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EUGENIA TIZZANO

  • DEL CURARE LA CASA
    COMUNE.RIFLESSIONI AL
    RIENTRO DAL PORTOGALLO.

    data: 30/07/2023 18:44

    Rientro da un breve periodo trascorso nella città di Porto, a nord del Portogallo. Ho avuto la fortuna di recarmi lì nelle tre settimane più fresche e ventilate del mese di luglio, di solito quello più caldo della stagione estiva, a detta dei residenti. Qui dove mi trovo ora (in una città dell’Abruzzo interno, nella Valle Peligna) fa più caldo rispetto a dove mi trovavo fino a ieri: stanotte ho dormito poco e male. Ma chi è rimasto nei giorni roventi che da poco la mia cittadina si è lasciata alle spalle mi dice di aver dormito bene, stanotte: oggi fa meno caldo rispetto ai giorni scorsi. Non posso lamentarmi, mi dico. Mi preparo a “somministrare”, da remoto, gli esami ai miei studenti di cinese. Mentre, comodamente seduta alla mia scrivania, cerco di camuffare la mise da mare con una stola che mi copre le spalle e i cui motivi e colori fanno subito professoressa di letteratura cinese (non potrebbe essere altrimenti, visto che l’ho presa in un viaggio di qualche anno fa nella regione meridionale cinese dello Yunnan), dall’altra parte nello schermo la tutor che è in aula per fare assistenza mi informa che dove si trova (in una città dell’Emilia) ora si sta bene e si riesce a dormire più delle 2 o 3 ore a notte dei giorni scorsi. Ha rinfrescato subito dopo il nubifragio a Milano. Quando, poco dopo, le chiedo come si pronuncia il suo cognome, scopro che viene dalla Sardegna: la sua terra natale è il paesino dove Grazia Deledda ha ambientato Canne al vento, aggiunge dopo averne detto il nome prima in italiano e poi in dialetto. Le chiedo del caldo sardo di questi giorni (di cui hanno parlato anche i tg portoghesi) e la vedo che strabuzza gli occhi mentre riporta i commenti dei parenti rimasti. Lei fa la vita della fuorisede da circa sette anni, per sua fortuna risiede nella città in cui studia. Non tutti miei studenti possono vantare lo stesso privilegio.

    Almeno una cosa buona c’è, penso: lì ora è più fresco (intendo dire nella città emiliana). Vuol dire che le studentesse che dovrò interrogare hanno avuto la possibilità di studiare e sono pronte. In realtà di solito le studentesse studiano sempre, per questo prendono voti generalmente più alti rispetto ai loro colleghi uomini. Sono abituate a obbedire a un’autorità, che in questo caso sono io, loro docente. Poi purtroppo questa disciplina e tutto l’impegno che mettono per prepararsi bene agli esami non le porterà, nella maggior parte dei casi, ad assumere ruoli di comando nella società, ruoli in cui le loro conoscenze e la loro serietà sarebbero una necessaria base di partenza. E dove la loro sensibilità e la famosa predisposizione alla cura della casa tipicamente femminile, data spesso per scontata, potrebbe aiutare a salvare la casa di tutti¹ – non solo a gestire e rassettare la propria! – casa di tutti, dicevo, che brucia o lancia bombe d’acqua e ghiaccio a seconda di dove ci si trovi.

    Mentre ci penso, mi asciugo con un fazzoletto il sudore dove posso, sulle parti del corpo che sfuggono all’inquadratura. Io posso farlo, e mentre lo faccio penso alle mie studentesse che non possono farlo. Gli esami iniziano. Le interrogo. Cerco di capire se, oltre a studiare per senso del dovere tutto quello che c’era nel programma, hanno ragionato ed esplorato per conto loro, se poi hanno collegato, se si sono incuriosite e addirittura innamorate, se hanno infine trovato appassionante e utile quello che ho proposto. A fine esame potrei ricordargli (un po’ come se fosse l’ultimo stimolo che posso dar loro prima di salutarle per sempre), che Confucio diceva – vado a memoria – che studiare senza pensare è vano, ma pensare senza studiare è pericoloso. Non lo faccio. Nel loro caso non serve: hanno sia studiato sia pensato. Ma non capita sempre, anzi! Ormai è l’eccezione. Durante lo scorso appello, ad esempio, una studentessa dimostrava di pensare e riuscire a collegare, peccato che lo facesse mettendo insieme informazioni errate e frammentarie: non aveva memorizzato, che è ciò che lo studio richiede in prima battuta. In quel caso non ho citato l’aforisma di Confucio; mi è venuto in mente solo qualche minuto dopo. Ecco spiegato perché continua a tornare anche quando non ce ne sarebbe bisogno.

    Ci vuole tempo per studiare. Ci vuole uno spazio adeguato, persino un clima adeguato. Ci vuole calma: la fretta, si sa, porta solo all’approssimazione. Ci vuole tempo, calma e tanta pazienza. Bisogna infatti mettere in conto che non tutto si può e si deve capire subito. Perciò, come dicono i cinesi, si studia finché si è vivi e, aggiungo io, si è vivi finché si studia. Ma ci vuole il fresco fuori e anche dentro le stanze delle studentesse e degli studenti, per continuare a studiare e per poterlo fare bene. Perché già lo shock di non capire tutto subito – una cosa che dovrebbe in realtà già essere assodata quando si arriva all’università e che invece, in molti casi, non lo è affatto – potrebbe generare ondate di panico e quindi di calore che attraversano tutto il corpo, testa compresa.² Non c’è altro luogo, oltre all’università, che lasci il tempo per prendere consapevolezza, e accettare, che ci vuole una vita a comprendere le cose complesse. Come fare ad accettarlo, però, se la nostra stessa sopravvivenza oggi è minacciata e se non sappiamo quanto ancora potranno durare le nostre vite passando, come stiamo facendo,³ di emergenza in emergenza senza che ci sia una concreta volontà e quindi un piano serio per salvarci tutti?

    Note:

    1. “Per secoli le donne sono state intimamente legate alla gestione del quotidiano, al lavoro di cura, alle fondamenta della convivenza. Le donne partorivano i bambini, cioè fabbricavano la vita, mentre gli uomini fabbricavano le merci”: queste parole della filosofa femminista tedesca Eva von Redecker, autrice di Revolution für das Lebene (Rivoluzione per la vita), sono citate su un articolo della rivista tedesca Der Spiegel tradotto nel numero 1495 della rivista Internazionale, pp. 40-47. Gli autori dell’articolo, tradotto in italiano col titolo “Karl Marx aveva ragione”, aggiungono: “Il lavoro delle donne seguiva i bisogni delle persone, non le esigenze del mercato. Forse è per questo che oggi le donne hanno più chiaro degli uomini che qui è in gioco la sopravvivenza dell’umanità”, p. 47.

    2. Anche in questo caso, faccio riferimento a un portato del pensiero cinese che non ha mai diviso tradizionalmente la res cogitans dalla res extensa, ossia ciò che i cinesi chiamerebbero mente-cuore (xin) e corpo (shenti), come si è invece fatto nella cultura occidentale a partire da Cartesio.

