiglio restano, così come restano le riserve di una parte non irrilevante del partito.
    Prima di giungere all'approvazione della riforma, dunque, è assai probabile che Draghi si troverà a dover affrontare molti altri ostacoli.
    Per contro, se la riforma dovesse essere approvata, il prestigio dell'attuale esecutivo si accrescerebbe notevolmente e costituirebbe un'ulteriore conferma della opportunità di non modificare - almeno sino alla fine della legislatura - l'assetto di governo attuale.
    L'approvazione della riforma della giustizia - un obiettivo raggiunto dopo aver superato un gran numero di ostacoli e dopo una serie di fallimenti registrati dai precedenti governi - costituirebbe, inoltre, uno straordinario successo della ministra Cartabia. E sulla scia di un tale successo, qualora ragioni di opportunità consigliassero di non spostare Draghi da Palazzo Chigi, farebbe balzare la Cartabia al primo posto nella lista dei candidati al Quirinale.
    Verrebbe considerato con simpatia il fatto che, per la prima volta, la presidenza della Repubblica fosse affidata a una donna, ma giocherebbe a favore della Cartabia, anche un dato più strettamente "politico" . La sua candidatura, infatti, si qualificherebbe non per l'appartenenza a questo o a quello schieramento, ma per una valenza squisitamente "tecnica", essendo stata, tra l'altro, presidente della Corte costituzionale. Ciò potrebbe consentire di raccogliere attorno a lei un vasto numero di consensi e farebbe sì che le elezioni presidenziali, evitando traumi e polemiche, non registrassero né vincitori, né vinti.
     

     

  • UN ENIGMA DA SCIOGLIERE:
    MA CHI E' MATTEO SALVINI?

    data: 17/07/2021 19:33

    "Todo cambia" avverte una vecchia canzone spagnola. È vero, tutto cambia. Ma ci sono cambiamenti che non possono non lasciare interdetti e dei quali si cerca di individuare le ragioni che li hanno determinati. Così, nell'osservare le trasformazioni di cui è stato protagonista, negli ultimi anni, Matteo Salvini, che fanno di lui una sorta di "Fregoli della politica", non può non sorgere spontanea - come direbbe Antonio Lubrano - una domanda: "Chi è, realmente, il leader della Lega?".
    Sfrontato sino all'impudenza, arrogante, contrario a ogni sorta di compromesso, anti europeista e antitaliano. Così ci era apparso Salvini sino a qualche tempo fa, da quando aveva fatto la sua apparizione sul palcoscenico della politica subentrando a Umberto Bossi alla guida del Carroccio.
    All'improvviso la trasformazione. Ora il leader leghista si presenta in modo radicalmente diverso: disponibile al dialogo, strenuo difensore dell'Italia e della sua identità, rispettoso del proprio interlocutore, attento alle problematiche europee,
    Ecco perché è lecito chiedersi chi sia, in realtà, Salvini, quale sia, effettivamente la sua personalità .
    L'interrogativo non è fine a se stesso, ma ha una precisa valenza politica. È pur vero, infatti, che è assurdo pretendere che a un politico sia inibito cambiare opinione. Anzi, spesso bisogna riconoscere che saper cambiare idea non è un difetto, ma una virtù.
    E, tuttavia, nel caso di Salvini e delle sue ricorrenti trasformazioni, ci sia consentito esprimere almeno due perplessità.
    Per la prima prendiamo a prestito una frase di Arthur Schopenhauer il quale ammonisce che "gli uomini mutano sentimenti e comportamenti con la stessa rapidità con cui si modificano i loro interessi”.
    In altri termini: può davvero Salvini garantire che i suoi cambiamenti sono realmente determinati da una legittima presa d'atto del fatto che la politica e le sue scelte devono adeguarsi alle mutazioni che intervengono nella società o sono ispirate soltanto da ragioni di mero opportunismo?
    Il secondo motivo di perplessità, strettamente collegato al primo, concerne il rapporto con i propri elettori che rischiano di essere sbandati di fronte ai continui giri di valzer del loro leader.
    Forse, perciò, il capo del Carroccio dovrebbe riflettere sulle ragioni per cui, stando ai sondaggi, Fratelli d'Italia di Giorgia Meloni ha superato la Lega nei consensi degli elettori e punta ora, senza esitazioni, ad assumere, se i dati a lei favorevoli saranno confermati, la guida della coalizione di centro destra che finora era apparsa appannaggio del leader leghista. 

  • LA CRISI DEI CINQUESTELLE
    E LA MANCANZA
    DI INIZIATIVA DI LETTA

    data: 09/07/2021 16:21

    C'è anche in politica un "effetto domino", una reazione a catena in virtù della quale il verificarsi di un evento è destinato a ripercuotersi anche al di là di dove è avvenuto. Così, com'era prevedibile, la clamorosa crisi verificatasi nei cinquestelle con la rottura tra Beppe Grillo e Giuseppe Conte scuote anche il Pd che Enrico Letta, come il suo predecessore Nicola Zingaretti, ha posto a fondamento della sua politica.
    La domanda che soprattutto ci si pone è se i pentastellati continueranno a sostenere il governo di Mario Draghi. L'esigenza che il fronte favorevole al presidente del Consiglio serri le file è resa ancor più pressante dopo che la Lega e Fratelli d'Italia hanno formalmente aderito all'alleanza sovranista costituita recentemente a Bruxelles da quanti contestano l'Unione europea e appaiono intenzionati a contrastare, nei loro rispettivi paesi, le sue indicazioni.
    Come Salvini riesca a conciliare l'appartenenza a questa alleanza con l'appoggio al governo Draghi che fa dell'europeismo e, quindi, dell'antisovranismo, il proprio fondamentale punto di riferimento, resta una delle grandi e inspiegabili contraddizioni della vita politica del nostro paese. Una contraddizione che si unisce a quella che ha visto, negli ultimi tempi, marciare di comune intesa la Lega salviniana e Italia viva di Matteo Renzi.
    Ma tant'è. Quel che, al momento, ci sembra meriti di essere rimarcato è che lo stato confusionale nel quale versano i cinquestelle a causa dello scontro tra Conte e Grillo rischia di creare una situazione altrettanto confusa nel Pd. Ecco perché appare sempre più necessario che Letta assuma una iniziativa che renda il suo partito protagonista della situazione politica. In altri termini il segretario del Pd non può continuare a rimanere a totale rimorchio dei cinquestelle.
    Sta accadendo, invece, il contrario, come conferma il rifiuto, voluto dai pentastellati, di aprire un dialogo su eventuali modifiche da apportare alla legge contro l'omofobia.
    In tal modo il Pd sembra consegnarsi ad un ruolo secondario all'interno della coalizione della quale fa parte e, al tempo stesso, finisce con il valorizzare il ruolo della Lega che sta abilmente imponendosi come forza moderata e dialogante.
    In questo stato di cose è sempre più evidente, come abbiamo detto all'inizio, che le vicende dei cinquestelle finiscano con il condizionare sia il futuro del Pd, sia l'intera vita politica nazionale. Ed è sorprendente che ciò accada proprio nel momento in cui i cinquestelle attraversano il periodo di maggiore difficoltà del loro travagliatissimo percorso.

     

  • RIASSORBIRE LA DIASPORA
    IMPERATIVO PER LETTA

    data: 03/07/2021 13:14

    Uno degli obiettivi - forse il principale - che Enrico Letta si è posto, succedendo a Nicola Zingaretti alla segreteria del Pd, è stato quello di ricomporre la diaspora che, negli ultimi anni, si è verificata nel partito. Finora l'obiettivo non è stato raggiunto e tuttavia Letta non ha deposto le armi. Il suo principale interlocutore, in questo contesto, sembra essere Pier Luigi Bersani che uscì dal partito nel 2017 per contrasti con l'allora segretario Matteo Renzi, insieme con Roberto Speranza e Massimo D'Alema.
    Si disse, all'epoca, che la sua volontà era stata coartata, in qualche misura, da D'Alema e, in effetti, l'uscita di Bersani dal partito aveva suscitato più di una perplessità, tanto più che era stato proprio lui ad affermare che "non si abbandona la ditta", cioè la formazione alla quale è legata la propria storia politica. In realtà, Bersani ha sempre sofferto, e non poco, l'abbandono del partito nel quale ha militato sin dagli anni della gioventù, dando tutto se stesso e del quale è anche stato segretario dal novembre 2009 all'aprile 2013.
    Bersani avrebbe potuto far ritorno alla "casa madre" quando ad uscire fu Renzi. Ma non colse il momento. Ora, con l'avvento di Letta alla guida del partito e soprattutto con l'impegno di questi a riportare all'ovile le "pecorelle smarrite", l'occasione sembra ripresentarsi.
    Bersani, tutavia,continua a recitare la parte del “sor Tentenna”e, anche per giustificare pubblicamente il ritorno, porrebbe alcune condizioni tra le quali quella di modificare la denominazione del partito. All'apparenza potrebbe sembrare che il nodo non sia difficile da sciogliere. In realtà è più complicato di quel che appaia perché un tale cambiamento non sarebbe probabilmente gradito dalla componente ex democristiana della quale il segretario "dem" deve pure tener conto. Inoltre il cambio del nome del partito potrebbe creare qualche sbandamento nell'elettorato già incerto sull'opportunità di riaprire le porte a Bersani, spostando a sinistra l'asse del partito.
    Ma, in realtà, la domanda di fondo è se un mutamento di denominazione sia di per sé sufficiente non solo a riassorbire la diaspora degli ultimi anni, ma a rilanciare il Pd.
    Quel che soprattutto al Pd fa difetto è la mancanza di una precisa identità, una capacità di rendersi interprete delle richieste della gente, una linea politica che ne faccia il concreto punto di riferimento della turbolenta vita politica italiana.
    È su questo che è mancata la segreteria di Zingaretti e non sembra che su questa strada Letta abbia compiuto passi in avanti. Fino a quando ciò non avverrà, qualsiasi riunificazione dovrà essere considerata fittizia, frutto unicamente di reazioni di carattere emotivo.

     

  • MA HANNO UN FUTURO
    I GRILLINI SENZA CONTE?

    data: 26/06/2021 20:31

    La disputa, all'interno dei cinquestelle tra Giuseppe Conte e Luigi Di Maio, è cosa nota (ce ne siamo già occupati). Ma questa disputa passa ora in secondo piano, essendosi arricchita di nuovo elementi destinati - nonostante il declino dei pentastellati - a condizionare, già dal prossimo futuro, gli sviluppi della vita politica. Questi elementi sono costituiti, in primo luogo, dalla rottura del rapporto tra l’ex premier e Beppe Grillo, clamorosamente esplosa nella riunione dei deputati del Movimento; in secondo luogo dall’inserimento del Pd nella polemica.
    È vero che Enrico Letta, sulla scia del suo predecessore Nicola Zingaretti, tiene in modo particolare all'alleanza con la squadra dei grillini, considerandola strategica per battere il centrodestra nella prossima tornata elettorale. Ma quali sono i cinquestelle con i quali il Pd vuole allearsi?
    Per lungo tempo il "prediletto" è sembrato essere Conte, sempre disponibile ad adeguarsi alle richieste dei "dem". E questa sua disponibilità era stata anche la ragione di fondo che aveva indotto Beppe Grillo a puntare su di lui quale guida operativa del Movimento preferendolo allo scalpitante Di Maio.
    Ma, da quando Mario Draghi lo ha sostituito alla testa del governo, si è verificata in lui una radicale trasformazione non soltanto politica. Conte non è più l'acquiescente esecutore di strategie altrui. Vuole essere lui a dettare le scelte e i modi attraverso i quali raggiungere gli obiettivi che prefigura per i pentastellati sia in politica interna che in politica estera e a definire un nuovo organigramma per la dirigenza, formato esclusivamente da persone di sua assoluta fiducia.
    Inoltre, ha lasciato chiaramente intendere che se ottenesse realmente la guida dei cinque stelle, il sostegno a Mario Draghi non sarebbe destinato a durare a lungo.
    Tutto questo non poteva non provocare una duplice reazione, sia tra i cinquestelle che nel Pd.
    Con il suo sempre più evidente tentativo di impossessarsi del Movimento l'ex presidente del Consiglio ha finito con l'alienarsi i favori dello stesso Beppe Grillo che, a suo tempo, lo scelse proprio per la docilità ch'egli manifestava e che ne faceva una sorta di "yes man" agli ordini del vertice del partito.
    Grillo, nella riunione dei deputati, non ha usato mezzi termini. Ha bocciato senza appello le proposte di Conte e si è rivolto a lui in termini che solo con un eufemismo possono essere definiti poco cortesi.
    Quanto al Pd, pur essendo Letta, come abbiamo detto, convinto della indispensabilità dell'intesa con i cinquestelle, non è disposto ad accettare che sia Conte a dettare la linea della coalizione che dovrebbe opporsi al centrodestra.
    Di qui l'avvicinamento a Di Maio, considerato uno strenuo avversario dell'ex premier.
    Nasce dal “combinato disposto” degli insulti di Grillo e della presa di distanza del Pd il proposito di Conte di abbandonare il Movimento forse con il proposito di dar vita ad una sua forza politica.
    Ė fuor di dubbio che, per i pentastellati l’uscita di scena di Conte costituirebbe un colpo mortale dato che, nei sondaggi, l’ex presidente del Consiglio continua a raccogliere vasti consensi.