    3. Potremmo invece, come suggerisce Leonardo Caffo in Dopo il Covid-19. Punti per una riflessione (nottetempo, 2020), dare una chance a un mondo privo di emergenze se decidessimo finalmente di abbandonare “l’idea postmoderna di progresso che ha guidato gli ultimi cinquant’anni delle nostre vite”.

  • A BEPPE

    data: 19/03/2023 00:31

     Abbiamo sempre avuto paura del vuoto. E forse, è per questo che lo abbiamo chiamato così. Se è “vuoto” non c’è nulla da indagare. Possiamo ignorarlo e dedicarci ad altro, alla materia visibile, che possiamo toccare, misurare, scambiare...

    Ma adesso gli scienziati ci dicono che il “vuoto” dell’universo è pieno di energia, e in fondo alcuni filosofi – davvero illuminati – hanno sempre saputo che nel vuoto sono racchiuse tutte le cose.

    Quando un essere umano lascia la vita terrena il suo corpo non ci è più prossimo. Ma davvero questo vuoto di materia equivale a un vuoto assoluto?
    Ci sono esseri umani che proprio nel lasciarci diventano per molti ancora più presenti. Beppe Lopez è uno di quelli. Come ha scritto Rosa Rossi:
    Oggi, Beppe ci ha lasciato. Da oggi, ogni volta che scriverò qualcosa, non potrò non pensare alla mail di risposta: ‘sei in rete’ magari con l’aggiunta di una parola a conferma di aver fatto un lavoro particolarmente azzeccato.
    Rimarranno le conoscenze e le amicizie fatte grazie a Beppe e, possibilmente, riprenderemo l’idea di incontrarci. E ognuno di noi, dal suo particolare punto di vista, potrà pensare che Beppe sa di avere costruito qualcosa di duraturo.
    Io con Beppe non ci ho mai parlato personalmente, purtroppo. Ci ho scambiato solo qualche email e dalle sue brevi risposte mi è apparso subito chiaro che persona era e che Direttore si impegnava a essere.
    Adesso che “non c’è” forse possiamo impegnarci noi a lasciare sempre aperto un canale di comunicazione con lui. Già prima mi capitava di pensarlo, ogni volta che la mente si accendeva collegando improvvisamente tanti pensieri diversi che confluivano poi in un articolo da proporgli. Pensavo a lui perché di lui mi fidavo in maniera molto istintiva. Lo stimavo, immaginavo che quello che avevo da dire gli sarebbe piaciuto. Lo sentivo affine nel desiderio condiviso di puntare alla verità delle cose.
    Lo sento ancora anima affine. Per questo, più di prima, mi capita di immaginare di parlargli. In verità, non me ne vogliano gli scettici, io gli parlo proprio. E ascolto le sue risposte – pensieri che si impongono su altri e finiscono per voler uscire fuori sotto forma di parole. Allora li trascrivo su carta e poi su schermo. Come questo pensiero. Ancora rivolto a lui e allo stesso tempo da lui incoraggiato a uscire dalla mia testa, per trasformarsi in qualcosa che resti.
     

  • LA FINE E L'INIZIO:
    RIFLESSIONI SPARSE
    (31 DICEMBRE 2022)