     

  • C'E' DA CHIEDERSI A CHE SERVANO LE PRIMARIE

    data: 19/06/2021 18:03

    È tempo di primarie. Le forze politiche si preparano alle elezioni amministrative del prossimo autunno (si svolgeranno tra il 15 settembre è il 15 ottobre) che coinvolgono 1137 comuni tra i quali sei capoluoghi (Trieste, Torino, Milano, Bologna, Roma, Napoli). Si tratta di un test, come si vede, di notevole interesse e dal cui esito dipenderanno, in gran parte, gli equilibri politici del prossimo futuro.
    È per questo che alle primarie viene attribuita tanta importanza dovendo designare non il leader di questo o quel partito, ma il leader di una coalizione che dovrebbe assumere la carica di sindaco.
    Nasce di qui la difficoltà del percorso che si sta compiendo. Le due coalizioni che si fronteggeranno nel voto sono, infatti - diciamolo senza infingimenti - due sgangherati raggruppamenti tenuti insieme non da un progetto comune, ma unicamente dall'ansia del potere, dal desiderio di occupare il maggior numero possibile di poltrone
    Se obiettivo delle primarie è quello di favorire la più ampia partecipazione di cittadini alle scelte dei partiti, è lecito domandarsi quali idee possano farsi gli elettori del mandato che, con il loro voto sono chiamati a dare.
    Per il centrodestra si presentano al loro giudizio tre partiti divisi su una questione a dir poco fondamentale qual è quella della linea da tenere nei confronti del governo che due dei tre membri della coalizione, Lega e Forza Italia, sostengono, mentre il terzo, Fratelli d'Italia, contesta, collocandosi all'opposizione. Una situazione, come si vede, all'insegna della massima confusione.
    Non è più chiara la posizione della coalizione opposta il cui nucleo centrale è costituito dall'alleanza tra Pd e Cinquestelle che non perdono occasione per battibeccarsi tra loro quotidianamente senza trovare un'intesa su nulla o quasi nulla.
    C'è da chiedersi, allora, a che servano queste primarie che dovrebbero favorire un più stretto collegamento tra i partiti e i loro elettori, ma che, nella sostanza, accentuano il distacco fino a configurarsi come una sorta di vero e proprio imbroglio.
    Né il futuro lascia intravedere prospettive migliori perché l'annunciata federazione tra Forza Italia e Lega alla quale, dopo un'iniziale diffidenza, Berlusconi ha dato la sua benedizione, renderà ancor più profondo il fossato tra coloro che sostengono il governo e coloro che lo avversano, mentre nel centrosinistra l'intesa tra Pd e pentastellati è destinata a trovare ulteriori e ancor più forti contestazioni nelle basi di entrambi i partiti.
     

  • RAGIONAMENTO CRITICO
    SUI RAPPORTI FRA CONTE,
    DI MAIO E DRAGHI

    data: 12/06/2021 21:53

    Tra le tante dispute che quotidianamente fanno da contrappunto al dibattito politico c'è n'è una che, sia pure in maniera abbastanza sotterranea, va facendosi di giorno in giorno più aspra: quella tra Giuseppe Conte e Luigi Di Maio, entrambi impegnati a conquistare la leadership dei cinquestelle.
    Che i due non si amino e che tra loro sia da tempo in corso una guerra non dichiarata è cosa nota. Ma il contrasto sembra essersi accentuato da quando Conte ha dovuto cedere a Mario Draghi la guida del governo.
    In primo luogo perché Conte ritiene che Di Maio non lo abbia sostenuto abbastanza ed anzi abbia accolto con favore la nomina dell'ex presidente della Banca centrale europea; in secondo luogo perché l'ex presidente del Consiglio, dopo l'esperienza fatta, è rimasto più che mai contagiato dal virus della politica e non è assolutamente disposto ad uscire di scena.
    Passare alla guida del partito può perciò essere l'occasione propizia per rientrare nel "giro".
    È vero che, recentemente, dopo la rinuncia di Casaleggio, Conte e Di Maio hanno fatto mostra di marciare in piena concordia. Però non v'è chi non consideri fittizia tale intesa e non ritenga che i due, in realtà, stiano arrotando i coltelli per affrontarsi in una partita decisiva per stabilire a chi di loro spetti la guida dei pentastellati.
    Insomma, il fuoco brucia sotto la cenere: Conte può fare assegnamento sull'appoggio di Beppe Grillo e sul fatto che i sondaggi chiaramente indicano che la sua personale popolarità è attualmente ancora molto elevata.
    Di Maio - che, tuttavia, ha un maggior controllo sulla base del movimento - dovrà, dunque, far buon viso a cattiva sorte e accettare che la conventio del partito, in programma per la fine di giugno, sancisca ufficialmente l'incoronazione di Conte? Non è detto.
    Ma quel che preoccupa non è questo (le vicende interne dei cinquestelle sono di relativo interesse). Quel che suscita qualche apprensione è piuttosto il fatto che, a sentire i rumors che circolano nei palazzi della politica, Conte, una volta insediatosi al vertice del partito, mirerebbe a mettere in discussione l'appoggio al governo Draghi. Con quale obiettivo non è dato capire. Forse coltiva l'ambizione di un ritorno alla guida dell'esecutivo. Ma la sua ambizione contrasterebbe con quell'immagine di uomo di buon senso, senza troppi grilli per la testa, che gli ha procurato la popolarità della quale gode.

     

  • DIASPORA DI FORZA ITALIA:
    QUALI NUOVI EQUILIBRI?

    data: 05/06/2021 17:02

    Ci sono e ci sono stati partiti modellati sull'immagine del loro leader. Ma nessun partito è mai stato, forse, così leader-dipendente come Forza Italia. Silvio Berlusconi ne è stato non soltanto il fondatore, ma l'anima, colui che, nel bene e nel male, ne ha scandito l'esistenza.
    Ora le sue non brillanti condizioni di salute, sembrano relegarlo ai margini e, a giudizio dei più, difficilmente gli consentiranno di riprendere il ruolo che ha occupato per tanti anni. E poiché la politica è il più delle volte cinica e impietosa, sono in molti, all'interno di Forza Italia, a pensare di traslocare verso lidi più sicuri.
    Già alcuni hanno operato questo "trasferimento", ma è opinione largamente diffusa che il numero dei transfughi sia destinato ad aumentare nelle settimane a venire anche se il Cavaliere, con una lunga intervista al "giornale di famiglia", ha tentato di rilanciare il partito come forza-guida del centrodestra e di chiamare a raccolta i militanti.
    La disgregazione di Forza Italia è un elemento destinato a delineare il panorama politico nel prossimo futuro. Ci si domanda, perciò, verso quali formazioni politiche si indirizzeranno coloro che, presumibilmente, si accingono a lasciare Forza Italia anche se c'è chi, come Tajani, nel tentativo di frenare l'emorragia, continua ad affermare che ben presto Berlusconi tornerà in sella.
    Com'è ovvio, a contendersi i transfughi di quella che fu la potente "armata azzurra", sono la Lega e Fratelli d'Italia ed è la squadra di Giorgia Meloni quella che attira i maggiori consensi. Ma questa "caccia" agli ex di Forza Italia potrebbe rivelarsi un problema per il centrodestra perché acuisce ulteriormente la contrapposizione ormai palese tra i due partiti della coalizione.
    L'eventuale dissolversi degli "azzurri" creerebbe, inoltre, un vuoto evidente poiché Forza Italia ha, sino ad ora, rappresentato la componente di "centro" di un'alleanza che rimarrebbe del tutto scoperta in questo settore. Appare difficile, infatti, considerare di "centro" Fratelli d'Italia o Il Carroccio. E ciò rende difficile il passaggio ad una di queste formazioni per i "reduci" di Forza Italia.
    Di fronte a queste difficoltà è emerso il tentativo di dar vita, con la denominazione di "Coraggio Italia", ad una nuova forza della quale si sono fatti promotori il sindaco di Venezia Luigi Brugnano e il presidente della Regione Liguria Giovanni Toti. L'iniziativa mira alla creazione di un movimento di centro che dovrebbe spalleggiare Mario Draghi.
    Non sembra, tuttavia, che il nuovo partito (che ha finora raccolto più critiche che consensi) abbia l'appeal necessario per un'operazione certamente non facile.
    Giorgia Meloni e Matteo Salvini restano, perciò, alla finestra, ansiosi di vedere in qual modo la situazione si evolverà e consapevoli che l'eventuale diaspora di Forza Italia potrebbe essere determinante nella loro lotta per il primato all'interno del centrodestra.


     

  • SONO TRE I PARTITI
    IN GARA PER IL PRIMATO

    data: 01/06/2021 20:43

    S'annuncia una sfida politica di primaria importanza dall'esito della quale potrà in parte non irrilevante dipendere il futuro del nostro paese. Parliamo delle elezioni amministrative in programma tra il 15 settembre e il 15 ottobre prossimi che coinvolgeranno oltre mille Comuni tra i quali Roma, Napoli, Milano, Torino e Bologna. La consultazione avrebbe dovuto svolgersi questa Primavera ma, a causa del Covid, è stata rinviata all'autunno e la sua importanza, oltre agli aspetti localistici, pur rilevanti, è in larga misura dovuta al fatto che essa dovrà stabilire, quale sia, al momento, il partito principale, quello, cioè, in grado di raccogliere il più vasto numero di consensi.
    Non si tratta di una competizione meramente accademica perché dal suo esito potranno dipendere i prossimi assetti del panorama politico nazionale. A contendersi un tale primato - dopo il tracollo dei cinquestelle che lo detenevano - sono in tre: la Lega, Fratelli d'Italia e il Pd. Ma tutti e tre i contendenti (Fratelli d'Italia in misura certamente minore) sembrano vivere in uno stato confusionale.
    Prendiamo ad esempio il caso di Roma (ma gli altri Comuni non sono in una situazione dissimile).
    Il centrodestra, che stenta a individuare un candidato comune, è lacerato dalla divisione - ormai esplosa in tutta la sua evidenza - tra il Carroccio è Il partito di Giorgia Meloni, che si è chiaramente manifestata quando quest'ultima ha dichiarato di puntare alla presidenza del Consiglio. Matteo Salvini si era da tempo proposto per tale incarico, forte del fatto che i sondaggi indicavano (e tuttora indicano) il suo partito come il più forte della coalizione. Ma ora la forbice tra Lega e Fratelli d'Italia si è notevolmente attenuata ed è lecito chiedersi se le elezioni non faranno registrare - ipotesi non del tutto improbabile - il sorpasso dell'una partito sull'altro.
    E allora ?
    Sul fronte opposto, Enrico Letta - così si spiegano i suoi attacchi a Salvini - sta cercando di ricompattare la sinistra, sperando di realizzare quella svolta che con il suo avvento alla segreteria si sarebbe dovuta verificare, ma che non si è ancora registrata. In realtà il Pd stenta a recuperare le posizioni perdute, né sembra possa favorire la "rimonta" rendere più stretta l'alleanza con i cinquestelle che, anzi, si rivela come un motivo di ulteriore divisione all'interno del partito.
    La sfida a tre - Lega, Pd e Fratelli d'Italia - per conquistare il primato è, in ogni caso, in pieno svolgimento e si prepara ad una tappa di avvicinamento qual è il voto amministrativo d'autunno, già caratterizzato da contrasti e veleni.
     

     

  • SAPRANNO I PARTITI
    ARRIVARE PREPARATI
    AL "DOPO DRAGHI"?

    data: 22/05/2021 18:10

    Circola, nei palazzi romani della politica, la voce di una battuta che Mario Draghi avrebbe detto ai suoi collaboratori più stretti: "Ragazzi, state tranquilli che per Natale siamo tutti a casa". Che avrà voluto dire? Fioccano le interpretazioni. Natale a casa e, poi, trasferimento al Quirinale? O il presidente del Consiglio è stanco delle quotidiane battaglie con i partiti e con i loro leader e spera, finalmente, di poter vivere in serenità i suoi settant'anni e passa?
    Dalle risposte a questi interrogativi potrebbe in gran parte dipendere il futuro della politica italiana, a conferma che l'ex presidente della Banca centrale europea è, in breve tempo, divenuto il punto di riferimento attorno al quale ruota l'intero sistema istituzionale del nostro paese.
    Si tratta, in primo luogo, di un fenomeno che trae origine dal non eccelso livello della classe politica che, inevitabilmente, lascia spazio a chiunque si elevi ad un livello più alto (come Draghi,appunto).
    In effetti la sensazione prevalente nel mondo politico è che l'Italia, anche e soprattutto in considerazione della pandemia e delle sue conseguenze economiche, viva in una sorta di commissariamento. Draghi è come un commissario straordinario al quale è stato affidato il gravosissimo compito di pilotare il paese fuori dalla crisi.
    Per definizione ogni commissariamento per positivi che possano essere i risultati che da esso derivano, non deve superare un certo limite di tempo. È lo stesso Draghi, del resto, come abbiamo visto, il primo a rendersi conto che dovrà pur esserci un "dopo Draghi" al quale i partiti non possono giungere impreparati.
    Verso questa prospettiva, tuttavia, i partiti si muovono con molta incertezza, come avvolti nella nebbia. E, pur sapendo che l'Europa attraversa una fase non brillante della sua storia, riesce difficile non individuare proprio nell'appartenenza a questa comunità il nostro futuro.
    Sia chiaro: questo non vuol dire, assolutamente, che l'Italia debba rinunciare alla propria identità. È vero l'esatto opposto e cioè che chi aspiri a succedere a Draghi deve avere la sua stessa capacità di portare con forza l'identità italiana all'interno dell'Europa.
    È probabile, dunque, che nelle settimane a venire assisteremo ad un tentativo di ingraziarsi le simpatie dell'Unione europea anche da parte di coloro che, sino ad ora, l'hanno anche palesemente avversata. E non si tratterà soltanto di generiche affermazioni dì europeismo, ma di scelte concrete in linea con le indicazioni dell'Unione.
     

  • ORA SALVINI HA PAURA
    IL SUO FUTURO E' INCERTO

    data: 15/05/2021 17:52

    Si può avversare Salvini, la sua visione politica e la sua arroganza, ma non si può non riconoscere che tutto sia, fuorché uno sciocco. Se lo fosse non sarebbe riuscito a fare del suo partito quello che, stando ai sondaggi, è oggi la prima forza politica del paese.
    Ma proprio perché non è uno sciocco, Salvini comincia ad avvertire una paura che cede il passo alla sua abituale spavalderia. Il fatto è che il leader della Lega sembra essersi improvvisamente reso conto che molte delle sue certezze sembrano venute meno e che la marcia verso la conquista del governo che con tanta baldanza aveva intrapreso, è ancora irta di molti e non facilmente superabili ostacoli.
    L'avvento di Mario Draghi alla presidenza del Consiglio, infatti - anche se molti hanno fatto mostra di non essersene accorti - ha provocato quella che potremmo definire "una rivoluzione dolce" che ha profondamente modificato gli equilibri della politica.
    Il leader del Carroccio si è trovato dinanzi a un bivio: appoggiare Draghi avrebbe voluto dire lasciare a Giorgia Meloni il monopolio dell'opposizione; non appoggiarlo avrebbe probabilmente significato alienarsi definitivamente le già scarsissime simpatie delle quali gode presso l'Unione europea e non è facile che, alienandosi i favori dell’Europa, un politico possa riuscire ad ottenere la guida del governo in un paese della Comunità.
    Ma la possibilità di insediarsi a Palazzo Chigi che da tempo Salvini insegue e cHe è divenuta per lui una sorta di "chiodo fisso", verrebbe meno, in verità, anche se la Lega dovesse perdere la leadership della coalizione di centro destra. Tale leadership, infatti, è sempre più insidiata dalla crescita esponenziale di Fratelli d'Italia con cui, al di là delle apparenze i rapporti (lo rivelano le cronache quotidiane) si stanno facendo, di giorno in giorno, sempre più tesi.
    In ogni caso, dall’avvento di Draghi alla guida del governo, era evidente che Salvini avrebbe subito un danno.
    Probabilmente non poteva fare altra scelta che appoggiarlo. Ma ora ha paura e la paura, si sa, non è una buona consigliera. Determina uno stato di nervosismo sempre più evidente che preoccupa non solo Salvini, ma un po' tutti i dirigenti della Lega.
    Anche per questo il Carroccio insiste sulla candidatura di Mario Draghi alla presidenza della Repubblica e boccia ogni altra possibile candidatura, a cominciare da quella di Marta Cartabia, auspicando che Draghi lasci il posto al suo leader prima che la Meloni consolidi ulteriormente la sua posizione.
     

  • DIFFICILE MA NECESSARIO
    IL RAPPORTO
    FRA DRAGHI E I PARTITI

    data: 09/05/2021 18:53

    Non c'è bisogno di far ricorso a un veggente per comprendere che Mario Draghi e i partiti (anche quelli - e sono la stragrande maggioranza - che sostengono il governo) non si amano.
    L'uno e gli altri sono, a dir poco, infastiditi. Draghi rimprovera alle forze politiche - con le loro polemiche, i loro distinguo e le loro permanenti rivendicazioni - di svolgere un ruolo paralizzante nell'azione dell'esecutivo; i partiti accusano Draghi di voler assommare su di sé, violando le regole di un corretto sistema democratico, poteri che dovrebbero essere riservati alle forze politiche. Né a migliorare i rapporti giova il fatto che il presidente del Consiglio non sia stato eletto in una votazione popolare e non appartenga a nessun partito, il che lo renderebbe una sorta di corpo estraneo alla casta.
    Ma Draghi può fare a meno dei partiti e i partiti possono fare a meno di Draghi?
    Torna alla memoria la celebre frase di Ovidio: "Nec sine te, nec tecum vivere possum". Non posso vivere né senza di te, né con te.
    Come governerebbe Draghi senza l'ausilio dei partiti? E il governo come potrebbe andare avanti senza una guida autorevole qual è Draghi?
    C'è chi sostiene che un governo composto esclusivamente da tecnici, esperti dei vari settori, governerebbe meglio di un esecutivo "inquinato" dalla presenza dei politici.
    Non è vero. In primo quella di relegare ai margini la politica è un'operazione di stampo qualunquista e il qualunquismo ha una valenza esclusivamente protestaria, ma non può essere una formula di governo (così come non lo è il populismo - e il peronismo che ne è stato la più completa espressione lo dimostra - inevitabilmente destinato a degenerare nell'autoritarismo).
    In secondo luogo l'esperienza insegna che i governi tecnici raramente hanno governato bene.
    La "mediazione" della politica è sempre e comunque elemento indispensabile per dare equilibrio all'azione dell'esecutivo. Ecco perché è necessario che tra Draghi e i partiti si creino le condizioni per una convivenza quanto più possibile civile.
    È fuor di dubbio che quello tra il presidente del Consiglio e le forze politiche non è destinato ad essere - troppe sono le reciproche diffidenze - un matrimonio d'amore. Ma a volte, e potremmo dire spesso, sono i matrimoni d'interesse quelli che garantiscono a coloro che li contraggono, una più tranquilla "navigazione".
    C'è, allora, un interesse comune che può conciliare le rispettive posizioni di Draghi e dei partiti? Certamente. Ma è più che mai necessario che l'uno e gli altri compiano uno sforzo. È chiaro che Draghi "snobbi" un po' i partiti e spesso tenda a considerarli un elemento frenante della vita pubblica, così come è evidente che i partiti siano spesso portati a ritenere che il capo del governo agisca con eccessiva autonomia così da limitare i loro spazi.
    Queste reciproche "riserve mentali" non favoriscono l'assunzione di decisioni che, oltre tutto, richiedono quasi sempre il requisito della tempestività.
    Si deve, peraltro, andare avanti perché la pandemia non tiene conto dei "capricci" della politica e, se si vuole farvi fronte è più che mai necessario mantenere un'unità che non sia soltanto di facciata. E Draghi sa perfettamente che per il successo del suo mandato non può prescindere dalla collaborazione dei partiti. 

  • LA DIFFICILE RIFORMA
    DELLA GIUSTIZIA
    PUO' PORTARE CARTABIA
    AL QUIRINALE

    data: 03/05/2021 15:21

    Evita accuratamente, per quanto è possibile, di stare sotto la luce dei riflettori, ma è proprio lei, evitando paralizzanti polemiche, ad essere impegnata nel mettere a punto la più importante delle riforme che il governo, anche per rispettare gli impegni presi da Mario Draghi con l'Unione europea, dovrebbe varare in termini relativamente brevi. Parliamo di Marta Cartabia e della riforma della giustizia che lei, ex presidente della Corte costituzionale e attuale Guardasigilli, sta, senza troppi clamori, portando avanti.
    Il personaggio ha un curriculum di tutto rispetto, ma quel che fa sperare che possa condurre in porto l'impegno preso, non sono tanto i titoli accademici che ha conseguito, quanto il suo carattere, il suo temperamento, la determinazione con la quale si accinge a quello che è un compito quantomai difficile, che va ben oltre gli aspetti meramente tecnici.
    I problemi connessi alla riforma della giustizia, così come la stessa Cartabia li ha illustrati in Parlamento, sono molti e di enorme portata, tali che ciascuno di essi fa tremare le vene e i polsi.
    Si va da una nuova riorganizzazione della giustizia amministrativa alla riforma del processo civile e della giustizia tributaria, agli interventi sul procedimento penale e, in questo contesto, dal superamento del carcere come unica effettiva risposta al reato. Senza parlare della modifica della prescrizione e della revisione del sistema di nomina del Consiglio superiore della Magistratura (colpito dalle recenti vicende che lo hanno travolto e ne hanno minato il prestigio); questioni che già hanno suscitato e continuano a suscitare roventi polemiche tra le forze politiche.
    Ma il fatto è che, per realizzare un'autentica riforma della giustizia, è prioritariamente necessario un elemento in più senza il quale nessun intervento potrà rivelarsi efficace per risolvere i problemi di questo delicatissimo settore. Questo elemento è il ristabilimento di un clima non conflittuale nei rapporti tra politica e magistratura.
    Sinora questi rapporti sono stati pessimi e ciò ha pesantemente inquinato la vita pubblica del nostro paese.
    Restituire alla politica e alla magistratura i rispettivi ruoli, senza reciproche invasioni di campo: ecco il compito che la Cartabia dovrà affrontare prima di ogni altro. È compito non facile da affrontare poiché la situazione è andata progressivamente degenerando nel corso degli anni.
    Riuscirà l'ex presidente della Corte costituzionale in un'opera di pacificazione che costituirebbe un vero e proprio miracolo? Se dovesse riuscire nell'intento, guadagnerebbe certo grandi meriti e darebbe un argomento in più a quanti, nei palazzi della politica, sussurrano che potrebbe essere lei a salire, tra dieci mesi, i gradini del Quirinale. E non per una semplice visita.
     