    data: 01/01/2023 15:45

    Stamattina al risveglio ho sentito la mente attivarsi e iniziare a produrre febbrilmente pensieri su cose non tanto da fare, ma che avrei voluto fare in quest’ultimo giorno del 2022. Andare al mercato a comprare un bel mazzetto dei saporitissimi peperoncini di Anna, la contadina più gentile e affidabile del paese (la mia cittadina in fondo è un grande paese), e anche qualche paia di calzini da indossare con le comode sneaker verde menta che porterò con me nel prossimo viaggio (non di piacere) all’estero a metà gennaio; scrivere a mo’ di titolo “Appunti di medicina tradizionale cinese” in italiano e in cinese sul nuovo quaderno comprato qualche giorno fa con l’intento di iniziare a studiare la materia nel 2023, e naturalmente cercare informazioni su corsi in italiano, in inglese, meglio ancora in cinese, da seguire il prossimo anno (era già nella lista degli obiettivi per il 2022); buttare giù qualche riflessione sparsa su quanto mi abbia cambiata questo anno che sta per concludersi; mandare messaggi di auguri alle persone a cui non li ho mandati per Natale, o semplicemente chiamarle; aprire le decine di messaggi accumulati da giorni sui gruppi di volontariato per la salvaguardia del suolo cui mi sono unita pochi mesi fa, per verificare se ci sia ancora qualche cosa che posso fare, come volontaria, e che non ho ancora trovato il tempo di fare; terminare uno dei tanti lavori all’uncinetto iniziati quest’anno, in particolare quell’accessorio per le nuove mensole da bagno iniziato ieri con tanto entusiasmo copiando – se posso dirlo, con un tocco di creatività in più – uno dei portatutto proposti sul sito di IKEA; finire di leggere un libro iniziato l’altro ieri (c’è sempre un libro che salta fuori negli ultimissimi giorni dell’anno e che viene divorato negli stessi lasciandomi nella testa e nel corpo un paio di idee davvero potenti che mi influenzeranno per tutto l’anno a seguire).
    Quest’anno è toccato a un libricino che mi è stato inaspettatamente regalato da un’amica conosciuta da poco ma che mi sembra di conoscere da sempre. Si tratta del romanzo d’esordio del giapponese Kawamura Genki (1979), Se i gatti scomparissero dal mondo (Giulio Einaudi editore, 2019), definito “un enorme fenomeno editoriale in Giappone”, tradotto in dieci lingue e trasposto in un film di successo. Non è male. Con una scrittura scorrevole e immediata, Kawamura ci catapulta negli ultimi giorni di vita di un postino che vive solo con il suo gatto e che intorno a sé non ha nessuno, nonostante per lavoro si occupi di connettere gli altri. Quando si scopre improvvisamente affetto da un male incurabile, decide di scendere a patti col Diavolo in persona, prontamente entrato in scena già nelle prime pagine del primo capitolo (cioè all’inizio della fine) per proporgli qualche giorno di vita in più in cambio di qualcosa che sparirà per sempre dal mondo. E così prima toccherà ai telefonini – con tutti i pro e i contro che si possono facilmente immaginare –, poi ai film, agli orologi, finalmente ai gatti che primeggiano nel titolo e nell’immagine di copertina della traduzione italiana, poi al protagonista e infine… l’addio al mondo. Nell’ultimo capitolo, intitolato appunto “Addio mondo”, il protagonista, inizialmente uscito di casa con l’intento di spedire la sua lettera di addio a un padre che non vedeva dal funerale della madre, decide di fargli visita personalmente quello stesso giorno. L’immancabile accenno – dal gusto tipicamente orientale – al ciclico susseguirsi delle stagioni, con l’immagine di un cielo invernale la cui luce avvolgente già preannuncia la primavera che verrà, chiude il romanzo riallacciando la fine all’origine in un ciclo vitale che è cosmico e dunque certamente anche umano, secondo una concezione tipicamente orientale.
    “La fine e l’inizio” è anche il titolo dell’ultimo capitolo del ben più lungo romanzo del premio Nobel cinese Mo Yan (1955), autore alle cui opere fantastiche ho dedicato più di tre anni di studio e ricerche e che continua a fornirmi spunti per riflettere sul mondo e sulla direzione in cui stiamo andando. Le sei reincarnazioni di Ximen Nao (Giulio Einaudi editore, 2009) racconta – in più di ottocento pagine nella versione italiana mirabilmente tradotta da Patrizia Liberati – le peripezie dell’anima di un proprietario terriero (ingiustamente) giustiziato dai suoi mezzadri alla vigilia della rivoluzione cinese, che si reincarna prima in asino, poi in maiale, in toro, in cane, in scimmia e infine in un bambino dalla testa enorme capace di contenere tutti i ricordi delle reincarnazioni precedenti. La scena che chiude il lungo racconto del bambino dalla testa enorme ne descrive la nascita durante la notte che segna l’ingresso nel nuovo millennio, e la successiva corsa disperata dei nonni per accoglierlo nel mondo con rinnovata speranza, nonostante le tragiche sorti che hanno segnato l’intera famiglia. L’immagine di copertina della versione italiana, che raffigura un neonato sorretto da due braccia che emergono dalle macerie di un mondo antico che va sgretolandosi (simboleggiato da una vecchia abitazione tradizionale che fa capolino sul retro), trasmette un messaggio di speranza in mezzo alla disperazione. Il messaggio è quello antico di sempre: finché c’è vita, c’è speranza. Forse è proprio questo il senso profondo che questo lungo romanzo vuole trasmetterci: fino a quando l’uomo potrà sperare nella continuazione della propria specie tramite la nascita di nuovi individui, allora per l’intera specie e per tutti gli individui che la compongono continuerà ad avere senso vivere e sopportare le fatiche quotidiane. Ma c’è anche un enorme senso di liberazione per essere finalmente tornato uomo e per aver riacquisito la possibilità di raccontare a parole tutto quello che si è vissuto, per liberarsene forse, certamente per lasciarlo in eredità ai posteri…
    Nel frattempo, in questa strana mattinata tra la fine e l’inizio, affiorano nella mia mente immagini e parole che descrivono un Capodanno che per molti è ancora all’insegna dell’esagerazione, quando ormai dovremmo aver capito che c’è bisogno, al contrario, di ridimensionarci, se vogliamo sperare di avere ancora dei posteri a cui indirizzare i nostri pensieri e a cui rivolgere i nostri sforzi presenti. Non tutti sembrano esserne consapevoli, presi piuttosto da un delirio schizofrenico da fine (dell’anno e forse, chi sa, inconsapevolmente anche…) che li spinge a fare di più come per rassicurare il corpo che sì, è ancora vivo, ma forse soltanto vegeta. Mi vengono in mente titoli di giornali locali che annunciano cifre astronomiche pagate a persona per un cenone, o altro inchiostro e spazio digitale sprecato per commentare l’arrivo di un calciatore di fama internazionale che ha affittato un intero hotel in un paesino dell’Abruzzo montano diventato irriconoscibile rispetto ai racconti di mio padre che lì ha trascorso la sua infanzia, a suo dire, “a fare slalom con gli amichetti tra merde di vacca sparse per le stradine strette di paese”.
    A me tutto ciò provoca un’angoscia indicibile. Pensando a certe notizie, riconosco in quegli esseri umani la mia stessa ansia febbrile di fare tutto ciò che si può prima della fine, che agisce però su corpi forse un po’ meno consapevoli di ciò che li muove e per questo più maldestri nei movimenti. La mia mente torna alla pila di libri comprati quest’anno su un argomento che ormai da tempo mi affascina, ma che non sono ancora riuscita a prendere di petto: la fine del mondo. Di quei libri ne ho iniziato soltanto uno, Il grido di Antonio Moresco (Società Editrice Milanese, 2018), un vero e proprio grido disperato a un’umanità sull’orlo dell’estinzione di specie. Ma non ho ancora avuto il fegato di finirlo… Rimandato anche questo al prossimo anno, sperando che ci sia ancora un mondo come lo conosciamo, il prossimo anno. O meglio, sperando di esserci ancora noi.
    E se non dovessimo esserci in questa forma, mi auguro e ci auguro di essere almeno presenti da qualche parte in questo universo, esseri comunque senzienti e coscienti come lo sono le bestie raccontate da Mo Yan nel suo romanzo a metà tra mito e realtà, che forse possiamo leggere come un invito a vivere e andare avanti nonostante l’evidente e tragica precarietà della nostra condizione in quanto terrestri.
    A tutti, buona fine e buon inizio!
     

  • PERCHE' DOBBIAMO USCIRE
    DALLA BOLLA SOCIAL
    E TORNARE ALLA VITA REALE

    data: 01/10/2022 13:34

    Dovrei mettermi a revisionare un articolo per una pubblicazione scientifica, ma sono giorni che la mia mente va in un’altra direzione.
    Nel tempo che mi separa dalla possibilità di un primo incarico di insegnamento universitario che finirà per occupare gran parte del mio tempo, ho un desiderio febbrile di scrivere messaggi più immediati per un pubblico più vasto – mi auguro – di quello di un articolo scientifico.

    Lunedì 26 settembre 2022. Mi sveglio con l’amaro in bocca. Leggo alcuni commenti online. Nella mia bolla social qualcuno dice che dovremmo uscire dalle nostre bolle social per rientrare nella realtà e lì dialogare, con l’obiettivo di cambiare qualcosa. Realmente.
    Le bolle social assomigliano alla cerchia di amici di cui ci circondiamo nella realtà, con la differenza – abbastanza rilevante – che sul web non siamo solo noi a selezionare le voci di cui vogliamo circondarci. C’è un algoritmo che, sulla base delle nostre preferenze e interazioni (il semplice sguardo che per pochi secondi si sofferma su un’immagine o un commento è più che sufficiente), seleziona per noi suggerimenti di “nuovi amici”, cioè di nuove persone da seguire che condividono cose che potrebbero interessarci. In pratica, che ci restituiscono la stessa immagine del mondo e della realtà che ha già preso forma nelle nostre menti. Niente di più, qualcosa di meno. Sì, perché le bolle social ci disabituano al confronto con gli altri abituandoci a ricevere solo conferme. Ma si tratta di un’illusione e, prima o poi, i nodi vengono al pettine.