  • L'ALLEANZA PD-M5S
    TUTTA PRAGMATISMO
    SVELA 2 CRISI D'IDENTITA'

    data: 24/04/2021 20:06

    Un interrogativo coinvolge l'intero schieramento politico: i cinquestelle sono una forza di centro, di sinistra o di destra? La domanda, in verità, non è del tutto nuova, ma a riattualizzarla certamente concorre adesso l'intenzione, apertamente manifestata da Enrico Letta dopo un iniziale periodo di incertezza e di riflessione, di fare dei pentastellati l'alleato prediletto del Pd.
    Pur prendendo atto, infatti, che la politica del segretario dem, a prescindere da ogni considerazione di carattere ideologico, considera l'alleanza con i grillini indispensabile per cercare di battere il centrodestra che i sondaggi indicano come vincitore delle prossime elezioni, non ci si può non chiedere se Letta consideri i pentastellati in qualche misura affini al suo partito e se abbia, pertanto, rinunciato a collocare a sinistra il Pd per farne una forza politica vagamente di centro e dai connotati piuttosto imprecisi.
    Non a caso il proposito di stipulare un'alleanza per così dire organica con Beppe Grillo sta già allontanando dal Pd quei gruppi (pensiamo, ad esempio, alle formazioni di Carlo Calenda e di Matteo Renzi) protagonisti di quella diaspora dalla sinistra che pure il segretario democratico avrebbe dovuto impegnarsi a ricondurre all'ovile.
    Non sembra, peraltro, che l'attribuzione a Giuseppe Conte della leadership del movimento grillino valga a definirne in modo più netto l'identità. Anzi, in qualche misura ne ha reso ancora più incerta l’identità.
    In realtà i cinquestelle non hanno alcuna identità e se, per gioco, proviamo ad applicare alla politica la vecchia regola della proprietà transitiva, dovremmo constatare che anche il Pd di Enrico Letta non ha una precisa identità.
    In parole povere: dimmi con chi vai e ti dirò chi sei.
    È troppo facile obiettare, come fanno i sostenitori del neosegretario democratico, che quella alla quale il Pd di Letta aderisce è soltanto un'alleanza temporanea, stipulata unicamente per affrontare una situazione di emergenza qual è quella che il paese sta attraversando e che, ove la situazione lo renderà possibile, Pd e Cinquestelle marceranno ciascuno per proprio conto
    In realtà quella di Letta è una scelta di portata ben più ampia che indica la volontà di privilegiare una linea di puro pragmatismo.
    Come non chiedersi, allora, cosa avrebbe pensato di questa alleanza con Grillo (che ora, peraltro, è più che mai nell’occhio del ciclone e per ragioni certamente non commendevoli) colui che dirigenti e militanti del Pd hanno sempre dichiarato di considerare il loro punto di riferimento.
    Lui le alleanze le stipulava con Aldo Moro.


     

  • CONTE HA UN OBIETTIVO:
    PRENDERSI LA RIVINCITA

    data: 17/04/2021 17:48

    Allo stadio Olimpico di Roma (nel periodo, ahimè lontano, in cui era affollato di tifosi) quando la squadra avversaria stava perdendo e dava segni di non essere disposta ad accettare la sconfitta, dagli spalti si levava un grido: "...E non c'è vonno sta". Non ci vogliono stare.
    Viene in mente, ripensandoci, il comportamento di Giuseppe Conte che non sembra rassegnato ad aver dovuto cedere a Mario Draghi la guida del governo.
    Conte non è rassegnato perché ritiene di essere stato vittima di una macroscopica ingiustizia e considera il suo successore - anche se non può pubblicamente contestarlo - alla stregua di un usurpatore al quale - detto brutalmente - intende far "pagare" l'affronto subito.
    In che modo? Per rispondere a questo interrogativo bisogna tener presente che, lasciato Palazzo Chigi, Conte non è tornato semplicemente ad esercitare la sua professione di docente universitario.
    Beppe Grillo - anche in considerazione del fatto che, obiettivamente, l'ex presidente del Consiglio è di un livello superiore a quello dei suoi compagni di partito - lo ha chiamato alla guida dei cinquestelle sperando ch'egli possa arrestare l'emorragia di consensi che ha sconvolto i pentastellati.
    Il fatto è che Conte è stato letteralmente "catturato" dalla politica e gà dalle prime mosse nel nuovo incarico ha dimostrato di voler esercitare con determinazione e pugno di ferro il proprio compito di leader.
    In questa veste medita, dunque - ecco la sua rivalsa - di ostacolare l'elezione di Draghi alla presentazione della Repubblica anche in considerazione del fatto che la salita al Colle dell'ex presidente della Banca centrale europea, aprirebbe probabilmente le porte del Quirinale a Matteo Salvini, altro suo nemico.
    Come è noto, infatti, il nuovo leader dei cinquestelle annovera tra i suoi principali avversari il capo del Carroccio.
    Insomma, l'ex presidente del Consiglio si propone un duplice risultato: bloccare sia Draghi che Salvini. L'obiettivo è certamente ambizioso, ma rivela che, a differenza di quanti finora avevano fatto mostra di credere, Conte non ha tra le sue caratteristiche la mitezza e, una volta provato il brivido che proviene dal potere, è più che mai deciso ad esercitarlo.
    Ora il suo desiderio di mettere in difficoltà coloro dai quali ritiene di aver subito un torto, è l'elemento che sembra di ispirare ogni sua scelta. Contemporaneamente è, peraltro, impegnato a ricondurre ad unità il suo partito e c'è da credere che per riuscire nell'intento farà uso del pugno di ferro. Così la politica italiana dovrà adattarsi a convivere con un Conte "tutto nuovi", ben diverso da quello con cui l'immaginario collettivo aveva sino ad ora creduto di doversi confrontare. Non sarà cosa facile perché l'uomo, nella realtà, si sta rivelando tutt'altro che facile.

  • IL VERO NEMICO DI DRAGHI
    SI CHIAMA BUROCRAZIA

    data: 10/04/2021 18:58

    Si chiama burocrazia il nemico più ostico che Mario Draghi deve affrontare. Nel discorso di replica pronunciato alla Camera prima di ottenere la fiducia, il presidente del Consiglio ha detto tra l'altro: "Sono proprio le farraginosità degli iter e le moltiplicazioni dei passaggi la causa di inaccettabili ritardi, ma anche il terreno fertile in cui si annidano e prosperano i fenomeni illeciti". E con perentorietà, quasi assumendo un impegno formale, ha aggiunto: "Colpirò la burocrazia lumaca".
    Istintivamente sorge la domanda: potrà riuscire Draghi nel suo intento?. L'impresa non è facile. Contro il muro della burocrazia si sono già scagliati - e hanno perso la battaglia - molti dei suoi predecessori. Il fatto è che il "nemico" non è la burocrazia che è un concetto astratto. Sono i burocrati, che difendono "unguibus et rostris", con le unghie e con i denti, l'immenso potere del quale dispongono e di fronte al quale il potere dei politici contro i quali l'opinione pubblica è solita puntare l'indice accusatorio, è davvero ben poca cosa.
    Ci sia consentito indulgere a un ricordo personale. Anni fa un sottosegretario ci confidò che, se voleva far qualcosa, doveva recarsi al suo ufficio alle cinque del mattino, così da poter dire al burocrate che avrebbe dovuto aiutarlo: "Non si preoccupi, ho già fatto tutto ". Altrimenti il burocrate gli avrebbe posto una tale quantità di ostacoli da bloccare ogni cosa.
    In effetti, come abbiamo detto, la burocrazia dispone di un potere straordinario, ben superiore a quello della politica. Già agli inizi del secolo scorso, Max Weber, il grande sociologo, filosofo ed economista tedesco, pur sostenendo che la burocrazia è un'ineluttabile necessità, avvertì che essa avrebbe finito con l'imprigionare gli uomini in una rete di regole minuziose e a sottometterlo alla potenza dei suoi apparati.
    Weber era stato buon profeta perché nel corso degli anni il potere della burocrazia è lievitato a dismisura, diventando una sorta di superpotere che occupa tutti gli spazi diventando il vero detentore del potere legislativo.
    La vera sfida che Draghi si trova a dover affrontare non è tanto quella di confrontarsi con uno scalcinato mondo politico, ma quella di riuscire a riportare i burocrati al ruolo che ad essi compete: quello di "spalla" della politica e non di un'autorità arrogante che fa il bello è il cattivo tempo.
    Quando ha accettato di scendere in campo, Draghi non poteva non sapere che era proprio questa la sfida che lo attendeva, quella che può consentirgli di vincere la partita e lasciare una traccia nella storia del paese.
     

  • DRAGHI E CONTE: DUE MODI
    DI GESTIRE LA PANDEMIA

    data: 02/04/2021 18:19

    Coloro che già hanno puntato gli strali delle loro critiche nei confronti di Mario Draghi sono soliti porsi una domanda: “Sembrava che l’ex governatore della Banca centrale europea che Sergio Mattarella ha imposto ai partiti, dovesse compiere chissà quale rivoluzione. Ma in che cosa la sua linea politica si differenzia da quella di Giuseppe Conte? Che fa Draghi di diverso dal suo predecessore?”.
    Rispondere compiutamente a questo interrogativo richiederebbe un’analisi assai approfondita. Vogliamo, però, qui, soffermare la nostra attenzione su un aspetto del rapporto Draghi-Conte che, nell’attuale momento, ci sembra di particolare rilievo: quello della gestione della pandemia.
    Ci preme, a questo riguardo, fare una premessa.
    Abbiamo, sino ad ora, quasi venerato il moloch della scienza alla quale abbiamo condizionato le nostre scelte, i nostri comportamenti, la nostra stessa visione della vita e del mondo. Ci siamo compiaciuti di un progresso scientifico che ha impresso alla nostra epoca la sua impronta e abbiamo addirittura relegato ai margini, nelle nostre scuole, gli studi umanistici considerandoli un reperto del passato.
    Abbiamo sbagliato. L'esplosione della pandemia ha rappresentato per la scienza una vera e propria Caporetto dimostrando che, contrariamente a ciò che gli uomini avevano fatto mostra di credere, non può risolvere tutti i problemi, non può occupare tutti gli spazi, non può dar risposta a tutti gli interrogativi.
    Scienziati di tutto il mondo hanno concentrato le loro attenzioni sul Covid 19, ma non sono riusciti a individuarne l'origine e, per conseguenza, non sono stati in grado di predisporre cure adeguate. Si è navigato a vista e ciò ha determinato un clima di polemiche e di tensione che non si addice al loro ruolo. Né hanno fornito un contributo particolarmente brillante all'interno di quei comitati scientifici costituiti con il compito di ispirare l'azione del governo.
    Sono sotto gli occhi di tutti i continui mutamenti di attribuzione alle regioni (giallo, arancione, rosso) delle tre zone nelle quali è stato suddiviso il paese; mutamenti che hanno dato vita a una politica schizofrenica che, più che risolvere i problemi, è stata generatrice di confusIone tra i cittadini.
    Draghi ha preso di petto la questione. Il comitato tecnico scientifico è stato decisamente ridimensionato dal presidente del Consiglio che ha attuato quella che è stata non a torto definita “una rivoluzione silenziosa”, con il dimezzamento dei componenti il comitato e la sostituzione, al suo vertice, di Agostino Miozzo con Franco Lucarelli.
    Il presidente del Consiglio ha così, di fatto, ricondotto al ruolo di organo consultivo quello che, con Conte, era divenuto un organo deliberante dal quale si faceva discendere ogni decisione.
    Non è, quella del capo del governo, una mossa priva di significato: tende a semplificare l’apparato dello Stato e a rimettervi ordine, il che si scontra con la volontà dei partiti di non perdere gli spazi utili alle loro manovre che un elefantiaco comitato tecnico scientifico indubbiamente favoriva.


     

  • CREARE UN GRANDE CENTRO
    UN'AMBIZIONE MAI MORTA

    data: 27/03/2021 18:57

    C'è un'ambizione ricorrente nella politica italiana: quella di dar vita a un "grande centro", in grado di ripetere la storia fortunata della Democrazia cristiana, rimasta al potere per quasi mezzo secolo.
    Ora, anche in considerazione dello stato di confusione che stiamo attraversando e credendo di poter beneficiare dell’avvento di Mario Draghi alla guida del governo, ci sono forze politiche che, magari sotterraneamente, stanno lavorando in questa prospettiva. Ci riferiamo, in particolare a Forza Italia (che aspira ad essere il partito guida di questo schieramento), a +Europa, appena abbandonata da Emma Bonino, ad Azione di Carlo Calenda e a Italia viva di Matteo Renzi.
    Non senza ottimismo vengono citati sondaggi secondo i quali, presentandosi alle elezioni,un simile raggruppamento potrebbe ottenere consensi che ne farebbero la seconda forza del paese, dopo la Lega.
    Si tratta di un'operazione teoricamente di possibile realizzazione, o di un'ipotesi che va catalogata nel novero delle illusioni?
    Dobbiamo confessare il nostro scetticismo. Le condizioni storiche che portarono alla costituzione e al successo della Democrazia cristiana, sono cambiate; è cambiata (decisamente in peggio) la caratura degli uomini che resero possibile quel successo; è cambiato lo spirito delle forze che si riunirono sotto la bandiera dello Scudo crociato.
    E soprattutto ci sembra che tra coloro che dovrebbero dar vita a quel "grande centro", del quale molti auspicano la formazione, manchi quella coesione che è l'elemento primario indispensabile.
    Prevalgono gli interessi di parte al punto che si sente parlare apertamente di veti incrociati tra quanti dovrebbero farne parte. È la politica dei veti è certamente quanto di più assurdo si possa immaginare per una forza che dovrebbe proclamarsi liberale.
    I contrasti tra uomini e partiti - gli stessi che hanno impedito la riforma delle istituzionI della quale, pure, tutti si sono sempre dichiarati fautori - hanno innegabilmente effetti a dir poco paralizzanti.
    Certo, la formazione di un "grande centro" potrebbe essere un elemento atto a riequilibrare nella giusta direzione un esasperante livello di incertezza che caratterizza il quadro politico dovuto al trasformismo, al populismo e all'opportunismo della classe politica. E l'avvento al governo di una personalità come Mario Draghi potrebbe indubbiamente contribuire a facilitarne la costituzione.
    Per una operazione politica di questo tipo, fondata sul riformismo e sull'europeismo, composto da forze in grado di operare per la realizzazione di un obiettivo comune, lo spazio indubbiamente esisterebbe. E, tuttavia - lo ribadiamo - in tutta franchezza dubitiamo che lo spirito di parte che ha fatto permanentemente da contrappunto a questa Seconda Repubblica, la consenta.