    Lo stesso giorno, l’algoritmo mi propone un altro post che elenca e spiega brevemente nuove forme di ansia sociale da cui, pare, siamo ufficialmente afflitti. Mi colpisce in particolare la FOPO (Fear of Other People’s Opinion), ovvero la paura, sempre più crescente, di confrontarsi con opinioni altrui su temi sociali rilevanti nel dibattito politico. A questa è collegata la FOFO (Fear of Finding Out), ovvero la paura di scoprire qualcosa, ad esempio di scoprire cosa pensano realmente gli altri su un determinato tema. Insomma: abbiamo sempre più paura di scoprire dissenso, tra chi ci è vicino, su temi per noi importanti. Alcuni si sono talmente abituati a inveire contro gli altri a mezzo tastiera che quella rabbia impulsiva pensano di non poterla più dominare nel caso di un confronto reale. Allora finiscono per evitarlo direttamente, il confronto reale. Altri – soprattutto, mi sembra, tra i più giovani – si sono abituati talmente tanto a ricevere solo conferme che la sola idea di un’opinione diversa li spaventa al punto da immobilizzarli. Non rispondiamo più, non chiediamo neanche, cadiamo nel silenzio e diventiamo indifferenti. Ma nella realtà, lo siamo davvero? Siamo davvero indifferenti a cose enormi come il cambiamento climatico, i nostri diritti, il nostro futuro?
    Forse no. E forse, proprio per questo, dovremmo davvero uscire dalle nostre bolle social e tornare a vivere nella realtà. Capire che non siamo i personaggi monolitici che ci siamo costruiti sui social e che non possiamo neanche aspettarci che gli altri lo siano. Capire che il tempo trascorso online è tempo sottratto alla vita reale perché se era vero già alla fine degli anni Sessanta che “tutto ciò che era direttamente vissuto si è allontanato in una rappresentazione" (I) oggi lo è ancora di più e in un modo ancora più preoccupante. Perché oggi non siamo più solo i “non-viventi” di cui parlava Guy Debord, che passano gran parte del tempo vissuto al di fuori della produzione moderna a fruire di spettacoli propinati da chi la produzione la controlla. (II) Oggi siamo diventati noi stessi creatori di spettacoli. Abbiamo reso le nostre vite uno spettacolo da ostentare sulle nostre pagine social, ed è lì che trascorriamo la maggior parte del tempo che ci rimane dopo il lavoro. Col risultato che pensiamo di aver agito semplicemente postando immagini o stralci di articoli che riassumono pensieri che condividiamo e infarcendoli di commenti e opinioni a cui nessuno o pochissimi (di solito chi la pensa come noi) risponderanno. Debord, in fondo, ci aveva avvertito: lo spettacolo “è il contrario del dialogo". (III)  E noi oggi stiamo togliendo tempo al dialogo reale.

    Il punto è che di tempo ne abbiamo molto poco. E se è vero che in quest’era chiamata Antropocene potremmo arrivare – o forse già siamo arrivati – al punto in cui “non il più adatto a sopravvivere è stato privilegiato dalla selezione naturale, ma il più adatto al suicidio di specie”, (IV) allora io non vorrei che questo meccanismo di selezione, che è in realtà innaturale perché noi stessi abbiamo contribuito ad avviarlo, (V)  ci trovasse più deboli e impauriti. Vorrei invece che ci trovasse uniti e più forti. E allora uniamoci, giovani e anziani, studenti e insegnanti, figli e genitori, uniamoci e usciamo di casa, incontriamoci, camminiamo insieme e facciamoci vedere numerosi e uniti nel chiedere che ci venga restituita la vita e il futuro.
    Non solo come singoli individui separati, ma come specie.

    Non c’è angoscia più grande, per chi fa parte della mia generazione, che quella nutrita dalla prospettiva di non avere figli o nipoti, di non avere posteri che leggano ciò che abbiamo scritto, che contemplino le grandiose opere dell’ingegno umano o, semplicemente, che traggano insegnamento dalle nostre umili esistenze, dai nostri errori, da ciò che abbiamo imparato lungo il cammino delle nostre brevi vite. Non c’è angoscia maggiore del pensarci finiti, senza eredità che non sia per non-umani.

    ---

    (I) Tratto dal primo punto de “La divisione perfetta”: “L’intera vita delle società, in cui dominano le moderne condizioni di produzione, si annuncia come un immenso accumulo di spettacoli. Tutto ciò che era direttamente vissuto si è allontanato in una rappresentazione”. In Guy Debord, La società dello spettacolo, Massari editore, 2002, p. 43. Pubblicato per la prima volta in Francia verso la fine del 1967.
    (II) Per “produzione moderna” si intende qui la produzione di merci nelle moderne economie capitaliste, in cui lo spettacolo (ad esempio nella forma della pubblicità) è funzionale a giustificare e allo stesso tempo a nutrire la produzione stessa: Ivi.
    (III) Ivi, p. 48.
    (IV) Così la studiosa Carla Benedetti riassume le affermazioni del narratore del romanzo Il grido di Antonio Moresco nel dialogo immaginario che egli intrattiene con Charles Darwin. Mentre Benedetti probabilmente intendeva che la selezione ha privilegiato il più adatto ad attuare il suicidio di specie (del romanzo di Moresco cita, non a caso, il passo relativo al colonialismo e alle pulizie etniche), io non ho potuto fare a meno di pensare anche all’aspetto psicologico: che la selezione stia privilegiando anche i più adatti a sopportare il peso psicologico di vivere sapendo che ci estingueremo per certo e in breve tempo, se non agiamo subito? Carla Benedetti, La letteratura ci salverà dall’estinzione, Giulio Einaudi editore, 2021, p. 82.
    (V) “Ci troviamo in una fase diversa dell’evoluzione; il futuro della vita ora è nelle nostre mani. Non si tratta più semplicemente di evoluzione naturale, ma di un’evoluzione guidata dall’essere umano”: J. Enriquez – S. Gullans, Evolving Ourselves: How Unnatural Selection and Nonrandom Mutation are Changing Life on Earth, in Maryanne Wolf, Lettore, vieni a casa. Il cervello che legge in un mondo digitale, Vita e pensiero, 2018.

     

  • MA LO SCHERMO DIGITALE
    CAMBIA I NOSTRI CERVELLI
    E CI FA PERDERE CAPACITA'
    CHE CI RENDONO UMANI...

    data: 22/09/2022 17:03

    Ho letto il primo capitolo del nuovo libro di Maryanne Wolf, o meglio, la sua prima lettera a tutti noi, lettori in un mondo digitale. (I)
    L’ho letta la prima volta qualche giorno fa, l’ho riletta più attentamente stamattina. Forse non è stata neanche la seconda volta. La mia mente l’ha già riletta chissà quante volte. Devo, a dirla tutta, già averla in qualche modo assimilata, perché due sere fa, dopo aver guardato un film sull’opera di Charles Dickens e sul suo impatto sulla società inglese del tempo, mi è venuta una strana e inquietante intuizione che con quella lettera ha molto a che fare.

    A dire il vero, credo sia stata proprio quella lettera ad aggiungere il tassello mancante a una riflessione che da tempo prende forma e corpo nella mia mente. Provo a ricostruirla, proprio a partire da alcuni presupposti fondamentali del lavoro di ricerca della neuroscienziata cognitivista Maryanne Wolf sul cervello che legge in un mondo digitale.

    Il cervello umano non è fatto per leggere, afferma Wolf. (II) Ciò vuol dire che non possiede un programma su base genetica per lo sviluppo delle connessioni necessarie all’apprendimento della lettura. Tuttavia, la sua spiccata plasticità gli permette di adattarsi e modificarsi, dati certi stimoli esterni, al fine di apprendere la lettura. (III)
    Ciò significa che il cervello può essere plasmato da fattori esterni di vario tipo, e vuol dire anche che l’abitudine alla lettura modifica in qualche modo il cervello umano, che a sua volta modifica il modo in cui pensiamo. Una lettura profonda, fa notare Wolf, favorisce la formazione di processi cognitivi lenti quali il pensiero critico, la riflessione personale, l’immaginazione, l’empatia… Una lettura più veloce e distratta come quella su schermi digitali potrebbe compromettere lo sviluppo di tali capacità in quelli che lei chiama i nuovi cervelli digitali.
    Allora il suo libro si propone, tra gli altri, un obiettivo ambizioso: quello di educare a riprogrammare questi nuovi cervelli digitali – i nostri, ancora di più quelli delle generazioni successive – al fine di “proteggere le nostre capacità più fondamentali”, (IV) ossia quelle che hanno permesso alla nostra specie di raggiungere un traguardo che, per quanto ne sappiamo, nessun’altra specie ha mai raggiunto: l’alfabetizzazione. E con essa le capacità di immaginare mondi che non sono i nostri, provare emozioni che appartengono a personaggi fittizi, sentirci ricolmi di percezioni intensificate e ansiosi di assumerci le nostre responsabilità nel mondo. (V)

    Ed è su questo aspetto, le responsabilità, che il mio pensiero continua a tornare, in modo quasi ossessivo, da tempo.

    La cosa interessante del libro di Wolf è che mette in guardia cercando di svelare il risvolto della medaglia, ossia quelli che definisce “involontari effetti collaterali della più grande esplosione di creatività, invenzione e scoperta della nostra storia”. (VI)  Il digitale, ci sta dicendo, può migliorarci la vita in tanti modi, ma allo stesso tempo rischia di disabituare il nostro cervello ad alcune funzioni che con fatica abbiamo acquisito nell’arco di soli (!) seimila anni di scrittura e lettura.

    Io non posso fare a meno di intravvedere – in realtà con chiarezza a tratti inquietante – un altro risvolto della medaglia. E non posso farne a meno proprio perché il mio cervello ha già inconsapevolmente raccolto l’invito che chiude la prima lettera di Wolf: quello a far diventare le sue lettere – e gli altri libri che leggiamo – un luogo in cui i pensieri dell’autore e quelli del lettore si incontrino, e a volte si scontrino, ma sempre affinandosi reciprocamente. (VII)

    Ma torniamo a noi, anzi torniamo all’inizio: “non siamo nati per leggere”, (VIII)  è il primo, fondamentale presupposto di Wolf. Ciò vuol dire che il cervello ha sviluppato l’abilità quasi miracolosa di “andare oltre le sue capacità programmate geneticamente, quali la vista e la parola”. (IX)

    Qui mi fermo. Rifletto. Collego. Non posso fare a meno di dare ascolto a certi pensieri e ricordi di parole che sono espressione di visioni del mondo proprie di una cultura al cui studio ho dedicato gli ultimi undici anni della mia vita.

    Andare oltre le capacità programmate geneticamente vuol dire, in qualche modo, andare oltre la natura. E certamente ci troviamo nell’ambito della cultura, quando parliamo di scrittura e lettura. Ma non è questo il punto.
    Il punto è che la cultura tradizionale cinese, come molte altre espressioni culturali di civiltà antiche, sapeva e sa benissimo che la natura, o l’universo, o il cosmo, tendono all’equilibrio e all’armonia. E ogni qual volta un equilibrio viene violato, qualcosa si mette in moto per ristabilire l’armonia.
    Non è forse la capacità di creare analogie e trarre conclusioni durante la lettura che ci ha portato allo sviluppo scientifico e tecnologico che ora ci è già sfuggito di mano e che rischia di distruggerci?
    Non è forse l’effetto collaterale di cui parla Wolf – il ridimensionamento dei nostri cervelli – anche un potenziale antidoto ai mali che il suo stesso miracoloso sviluppo ha creato? (X)
    La lettura su carta ci ha permesso di pensare in modi diversi, pensare in modo diverso ci ha permesso di inventare una serie di ingegnosi macchinari che, se da una parte ci hanno facilitato la vita, dall’altra ce l’hanno senza dubbio rovinata, rovinando allo stesso tempo il mondo in cui viviamo. Tra queste invenzioni epocali c’è lo schermo digitale: proprio lui oggi ci pone di fronte a una nuova svolta epocale, che richiede scelte altrettanto importanti.
    Quello che ci dice è: sono qui per modificare i vostri cervelli, non in meglio però, o non necessariamente; se non prestate attenzione, il mio utilizzo vi farà perdere alcune delle capacità che vi rendono umani, con tutte le implicazioni, anche politiche, che ciò comporta… (XI)

    Per fortuna ci sono scienziate come Maryanne Wolf capaci di immergersi ancora nel loro lavoro di ricerca per trovare soluzioni ibride e allertare gli umani e guidarli a un uso più consapevole dei dispositivi elettronici.
    Per fortuna c’è ancora ottimismo, tra gli umani.
    Basta non ricadere nell’errore di pensare che la prossima specie in cui ci trasformeremo sarà quella che lo storico Yuval Noah Harari ha ironicamente definito Homo Deus. (XII)
    Mi piacerebbe provare ad alleggerire la negatività che caratterizza la nostra epoca con l’invito a coltivare una speranza, affinché questa si trasformi in realtà. Che, come suggerisce Leonardo Caffo, possiamo davvero “provare a diventare “postumani” – una nuova specie che si è evoluta non nell’aspetto fisico, ma nei comportamenti, nei paradigmi intellettuali e di relazione con l’ambiente”. (XIII)

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    (I) Maryanne Wolf, Lettore, vieni a casa. Il cervello che legge in un mondo digitale, Vita e pensiero, 2018.
    (II) Maryanne Wolf, Proust e il calamaro. Storia e scienza del cervello che legge, Vita e pensiero, 2009.
    (III) Wolf 2018, pp. 14-15.
    (IV) Ivi, pp. 15-16.
    (V) Parafrasando Wolf: ivi, p. 11.
    (VI) Ivi, p. 10.
    (VII) Ivi, p. 20.
    (VIII) Corsivo nell’originale: ivi, p. 9.
    (IX) Ivi, p. 12. Il corsivo è mio.
    (X) Parlo qui di “antidoto” in maniera da una parte provocatoria, da una parte mettendomi nei panni delle specie animali e vegetali che continuiamo a mettere a rischio.
    (XI) Da quel che leggo nel primo capitolo, Wolf parla più approfonditamente delle implicazioni che la perdita di certe qualità può avere sulla vita democratica condivisa nelle ultime lettere del suo libro (2018).
    (XII) Yuval Noah Harari, Homo Deus. Breve storia del futuro, Bompiani, 2018.
    (XIII) Leonardo Caffo, Fragile umanità, in Dopo il Covid-19. Punti per una discussione, Nottetempo, 2021. Il corsivo è mio

     