  • GRILLO E CASALEGGIO
    COME I POLLI DI RENZO

    data: 20/03/2021 12:46

    Sembrava che quella composta da Beppe Grillo e Davide Casaleggio fosse destinata ad essere una coppia indissolubile e che i cinquestelle potessero fare assegnamento sulla guida di una diarchia coesa ed affiatata.
    Non è così. Il contrasto tra i due, tenuto a lungo sotto traccia, appare ormai destinato ad esplodere fragorosamente proprio nel momento in cui, stando ai sondaggi, e, soprattutto in coincidenza con le difficoltà del Pd, il declino dei cinque stelle, che sembrava irreversibile, si stava arrestando.
    La rivalità tra i due leader non è soltanto un fatto personale; nasce anche dall'emergere di due diverse linee politiche, con Grillo deciso a fare del Movimento un vero e proprio partito politico attestato su posizioni governiste e Casaleggio che intende mantenere i connotati di forza "diversa" che ne furono all'origine e che si concretizzano nell'uso della cosiddetta piattaforma Rousseau, considerata strumento indispensabile per dare voce alla volontà dei militanti.
    In realtà le divergenze tra i due erano già chiaramente emerse nell'agosto di due anni or sono quando Casaleggio manifestò, senza mezzi termini, la propria avversione all'apertura a sinistra di Grillo e avrebbe preferito mantenere l'alleanza con Salvini.
    Non è dato sapere quale dei due schieramenti prevarrà e se la frattura che si è determinata nel movimento potrà in qualche modo ricomporsi. Quel che è certo è che lo stato conflittuale tra le due anime dei pentastellati si va progressivamente approfondendo.
    La cosa - detto in tutta franchezza - potrebbe interessare relativamente. Anzi, siamo convinti che i cinquestelle abbiano rappresentato un equivoco che prima o poi (meglio prima che poi) dovrà dissiparsi.
    Ma, poiché in politica è più che mai valido il vecchio detto francese secondo cui “tout se tient”, tutto è collegato, non possiamo fare a meno di rilevare come la crisi dei cinque stelle sia, inevitabilmente destinata a ripercuotersi sull’intero quadro politico. Pensiamo, ad esempio, al Pd dove il neo segretario Letta, facendo proprie le scelte del suo predecessore Zingaretti, ha deciso di puntare le sue carte su una alleanza sempre più stretta con i pentastellati.
    Il Pd - lo ha detto lo stesso Letta - ha assoluto bisogno di darsi una più precisa identità. In qual modo i cinque stelle, tra i quali Grillo e Casaleggio continuano a beccarsi come polli di Renzo, potranno contribuire ad aiutarlo al conseguimento di questo obiettivo? Ecco un interrogativo da sciogliere per arrivare a un reale chiarimento della situazione politica.
     

  • E' ANCORA PALAZZO CHIGI
    L'OBIETTIVO DI SALVINI

    data: 13/03/2021 20:01

    L'avvento di Mario Draghi alla guida del governo ha cambiato molte cose nella vita politica del nostro paese inducendo partiti e leader a modificare posizioni che sembravano ormai far parte del loro DNA.
    È cambiato, stando alle apparenze, anche l'atteggiamento di colui che, più di ogni altro, sembrava dover recitare il ruolo del duro, dell'intransigente che mira ad imporre agli altri la propria volontà.
    Parliamo di Matteo Salvini. È un Salvini tutto nuovo, infatti, quello che, vestendo i panni del "buonista" e abbandonando la "faccia feroce", con la quale aveva sin qui affrontato i propri avversari, ha radicalmente trasformato il proprio comportamento.
    C'è da credere a questa trasformazione? Per rispondere a questo interrogativo bisogna tener presenta un dato: il leader leghista è molto attento nel mettere a punto la sua strategia. Ha un piano ben preciso, dunque, per conseguire l'obiettivo al quale non ha alcuna intenzione di rinunciare: quello di essere il prossimo presidente del Consiglio.
    È in questa prospettiva che Salvini ha deciso di trasformarsi: non è più il leader aggressivo che aveva fatto del sovranismo e dell'antieuropeismo il proprio credo e che gli sono valsi i favori di una parte dell'opinione pubblica schierata a destra mettendolo, peraltro, in concorrenza con Giorgia Meloni.
    Con l'appoggio a Draghi e la scelta di una linea politica assai più moderata, il leader del Carroccio mira a rassicurare, in Italia e in Europa, quanti vedevano in lui un elemento pericoloso da tenere a distanza.
    Se, pertanto, la Lega - come affermano i sondaggi - confermare di essere il primo partito e lo schieramento di centrodestra dovesse prevalere su quello di centrosinistra, non dovrebbero frapporsi ostacoli alla sua nomina alla guida del governo al posto di Draghi, considerato il candidato naturale per la successione a Sergio Mattarella.
    È pur vero che il mandato di Mattarella scadrà (febbraio 2022) prima delle elezioni che dovrebbero sancire l’anno successivo la vittoria di Salvini e ciò non consentirebbe alla Lega di presentarsi al capo dello Stato come primo partito. Ma non è da escludere - anche se il capo dello Stato ha finora sempre esplicitamente negato la propria disponibilità al riguardo - che, in considerazione della gravità della situazione, il presidente possa essere indotto ad accettare di rimanere ancora per un certo periodo al suo posto.
    Quel che, comunque, appare certo è che quanti ritenevano che Salvini avesse ormai deposto le proprie ambizioni, avranno modo di ricredersi; il capo della Lega non ha rinunciato alla conquista di Palazzo Chigi. Tutt’altro.Ha soltanto aggiustato la propria strategia armandosi di una pazienza che non gli si attribuiva e che conferma la sua determinazione.
     

  • LA RICOMPOSIZIONE
    POLITICA DEL DOPO-DRAGHI
    CON LUI POTREBBE NASCERE
    UNA DESTRA CLASSICA

    data: 06/03/2021 17:56

    Sono in molti, al di là di ogni appartenenza, a porsi l'interrogativo: Mario Draghi è di destra o di sinistra? Difficile rispondere se si fa riferimento agli schieramenti politici nei quali, allo stato, si articola il panorama politico del nostro paese.
    Ad alimentare l'interrogativo, inducendo a ritenere che la prima opzione sia quella più attendibile, non è soltanto il fatto che della maggioranza che sostiene il governo facciano ora parte due forze - la Lega e Forza Italia- che la toponomastica politica colloca a destra, ma l'orientamento complessivo che caratterizza le scelte dell'ex governatore della Banca centrale europea.
    Non deve, peraltro, trarre in inganno il fatto che a contestare Draghi - unica forza di opposizione ufficiale - sia Fratelli d'Italia, vale a dire il partito deliberatamente più a destra tra quelli presenti in Parlamento.
    Quella di Giorgia Meloni è una destra radicalmente diversa; una destra arruffona, priva di un solido bagaglio ideologico, unicamente preoccupata di agire in modo da cogliere tutte le occasioni che le si presentano per aumentare quanto più possibile il proprio bottino di consensi elettorali.
    Quella di Draghi aderisce, invece, a ben vedere, alla classica e storica definizione della destra così come configurata da Norberto Bobbio in un suo famoso saggio e che ha nel pareggio del bilancio, a suo tempo sostenuto da Quintino Sella, il proprio fondamentale obiettivo.
    Appare evidente, dunque, che, contrariamente a quanto una certa pubblicistica ha sostenuto in questi anni, una distinzione tra destra e sinistra continua ad esistere; esistono due popoli destinati a prevalere alternativamente e che in qualche misura, nel concreto e nello stesso vivere quotidiano, si differenziano secondo quanto, affermò Giorgio Gaber in una sua vecchia canzone, apparentemente satirica, ma che, in realtà, prefigurava, realisticamente, l'identità dei due schieramenti.
    C'è ora da chiedersi se la svolta verso destra - una destra, lo ripetiamo, molto più seria e attendibile di quella che sotto l'etichetta della destra si presentano attualmente al giudizio del corpo elettorale - impressa all'Italia dal presidente del Consiglio, sia o meno, è in che misura, destinata a incidere sul futuro politico del nostro paese.
    In effetti, l'ingresso in politica di Draghi può determinare un generale riassetto dei due schieramenti che da sempre si fronteggiano. La "svolta" di Draghi, infatti, può essere preludio non solo della nascita di una "nuova destra" (che sarebbe, poi, una destra antica), ma anche, per conseguenza di un risveglio della sinistra dopo il lungo sonno impressole dalla gestione di Nicola Zingaretti.
    Quel che appare probabile - e vorremmo dire auspicabile - è che, da quanto accaduto con l'entrata in politica di Draghi, una nuova stagione possa finalmente aprirsi per la nostra vita politica.

     

     

  • LA QUESTIONE FEMMINILE
    ALTRA SPINA PER DRAGHI

    data: 23/02/2021 12:39

    Tra i tanti problemi che affliggono il nostro paese e dei quali Mario Draghi dovrà farsi carico, va emergendo con forza quello che potremmo definire "la questione femminile"; una questione certamente non nuova, ma che costantemente si ripropone. A farla oggetto di rinnovate polemiche è, questa volta, la composizione del governo appena costituito che - a detta delle associazioni femministe - ha penalizzato le donne con un numero di ministri inferiori rispetto a quello riservato agli uomini.
    A farsi promotrici di una vera e propria rivolta su questo argomento sono state, in particolare le donne del Pd, fortemente irritate per il fatto che neppure una di loro sia rappresentata nella delegazione del partito al governo. Colpito dalle ripercussioni di una contestazione che può trasformarsi in un vulnus per la sua già fragile segreteria, Nicola Zingaretti ha cercato affannosamente di correre ai ripari giungendo addirittura ad avanzare la propost a- peraltro non benevolmente accolta - di riservare in esclusiva alle donne i posti di sottosegretario.
    Dobbiamo dire in tutta franchezza che non ci piacciono neppure un po' il modo in cui le donne "dem" e il segretario Zingaretti affrontano il problema. Che una "questione femminile" esista è indubbio. Ancora la nostra società è pervasa di maschilismo. Ma insistere nella contrapposizione tra i due sessi significa, nella realtà, perpetuare una discriminazione alla quale bisogna porre termine in maniera radicale.
    E la soluzione non è certamente quella di insistere nel conflitto dando luogo a una gara anacronistica volta a stabilire chi debba occupare questo o quel posto al punto di fissare delle "quote" da attribuire agli uno o alle altre.
    Per arrivare a una effettiva soluzione del problema è necessario che queste assurde distinzioni di genere vadano totalmente e definitivamente abolite e si stabilisca che tra uomini e donne, al fine del conferimento di qualsivoglia incarico, non esiste altra differenza che quella relativa ai meriti, alle competenze, alla preparazione di ciascuno.
    È in tal modo che devono essere assegnate le funzioni ed è soltanto in questo contesto che si sancisce la parità dei sessi, non facendo riferimento a ipocriti "bilancini" artificiosamente creati.


     

  • QUELL'USCITA DI SCENA
    COSI' DIFFICILE PER CONTE

    data: 14/02/2021 16:19

    Nel mondo del teatro è largamente diffuso il convincimento che, per valutare il reale valore di un attore, si debba aver riguardo non solo e non tanto al modo in cui recita la sua parte, certamente importante, ma soprattutto a quello in cui sa uscire di scena.
    È una regola che può serenamente, senza timor di andar fuori dal seminato, essere applicata anche alla politica. Troppe volte ci è capitato, infatti, di vedere uomini politici che, pur avendo esercitato decorosamente la loro funzione, al momento di lasciare, per qualsivoglia ragione, la loro poltrona, hanno varcato i confini della dignità.
    Tra quanti hanno, quantomeno, sfiorato questo confine, dobbiamo purtroppo includere - a quanto sembra - anche Giuseppe Conte al quale pure, in passato, non abbiamo fatto mancare il nostro apprezzamento per il modo in cui - navigatore in gran tempesta - è riuscito per lungo tempo, in due diverse situazioni, prima con il centro destra, poi con il centrosinistra, a guidare il governo.
    Ora, tuttavia, Conte appare incapace di affrancarsi da quel fascino del potere del quale non riesce a liberarsi. Non è un mistero, per uscire dal generico, ch'egli, al di là delle dichiarazioni di facciata, non abbia gradito neppure un po' che sia stato chiamato Mario Draghi a gestire l'esecutivo e che, fino all'ultimo, abbia tentato di mettere il bastone tra le ruote dell'ex presidente della Banca centrale europea.
    Preso atto che ogni tentativo in tal senso sarebbe stato inutile, l'ex premier, pur di non restare a mani vuote, ha cercato di convincere Beppe Grillo ad affidargli la guida del Movimento pentastellato (il che, forse, sarebbe stato anche giusto). Anche questo tentativo è, tuttavia, andato a vuoto avendo l'ex comico genovese optato per una guida collegiale.
    A questo punto a Conte non rimane che rassegnarsi, a meno che non prendano consistenza le voci secondo cui potrebbe essergli assegnato un incarico nell'Unione europea.
    Resta, comunque, il rammarico per il fatto che l'ex presidente del Consiglio abbia perso l'occasione per dare una lezione di stile a un mondo politico che dello stile non ha certamente dato, in questi anni, particolare dimostrazione.
    Nel nostro non esaltante panorama politico, fatto di esponenti tutt'altro che brillanti, Conte potrebbe costituire una non trascurabile risorsa. È lecito, allora, domandarsi, e soprattutto domandare al diretto interessato, se aver dimostrato un così tenace attaccamento alla poltrona possa giovargli al conseguimento di quella carica politica alla quale sembra intenzionato ad investire il proprio futuro.

     

  • IL RUOLO DI DESAPARECIDO
    E' IL MIGLIORE PER GRILLO

    data: 08/02/2021 18:31

    Non resta che aspettare, sperando che Mario Draghi riesca ad imprimere una svolta radicale a una situazione politica che, ad ogni livello, a prescindere dall'appartenenza a questo o a quello schieramento, ha attraversato una fase di drammatico declino.
    Raramente, o forse mai, nella storia repubblicana, l'Italia ha vissuto un periodo di così acuta depressione. E sarebbe più cha mai opportuno che politologi e intellettuali (ma ce ne sono ancora?) si applicassero allo studio delle cause che hanno determinato un simile stato di cose.
    Non è questa la sede più opportuna per affrontare tematiche di così vasta complessità. Ma, se volgiamo lo sguardo non possiamo fare a meno di constatare che c'è un personaggio che ha svolto un ruolo non trascurabile nell'accelerare il processo di degrado della politica italiana. Questo personaggio è facilmente individuabile: è Beppe Grillo, ispiratore e fondatore di quel movimento Cinquestelle che, essendosi affermato come primo partito nelle elezioni del 2018, è stato il grande condizionatore di tutte le formule di governo.
    Grillo fece clamorosamente irruzione sulla scena politica italiana all'insegna dell'ideologia del "vaffa" che suscitò gli entusiasmi di un'opinione pubblica a dir poco disgustata da un mondo politico che, dopo l'ubriacatura del passaggio dalla Prima alla Seconda Repubblica, considerava. – e tuttora considera - corrotto ed incapace.
    Non è stato necessario aspettare molto tempo per rendersi conto che la gestione della vita pubblica non si addice ai dilettanti, cosicché, come hanno confermato tutte le competizioni elettorali intermedie, i cittadini hanno voltato le spalle ai grillini ai quali si erano incautamente affidati.
    Vista la "malaparata", Grillo era scomparso, guadagnandosi l'appellativo di "desaparecido" e lasciando allo sbando i suoi sprovveduti seguaci.
    Improvvisamente, dopo il conferimento dell'incarico a Draghi, Grillo è uscito dalla "clandestinità". Riacquistando la parola e partecipando addirittura alle consultazioni del presidente incaricato, l'ex comico genovese non ha tuttavia portato un contributo di chiarezza.
    In prima battuta ha esortato i suoi a far quadrato attorno a Giuseppe Conte e a pronunciare un secco è perentorio "no" al tentativo dell'ex governatore della Banca centrale europea. Poi, inopinatamente, forse preoccupato di trovarsi isolato in compagnia della Meloni, ha cambiato opinione: i cinquestelle potrebbero accettare Draghi, ma vincolandolo ad una serie di scelte di politica economica (dal reddito di cittadinanza alla patrimoniale) da lui non senza arroganza indicate!
    Ascoltando la sua pretesa di dettare a Draghi le scelte economiche, viene da prendere a prestito una battuta di Alberto Sordi riservata agli interlocutori molesti: "...E statte zitto!" .

     

     

  • PRONTA L'ALTERNATIVA
    PER LA GUIDA DEL PD

    data: 29/01/2021 09:09

    Nicola Zingaretti è certamente destinato ad essere uno dei protagonisti della crisi di governo. Ma, chissà perché il segretario del Pd ci fa tornare alla memoria una feroce battuta che Fortebraccio (all'anagrafe Mario Melloni), corsivista principe dell'Unità, dedicò a un leader socialdemocratico che lui, da buon comunista, ardentemente disprezzava.
    Fortebraccio descrisse l'arrivo di questi a Montecitorio: "Si aprì la portiera - scrisse - e non uscì nessuno". Come dire che quel personaggio era un "signor Nessuno".
    Il fatto è che Zingaretti, nonostante occupi da quasi due anni, ormai, la poltrona di segretario del Pd, non è riuscito a dare alla sua carica una marcata identità, tant'è che i suoi compagni di partito, per primi, gli rimproverano non solo di non essere riuscito a far riconquistare al partito i consensi di un tempo neppure troppo lontano, ma di averlo appiattito sui cinquestelle il che, a ben vedere, non è certamente esaltante.
    È andata così affermandosi, e va sempre più consolidandosi, la figura di una sorta di "segretario ombra", Goffredo Bettini, il quale assolve un duplice ruolo, quello di consigliere di Zingaretti è quello di ispiratore delle decisioni e delle scelte di Giuseppe Conte.
    Il cursus honorum di Bettini è di tutto rispetto. Rampollo di una famiglia aristocratica marchigiana, entrò giovanissimo nel Pci e individuò subito in Walter Veltroni il suo politico di riferimento, pur non rinunciando - refrattario com'è ad ogni oltranzismo - a collaborare quando è stato necessario, con Massimo D'Alema.
    Prima di divenire deputato nel 1993, rivestì a Roma incarichi di rilievo (segretario cittadino del partito e consigliere comunale). Da allora si è sempre dedicato, soprattutto, a compiti di strategia. Bettini appartiene a quella categoria di politici che esercitano il loro potere rifuggendo dalle luci della ribalta, preferendo restare nell'ombra. Ma questo non gli impedisce di essere comunque lui a dettare i tempi e i modi delle attività alle quali si dedica. E se ne sta avendo dimostrazione proprio in questi giorni quando, di fronte a uno Zingaretti preoccupato e incerto, dinanzi all'ipotesi di elezioni politiche anticipate, ostenta tranquillità affermando che "le elezioni non sono, comunque, un colpo di Stato", prefigurando già di affrontarle, ma non in una posizione subordinata, con un'alleanza con i cinquestelle per la quale sta già lavorando senza tuttavia rinunciare al tentativo di ricucire lo strappo con Matteo Renzi (riacquistando così i consensi di quella parte del Pd che non ha condiviso l'eccessiva severirà di Zingaretti nei confronti del leader di "Italia viva").
    Insomma, nonostante preferisca operare nell'ombra, Bettini potrebbe, a scadenza non troppo lontana, essere "costretto" a uscire allo scoperto dando al Pd una leadership meno sonnolenta di quella attuale.


     

  • L'ARMA SEGRETA DI CONTE
    PER SALVARE IL GOVERNO

    data: 17/01/2021 13:19

    Bisogna riconoscere che quella imboccata da Giuseppe Conte dopo le dimissioni delle due ministre di "Italia viva" è la strada istituzionalmente più corretta per affrontare la crisi del suo governo. Presentarsi alle Camere per chiedere la conferma della fiducia è, infatti, in una Repubblica parlamentare qual è la nostra, la via maestra da seguire, anche se si tratta di correre il grosso rischio che il presidente del Consiglio si accinge a correre. Così l'interrogativo dell'attuale momento politico concerne la possibilità o meno che il premier riesca a trovare - soprattutto al Senato - i voti che gli servono per poter restare in sella nonostante la defezione di Matteo Renzi.
    La sfida è di quelle che fanno tremare le vene e i polsi, ma per vincere la sua non facile partita, Conte ha a sua disposizione una sorta di "arma segreta" alla quale far ricorso per ottenere, a Palazzo Madama, gli undici voti che gli sono indispensabili per poter sopravvivere.
    Che cosa potrebbe spingere costoro a lasciare lo schieramento nel quale attualmente militano per approdare alla fragile "corte" di Conte, affrontando l'accusa di "voltagabbana" che già da destra viene rivolta a chi pensasse di entrare a far parte di una nuova maggioranza?
    Quanti auspicano la sopravvivenza dell'esecutivo parlano di "senso di responsabilità", quel "senso di responsabilità" che è mancato a Renzi provocando, sotto lo sguardo sbalordito di tutta o quasi tutta l'Europa, una crisi dagli esiti imprevedibili in piena esplosione pandemica.
    Ma l'elemento che potrà indurre gli undici senatori necessari a Conte a schierarsi dalla sua parte - quello che abbiamo definito la sua "arma segreta" - non è tanto il "senso di responsabilità" quanto, piuttosto, il timore di dover rinunciare, con il voto anticipato, alla loro poltrona per affrontare una campagna elettorale durissima nel prossimo giugno.
    Potrebbe, perciò, essere la paura a salvare Conte e a rendere possibile il proseguimento dell'attuale legislatura.
    È una soluzione che, pur evitando le elezioni, comporterebbe un altro genere di rischio: quello, per intenderci, di dar vita ad un governo ancora più debole di quello che Renzi ha messo in crisi, esposto agli incerti umori di coloro che pretenderebbero di essere compensati per l'appoggio fornitogli.
    C'è peraltro, in parallelo, un'altra "arma" della quale vorrebbero avvalersi quanti, nel centrodestra, auspicano la definitiva caduta dell'esecutivo: quella di promettere agli incerti un posto sicuro in lista qualora si dovesse andare a nuove elezioni.
    Si vola basso, dunque, molto basso. Ma la nostra classe politica può volare in altro modo?
     