  • CINESITA' E SINOFONIA: PRIME NOTIZIE DA UN UNIVERSO MULTIFORME

    data: 12/05/2021 21:05

    “Questo aprile è come un grosso vaso di Pandora”, mi dice una collega di dottorato a inizio del mese scorso. È il termine della prima giornata di incontri sugli studi sinofoni, a cui prendo parte insieme a studiosi e studenti provenienti da paesi diversi. Quello da poco trascorso è stato un mese ricco di cose interessanti. Soprattutto, era pieno di quella che mi piace chiamare “essenza femminile”, diluita in tanti e diversi incontri virtuali su letteratura, cultura, poesia, montagne, ecologia… Tutti sostantivi femminili, esatto! E forse non è un caso, penso.
    In questo momento per me è centrale il lavoro di ricerca, ma non solo. Sono all’ultimo anno del dottorato in letteratura sinofona e una parte di me già si proietta virtualmente nel futuro, iniziando a intravedere possibilità e limiti del percorso di studio e ricerca in cui sono ancora immersa. E per quanto riguarda la ricerca e formazione nella cultura e letteratura in lingua cinese, lo scorso mese è partito alla grande, c’è da dirlo.
    È iniziata mercoledì 7 e terminata sabato 10 aprile, rigorosamente online e con oratori e partecipanti collegati da più parti del mondo, la Spring School sugli studi sinofoni organizzata dalla Heidelberg University, in Germania. (1) Tema centrale di questa edizione è stato il ripensamento dei cosiddetti “studi sinofoni”. Nella sua accezione più ampia, l’aggettivo “sinofono”, composto dal prefisso di origine latina “sino-”, derivato di Sīnae (nome con cui gli antichi greci e romani indicavano alcuni popoli che abitavano a sud dei Seres), e dal suffisso “-fono”, suono, si riferisce a chi parla cinese o a ciò che è espresso in cinese. Negli anni Novanta la parola è stata usata in diversi contesti e con accezioni più o meno specifiche, ma è divenuta centrale nell’ambito degli studi letterari cinesi solo a partire dal 2007, con la pubblicazione del saggio Visuality and Identity: Sinophone Articulations Across the Pacific della studiosa Shu-mei Shih. (2) Senza scendere nei dettagli del dibattito cui il saggio ha dato avvio, ne riporto qui alcuni quesiti centrali.
    Cosa intendiamo quando parliamo di letteratura cinese? (3) Ci riferiamo soltanto alla letteratura
    scritta da autori nati e vissuti nella Repubblica Popolare Cinese e che scrivono in cinese? O possiamo includere anche opere di autori che vivono in zone diverse del mondo? Possiamo includere, ad esempio, le opere di chi parla e scrive nelle lingue sinitiche e vive a Taiwan o in Malesia? E come considerare le produzioni di scrittori come il Premio Nobel Gao Xingjian (1940), di origine cinese ma naturalizzato francese? O quelle di Qiu Xiaolong (1953), autore di gialli di successo ambientati a Shanghai ma scritti in lingua inglese, essendo Qiu emigrato negli Stati Uniti nel 1988?
    È evidente che la dicitura “letteratura cinese” diventa riduttiva in questi casi, soprattutto perché
    l’aggettivo “cinese” rischia di restringere il campo a confini nazionali ben definiti, lasciando fuori gli
    autori che vivono e operano in altre realtà territoriali, ma che pure portano con sé quel bagaglio di
    conoscenze, idee, tradizioni e credenze che gli deriva dalla cultura d’origine e che appare vivissimo
    nelle loro opere. Il termine “sinofono” è usato da Shih con l’intento di superare distinzioni basate su
    confini nazionali. Tuttavia, ponendosi in netta contrapposizione con il centro, la Cina Popolare, ricade nell’equivoco di considerare centrali i parametri geopolitici e di opporre a un certo centro una certa periferia, finendo per sbilanciarsi nella direzione di quest’ultima e considerando sinofono solo ciò che nasce ai margini della Cina e della ‘Cinesità’. (4)
    La domanda cruciale su cui si dibatte oggi, a quattordici anni dalla pubblicazione del saggio di
    Shu-mei Shih, è la seguente: cosa rientra nella cosiddetta “letteratura sinofona”? Un’altra domanda
    sorge spontanea già nella prima giornata di incontri: qual è l’essenza della cinesità, ossia della cultura cinese? Dalle nostre parti, cioè in Italia, in Europa e più in generale in Occidente, molti guardano alla cultura cinese come a un monolitico insieme di usi, credenze, idee religiose e filosofiche; e quando si parla di lingua cinese si pensa al mandarino come alla lingua dominante che tutti conoscono, quando in molte regioni, e soprattutto nelle zone rurali, la grande maggioranza della popolazione non è in grado di parlare e comprendere questa lingua standard. Per capire meglio le dimensioni della varietà linguistica presente in Cina, possiamo immaginare di spostarci da una parte all’altra dell’Italia e di non essere in grado di capire il dialetto in cui si esprimono a Torino se veniamo, ad esempio, da L’Aquila e parliamo l’aquilano stretto, o viceversa. Il problema è che quei dialetti sono così diversi tra loro e dalla lingua standard da poter essere considerati lingue a sé, e spesso sono anche l’unica lingua nota a quei parlanti. (5) E allora non c’è praticamente modo di comunicare, almeno se intendiamo la comunicazione come modalità di interazione che utilizza come tramite solo le parole. L’esempio della lingua è sufficiente per capire che, in realtà, ciò che chiamiamo Cina è già, di per sé, un insieme tutt’altro che omogeneo di etnie, lingue e tradizioni culturali diverse, accorpate nel tempo sotto gli stessi confini nazionali, e prima ancora sotto uno stesso impero.
    A questo punto forse è più semplice rispondere alla domanda su quale sia l’essenza della cultura
    cinese. Per David Der-wei Wang, professore di letteratura cinese presso l’Università di Harvard e
    accademico dell’Academia Sinica di Taiwan, non ci sono dubbi: l’essenza della cinesità sta nella
    diversità. È per questo che, nella lezione che apre la Spring School, propone di utilizzare la dicitura
    ‘sinofono/xenofono’ per riferirsi al variegato universo che ingloba le produzioni letterarie e artistiche
    di uomini e donne accomunati dal substrato culturale ampio e multiforme che definiamo “cultura
    cinese”. La sua proposta permette di ampliare il campo della letteratura sinofona e più in generale
    degli studi sinofoni, (6) e lo fa prima di tutto considerando le specificità della cultura cinese, il cui cuore centrale sta nella lingua scritta, o wen 文. Le belles-lettres, come le definiamo noi, sono per il
    professor Wang al centro della cinesità e al tempo stesso della diversità che caratterizzano la cultura
    cinese (o le culture cinesi).
    A proposito di lingua scritta (wen 文), in uno scambio di opinioni privato, la collega Martina
    usa la bellissima immagine di due giunchi che si incrociano per dirmi cosa le ricorda la forma grafica
    del carattere cinese wen 文, e aggiunge che nel segno umano vede il gesto dell’erba che si flette. E
    allora parliamo di confini e margini, del potere di attrazione che queste linee immaginarie hanno su
    di lei e su di me. L’immagine del giunco continua a ritornare nella mia mente ancora adesso, mentre
    scrivo. Flessibile al vento ma ben radicato a terra. Ed ecco che qualcosa si accende. La proposta del
    professor Wang mi colpisce soprattutto per la sua capacità di guardare indietro e non dimenticare
    quell’atto di radicamento al luogo e alle sue tradizioni che è fondamentale mantenere e ricordare.
    “Camminare è lasciare con un piede la terra e con l’altro tenere l’ancora”, scrive la poeta Chandra