  • SE DRAGHI ORA E' PRONTO
    A SCENDERE IN CAMPO...

    data: 09/01/2021 19:58

    Non da oggi nella politica italiana c'è un "convitato di pietra" al quale molti guardano come a colui al quale, con il sostegno di una maggioranza trasversale, potrebbe essere affidata la guida del governo del paese. Questo "convitato di pietra" è Mario Draghi, l'ex governatore della Banca centrale europea, il solo considerato in grado di affrontare con speranze di successo, la drammatica crisi economica provocata dal coronavirus.
    Sinora Draghi è apparso sempre restio a farsi avanti. Recentemente, tuttavia, probabilmente preoccupato dalle condizioni di estrema precarietà nelle quali versa il governo italiano a causa delle profonde lacerazioni della maggioranza, sembra - a quel che si sussurra nei palazzi della politica - intenzionato a rompere gli indugi alimentando l'ipotesi che, se la crisi dell'esecutivo dovesse precipitare, Sergio Mattarella potrebbe convocare proprio lui al Quirinale per affidargli l'incarico di dar vita ad un nuovo governo.
    Alla luce di questi "sussurri" non è forse un caso che alcuni mas media, senza un'apparente ragione, abbiano rilanciato, nei giorni scorsi, il testo di un articolo sui danni economici provocati dalla pandemia, pubblicato tempo fa da Draghi sul "Financial Times", tra i più autorevoli quotidiani economici del mondo.
    Si tratta, in effetti, di un articolo di straordinaria attualità nel quale Draghi non soltanto illustra in modo dettagliato quali dovrebbero essere, a suo avviso, le misure necessarie per evitare di essere travolti dalle conseguenze - che sarebbero estremamente pesanti - del coronavirus, ma rimarca la necessità di muoversi in tutta fretta.
    È un articolo che sembrerebbe scritto oggi e che indica una precisa linea di condotta.
    Se, dunque, nel pollaio nel quale la politica italiana è precipitata e che il conflitto Conte-Renzi rende sempre più deprimente, dovesse davvero scaturire una crisi di governo e se Draghi fosse realmente disponibile – come un calciatore che, potendo svolgere un ruolo decisivo, si alza dalla panchina, dismette la tuta e scende in campo - a “sporcarsi le mani” e assumersi la responsabilità di pilotare il paese nell'attuale congiuntura, non potrebbero non porsi due interrogativi: 1) il capo dello Stato non sarebbe tentato di sperimentare la possibilità di affidare all'ex governatore della Bce l'incarico di formare un nuovo esecutivo? 2) dinanzi alla prospettiva di appoggiare un governo Draghi, le forze politiche preferirebbero, comunque, andare ad elezioni anticipate senza tener conto dei gravi danni che un periodo di "vacatio" provocherebbe?
    Tra l'altro ci sono partiti, a cominciare dai Cinquestelle, che ben difficilmente manterrebbero la consistente rappresentanza parlamentare. ottenuta nelle passate elezioni. E sarebbe destinata, probabilmente, a subire un forte ridimensionamento anche "Italia viva" che pure, fra tutte le forze politiche appare quella più decisa ad affrontare il rischio di elezioni anticipate.
    In questo contesto, forse, il ricorso a Draghi, tra le varie soluzioni ipotizzate in caso di caduta di Conte appare come la più praticabile.
     

     

     

  • MA ZINGARETTI SA
    QUELLO CHE VUOLE?

    data: 02/01/2021 13:20

    Non è una novità che Nicola Zingaretti punti a fare del suo Pd il partito guida della politica italiana. È un obiettivo legittimo, ma per conseguirlo è indispensabile avere idee chiare da trasmettere ai cittadini elettori e per dire, soprattutto a se stessi, quel che si vuole ottenere e come si pensa di ottenerlo. È qui il punto debole del leader democratico.
    Consapevole che il suo partito ha assoluta necessità di stipulare alleanze che gli consentano di dar vita ad una maggioranza di governo, Zingaretti appare più che mai intenzionato a rinsaldare al massimo l'alleanza con i Cinquestelle.
    I problemi, tuttavia, sorgono quando si devono definire i risultati ai quali puntare che mai o quasi mai coincidono. Se n'è avuta evidente conferma quando si è trattato di definire come utilizzare il denaro derivante dal Recovery found.
    Il segretario del Pd ha detto senza mezzi termini, all'insegna del bartaliano "è tutto sbagliato, è tutto da rifare", che la ripartizione effettuata deve essere assolutamente rivista.
    Una posizione che in qualche misura collima con quella del leader di "Italia viva" Matteo Renzi che ha definito il piano messo a punto dal governo "un collage raffazzonato", annunciando formalmente che, se le numerose modifiche richieste non dovessero essere accolte, il suo partito non esiterà ad abbandonare la maggioranza aprendo così, di fatto, una crisi di governo dalle conseguenze imprevedibili.
    Si tratta di una minaccia non priva di fondamento, tant'è che nella coalizione di governo v'è già chi si sta adoprando per vedere come potrebbero essere sostituiti i parlamentari renziani in modo da garantire, a Montecitorio e a Palazzo Madama, la sopravvivenza dell'esecutivo.
    Si arrestano, di fronte a questa prospettiva, le convergenze tra il Pd e "Italia viva"; convergenze che avevano fatto illudere qualcuno che tra queste due forze politiche potessero crearsi le condizioni per una ripresa del dialogo che la scissione ha bruscamente interrotto.
    In realtà un tale dialogo è praticamente impossibile sia per il diverso temperamento dei due leader, sia perché Zingaretti non ha mai nascosto di nutrire una profonda avversione nei confronti del suo "dirimpettaio".
    Stando così le cose, Zingaretti, volendo comunque differenziarsi da Renzi, pur ribadendo che la ripartizione del Recovery found deve essere rinviata, ha tuttavia aggiunto che bisogna, in ogni modo, evitare l'apertura di una crisi di governo che a suo giudizio avrebbe come unico, inevitabile sbocco quello delle elezioni anticipate.
    Tenere i piedi in due staffe, contestare le scelte di Conte, ma senza spingere alle estreme conseguenze questa contestazione, mantenere, insomma, per dirla volgarmente, la botte piena e la moglie ubriaca, sono comportamenti che non si addicono a chi si proponga di essere alla testa di un partito-guida.
    Non è un caso, del resto, che sotto la guida di Zingaretti il Pd ristagni nei sondaggi.
    Purtroppo una tale linea politica non solo non giova al Pd - il che potrebbe anche interessarci relativamente - ma non favorisce lo sviluppo del dibattito politico.

     

  • CHE FINE HANNO FATTO
    LE SCUOLE DI PARTITO?

    data: 26/12/2020 19:07

    Perché un tempo dai partiti, da tutti i partiti, di destra, di sinistra, di centro, provenivano uomini preparati e di notevole livello e oggi il panorama di coloro che dovrebbero rappresentarci è così desolantemente squallido? È una domanda che sentiamo ripetere spesso - e da sostenitori degli schieramenti più vari - quasi che su questo giudizio negativo si raggiungesse una sorta di imprevedibile unanimità.
    Una compiuta risposta a questo interrogativo richiederebbe, probabilmente, una complessa analisi sociologica che non può certo essere svolta in questa sede. Ma, ponendo il problema, ci sorge spontanea, direbbe Antonio Lubrano, una domanda: che fine hanno fatto le scuole di partito, vale a dire quelle scuole organizzate dalle forze politiche per formare e selezionare la propria futura classe dirigente?
    È pur vero che, in anni recenti, qualche partito (in particolare il Pd e la Lega) hanno operato un tentativo di ripristinare dei centri di formazione politica, ma l'esperimento non sembra aver avuto successo.
    Ci sono state scuole di partito che hanno rivestito notevole importanza nella vita politica italiana: si può dire che tutti i grandi partiti disponevano di una organizzazione volta alla formazione dei loro quadri (pensiamo alla scuola di partito del Pci alle Frattocchie, rimasta famosa, ma che non fu un unicum).
    Le forze politiche, dunque, fornivano ai militanti destinati a guidarle un vero e proprio "galateo" che non soltanto forniva loro una preparazione adeguata, ma definiva i comportamenti ai quali bisognava attenersi nel concreto.
    Queste regole non esistono più. Alla politica si arriva per le strade più varie, senza una preparazione specifica. Spesso accodandosi ad un leader o sedicente tale, già affermato, e per il quale si svolge il ruolo, spesso mortificante, del portaborse.
    Poi, più che preoccuparsi di fornirsi delle competenze necessarie, questi "parvenu" della politica si dedicano alla ricerca del maggior numero possibile di benefici che la carica acquisita può comportare.
    È qui, pertanto, che va individuata una (non la sola) delle cause per le quali la politica, da "arte nobile" qual era, è oggi, dalla gran parte dell'opinione pubblica guardata con vero e proprio disprezzo.
    Il fatto è che anche quella dei politici deve essere considerata una professione (attribuendo a questo termine un valore assolutamente positivo) come le altre. I "dilettanti della politica" non ci hanno mai convinto. Ma tutte le professIoni hanno bisogno di una scuola poiché nessuno - direbbero a Napoli - "nasce imparato". Perché l'attività politica dovrebbe sottrarsi a quest'area regola?
     

  • NON CI SONO PIU' STATISTI
    DALLA FINE DEL RAPPORTO
    FRA POLITICA E CULTURA

    data: 19/12/2020 15:08

    Uno statista, nell'accezione comune, è colui che per capacità, abnegazione ed esperienza, sa guidare la vita politica di un paese anteponendo l'interesse pubblico a quello personale o partitico. È proprio quello che, nella drammatica situazione determinata dalla pandemia, servirebbe all'Italia.
    Ma si dice che, per loro natura, gli italiani non hanno il senso dello Stato, considerano le istituzioni come "altro da sé", tendono sempre (o quasi sempre) a far prevalere il proprio tornaconto rispetto alle necessità nazionali.
    Come si può pensare, allora, che essendo tale l'indole dei cittadini, in Italia possano nascere autentici statisti?
    L'assioma è, all'apparenza, incontestabile. Eppure la realtà delle cose non è questa perché, se è vero che nei nostri connazionali il senso del bene pubblico scarseggia, è altrettanto inconfutabile che l'Italia sia stata rappresentata ai suoi vertici, nel corso degli anni, da uomini di prim'ordine, dotati di uno straordinario senso dello Stato.
    Ne citiamo solo alcuni: Camillo Benso di Cavour, Giuseppe Mazzini e, dopo di loro, Giovanni Giolitti, Alcide De Gasperi, Aldo Moro, Amintore Fanfani, senza contare autorevoli esponenti dell'opposizione, di destra e di sinistra, come Togliatti, Berlinguer, Nenni, Almirante.
    Ma da qualche tempo quella degli uomini di Stato sembra una razza estinta.
    È cambiata, del resto, la stessa nozione di politica. Quella che Norberto Bobbio definì "un insieme di attività che hanno in qualche modo come termine di riferimento la polis, cioè lo Stato", è ormai trasformata in una attività in cui uomini di mediocre levatura hanno come scopo preminente quello di assicurare alla propria parte, quando non addirittura a se sressi, il maggior numero di vantaggi.
    È mai possibile che la stirpe degli statisti sia andata perduta?
    Sembra essere, purtroppo, proprio così e viene da chiedersi quanto questo venir meno degli uomini di Stato sia da collegare con il venir meno degli uomini di cultura.
    La politica, senza la cultura è inevitabilmente destinata a generare dei politicanti ed è certamente questo quello che sta generando attualmente nel nostro paese. Di questo parallelo degrado di politica e cultura ci accorgiamo drammaticamente in un momento di accresciuta difficoltà.
    Non ci si può non chiedere, allora, quali siano le ragioni di questo degrado ed è facile constatare che esso è avvenuto contestualmente alla fine della Prima Repubblica. Doveva essere l’occasione per restituire alla politica una moralità che aveva perduto. Non è accaduto. Per contro la Seconda Repubblica ha segnato la fine delle ideologie e, dei partiti tradizionali.
    La fine del rapporto tra politica e cultura, con tutte le conseguenze che ciò ha comportato - prima fra tutte il tramonto della figura dello statista - è estranea a questi due eventi? Forse dovremmo cominciare a chiedercelo.
     