    Livia Candiani di un atto del camminare che ha come meta noi stessi, non più l’altro. (7) A differenza della professoressa Shih, per cui una volta trasferitesi all’estero, le comunità sinofone finiscono per integrarsi al punto da perdere la loro cinesità dopo diverse generazioni, (8) il professor Wang parla di un movimento di ritorno alle origini che è prima di tutto legato all’acquisizione della lingua scritta: “se apprendi la lingua scritta sei cinese, se la perdi non lo sei più”, afferma, chiudendo il discorso sulla centralità della scrittura.
    Per il professor Wang, dunque, è fondamentale ricevere e accogliere l’influenza esterna per andare lontano, ma quel “fuori”, aggiunge, è già dentro, se guardiamo alla complessa storia di espansione dell’impero cinese, che nei secoli è arrivato a inglobare territori abitati da quelli che una volta erano definiti “barbari”. (9) È per questo che propone di usare il binomio ‘sinofono/xenofono’ e gli affianca un equivalente cinese che crea associando il carattere per “Cina” (Hua 华), quello per “barbari/stranieri” (yi 夷) e quello per “vento” (feng 风). Quest’ultimo, indicando prima di tutto la forza naturale che muove le cose, implica per estensione una forza che arriva da fuori, da un’altra civiltà ad esempio, ed esercita un’influenza su un popolo o territorio. In un’unica espressione, ‘Hua yi feng 华夷风’ (‘sinofono/xenofono’), è racchiuso il senso della cinesità per il professor Wang.
    Per comprendere meglio la sua proposta, mi viene spontaneo guardare al mio “dentro”. I margini e il diverso mi attraggono da sempre e sono forse l’essenza stessa del mio ruolo in famiglia e nella città in cui sono nata. Ma è solo avendo vissuto fuori per diversi anni e poi tornando e restando che l’ho capito realmente. Diverso è per me parlare lingue che qui molti non comprendono, inventare
    parole nuove e incomprensibili per le persone al di fuori della mia famiglia, appassionarmi di materie
    umanistiche con un padre e una sorella maggiore che studiano scienze dure come la matematica e la fisica. Il diverso che oggi tento di comprendere e tradurre per gli altri è prima di tutto la letteratura sinofona. Nell’immaginario della quasi totalità di chi ascolta, l’aggettivo “sinofono” rimanda a poco o a nulla di noto. E qui torniamo al punto di partenza: che vuol dire esattamente letteratura sinofona?
    Spesso mi sono trovata a dover rispondere a questa domanda in conversazioni con amici o parenti,
    dopo che la mia testa aveva selezionato automaticamente questo piuttosto che l’attributo “cinese” per specificare il tipo di letteratura che indago. Mentre traduco i pensieri in parole su carta per questo primo articolo sul blog, mi viene in mente di scrivere “per specificare il tipo di letteratura nazionale che indago”, ma subito mi autocensuro, o meglio, mi correggo: è proprio questo il nodo centrale della questione, o forse non lo è.
    Quando parlo di letteratura lusofona con alcuni amici portoghesi, loro usano l’espressione per
    riferirsi ad autori e autrici che scrivono in lingua portoghese “in una qualunque delle sue varianti”,
    come si legge sull’omonima pagina di disambiguazione di un progetto Wikimedia. (10) Quindi tanto al Premio Nobel José Saramago (1922-2010), portoghese di nascita, quanto alla prosa “soffice” (come mi piace definirla per i suoni felpati dei suoi quasi-versi sia nell’originale che nella resa italiana di Vincenzo Barca in romanzi come La confessione della leonessa) di Mia Couto (1955), (11) biologo e scrittore nato e vissuto in Mozambico, tra gli autori più noti dell’Africa lusofona. Ma noi europei sappiamo bene che aggettivi quali “anglofono”, “francofono”, “lusofono”, “ispanofono” sono nati per definire i gruppi, le popolazioni o i territori in cui la lingua della madrepatria è adottata come lingua ufficiale, e indicano per estensione anche le loro produzioni letterarie.
    È con questi precedenti noti in mente che forse è più facile per noi comprendere il significato
    della parola “sinofono” nell’accezione in cui la usa la professoressa Shih per indicare le sole
    produzioni nate al di fuori di certi confini e subordinate al corpus di letteratura cinese nazionale. (12) Eppure il termine, e la sua etimologia strettamente legata ai suoni, continuano a richiamare nella mia mente la lingua cinese. Ma quest’ultima è sempre espressione di una cultura, intesa come sistema di valori, visioni del mondo e usi condivisi. Inoltre, come abbiamo visto, la cosiddetta lingua cinese è più un contenitore per altre varietà linguistiche anche molto diverse tra loro, ognuna espressione di altrettante e altrettanto variegate tradizioni culturali, che col tempo sono state inglobate in un unico impero, quello cinese, poi divenuto stato-nazione nel Novecento. E allora il sinofono mi sembra di vederlo di nuovo allargarsi fino a comprendere le multiformi produzioni culturali che nascono attorno a quei sistemi di valori, visioni e tradizioni condivise e che ne sono espressione.
    Alla fine della Spring School mi fermo a riflettere: le giornate di studio sono state intense e
    ricche di spunti, ma una cosa mi ha colpito più di altre. Il professor Wang ha vissuto negli Stati Uniti
    per oltre quarant’anni, come ricorda a conclusione della tavola rotonda dell’ultima giornata, eppure
    gli interessa di più sapere cosa succede nella sua terra d’origine, Taiwan, che non capire se schierarsi con Donald Trump o Joe Biden. Ce lo dice con una risata contagiosa sempre sulle labbra e negli occhi.
    Mentre parla, alternando nella stessa frase un perfetto inglese e un altrettanto comprensibile cinese
    (non sempre è così facile capire gli accenti taiwanesi!), ci fa notare come tutti, in quegli incontri, siamo riusciti a comunicare muovendoci agevolmente tra la diversità: diversità di generi letterari,
    diversità di genere, diversità culturale e soprattutto diversità linguistica. Lui stesso, nella battuta finale di questo crescendo di interventi illuminanti, ha parlato eliminando definitivamente i confini tra una lingua e l’altra, tra una cultura e l’altra, senza che né lui né noi ascoltatori ne fossimo minimamente sopresi o confusi. E altrettanto hanno fatto studenti e professori di madrelingua diversa dal cinese che hanno preso parte agli incontri. “Ognuno ha parlato inglese e cinese col proprio accento e nessuno ha avuto difficoltà a capire l’altro”, ha detto, sorridendo entusiasta.
    Terminata la tavola rotonda, quando la professoressa Barbara Mittler, organizzatrice della
    Spring School, si congeda e ci saluta educatamente con una puntualità tipicamente tedesca, mi ritrovo a fantasticare in uno stato di quasi-estasi nella camera della casa abruzzese dove sono cresciuta e tornata da quasi un anno. È ora di pranzo in Italia e in Germania, a Taiwan si preparano per la cena e dalla parte opposta, nel lontano ovest, quel sabato di metà aprile è appena iniziato. Mi chiedo se il professor Wang si sia connesso da lì, dove il sole è sorto solo da poco, ma mi pare incredibile che gli abbiano chiesto di intervenire in un orario così scomodo!
    In fondo, però, nulla mi sembra più incredibile, dopo quelle giornate di studio in cui abbiamo
    rimosso ogni possibile confine: spaziale, temporale, culturale, linguistico e personale. Quello a cui
    ho assistito in quei giorni di incontri non è già di per sé un concreto esempio di accettazione della
    grande verità che, come mi ricorda Martina, l’altro siamo noi? E non è questa accettazione forse una
    finestra aperta sulla ricchezza che la pluralità può portare a ognuno?