  • LA ROULETTE RUSSA
    DI GIUSEPPE CONTE

    data: 10/12/2020 15:10

    "Gioco alla roulette russa ogni volta che mi sveglio al mattino". Con questa frase Robert Kennedy illustrava i rischi ai quali la sua attività politica lo esponeva quotidianamente.
    La roulette russa è un pericolosissimo gioco d'azzardo: si colloca un solo proiettile in una rivoltella; si fa ruotare rapidamente il tamburo; si punta l'arma alla tempia e si preme il grilletto.
    Mutatis mutandis, e in modo certamente meno drammatico di Robert Kennedy, anche il nostro presidente del Consiglio Giuseppe Conte gioca ogni mattina alla roulette russa poiché non v'è giorno in cui non si prospetti dinanzi a lui un problema che potrebbe essere letale, ovviamente e fortunatamente non per la sua vita, ma per la sua permanenza alla guida del governo.
    Sono molte le ragioni di questo permanente stato di tensione e d'incertezza. E prima fra tutte è il fatto che la maggioranza sulla quale l'esecutivo di Conte si regge, è tutt'altro che omogenea, tenuta insieme non da un "comune sentire", ma dalla volontà di impedire l'ascesa di Matteo Salvini e del centrodestra.
    In queste condizioni è inevitabile che colui che è chiamato a guidare un esecutivo la cui fragilità è sotto gli occhi di tutti sia costantemente soggetto agli sbalzi di umore dei cosiddetti alleati.
    È, dunque, dura la vita di Conte affannosamente costretto, più che a portare avanti un proprio progetto, ad una estenuante e faticosissima opera dì mediazione, in una politica del compromesso che raramente porta alla soluzione migliore.
    Tuttavia, se vuole mantenere la sua poltrona a Palazzo Chigi, non ha alternative. L'uomo della strada ha, allora, diritto di chiedersi quale sia la molla che consente al nostro presidente del Consiglio di resistere a questa martellante serie di tour de force. È l'ambizione e non è detto che ciò comporti automaticamente un giudizio negativo.
    Helmut Kohl, il cancelliere tedesco, era solito dire che "l'uomo politico senza ambizione è come un cane da caccia che resti a cuccia". L'ambizione è certamente una componente essenziale, oseremmo dire inevitabile, e probabilmente anche necessaria.
    Deve, però, accompagnarsi ad una visione progettuale. E perciò la domanda è: Conte ha questa visione progettuale? O la sua ambizione è soltanto il frutto di una tenace, ostinata, pervicace volontà di restare al potere?

     

  • I CINQUESTELLE IN MARCIA
    VERSO LA SCISSIONE?

    data: 02/12/2020 21:25

    C'era una volta il Movimento Cinquestelle; un'autentica macchina da voti che nelle ultime elezioni politiche - all'insegna dell'ideologia del "vaffa" della quale era gran parte il suo fondatore Beppe Grillo - sbaragliò il campo divenendo l'ago della bilancia di qualunque ipotesi di governo al quale ha partecipato prima alleandosi con il centrodestra e, poi, con un repentino salto della quaglia, alleandosi con il centrosinistra. Ma ora questo Movimento che doveva dettare le regole del nuovo corso della politica, non c'è più. Anzi, ce ne sono due.

    I test elettorali seguiti alle "politiche" del marzo 2018 hanno fatto registrare un progressivo e all'apparenza inarrestabile calo di consensi dei pentastellati ai quali l'opinione pubblica ha clamorosamente voltato le spalle. Così, come sempre accade in presenza di una sconfitta della quale tutti rifiutano la paternità, appaiono, per dirla con una celebre battuta di Peppino De Filippo, non più "vincoli", ma "sparpagliati".

    Dal loro ridimensionamento, infatti, non si delinea la volontà di serrare le file, ma quella di una scissione dalla quale potrebbero nascere, appunto, due partiti: quello di Luigi Di Maio, di Vito Crimi che di Di Maio ha preso il posto nel partito e di Stefano Patuanelli, ministro per lo sviluppo economico. Tutti e tre, accantonando le reciproche diffidenze, sono sostenitori di una linea filogovernativa, ispirata dalla volontà di difendere con le unghie e con i denti, le loro poltrone. Perseguono, invece, un ritorno alle origini, Davide Casaleggio, figlio del fondatore, con Grillo, del Movimento e il sempre irrequietissimo Alessandro Di Battista, decisi a rilanciare la cosiddetta "piattaforma Rousseau" , vale a dire lo strumento attraverso il quale dovrebbe realizzarsi quella che viene definita "la democrazia della rete", tesa a garantire una più diretta partecipazione dei militanti alla gestione del Movimento.

    Ma, poiché in politica uno più uno non fa mai due, ma molto meno, è da prevedere che presto comincerà quella che potremmo definire "la grande fuga" di quanti, soprattutto tra i dirigenti, si sono finora riconosciuti in una forza politica solo perché la ritenevano vincente.

    Resta da vedere chi beneficerà di questo esodo annunciato. E, in particolare, in qual modo si determineranno i nuovi equilibri politici diversi da quelli scaturiti dalle elezioni del 2018 e attualmente in vigore. Ma si tratterà, comunque, di un'operazione a futura memoria.

  • GLI EDITORI ALLA ELKANN
    VOGLIONO DISTRUGGERE
    LA CARTA STAMPATA

    data: 18/11/2020 20:58

    Non è una novità che politica e giornalismo marcino in parallelo. Non è una novità che politica e giornalismo siano in crisi. La crisi della politica è confermata dalla incapacità dei partiti - sanzionata dalla crescente sfiducia dell'opinione pubblica - di rendersi interpreti delle esigenze dei cittadini; la crisi del giornalismo è certificata dal disastroso e inarrestabile calo delle vendite della carta stampata.
    Le cause di queste crisi sono molteplici. C'è un autentico ventaglio di spiegazioni possibili.
    Ma tra queste - specialmente per quanto riguarda la crisi dei giornali che più da vicino ci interessa - ce ne è una che merita una particolare sottolineatura e che proprio di recente è stato chiaramente svelato.
    Ci riferiamo al lunghissimo articolo pubblicato da "La Repubblica" nel quale John Elkann spiega al colto e all'inclita come e perché si debba passare dal giornale cartaceo a quello on line.
    Presidente del gruppo Gedi, magna pars del settore editoriale, Elkann sostiene che "grazie alle tecnologie, si potranno trovare nuovi modi di interagire con i lettori, raccontare e fare giornalismo" e che è opportuno lavorare per quella che definisce "la trasformazione del mestiere" e che, insomma, "il giornalismo è un mestiere necessario, ma con strumenti del ventunesimo secolo".
    A conforto della sua tesi, il presidente di Gedi cita dati che la renderebbero inconfutabile. Uno soprattutti: all'inizio del 2020 gli abbonamenti digitali erano 110mila; a fine anno raddoppierebbero a 220mila.
    Non si può tornare indietro: le nuove tecnologie impongono una svolta radicale. La stampa sarà "altro" rispetto a quella che attualmente è. Avremo un diverso tipo di comunicazione.
    Ma la strada non può essere quella indicata da Elkann che, sia pure in maniera soft, vale a dire con una rilevante dose di ipocrisia, propone il passaggio dalla carta stampata ai giornali on line.
    Carta stampata e giornali on line sono cose diverse: la prima induce a pensare; la seconda si limita ad informare. Possono convivere, ma l’una non può sostituire l’altra senza infliggere alla cultura un vulnus, senza mortificarla, senza immiserire un patrimonio radicato in abitudini che è assurdo pretendere di stravolgere.
    Gregory Bateson, sociologo e filosofo inglese del secolo scorso, affermava che “la saggezza è saper stare con le differenze senza voler eliminare la differenza”.
    Fare giornali migliori, questo sì è un imperativo categorico al quale gli editori farebbero bene a non sottrarsi e del quale si avverte la necessità. Ma questo agli editori – e ce ne accorgiamo quotidianamente – sembra non interessare. Hanno un unico obiettivo: far soldi. Tutto il resto, per loro, è noia.

     

  • PREAVVISO DAI SONDAGGI:
    NUOVI LEADERS IN ARRIVO?

    data: 05/11/2020 16:10

    Sondaggi e statistiche non ci hanno mai convinto più di tanto, convinti come siamo dell'affermazione di Trilussa secondo cui, se la statistica dice che abbiamo mangiato mezzo pollo a testa, vuol dire che c'è chi ne ha mangiato uno intero e chi non ha mangiato nulla.
    Ma i sondaggi sono divenuti i grandi condizionatori delle scelte dei partiti e non si può fare a meno di prenderli in considerazione, qualsiasi analisi si voglia tentare.
    Dai più recenti di questi sondaggi d'opinione scaturiscono, infatti, due significative indicazioni che riguardano sia il centrodestra sia il centrosinistra.
    Emerge che nell'attuale maggioranza comincia a farsi concretamente strada una non irrilevante battuta d'arresto della popolarità di Giuseppe Conte al quale non hanno certamente giovato le incertezze manifestate nella lotta al coronavirus.
    Finora il presidente del Consiglio aveva occupato il primo posto in questa particolare classifica. Non è più così: ora il premier viene scavalcato dal leghista Luca Zaia, presidente della regione veneta.
    Questo calo del gradimento alimenta le speranze di quanti, soprattutto all'interno della maggioranza, puntano, non da oggi, a "far fuori" Conte e potrebbe indurre quanti nel Pd aspirano a succedergli a rompere gli indugi e a scendere in campo.
    Non dissimile è la situazione nel centrodestra. Malgrado le "punture di spillo" di Giorgia Meloni, Matteo Salvini, forte dei più che positivi risultati ottenuti dalla "sua" Lega, ha tenuto in pugno la leadership della coalizione con Fratelli d'Italia e Forza Italia.
    Ma ecco che ora, come abbiamo detto, è sempre secondo i sondaggi, s'impone l'altro nascente di Zaia il quale, tra l'altro, ha ottenuto un clamoroso successo nelle recenti elezioni regionali. Lui nicchia, ma non sono pochi, all'interno del Carroccio, ad auspicare che prenda il posto di Salvini giungendo ad auspicare che, in caso di una vittoria elettorale del centrodestra, Zaia assuma addirittura la guida del governo nazionale.
    C'è, dunque, nelle indicazioni dei sondaggi, una sorta di preavviso: le attuali leadership potrebbero, in un periodo non lontano, sotto la spinta del favore popolare, lasciare il posto ad altri.
    È evidente che, se ciò avvenisse, il cambio degli uomini incaricati di guidare le due coalizioni potrebbe modificare il quadro politico. In qual modo non è ancora, ma di certo ci troveremmo di fronte ad un nuovo scenario; il che, per molti versi, potrebbe anche essere un fatto positivo.

  • MELONI PRENDERA'
    IL POSTO DI SALVINI,
    COME SALVINI PRESE
    IL POSTO DI BOSSI?

    data: 28/09/2020 20:28

    Un antico detto napoletano e la trama di un famoso film degli anni Cinquanta, concorrono - per strano che possa apparire - a spiegare quel che sta accadendo nel centrodestra con la prepotente ascesa di colei che, a qualunque schieramento si appartenga, non può non essere considerata l'astro nascente della politica italiana: Giorgia Meloni.
    Recita il proverbio napoletano: "sì trasuto 'e spighetto e te sì piazzato 'e chiatto". Tradotto per i non napoletani: "sei entrato in punta di piedi e ti sei sistemato alla grande".
    Come non ricordare, infatti, che agli inizi, Fratelli d'Italia era la componente più fragile della coalizione d centrodestra?
    Timidamente, Giorgia Meloni faceva "da spalla" ai due suoi più consistenti alleati, la Lega di Matteo Salvini e Forza Italia di Silvio Berlusconi.
    Ma, giorno dopo giorno, elezione dopo elezione, i rapporti di forza nella coalizione sono cambiati sino a portare Fratelli d'Italia a scavalcare nei consensi degli elettori Forza Italia, ma a insidiare il primato della Lega.
    Infine, non solo il partito della Meloni si è andato rivelando come il motore propulsivo del centrodestra, ma la sua leader ha superato personalmente, in popolarità, lo stesso Salvini, tanto da indurre non pochi a parlare di lei come della vera candidata alla guida del governo prossimo venturo.
    Ecco, allora, il riferimento al famoso film del quale abbiamo parlato all'inizio. S'intitolava "Eva contro Eva, vincitore di ben sei premi Oscar, diretto da Joseph L. Mankiwicz e interpretato da due grandi attrici, Bette Davis e Anne Baxter.
    Vi si narrava la storia di Eva, una giovane aspirante attrice che riusciva a farsi apprezzare e benvolere da Margo, diva di grande fama e successo, ponendosi completamente al suo servizio e assecondandola in tutto e per tutto.
    Ma, ricorrendo a mille astuzie, lentamente, ma con grande tenacia, Eva riusciva a sostituirsi a Margo e a prendere il suo posto come "prima attrice". Si compiva così, inesorabilmente, la parabola di Margo e emergeva la stella di Eva.
    C'è un evidente parallelismo tra questa storia e quella che ha per protagonisti Matteo Salvini e Giorgia Meloni. È la legge cinica e spietata dello spettacolo che si addice - eccome - anche alla politica.
    Il film si conclude con l'apparizione di una giovanissima attrice che si presenta a Eva ed è destinata a seguire il suo stesso percorso.
    E forse non è azzardato, volgendo lo sguardo all'indietro, ricordare che allo stesso modo, più o meno, Salvini prese il posto di Umberto Bossi.