    Note:
    1) Il titolo completo della Virtual Spring School, organizzata dalla professoressa Barbara Mittler (Centre for Asian and Transcultural Studies, CATS, Heidelberg) è “Rethinking the Sinophone – A Transcultural Perspective”. Gli incontri hanno spaziato dalla poesia taiwanese a quella sinofona femminile, dalla letteratura di scrittori aborigeni come Syaman Rapongan (1957) all’analisi di canzoni su schermo nei film del regista taiwanese Li Hsing (1930).
    2) Shu-mei Shih, nata a Taiwan nel 1952, è presidente eletto dell’American Comparative Literature Association, professoressa di Letterature comparate, Lingue e culture asiatiche e Studi asiatici e americani presso l’Università della California di Los Angeles (UCLA). Il suo saggio, Visuality and Identity: Sinophone Articulations Across the Pacific, ha inaugurato di fatto la nuova area degli “studi sinofoni”. L’espressione “letteratura sinofona” si oppone a una visione convenzionale di “Cina” intesa come entità omogenea e tenta di superare questa opposizione considerando una sfera più
    ampia di produzione e circolazione letteraria in lingua cinese. Si veda: Shu-mei Shih, Visuality and Identity: Sinophone Articulations Across the Pacific, University of California Press, 2007.
    3) La lingua cinese, nella sua accezione più generica, indica una vasta e variegata famiglia linguistica composta da varietà linguistiche locali distinte e spesso non mutuamente intellegibili. In questo senso è sinonimo di lingue sinitiche o siniche, una famiglia linguistica appartenente al gruppo delle lingue sinotibetane che comprende più di 400 ‘topoletti’ e lingue etniche. Per la definizione di ‘topoletto’, proposta dallo studioso Victor Mair per indicare ciò che impropriamente chiamiamo “dialetti” cinesi, si veda: Victor Mair, “What is a Chinese ‘Dialect/Topolect’? Reflections on Some Key SinoEnglish Linguistic Terms”, Sino-Platonic Papers, 29, 1991, pp. 2-52. Per approfondire la questione delle varietà linguistiche in Cina e nell’universo sinofono, si vedano: Victor Mair, op. cit; Shu-mei Shih, “The Concept of the Sinophone”, PMLA, 126, 3, 2011, pp. 709-718.
    4) Nell’introduzione al già citato saggio Visuality and Identity, Shih definisce il ‘Sinophone’ come “una rete di luoghi di produzione culturale al di fuori della Cina e ai margini della Cina e della Cinesità, dove ha luogo da secoli un processo storico di eterogeneizzazione e localizzazione della cultura della Cina continentale”: Shu-mei Shih, 2007, op. cit., p. 4. In “The Concept of the Sinophone”, Shih chiarisce ulteriormente che “Gli studi sinofoni – concepiti come lo studio di culture di lingue sinitiche ai margini degli stati-nazione geopolitici e delle loro produzioni egemoniche – situano il loro oggetto di interesse alla congiuntura tra colonialismo interno cinese e comunità sinofone presenti in qualunque luogo gli immigrati cinesi si siano stabiliti”. Più avanti, Shih spiega come tre tipi di processi storici correlati abbiano portato alla formazione di comunità sinofone nel mondo. Il primo è il “colonialismo continentale”, ossia quei processi di conquista militare e amministrazione coloniale su vaste aree del nord e dell’ovest ad opera della dinastia Qing (1644-1911) che, seppur non passati per via marittima, fanno della dinastia mancese un impero asiatico assimilabile ai moderni imperi
    coloniali europei a partire almeno dalla metà del Diciottesimo secolo. Il secondo è il “colonialismo dei coloni”, che fa riferimenti a quei “luoghi in cui gli immigrati provenienti dalla Cina si sono stabiliti e sono divenuti la maggioranza della popolazione (come a Taiwan e a Singapore) o un’ampia minoranza (come in Malesia), e attorno ai quali si sono formate comunità sinofone” che hanno colonizzato gli abitanti locali per secoli e continuano a farlo ancora oggi. L’ultimo è l’“immigrazione” che, in paesi dove gli immigrati provenienti dalla Cina costituiscono una minoranza, come in molti
    paesi occidentali, ha dato vita a comunità sinofone minoritarie. Si veda: Shu-mei Shih, 2011, op. cit., pp. 710-715.
    5) Sulla questione della mutua intellegibilità tra le varietà linguistiche parlate in Cina, Mair cita un articolo comparso su The New Encyclopaedia Britannica che paragona le differenze tra le lingue parlate oggi in Cina a quelle che intercorrono tra due lingue appartenenti allo stesso gruppo delle romanze come il portoghese e l’italiano. Si veda: Søren Egerod, “SinoTibetan Languages”, The New Encyclopaedia Britannica, in Victor Mair, op. cit., p. 23.
    6) La prima dicitura fa riferimento alle sole produzioni letterarie, la seconda comprende anche lo studio di altre forme artistiche che hanno a che fare coi suoni, ad esempio la musica e la danza.
    7) Chandra Livia Candiani, Il silenzio è cosa viva. L’arte della meditazione, Giulio Einaudi editore, 2018, p. 67.
    8) Si veda: Shu-mei Shih, 2011, op. cit., pp. 713-714.
    9) In realtà la stessa dinastia Qin, fondatrice, nel 221 a.C., dell’Impero cinese, era considerata una “popolazione semibarbarica, non completamente acculturata” e, come sottolinea Lionello Lanciotti, fu proprio grazie al contatto con alcune etnie straniere che la Cina fu in grado di apprendere tecniche come la metallurgia, l’impiego del carro e persino l’idea di ricorrere alla scrittura, e di sinizzarle grazie a una tendenza sincretista che tuttora caratterizza la sua cultura. A proposito del concetto di “barbari” presso la cultura cinese dalla più remota antichità fino ai primi secoli dell’età imperiale: Lionello Lanciotti, “La Cina e i barbari” (https://www.tuttocina.it/Mostre_conv/nasc_imp_saggio2.htm), 4 maggio 2021.
    10) https://it.wikipedia.org/wiki/Letteratura_lusofona, consultato il 2 maggio 2021.
    11) Mia Couto, La confessione della leonessa, trad. di Vincenzo Barca, Sellerio Editore Palermo, 2014.
    12) Il saggio di Shu-mei Shih si colloca all’interno degli Studi Postcoloniali nel senso che Shih va contro la concezione comune di colonialismo come strategia economica e politica intrapresa solo dalle potenze imperialiste Occidentali. Shih parla per la Cina di “colonialismo continentale” o “interno” in opposizione alla concezione tradizionale di colonialismo inteso come accaparramento di territori oltremare. In questo senso si può comprendere l’associazione, pensata da Shih su basi essenzialmente geopolitiche, tra “sinofono” e altri termini simili come “lusofono”. Si veda a tal proposito: Shu-mei Shih, 2011, op. cit., pp. 711-715.